Disabilità – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 «Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te» https://www.carmillaonline.com/2023/08/20/desideravo-la-bellezza-e-lho-avuta-ho-avuto-te/ Sun, 20 Aug 2023 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78391 di Gianfranco Marelli

Ada d’Adamo, Come D’aria, Eliot, 2023, 15 euro

Il premio Strega assegnato quest’anno alla scrittrice Ada d’Adamo per l’opera Come D’aria è un pugno allo stomaco, una denuncia e una chiamata alle armi. Niente a che vedere con il romanzo introspettivo, autobiografico, sentimentale, commovente, sebbene descriva minuziosamente la vita di una madre – ballerina e insegnante di danza – che, dopo la nascita della figlia Daria, si trova a fare i conti con la sua disabilità grave e con tutti i problemi annessi e connessi.

La tua disabilità, da questo punto di vista, mi appariva come un’autentica [...]]]> di Gianfranco Marelli

Ada d’Adamo, Come D’aria, Eliot, 2023, 15 euro

Il premio Strega assegnato quest’anno alla scrittrice Ada d’Adamo per l’opera Come D’aria è un pugno allo stomaco, una denuncia e una chiamata alle armi. Niente a che vedere con il romanzo introspettivo, autobiografico, sentimentale, commovente, sebbene descriva minuziosamente la vita di una madre – ballerina e insegnante di danza – che, dopo la nascita della figlia Daria, si trova a fare i conti con la sua disabilità grave e con tutti i problemi annessi e connessi.

La tua disabilità, da questo punto di vista, mi appariva come un’autentica beffa. Proprio io, abituata a tenere sotto controllo la posizione di un mignolo, mi ritrovavo alle prese con un corpo completamente fuori controllo, con scatti epilettici, una schiena e una testa incapaci di stare dritte. Tetraparesi spastico-distonica, clonie, alternanza di ipertono e ipotono, nistagmo, scialorrea… altro che mignolo! Fin dal principio il tuo corpo insorto si è imposto con una forza che contravveniva a qualsiasi regola. Con orrore ricordo le parole profetiche della caposala della Terapia Intensiva Neonatale, che al momento delle dimissioni dall’ospedale mi suggerì di ricorrere al Valium per calmarti – scoprii poi dalla cartella clinica che nei tuoi primi dieci giorni di vita lei e le sue colleghe ne avevano fatto largo uso – e di mostrarmi severa perché tu mi avresti fatto passare i guai. Disse proprio così: “Questa le farà passare i guai”.

Guai? Come incitamento niente male. Poteva dire «Ora, sono cazzi tuoi», avrebbe suonato meglio. Sennonché, invece di rassegnarsi accettando il destino cinico e crudele, la mamma di Daria non si è data vinta, ha combattuto come solo le madri sanno fare. Non per coraggio, sopportazione, accettazione; semplicemente per amore. L’amore che nell’altro riconosce la bellezza.

Desideravo la bellezza, l’ho detto. E tu, a dispetto degli occhi molto ravvicinati e delle sopracciglia unite, nonostante lo strabismo e la microcefalia, sei sempre stata una bella bambina. Si può dire che la bellezza sia stata insieme la tua condanna e la tua salvezza. Forse se avessi avuto qualcuna delle orrende malformazioni del volto assai comuni nell’oloprosencefalia, l’ecografia morfologica l’avrebbe rilevata e tu non saresti mai nata. Insomma, si potrebbe quasi dire che sei venuta al mondo in virtù della tua bellezza: esisti perché sei bella. Una volta nata, poi, il tuo aspetto grazioso ti ha tenuto al riparo da quella sgradevolezza che molto spesso si associa alle persone disabili, suscitando in chi le guarda un senso di disagio, quando non di autentico fastidio. È dura da ammettere, ma seguendoti nella tua giovane vita, ho capito che esiste una disabilità “bella” e una disabilità “brutta” e che anche in questo “mondo a parte” le persone – dagli sconosciuti, ai terapisti, ai medici – subiscono il fascino del bello, proprio come avviene nel “mondo normale”.

Saper cogliere il molto dal poco, sicuramente un buon inizio, però non basta. Ecco la chiave di lettura di questo romanzo forte, crudo, a-sentimentale, perché non muove compassione, bensì rabbia.

La rabbia del “perché proprio io?” non fa sconti, tanto meno cede alla rassegnazione: lotta. Perché la lotta insegna a individuare l’origine che ha determinato la separazione fra i belli e i brutti, i ricchi e i poveri, i forti e i deboli

Siamo convinti di essere creature che godono del diritto insindacabile a una salute perfetta, a un corpo/mente dotato di organi e funzioni in grado di svolgere prestazioni al massimo livello. La nostra è una società che ha semplicemente rimosso il concetto di malattia, in cui i malati sono sempre “gli altri”: i pazienti oncologici, i disabili, i diversi… Per questo, come scriveva Chiara agli albori della pandemia, una delle prime strategie di sopravvivenza innescate contro il virus da parte dei sani è stata la presa di distanza di costoro dai cosiddetti soggetti a rischio: “muoiono solo i vecchi”, “è in pericolo chi ha patologie pregresse o croniche”, “bisogna prestare le cure a chi ha aspettative di vita più a lungo termine”. Insomma, un ennesimo bisogno di contrapporre l’identità dei forti contro i deboli.

Più chiaro di così… Si, perché la disabilità non è una accidentalità, una sfortuna che capita, un amore che logora; purtroppo è anche questo, con tutto il corollario connesso alla capacità dei singoli di saper reagire, impegnandosi per non sentirsi soli ad affrontare quello che per l’ambiente medico scientifico è un “caso”. Un caso, non una persona e il mondo che la circonda. Allora perché non prevederlo, dando la possibilità ai genitori di scegliere anticipatamente della loro e dell’altrui vita? Una decisione non facile e certamente sofferta ma che Ada d’Adamo, con la forza di una madre a sua volta colpita da una fragilità – un tumore al seno divenuto metastatico – che, nel rendere difficile il rapporto con la figlia, allo stesso tempo l’ha avvicinata al suo fragile mondo, fino a chiedersi: se mi avessero correttamente informata durante la gravidanza… L’avrei portata a termine?

Così, nel raccontare l’amore infinito per Daria, nel descrivere il bene che Daria trasmette incondizionatamente, traspare l’atteggiamento superficiale e complice di un servizio medico sanitario pubblico posto nelle condizioni di non funzionare, a seguito dei numerosi tagli compiuti dai governi negli ultimi decenni.

Certo, ci sono pagine in cui lo stato di completo abbandono di chi affronta un problema così complesso colpisce emotivamente, soprattutto quando l’autrice citando John Donne – «La malattia è la miseria massima, la massima miseria della malattia è la solitudine» – denuncia l’ipocrisia di questa società e della sua cultura nel prendersi cura degli altri; altri che, fin quando sono belli, forti intelligenti l’accoglienza non è negata. Ma provate voi a non rispettare questi canoni e vi accorgerete di cosa vuol dire essere diverso in un sistema economico di profitto dove la diversità, se non è fonte di lucro speculativo, è nascosta fra le pieghe di una carità pelosa.

Per concludere, Come D’aria è un libro che non fa sconti perché racconta la vita, la sua fragilità, ma soprattutto l’amara vittoria di chi combatte fino alla fine contro le ipocrisie di un sistema che relega nel dimenticatoio chi a parole vorrebbe includere. Insomma un libro di vita e di lotta come pochi.

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Il cittadino?! Ma chi è costui? https://www.carmillaonline.com/2019/07/25/il-cittadino-ma-chi-e-costui/ Thu, 25 Jul 2019 21:30:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53630 di Mauro Baldrati

Sono in possesso del contrassegno automobilistico per disabili, il tagliando azzurro che permette di parcheggiare nei posti riservati e di viaggiare nelle corsie degli autobus. L’ho ottenuto a fatica, con grande dispendio di tempo e di energie. Il primo anno mi è stato rifiutato. Il secondo, con le stesse condizioni di salute, accettato, per un anno. Il terzo, sempre nella medesima situazione (sono portatore di una malattia autoimmune che non ha guarigione), finalmente per cinque anni. Ma con un duro prezzo da pagare: il deferimento (termine quanto mai [...]]]> di Mauro Baldrati

Sono in possesso del contrassegno automobilistico per disabili, il tagliando azzurro che permette di parcheggiare nei posti riservati e di viaggiare nelle corsie degli autobus. L’ho ottenuto a fatica, con grande dispendio di tempo e di energie. Il primo anno mi è stato rifiutato. Il secondo, con le stesse condizioni di salute, accettato, per un anno. Il terzo, sempre nella medesima situazione (sono portatore di una malattia autoimmune che non ha guarigione), finalmente per cinque anni. Ma con un duro prezzo da pagare: il deferimento (termine quanto mai appropriato) alla commissione medica per il rinnovo della patente. Un tunnel lungo, oscuro e maleodorante del quale scriverò in futuro.

Un paio di mesi fa dovevo sottopormi a una delle frequenti visite mediche conseguenti alla mia malattia, per cui ho preso la macchina e ho guidato fino all’ospedale. Ho parcheggiato in uno dei posti a noi riservati, che ho trovato libero per miracolo. Perché, va detto: moltissimi parcheggi sono occupati abusivamente da chi non ne ha diritto.

Sono tornato dopo un paio d’ore e, con stupore, ho trovato il minaccioso avviso della multa sul parabrezza. Possibile? Uno scherzo?

Mi sono avvicinato, con un senso di timore misto a rabbia, ho guardato bene e ho notato che il tagliando disabili non c’era. Sì, non era sul cruscotto. Dannazione, l’avevo posizionato, ne ero sicuro. Poi l’ho visto: era caduto sulla pedana del posto di guida. Allora ho capito. Talvolta col colpo d’aria della portiera che si chiude tende a cadere.

Ho sfilato la multa dal tergicristallo. 46 euro. Fuck! Mi sono guardato intorno, cercando non so cosa, non so chi. Perdio, non avevo usurpato un diritto altrui. Era solo uno stupido errore. Per cui, vibrante ci senso civico, sono tornato a casa e ho telefonato ai Vigili Urbani di Bologna. Va detto che ogni telefonata qui descritta si intende con un call center con attese piuttosto lunghe per via dei “premi 1, premi 2” ecc.

Ha risposto una signora gentile che ha ascoltato la mia storia. Mi ha chiesto gli estremi della multa e ha detto che non dovevo preoccuparmi. In effetti ero in possesso del diritto di parcheggio, per cui esibendo il tagliando potevo fare ricorso al Prefetto. Ma prima dovevo aspettare l’arrivo del verbale vero e proprio, perché si trattava di un atto giudiziario. “Quando lo riceve ci ritelefoni” ha detto, “che le spieghiamo come fare. E stia tranquillo” ha aggiunto, “andrà tutto bene.”

Rinfrancato, ho riposto il tagliando della multa e sono passato ad altre storie.

Dopo circa un mese e mezzo è arrivata la famigerata busta verde degli atti giudiziari. L’ho ritirata alla posta, dopo la consueta fila, poi sono tornato a casa a telefonare ai Vigili Urbani.

Mi ha risposto un’altra signora abbastanza gentile, che mi ha chiesto i dati del verbale, poi ha detto: “Attenda in linea, devo verificare la sua situazione e parlarne coi colleghi.”

E’ seguita un’attesa piuttosto lunga, durante la quale sentivo rumori di fondo e voci lontane che dicevano “disabile” e “contrassegno”.

Finalmente la signora è tornata. Un po’ esitante. Ha detto: “Senta… ecco, abbiamo guardato il verbale, e ci sentiamo di escludere che il Prefetto possa accogliere il suo ricorso. C’è l’indicazione NEC, ovvero Non Esibiva il Contrassegno, e questo non permette l’accettazione del ricorso. Mi dispiace. Inoltre se non viene accettato la multa raddoppierà.”

Sono rimasto senza parole. Ma allora l’altra signora, così positiva, così ottimista? Ho detto che, insomma, il mio errore era solo di forma, non chiedevo né un perdono né il beneficio di un diritto che non avevo, ma eventualmente solo uno sconto, tipo dimezzare la multa…

“Sì, lei ha ragione” ha detto. “Ma non possiamo fare nulla purtroppo. Però le consiglio di fare ricorso al Giudice di Pace. E’ più malleabile del Prefetto. Ha più margine di manovra. Si metta in contatto, lo trova in internet. Andrà bene, vedrà.”

Il Giudice di Pace. Chissà perché ero convinto di avere letto un articolo dove si diceva che i giudici di pace erano stati eliminati. Bah. Fatto sta che mi sono attaccato al telefono e per una giornata intera, mattino e pomeriggio, sono rimasto in attesa ascoltando che “tutti gli operatori sono occupati.” Niente da fare. Nessuna risposta. Così ho rotto gli indugi, la mattina dopo mi sono alzato presto, ho attraversato tutta la città e sono andato dal Giudice di Pace, in via Barontini 16.

Il Giudice di Pace. Ma è un tribunale? mi chiedevo, mentre entravo nel palazzo. Sulla porta un tipo in bermuda e ciabatte infradito fumava una sigaretta con aria corrucciata. Il piano terra era deserto. Gli uffici erano tutti vuoti. Una postazione col cartello “informazioni” risultava chiusa: “Rivolgersi all’uff. n. 13 al primo piano.”

Sono salito al primo piano e ho raggiunto l’uff. n. 13. Una decina di persone in attesa. Tutti con aria truce. Tutti con fasci di documenti. Tutte donne meno un pachistano che per due volte ha tentato di saltare la fila, stoppato da una signora bionda che lo ha strigliato. Il contanumeri era guasto. Ho chiesto chi era l’ultima poi mi sono seduto con pazienza e, come tutti a questo mondo, ho iniziato a smanettare col telefono.

Molta pazienza. Circa tre ore. Ognuno aveva dei casi complessi, sentivo parlare di “cancelleria” e “marche da bollo”. Finalmente è toccato a me. Titubante, per il mio caso così banale in confronto a tutte quelle storie delle quali intuivo la complessità e la pesantezza, ho raggiunto il banco dove una signora di mezza età mi ha accolto con un sorriso benevolo. Meno male. Ho detto della multa, del tagliando, dei vigili, ma lei ha tagliato corto: “Prenda il modulo nella scatola marrone.” Ho individuato la scatola tra altre scatole di vari colori e ho preso il modulo. “GIUDICE DI PACE DI BOLOGNA. Opposizione a sanzione amministrativa”.

“Lo compili” ha detto la signora. “Scriva le sue motivazioni e poi lo spedisca. Quant’è l’importo del verbale?” Ho detto 46 euro. “Allora deve pagare il contributo unificato” e ha indicato col dito una tabella col contributo di 43 euro.

Subito non ho capito.
Poi ho capito.

“Cioè, vuol dire che… per fare ricorso su 46 euro ne devo pagare 43?” Lei ha annuito. “E’ il contributo unificato” ha detto.

Ero ancora confuso. Ma… le ho chiesto se, in caso di ricorso respinto, i 43 euro mi sarebbero stati restituiti. Lei ha detto “non lo so.” Di nuovo ci sono rimasto. Come sarebbe non lo so? “Perdio” ho detto, “non ha senso questa cosa.” Lei ha detto “è vero. Non le conviene mica.” Ho insistito. Ma possibile che non possa sapere nulla di questo dettaglio? Non è una bazzecola. Il ricorso non ha nessun senso! “Scusi, ma non può informarsi?” le ho chiesto.

Allora lei, con pazienza, ha girato il modulo e mi ha fatto leggere una riga: “ATTENZIONE: Il personale di cancelleria non può fornire informazioni nel merito del ricorso.”

Fine della storia. Ogni altra considerazione era inutile. Un cerchio chiuso, una forza centripeta che tutto polverizza. Un ordine e un contrordine che nega l’ordine stesso. Una follia amministrativa che rende vano qualunque tentativo di dimostrare, e tanto meno di affermare.

Sono uscito con un senso di confusione e di impotenza che mi tagliava le gambe. Il cittadino, questa entità che tiene in piede tutta l’impalcatura, tutto il sistema burocratico bizantino corrotto autoritario incomprensibile, vale meno di zero. Qualunque tentativo di ottenere, di dimostrare, seguendo le vie ufficiali, è destinato a un lungo, sanguinoso fallimento. Non c’è che la via traversa. Non c’è che il corridoio preferenziale, la parentela, lo scambio, la piccola grande menzogna.

Non c’è altro.
Non c’era altro che pagare la multa.
La multa a un disabile perché ha parcheggiato nello spazio riservato ai disabili.

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