dispositivi mediali – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Epidemia, media e controllo sociale https://www.carmillaonline.com/2021/03/14/epidemia-media-e-controllo-sociale/ Sun, 14 Mar 2021 22:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65347 di Paolo Lago

Andrea Miconi, Epidemie e controllo sociale, manifestolibri, Roma, 2020, pp. 127, € 10,00.

Adesso che – come viene annunciato a gran voce dai media – sta per iniziare un nuovo periodo di lockdown, chiusure e restrizioni, con una estensione della cosiddetta “zona rossa” a tutta l’Italia, è sicuramente interessante riprendere in mano un pamphlet di Andrea Miconi uscito lo scorso novembre per “manifestolibri”, dal titolo Epidemie e controllo sociale. L’analisi offerta dal sociologo dei media, docente all’Università IULM di Milano, si focalizza soprattutto sul periodo di marzo-aprile 2020, il famigerato “primo [...]]]> di Paolo Lago

Andrea Miconi, Epidemie e controllo sociale, manifestolibri, Roma, 2020, pp. 127, € 10,00.

Adesso che – come viene annunciato a gran voce dai media – sta per iniziare un nuovo periodo di lockdown, chiusure e restrizioni, con una estensione della cosiddetta “zona rossa” a tutta l’Italia, è sicuramente interessante riprendere in mano un pamphlet di Andrea Miconi uscito lo scorso novembre per “manifestolibri”, dal titolo Epidemie e controllo sociale. L’analisi offerta dal sociologo dei media, docente all’Università IULM di Milano, si focalizza soprattutto sul periodo di marzo-aprile 2020, il famigerato “primo lockdown” e prende in esame la rappresentazione dell’emergenza epidemica creata dai più svariati media, dalle televisioni ai giornali e a Internet, incentrata su uno specifico dispositivo di controllo sociale, la colpevolizzazione del cittadino. Tale dispositivo serve alla classe dirigente per nascondere le proprie, gravi responsabilità nella gestione dell’emergenza: impreparazione, incapacità organizzativa, mancanza delle infrastrutture sanitarie adeguate e via di seguito. Una tale deresponsabilizzazione della classe dirigente e una tale strategia di colpevolizzazione dell’altro – nota Miconi – non potrebbero funzionare se non nascessero, come una metastasi foucaultiana, all’interno del corpo sociale.

L’analisi dello studioso prende le mosse dal mantra, continuamente ripetuto e dotato di hashtag, “io resto a casa”. Dai media è stata fatta passare l’assurda idea che ci potesse essere qualcosa di bello nel restare reclusi in casa: secondo Miconi, “restare chiusi in casa per mesi non è né bello né brutto: è orribile”. Certo, non tutti possiedono appartamenti ampi e assolati, attici luminosi o enormi ville con giardino come i personaggi famosi che, per mezzo di ogni media, ci invitavano a restare a casa, “per il nostro bene”. E non tutto il tessuto sociale del paese è composto da famiglie felici stile “mulino bianco”: ci sono anche i single, i quali compongono ben un terzo dei nuclei domestici italiani (e alla cui categoria appartiene anche chi scrive questa recensione). Anche a loro “è stato chiesto di restare due mesi senza alcun contatto umano, cosa volete che sia”. Con il divieto di vedere gli amici, che spesso e volentieri sono considerati molto più importanti dei cosiddetti “parenti stretti”, ma con il permesso di vedere dei “congiunti” di cui non si hanno più notizie da anni e di cui magari si ignora anche l’esistenza. Qui si tratta “dell’arroganza totalitaria di uno Stato che (in modo palesemente incostituzionale, qui non c’è dubbio) vuole dirci chi possiamo vedere, anziché darci le regole da rispettare – come in tutta Europa – per incontrare chiunque vogliamo incontrare, e saranno anche affari nostri”. Come nota lo studioso, può darsi che l’isolamento fosse necessario, ma non c’era nessun motivo, da parte dei media, di farlo passare come una cosa bella. Mentre risuonava il mantra “io resto a casa”, numerose categorie di lavoratori erano costretti comunque a recarsi al lavoro, in luoghi dove probabilmente non c’era neanche la garanzia di far rispettare le distanze di sicurezza. Lo Stato si è dimostrato incapace di trattare i cittadini da adulti: tramite i mezzi di comunicazione, i suoi servitori, la classe dirigente ha trattato i cittadini come un mucchio di bambini viziati, chiusi a chiave in una stanza per non permettergli di mangiare la merendina. La necessità di rimanere a casa ha assunto anche risvolti più inquietanti: è stata presentata, cioè, come un dogma calato dall’alto, “senza chiederci il perché, accettando il mistero senza pretendere di capirlo”. Del resto, cosa c’è da stupirsi? Viviamo in un paese in cui Salvini ha pregato in diretta per la fine della pandemia e in cui l’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è un dichiarato devoto di Padre Pio. Viviamo veramente nella repubblica di “Assurdistan”, secondo una efficace espressione coniata dal collettivo di scrittori Wu Ming.

Un altro punto toccato da Miconi riguarda le dinamiche del populismo mediatico che vige in Italia. “Come si spiega – si chiede – che proprio il Paese dell’odio conclamato verso la Casta abbia finito per reggere il gioco alla classe dirigente, liberandola di ogni responsabilità, e scatenando la caccia selvaggia all’indisciplinato del piano di sopra?”. Molto probabilmente, da un punto di vista formale, emergono “sostanziali affinità tra la retorica del populismo e la volontà di colpevolizzazione dell’altro”. Una prima affinità risiede sicuramente nella “comune propensione a seguire l’emotività, ben più delle procedure razionali di argomentazione” mentre una seconda affinità può essere intravista nella “comune disposizione a mettere i propri pensieri al servizio dell’uomo al comando”. A ciò si aggiungono due tratti tipici del populismo: la divisione manichea del mondo in ragione e torto, in buoni e cattivi nonché la difficoltà di accettare opinioni divergenti dalla propria. Per uscire dalla crisi – suggerisce Miconi – bisogna smettere di prestar fede al regime spirituale di un sottile e strisciante populismo che vige nel paese. Bisogna, altresì, smettere di pensare all’Italia come a una “comunità”; bisogna invece pensarla come una società, fatta di donne e di uomini liberi.

Certo, la classe dirigente italiana non pensa davvero ai cittadini come una società fatta di donne e di uomini liberi. Con l’emergenza pandemica è infatti emersa la sovrastruttura di un gigantesco Stato di Polizia, il quale si è sostituito allo Stato di Diritto. A interpretare, ogni volta, le farraginose norme dei divieti, di cosa si poteva e non si poteva fare, sono state le singole forze dell’ordine. Di fronte a leggi e norme nebulose e contraddittorie a decidere sono stati, appunto, gli agenti di polizia chiamati a interpretare i motivi segnalati dai cittadini sulle autocertificazioni (e già il fatto che un cittadino sia chiamato a rispondere del perché è uscito di casa è di per sé inconcepibile, degno delle peggiori e più distopiche dittature). Oltre allo Stato di Polizia abbiamo vissuto uno stato di eccezione: la dichiarazione dell’emergenza viene utilizzata come uno strumento per la messa in disciplina del corpo sociale. Ancora una volta, i cittadini, che pretenderebbero solo chiarezza e rispetto, sono stati trattati paternalisticamente come bambini viziati invece che come persone adulte: negli stati europei, ad eccezione di Francia e Spagna (dove è stata usata per un periodo molto più breve), non è stata attivata una procedura simile alla nostra autocertificazione (pratica offensiva e umiliante nei confronti del cittadino). Come ricorda Miconi, il primo ministro portoghese António Costa “ha spiegato tutto questo in poche parole: vi chiediamo di stare il più possibile a casa ma non lo imponiamo per legge, perché sarebbe irrispettoso verso i cittadini. Ecco: la classe dirigente, per quanto mi riguarda, parla così”. Anche la chiusura prolungata delle scuole dimostra che “viviamo in uno Stato rappresentato dalla polizia più che dalla scuola: e sarà pure un caso, ma altri paesi europei ci stanno almeno provando, dimostrando di mettere l’istruzione pubblica davanti al resto”.

L’analisi dello studioso si concentra poi su una figura centrale del discorso mediatico: il virologo, divenuto una vera e propria star, anzi, addirittura una vera e propria nuova divinità. I virologi che sentenziano tutto e il contrario di tutto dai più svariati spalti, dal loro posto di lavoro al salotto televisivo, non hanno niente da invidiare ai “re taumaturghi” analizzati da Marc Bloch che, a partire dal Medioevo, ‘guarivano’ le persone con la sola imposizione delle mani. Anch’essi sono entrati pienamente a far parte della macchina della “società dello spettacolo” – per dirla con Debord – che vige dappertutto. La parola medica si è appropriata di campi di sapere non suoi, spaziando nelle più svariate discipline, nello stesso identico modo in cui agiva lo “sguardo clinico” analizzato da Michel Foucault.

Insieme al virologo, nel periodo dell’emergenza è emersa un’altra divinità, la App Immuni, a sua volta emanazione di un ‘dio’, se possibile, ancora più grande, la Rete. Infatti, è ormai acclarato che viviamo in un’epoca di internet-centrismo, tanto che il presidente del consiglio di amministrazione di Google ha dichiarato che presto Internet scomparirà perché sarà inseparabile dal nostro essere. L’emergenza, in questo senso, ha rappresentato un significativo processo di accelerazione del processo di digitalizzazione dell’esistenza, mediante la didattica a distanza affidata a piattaforme di un gigante dell’economia come Google, appunto, oppure mediante le più diverse pratiche di smart working o di piattaforme digitali, incluse quelle per il divertimento (dai videogiochi fino a Netflix). L’idea che accompagna la “App che salverà il mondo”, come nota Miconi, è quella di applicare anche da noi il modello sud-coreano: cosa del resto irrealizzabile perché “la soluzione coreana non si è basata solo su una App di geo-localizzazione, ma sul suo ruolo all’interno di una strategia complessiva che include la prevenzione del contagio, i tamponi mirati e non sparsi a caso tra la popolazione, l’isolamento immediato dei positivi, e il via libera a tutti gli altri – quanto di più diverso dalle indicazioni dei vari DPCM”. E poi,  prepariamoci adesso all’arrivo di una nuova divinità conclamata (scaturita, come Atena dalla testa di Zeus, non dalle lobby del digitale ma da quelle della chimica farmaceutica), il vaccino che, come tutte le divinità, contemporaneamente ama e odia, protegge e distrugge i suoi fedeli adepti.

Insomma – conclude amaramente Miconi – è ormai evidente che “sulle macerie di questa emergenza, nel tempo a venire, potrebbero crescere modelli di controllo a cui non siamo preparati, e per prevenirlo è necessario promuovere la consapevolezza anziché la paura e la superstizione”. Il controllo viene presentato mascherato da paternalismo e da benevolenza e “non c’è immagine distopica più cupa, davvero, di quella di uno Stato che parla a nome della salute dei cittadini”. Tra l’altro, alla macchina statale è sfuggito un dettaglio: che le persone non vivono soltanto per lavorare. Davvero, “rinvio dopo rinvio, DPCM dopo DPCM, si è invece dato per scontato che il problema fosse solo il rientro al lavoro, e non la libertà della persona e il diritto di prendere il sole, salutare gli amici, guardare il tramonto, e mandare i ragazzi a scuola”.

Come accennato all’inizio, leggere adesso il pamphlet di Miconi è doppiamente interessante: innanzitutto, per riflettere su ciò che abbiamo vissuto ma, anche, per guardare in modo lucido a ciò che stiamo ancora vivendo. Se il volumetto è uscito a novembre 2020, adesso ci troviamo a marzo 2021 e la situazione sembra ancora la stessa di un anno fa. E non è colpa dei cittadini irresponsabili, né del virus in sé, ci mancherebbe, ma dell’inettitudine di un’intera classe dirigente. Possibile che non si siano trovati altri mezzi, dopo un anno, per contrastare l’avanzata del virus? Possibile che i mantra siano sempre gli stessi? È colpa dei cittadini, dobbiamo chiuderci in casa (ripetendo all’infinito l’odiosissima parola “lockdown”), dobbiamo chiudere le scuole consegnando un’intera generazione di adolescenti a irrimediabili ansie e depressioni. Ecco, se già ci ponessimo queste domande, avremmo raggiunto un grado di lucidità e di consapevolezza per iniziare ad essere una vera società fatta di donne e di uomini liberi.

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Il reale delle/nelle immagini. Lo spirito del tempo alla luce delle nuove immagini https://www.carmillaonline.com/2017/12/19/reale-dellenelle-immagini-lo-spirito-del-tempo-alla-luce-delle-nuove-immagini/ Mon, 18 Dec 2017 23:02:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42057 di Gioacchino Toni

Grazie all’editore Meltemi ritorna in libreria Lo spirito del tempo di Edgar Morin, saggio che, uscito nei primi anni Sessanta, nonostante il passare dei decenni, si dimostra ancora capace di offrire importanti spunti di riflessione. Di questa nuova edizione, in cui è contenuta anche una Prefazione inedita in lingua italiana stesa dall’autore nel 2006, occorre assolutamente menzionare la cura prestata alla traduzione affidata a Claudio Vinti – professore ordinario in Lingua e traduzione francese presso l’Università di Perugia e profondo conoscitore del cinema francese – e alla studiosa Giada Boschi. [...]]]> di Gioacchino Toni

Grazie all’editore Meltemi ritorna in libreria Lo spirito del tempo di Edgar Morin, saggio che, uscito nei primi anni Sessanta, nonostante il passare dei decenni, si dimostra ancora capace di offrire importanti spunti di riflessione. Di questa nuova edizione, in cui è contenuta anche una Prefazione inedita in lingua italiana stesa dall’autore nel 2006, occorre assolutamente menzionare la cura prestata alla traduzione affidata a Claudio Vinti – professore ordinario in Lingua e traduzione francese presso l’Università di Perugia e profondo conoscitore del cinema francese – e alla studiosa Giada Boschi. L’attenzione riservata alla traduzione è particolarmente meritoria vista la complessità linguistica che contraddistingue i testi di Morin, come testimoniano le note di apertura dei due traduttori.

Compongono il volume anche due preziosi contributi di Ruggero Eugeni, professore ordinario di Semiotica dei Media presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e Andrea Rabbito, professore associato di Cinema, fotografia e televisione presso l’Università degli studi di Enna “Kore”. L’intervento di Eugeni mette in luce la rilevanza del contributo offerto da Morin, per certi versi in anticipo sui tempi, a proposito della condizione mediale contemporanea, mentre lo scritto di Rabbito, curatore del volume, approfondisce il legame tra Lo spirito del tempo e il mondo della cultura visuale sviluppato dalle nuove immagini che, nel loro illudere una perfetta duplicazione del reale, non provocano più la sensazione che in esse il rappresentante ceda il posto al rappresentato ma, piuttosto, l’assenza del rappresentante e la percezione di trovarsi il rappresentato presente davanti agli occhi. Sarà proprio sulle letture dell’opera moriniana effettuate alla luce dell’oggi proposte dai questi due studiosi che ci soffermeremo.

Ruggero Eugeni, nel suo scritto “I media o l’uomo post-immaginario”, propone quattro possibili letture contemporanee del libro di Morin. Una prima lettura si “limita” a esporre sinteticamente i contenuti de Lo spirito del tempo: nella prima parte Morin introduce l’oggetto (la cultura di massa), il metodo (fondato sulla volontà di mettere da parte le letture prevenute nei confronti della cultura di massa e sulla necessità di un approccio multidisciplinare) e lo sfondo (la ludificazione, la spettacolarizzazione e l’erotizzazione dell’esistenza dell’individuo postindustriale). Dall’incrocio di queste tre componenti, sostiene Eugeni, emerge sia il carattere dialettico e dinamico della cultura di massa, oscillante tra la standardizzazione-omogeneizzazione e la creatività-individualizzazione, sia il ruolo centrale dell’immaginario. «Un’analisi di tali contenuti corrisponde dunque a una radiografia della psiche collettiva dell’uomo occidentale» (p. 14) e ciò è affrontato da Morin nella seconda parte de Lo spirito del tempo, ove si occupa delle forme della mitologia contemporanea.

Una seconda lettura contemporanea del volume di Morin, sostiene Eugeni, è di tipo storico ed è volta a individuare nel testo un quadro del contesto in cui è stato elaborato e steso dallo studioso francese a cavallo tra gli anni Cinquanta ed i Sessanta del Novecento, in un contesto panorama culturale caratterizzato da importanti studi cinematografici e antropologici, semiologici e mediologici, sulle comunicazioni di massa e sulla psicanalisi lacaniana.

La terza lettura oggi possibile, continua Eugeni, è prospettica, nel senso che risulta interessante valutare quanto Lo spirito del tempo abbia saputo anticipare gli sviluppi della sociologia e pure, suggerisce lo studioso, alcune argomentazioni sviluppate da Guy Debord ne La società dello spettacolo, testo uscito sul finire degli anni Sessanta. Lo stesso Morin in uscite successive – alcune delle quali meritoriamente riportate in appendice dall’edizione presentata da Meltemi – rispetto alla prima stesura del suo volume non manca di evidenziare alcuni limiti della sua ricerca vista alla luce delle novità portate dal Sessantotto.

La quarta lettura del saggio dello studioso francese suggerita da Eugeni viene definita archeologica. «Si tratta in questo caso […] di chiedersi a partire dalla situazione attuale dei media cosa il libro di Morin ci dice sulla condizione precedente e in cosa tale condizione ci appare oggi superata» (p. 17). Da un lato Morin intende i media «come strumenti di produzione di ibridi che mediano e contaminano il reale e l’immaginario; dall’altro lato, tale ibridazione e contaminazione avviene a partire da una rete di dispositivi individuabili e localizzabili. In tal modo Morin coglie bene e traduce in modo originale lo spirito del tempo dei primi anni Sessanta: l’idea che i dispositivi mediali nella loro riconoscibilità costituissero strumenti di artifcializzazione dell’esperienza intima e sociale dei soggetti» (p. 20). Dunque, Morin legge il processo di artificializzazione dell’esperienza alla luce di una doppia ibridazione: «i dispositivi e gli universi mediali riformulano i dispositivi e gli universi mitologici e simbolici delle culture premoderne; in tal modo all’ibrido reale/immaginario si sovrappone quello moderno/premoderno» (p. 20). Eugeni concentra il suo intervento sulla lettura di Lo spirito del tempo alla luce delle trasformazioni dei dispositivi mediali contemporanei da lui approfonditi, questi ultimi, nel saggio La condizione postmediale. Media, linguaggi e narrazioni (2015).

Da parte sua Andrea Rabbito, nel suo prezioso intervento “Morin e la cultura visuale contemporanea”, sottolinea come il francese sia stato per certi versi lungimirante nel prospettare le trasformazioni avvenute nei decenni successivi alla stesura del testo, tanto da risultare in grado non solo di cogliere «lo spirito del tempo che animava gli anni Sessanta, ma anche quello che caratterizza i giorni nostri e anticipa percorsi di ricerca attuali o, meglio, ne apre le strade, indicando un metodo che risulta particolarmente produttivo» (p. 289). Basti pensare a come alcune riflessioni dello studioso francese sulla centralità dell’immagine nella vita quotidiana siano alla base dei cultural studies diffusisi soprattutto nel corso degli anni Novanta. Gli studi di Morin si sviluppano lungo un percorso che parte da Il cinema o l’uomo immaginario (1956) [ne abbiamo parlato su Il Pickwick: Cinema ed immaginario secondo Edgar Morin] e prosegue con Le star (1957), Lo spirito del tempo (1962) per poi giungere a L’Esprit du temps 2. Nécrose (1975). I quattro volumi, sostiene Rabbito, formano una tetralogia omogenea utile alla comprensione del nuovo tipo di immagini caratteristiche della contemporaneità. Importante risulta, inoltre, il metodo adottato da Morin,

particolarmente audace nel suo intento di ibridare, fondere più saperi per lo studio del fenomeno preso in considerazione; ma è proprio quest’audacia che gli permette di precorrere i tempi e di entrare nel cuore della questione, e, in questo caso, nella questione della cultura visuale che le nuove immagini determinano […] Proprio il posizionarsi sulla linea di confine, sull’impercettibile linea d’ombra che separa i diversi saperi, viene reputata da Morin la condizione più privilegiata e più proficua per cogliere gli aspetti di ciò su cui si focalizza, e nello specifico […] sulle nuove immagini (pp. 291-292).

Morin si è rivelato capace di ricomporre la spaccatura esistente tra cultura umanistica e cultura scientifica tentando di elaborare un metodo in grado di articolare ciò che si presenta separato e di collegare quanto è disgiunto con il fine di «riconoscere la complessità dei fenomeni [e] valorizzare un “paradigma unitario di connessione e distinzione”» (p. 293). Rabbito avanza l’ipotesi, suffragata anche da alcune riflessioni dello stesso studioso francese, che tale metodo derivi anche dagli studi che il francese ha dedicato alle nuove immagini. Le proposte moriniane paleserebbero, secondo Rabbito, l’intento di individuare e comprendere la complessità del mondo delle nuove immagini

interpellando vari campi scientifici e creando un dialogo fra questi, per meglio approfondire la sua analisi: antropologia, sociologia, mediologia, filosofia, estetica, psicologia, film studies, studi letterari, storia dell’arte, scienze cognitive, sono queste le varie discipline che vengono fuse assieme, ibridate, per dare vita a quello che Morin definisce come “pensiero multidimensionale” […] E tale multidimensionalità del pensiero è stata proprio dalle nuove immagini sollecitata durante lo studio condotto da Morin, in quanto la loro natura raccoglie molteplici aspetti individuabili solo attraverso la visione mediante le diverse lenti che i vari saperi propongono (p. 294-295).

Morin si rivela consapevole anche di dover adottare una strategia capace di controllare «l’indebolimento e il nutrimento della vita pratica messa in atto soprattutto dalle nuove immagini» (p. 315). Su tali problematiche Rabbito stesso ha insistito parecchio nella sua personale tetralogia di saggi composta da: Il cinema è sogno. Le nuove immagini e i principi della modernità (2012); L’illusione e l’inganno. Dal Barocco al cinema (2010); Il moderno e la crepa. Dialogo con Mario Missiroli (2012) e L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale (2015). In particolare dell’ultimo saggio dell’autore abbiamo già avuto modo di occuparci dettagliatamente su Carmilla [L’onda mediale e Forme di resistenza all’onda mediale].

Rabbito si sofferma, inoltre, sulla questione del rapporto tra modernità e arcaismo che ha attraversato l’intera opera moriniana e che ha portato il francese a coniare, proprio in Lo spirito del tempo, il termine “neoarcaismo”, allargando il discorso ben oltre il cinema e aprendo così la strada a riflessioni utili alla comprensione dell’incidenza sullo spettatore di mass media, new media e nuove immagini.

Gli studi di Morin si rivelano pertanto fondamentali alla costruzione di una strategia che ha come suoi obiettivi tanto la comprensione del potere delle nuove immagini (come vengono intese e cosa producono), quanto di fornire all’utente di queste strumenti di difesa, rendendolo consapevole delle forme di rappresentazione che lo circondano.

Lo studio dell’immagine, da un lato, e la diffusione del sapere sull’immagine, dall’altro, si offrono in questo modo come i due processi principali della strategia da attuare, al fine di circoscrivere la potenza del diluvio delle immagini […] Il fine è dunque quello di far sviluppare allo spettatore una audiovisual e media literacy, una conoscenza sulle nuove immagini, che gli garantisca di avere una propria autonomia di pensiero, una capacità di corretto uso dei vari media, e che lo renda in grado di non essere fortemente influenzato da ciò che gli viene proposto (p. 328).

Morin ne Lo spirito del tempo sostiene che una cultura è in grado di orientare, sviluppare e addomesticare certe potenzialità umane, inibendone e proibendone altre e ciò che occorre ostacolare, sottolinea Rabbito,

sono proprio le forme di inibizione e proibizione che la cultura visuale mette in atto; e inoltre bisognerà tener ben conto nella strategia che si vuole portare avanti con i visual studies che, come evidenzia sempre Morin, ci troviamo dinnanzi ad una “seconda colonizzazione” che riguarda quella grande Riserva che è l’anima umana. Studiare attentamente la cultura visuale e diffondere un sapere adeguato su di essa permetterà di contrastare questo fenomeno di colonizzazione e di convertirlo in una dinamica che risulti proficua per tutti noi utenti delle nuove immagini. Ed è proprio quello che Morin ha proposto e continua a proporre con i suoi studi, dimostrandosi così, ancora una volta, un punto di riferimento imprescindibile per la comprensione dello spirito del nostro tempo (p. 339).


Serie completa: Il reale delle/nelle immagini

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