diritti umani – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Dittature democratiche e democrazie dittatoriali https://www.carmillaonline.com/2021/10/01/dittature-democratiche-e-democrazie-dittatoriali/ Fri, 01 Oct 2021 20:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68348 di Riccardo Canaletti

Emiliano Alessandroni, Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici, Carocci, Roma, 2021, pp. 244, € 28.00

L’ambiguità interna all’attuale assetto democratico in Occidente, è l’obiettivo polemico dell’ultimo saggio di Emiliano Alessandroni, docente all’Università di Urbino “Carlo Bo” in Critica letteraria e Letterature comparate (oltre all’insegnamento presso le cattedre di Letteratura italiana, Filosofia contemporanea e Filosofia politica), dal titolo eloquente Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici. Nel Novecento il problema della democrazia si legava inscindibilmente alla questione della giustizia sociale, come ci ricorda Harold J. Laski [...]]]> di Riccardo Canaletti

Emiliano Alessandroni, Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici, Carocci, Roma, 2021, pp. 244, € 28.00

L’ambiguità interna all’attuale assetto democratico in Occidente, è l’obiettivo polemico dell’ultimo saggio di Emiliano Alessandroni, docente all’Università di Urbino “Carlo Bo” in Critica letteraria e Letterature comparate (oltre all’insegnamento presso le cattedre di Letteratura italiana, Filosofia contemporanea e Filosofia politica), dal titolo eloquente Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici. Nel Novecento il problema della democrazia si legava inscindibilmente alla questione della giustizia sociale, come ci ricorda Harold J. Laski (1931) nel suo Introduzione alla politica (La Rosa Editrice, 2002):

La conclusione di tutto ciò è che la natura delle leggi, in un determinato Stato, corrisponde alle effettive domande alle quali lo Stato va incontro; e che queste, a loro volte, dipendono, in generale, dal modo in cui il potere economico è distribuito nella società amministrata da quello Stato. Ne consegue che a una più equa distribuzione del potere economico, corrisponderà una più profonda relazione tra l’interesse generale della comunità e gli imperativi legali imposti dallo Stato. […] Se, quindi, lo Stato è, come in effetti è, una organizzazione capace di dare una risposta alle domande poste dai desideri dei suoi membri, più equa sarà la distribuzione del potere, più integrale sarà la risposta alle varie domande. (p. 12)

A differenza di quanto sostenuto da Norberto Bobbio in Liberalismo e democrazia (Simonelli editore, 2006), il rapporto tra democrazia e principi egualitari sembrava confermato dalla lotta su due binari che veniva portata avanti, da un lato per i diritti e dall’altro per il miglioramento delle condizioni materiali per la democrazia. Tuttavia, l’idea che la democrazia sia una struttura giuridico-politica slegata dal contesto sociale abbastanza da astrarsi dai vincoli materiali dei cittadini ha preso piede a sufficienza da essere alla base dell’interpretazione più in voga nei Paesi come il nostro della democrazia occidentale. Una democrazia che, rinunciando alla lotta sociale, si limita a concedere diritti di facciata, che hanno funzione giuridica ma non reale (poiché non vanno alla radice del problema, e per cui giova ricordare l’intuizione marxista-leninista, ripresa poi da Žižek nel pamphlet pubblicato da Il Saggiatore nel 2005, Contro i diritti umani, secondo cui la pretesa universalità dei diritti umani difesi strenuamente dalle democrazie liberali, in realtà maschera un complesso di “pseudo-scelte” che nella vita di tutti i giorni si riversano nella società a beneficio di una particolare categoria di gente, che quasi sempre può essere identificata con l’uomo bianco ed etero).

È importante notare come la lettura di Alessandroni di queste considerazioni comporta una ripresa, sulla scia del filosofo Domenico Losurdo, dell’approccio sistematico del marxismo che sfidò nel secolo scorso l’irrazionalismo (grazie ad autori come Lenin o Lukács) e oggi, grazie ad Alessandroni, si pone come alternativa al marxismo liquido della filosofia postmodernista. Questo permette ad Alessandroni di costruire l’intero saggio a partire dall’esperienza storica del nostro tempo, in nome di un oggettivismo che ha saputo eliminare l’idealismo (in partire italiano) dall’equazione dell’analisi politica dell’attuale, dove per ‘attuale’ si intende un processo in evoluzione di natura aporetica, ovvero che procede espandendo le possibilità all’interno di una forbice dialettica in cui i concetti non si esauriscono in una delle tue alternative, come avverrebbe nella dialettica diairetica di stampo platonico (che sembra essere tornata in auge proprio con il liberalismo, che opera per tagli netti e arbitrari a favore di un’oggettività artificiosa, scomponente, che non sa leggere la storia). Questo è il nucleo centrale del saggio filosofico di Alessandroni, suggerito dal titolo stesso, che acquista un carattere dialettico.

La tesi è chiara: “Si tratta allora, per chi abbia a cuore le sorti della democrazia, di riuscire a individuare di volta in volta, nel coacervo delle contraddizioni reali, quali siano le forze oggettive attraverso cui passa la concretizzazione dell’Universale.” (Democrazie dittatoriali e dittature democratica, cit., p. 14). E per farlo si tratta la dinamica tra individuo e universalità in tre autori classici, Hegel, Marx, Lenin, per arrivare ad applicare i principi dialettici all’attualità. Da Hegel si riprende necessariamente l’idea che l’universalità si esplichi al di là delle differenze, in un tutti che riguarda l’uomo, non l’ebreo, il cattolico, il protestante, ecc. In quest’ottica la libertà diventa una libertà sotto il segno dell’Universale, che si esplica, per Hegel, nello Stato (e nella concezione hegeliana di popolo). Ma non lo Stato liberale, che nulla ha a che vedere con la trattazione materialista dell’idea di Stato (idea che si è evoluta per toccare vari modelli alternativi di Stato, compreso il modello della Comune di Parigi, escludendo però sempre e in modo risoluto la proposta liberale di Stato esclusivamente giuridico).

Dopo Hegel, arriva il turno di Marx, che viene preso in considerazione, oltre che come stella polare dell’intero saggio, per la sua critica al colonialismo e alla ragione razzista. Così si torna a quanto si diceva nel primo paragrafo e si comprende uno dei punti di contatto tra Alessandroni e il pamphlet di Žižek. La democrazia occidentale è intrinsecamente razzista, un sistema di esclusione che ragiona in termini tribali, a dispetto dell’individualismo di cui si vanta. O meglio: proprio quell’individualismo che non si risolve nell’Universale, cerca un’universalità di riserva da difendere. Così la classe operaia irlandese emigrata in Inghilterra viene discriminata dalla classe operaia inglese, e a sua volta la classe operaia irlandese in America discrimina gli afroamericani, e tutti insieme i cinesi che vennero costretti a emigrare per la costruzione delle ferrovie.

Marx denuncia tale principio di disgregazione in atto nella società liberale che genera la proverbiale “guerra tra poveri”, danneggiando la coscienza di classe e quindi l’orientamento verso l’Universale. E nel frattempo a trarne beneficio è la classe al livello superiore dell’asimmetria di potere nella società capitalistica. Appunto, il proprietario dei mezzi di produzione, l’uomo bianco etero (che, si noti, non deve essere necessariamente l’uomo biologicamente bianco ed etero, ma può diventare un tipo, un atteggiamento verso l’esistenza e verso i rapporti con le classi subalterne).

A dimostrazione di quanto sia attuale la tesi marxista nella riproposizione di Alessandroni, basti pensare a ciò che è avvenuto negli Stati Uniti con i Black Lives Matter. Nel libro In Defence of Looting di Vicky Osterweil (Bold Type Books, 2020), l’autrice utilizza l’analisi di stampo marxista per interpretare i casi di saccheggio a opera dei BLM. La conclusione è che il saccheggio colpisca la storia “dei bianchi” e della proprietà privata, fondata sulla supremazia razzista nel periodo dello schiavismo. E questo legittima un’azione di delegittimazione di quella storia di violenza e sopraffazione. Una conferma arriva anche da uno studio uscito per l’«American Pshycologist» sul razzismo endemico negli Stati Uniti, e su come la società della competitività abbia bisogno di un canale di sfogo che quasi sempre coincide con le minoranze stigmatizzate, o le classi più povere (o, per via dell’intersezionalità dei problemi di ordine sociale, le classi povere costituite dalle minoranze).

La domanda che ci si pone in uno dei capitoli più interessanti del libro (cap. 4, Said: La democrazia dell’Occidente), riguarda la possibilità che il razzismo endemico abbia una forma e un nome anche nella politica estera delle democrazie occidentali. Purtroppo esiste un termine e un fenomeno chiaramente ancora in atto, come testimoniato dalla situazione palestinese: il colonialismo. Un’altra volta la democrazia liberale viene smascherata grazie al modo in cui si pone nella realtà, a dispetto della teoria giuridica, delle norme, della libertà di autodeterminazione (questa sconosciuta). Proprio di recente, per quel che riguarda l’Afghanistan, è stato Žižek a sottolineare questa contraddizione, mostrando come il liberalismo tenda a praticare non solo il colonialismo (che può non essere visto più come il principale nemico da parte dei talebani) ma soprattutto l’immoralismo, ovvero l’esplicita contraddizione rispetto a ciò che il liberalismo apparentemente sostiene, e secoli fa enunciò come teoria dei diritti.

Si arriva così, dopo aver destituito nella pratica storica la democrazia occidentale dall’altare del modello perfetto (o semplicemente migliore), al secondo concetto presente nel titolo, ovvero riguardo alla natura dei giudizi di stampo liberale verso ciò che non può essere compreso in un’ottica non dialettica, che può essere soggettivista e dogmatica di volta in volta. Così come giudicare l’esperienza cinese? O le condizioni di vita della Germania dell’Ovest? Il discorso di Alessandroni mira a sconvolgere l’abituale separazione dicotomica tra democrazia e dittatura, per lasciare che i concetti si compenetrino (e in effetti si compenetrano storicamente) per non risolversi in un giudizio assoluto con cui interpretare il mondo alla luce di una falsa opposizione (o meglio, un’opposizione monca, che manca del proprio momento di sintesi). Tuttavia non è solo la mancanza di un approccio dialettico a bloccare in superficie i giudizi sulle realtà non liberali presenti nel mondo, ma anche l’enorme capacità dei media occidentali di sconvolgere l’informazione, fino a deformarla e a orientare il giudizio dei lettori tanto da rendere l’esperienza comunicativa dei social un’arma per le elezioni. E di questo aveva già parlato nell’ormai classico La fabbrica del consenso Noam Chomsky, insieme a Edward S. Hermann (1998), con ingente quantità di dati alla mano.

Democrazie dittatoriali e dittature democratiche propone una ricognizione dei nostri tempi alla luce della teoria marxista-leninista autenticamente interessata alla storia e, più che ai diritti, alla giustizia sociale (che va ben oltre la semplicistica concezione giuridica che i liberali vorrebbero difendere, e rivanga le zolle della democrazia occidentale per sradicarne i semi velenosi). E lo fa proponendo un’alternativa all’americanismo politico, a favore di un europeismo autenticamente democratico all’interno del quale sia possibile che si compi il cammino verso l’Universale.

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Hadi Danial su Epicrisi, opera del poeta palestinese Ashraf Fayadh https://www.carmillaonline.com/2020/01/04/hadi-danial-su-epicrisi-opera-del-poeta-palestinese-ashraf-fayadh/ Fri, 03 Jan 2020 23:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56871 di Hadi Danial 

[Il 14 dicembre 2019 alle ore 18 si è tenuta alla libreria Griot a Roma la presentazione della traduzione della seconda raccolta di Ashraf Fayadh in italiano, Epicrisi (a cura di Sana Darghmouni). Erano presenti all’incontro la traduttrice Sana Darghmouni (Università di Bologna), il poeta e scrittore marocchino Hassan Najmi, il poeta ed editore siriano Hadi Danial, l’editrice Valeria di Felice (DiFelice Edizioni) con la moderazione del ricercatore e professore Simone Sibilio (università Ca’ Foscari, Venezia). Ashraf Fayadh è un poeta, regista, pittore e curatore di mostre di [...]]]> di Hadi Danial 

[Il 14 dicembre 2019 alle ore 18 si è tenuta alla libreria Griot a Roma la presentazione della traduzione della seconda raccolta di Ashraf Fayadh in italiano, Epicrisi (a cura di Sana Darghmouni). Erano presenti all’incontro la traduttrice Sana Darghmouni (Università di Bologna), il poeta e scrittore marocchino Hassan Najmi, il poeta ed editore siriano Hadi Danial, l’editrice Valeria di Felice (DiFelice Edizioni) con la moderazione del ricercatore e professore Simone Sibilio (università Ca’ Foscari, Venezia). Ashraf Fayadh è un poeta, regista, pittore e curatore di mostre di origine palestinese, nato e cresciuto nel regno Saudita. Ha partecipato alla Biennale di Venezia, rappresentando in tale occasione l’Arabia Saudita e la sua arte. Nell’estate del 2014, Fayadh è stato processato per accuse di apostasia relative alla sua raccolta di poesia “Le istruzioni sono all’interno”, che da allora è stata ritirata dalla circolazione, ma poi pubblicata in Libano nel 2008 dall’editore Dar al-Farabi.

Nel febbraio del 2019 è uscita la seconda raccolta di Ashraf Fayadh pubblicata in lingua originale dalla casa editrice tunisina Diyar. Nel settembre dello stesso anno la raccolta è stata tradotta in italiano da Sana Darghmouni e pubblicata dalla casa editrice Di Felice Edizioni.  Si tratta di 26 poesie scritte dal carcere, dove il poeta sta scontando una pena a 8 anni di reclusione e 800 frustate dopo la sua condanna per apostasia. Il volume tradotto in italiano comprende anche due prefazioni di Paolo Branca e Massimo Campanini. Attraverso questi testi il poeta presenta e descrive una serie di esperienze diverse che si alternano tra di loro all’interno della psiche umana e che toccano le sue sfere più sensibili e sacre, dimostrando una grande capacità espressiva. Il poeta ed editore siriano Hadi Danial ha partecipato all’incontro di Roma con questa relazione, la cui traduzione riportiamo di seguito.]

Hadi Danial – Roma 14/12/19 (trad. a cura di Sana Darghmouni) 

Buonasera! Per iniziare vorrei esprimere la mia profonda gratitudine all’amica, la prof.ssa Sana Darghmouni, perché mi ha permesso di essere su questo palco conoscitivo e militante circondato dalle vostre coscienze vive e dai vostri nobili cuori che battono per il destino di uno degli artisti creativi della bellezza umana la cui sorte da anni è quella di considerare con le ali di un’aquila le sbarre della propria prigionia, osservando con l’orgoglio del disperato come si accumula il silenzio e come esso possa diventare “una brutta abitudine praticata da tutti” di fronte alla sua crudele sofferenza. Un silenzio spietato che assedia il nostro amico comune, Ashraf Fayadh, non solo nel regno delle sabbie e dell’olio delle rocce nere dove è nato e cresciuto.

Questo folle silenzio ha contaminato tutta la nostra regione, soprattutto dopo aver invaso gli ambienti culturali e quelli dei media in cui la notizia della condanna a morte del poeta ha fatto esplodere grida di stupore e perplessità, e non tanto di disapprovazione e rivolta. E le grida che sono state subito spente dai venti del petrodollaro del Golfo che ha trasformato la maggior parte degli intellettuali arabi in tecnici della conoscenza, tranne alcune eccezioni che, purtroppo, non erano destinate a diventare una forza che fa pressione in comparazione con il vivo attivismo con cui persevera la prof.ssa Sana Darghmouni insieme alle sue colleghe e ai suoi colleghi, discendenti di Gramsci, con un entusiasmo che non si spegne. Anche le coscienze di coloro che sono stati scossi dalla notizia della condanna a morte nella nostra zona araba, sono tornate al loro antico letargo dopo aver appreso che la condanna era stata ridotta a otto anni di carcere e 800 frustate.

Tranne Sana e le sue compagne e compagni del popolo italiano amico, come se trascinassero la causa al posto di tutti noi dall’est fino all’ovest dei nostri paesi. E così la libertà di questo poeta rinchiuso ingiustamente è diventata una componente della causa personale di ognuno di loro. E sono stato fortunato quando l’amica Sana mi ha onorato e coinvolto parzialmente in questo grande lavoro nel momento in cui mi ha proposto di pubblicare la nuova raccolta di Ashraf tra le opere della casa editrice che ho fondato di recente a Tunisi. E questa è la seconda ragione della mia gratitudine nei suoi confronti.

Quando ho ricevuto la bozza di Epicrisi e ho cominciato a leggerla, avevo già deciso tra me e me di pubblicarla, spinto dal mio sentimento di solidarietà con un giovane palestinese che paga il prezzo di un’interpretazione ignorante e folle da parte delle istituzioni di una potenza araba, per via di un’espressione scritta dall’innocenza di un giovane poeta. Non avevo letto nulla di lui prima. Ma la lieta sorpresa è che mi sono trovato in presenza di una scrittura poetica che non ha precedenti per la sua capacità di spingere a pensare e immaginare allo stesso tempo. Con un tono tranquillo che strappa il fulmine dai vulcani dormienti nell’inconscio del lettore. Una scrittura libera che umanizza gli elementi essenziali della natura e dei suoi derivati e dialoga con i pianeti dell’universo e le sue galassie in approcci estetici affascinanti.

E da questi voli universali passa con una facilità non forzata ai dettagli quotidiani e intimi che sciolgono e si sciolgono in tenerezza e dolcezza. Queste atmosfere universali si risolvono in metafore dell’immagine e approcci sull’amore, la morte e la noia, la libertà e la patria, “che calza una scarpa della libertà consumata come il resto dei valori umani”[1], oltre che nella compattezza della struttura del testo e nel suo stile facile difficile. Tutto questo fa del testo di Ashraf Fayadh un testo degno di abbandonare la gabbia della lingua araba affinché i suoi uccelli possano posarsi sui rami degli alberi delle lingue del mondo. E qua esprimo la mia gratitudine all’amica Sana per il suo sforzo di far volare gli uccelli della penna di Ashraf nei boschi e nel cielo della lingua italiana.

Dopo la pubblicazione di Epicrisi dalla casa editrice Diyar a Tunisi, la notizia avrebbe dovuto attirare la curiosità delle élite politiche e letterarie, tunisine e arabe, soprattutto perché si tratta di un libro di un palestinese ancora imprigionato in un carcere della famiglia reale saudita. Ma purtroppo la metà delle cinquecento copie che abbiamo stampato sono ancora nei magazzini della casa editrice. La poesia non è più il diwan (“il libro di memorie”) degli arabi e il libro non è più il loro miglior compagno.

In quanto alla Palestina, si è trasformata in uno degli slogan che vomitiamo con la stessa velocità con cui la mastichiamo e inghiottiamo come altri slogan, quali libertà, democrazia e diritti dell’uomo, ma sono tutti usati nelle nostre guerre di parte. E in questo contesto alcuni hanno provato a strumentalizzare la causa di Ashraf Fayadh e sono stato invitato con generosità avvelenata (e non ho accettato gli inviti ovviamente) ad andare a Beirut e ad altre città per partecipare a programmi in alcuni canali come Aljazeera e Turchia Arabia per parlare di Ashraf, del suo libro e della sua causa. Ma non  per premura di questi per la libertà di espressione, quanto per utilizzare la causa di Ashraf nel conflitto di Doha e Ankara contro Riad. La realtà è che le autorità del Qatar avevano condannato a morte un poeta del Qatar e hanno ridotto la pena a 15 anni perché aveva composto una poesia in dialetto in cui elogiava la primavera araba e la sua partenza da Tunisi per cui non possiamo parlare eticamente da un palco del Qatar della causa di Ashraf e delle cause della libertà di espressione in generale. E il paradosso è che l’invito più generoso mi è stato rivolto dal canale americano Alhurra, il canale della potenza più grande, nota per essere la causa essenziale dietro l’impossibilità del popolo di Ashraf Fayadh di ottenere i suoi diritti legittimi nel decidere il suo destino e costituire la sua patria indipendente sul suo suolo nazionale. Allo stesso modo Washington gestisce le guerre usando lo slogan della “esportazione della democrazia” e della “libertà di pensiero e dei diritti dell’uomo” nella nostra regione, ma è la stessa potenza che sostiene il regime saudita nelle cui carceri si trova Ashraf perché è considerato un poeta apostata. E fabbrica il terrorismo religioso espiatorio, installandolo nelle nostre società e nei nostri paesi per poi usarlo come pretesto per interferire nelle nostre questioni interne, sempre con la scusa di combattere il terrorismo. La politica americana non nasconde il fatto che ciò che le interessa nella nostra zona non siano l’uomo o la sua vita sulla Terra, quanto piuttosto ciò che c’è sottoterra come il petrolio, il gas e i metalli. Perciò vuole che la consideriamo come “i gatti randagi”, di cui parla il nostro poeta in Epicrisi, considerano noi. I gatti randagi “ci credono divinità pronte a dispensare loro nutrimento” e Washington vuole che ci rifugiamo in lei per proteggerci dal “male dei gatti selvatici”, che rinnegano la misericordia dell’uomo[2] (e Israele è “troppo elevata” per essere il “gatto regionale selvatico” presso le divinità americane, ma potrebbe esserlo l’Iran ad esempio). Nonostante questo, l’arroganza americana scommette sulla possibilità di impiegare qualunque intellettuale arabo per promuovere il suo discorso deviante che pretende di “tutelare” la libertà di espressione nelle sue zone protette nel Golfo.

Ashraf Fayadh è ora senza inchiostro e senza colori, e noi con tutti i nostri inchiostri, colori e con le nostre gole, siamo incapaci di parlare e descrivere al posto suo, quindi non esiste un’alternativa alla necessità di rompere le sue catene e intensificare i nostri tentativi perseveranti per costringere il suo carceriere ad aprire la sua cella e fargliela lasciare definitivamente.

Infine, mi preme far presente che la questione di Ashraf Fayadh è una questione complessa, è una causa di libertà d’espressione quanto anche una questione di un popolo che soffre sotto il giogo della più lunga ingiustizia mai conosciuta dalla storia dell’umanità contemporanea, causata dalle avidità economiche e politiche del colonialismo occidentale, dal momento in cui ha spostato il progetto sionista dal Sud Africa e dall’America Latina in Palestina. E da allora è come se ogni palestinese nascesse prigioniero o martire nella Palestina occupata o nel mondo, è come se l’umanità dopo tante generazioni non potesse di fronte a ciò che reagire semplicemente con reverenza sottomessa nel tempio dei dolori. Se ci riuniamo oggi e domani per la vittoria del poeta prigioniero e del suo discorso libero, significa che il discorso poetico in Epicrisi è universale e la preoccupazione palestinese in questo discorso ha più di una chiave:

“Noialtri cerchiamo di imitare la terra nella sua capacità di resistenza,

ma alla terra manca un sistema nervoso!”[3]

E anche se il poeta fa parte di una generazione nata fuori dalla Palestina, egli non nasconde la sua brama e la brama del suo popolo per una patria, e invidia persino i batteri perché l’acqua inquinata fa degli intestini fini una patria ideale per loro:

“I batteri sono fortunati

Perché non hanno un vero problema a trovare una patria!”

Questo poeta insegue ancora la luce, perché “il buio fa paura anche se ad esso ci si abitua”.

Perciò non dobbiamo sconfortarci leggendo il suo grido con cui ha concluso Epicrisi:

“Mi rosica dentro la consapevolezza

E uccide ogni mia possibilità di sopravvivenza.

La consapevolezza mi uccide lentamente

Ed è davvero troppo tardi per trovare la cura.”[4]

Questo grido proveniente da una coscienza irrequieta, ci deve spronare di più non solo a lottare per la sua liberazione personale, bensì a liberare questo individuo-simbolo affinché si unisca a noi e ci conduca sulla strada della lotta più lunga verso la liberazione del suo popolo. Se personalmente sono deluso della condizione araba, impegnata nel suo sgretolamento e nelle sue guerre, il calore umano in questa sala avrà un’eco in altri luoghi e, senz’altro, nella lontana e fredda cella del poeta.

 

Proponiamo qui due estratti (cortesia di Di Felice Ed.):

Dentro il cielo

Il profumo della noia riempie la stanza,

il mio cuore, un libro marcio coperto da uno spesso strato di polvere,

il posacenere è troppo familiare

e i pensieri si attaccano alle pareti come mosche stanche.

Un ragno disoccupato si affaccia su alberi assonnati,

alcuni rumori all’esterno

e il freddo padroneggia sulla situazione.

 

Crepe di pelle

Il mio paese è passato di qua

calzando la scarpa della libertà…

poi se n’è andato, lasciando la scarpa alle sue spalle,

correva con un ritmo travagliato … come il ritmo del mio cuore,

il mio cuore che correva verso un’altra direzione … senza una giustificazione convincente.

La scarpa della libertà era consumata, vecchia e finta

come il resto dei valori umani in tutte le loro dimensioni.

Tutto mi ha abbandonato e se n’è andato … inclusa te.

La scarpa è un’invenzione sconcertante

dimostra la nostra ineleggibilità a vivere su questo pianeta,

dimostra la nostra appartenenza ad un altro luogo in cui non abbiamo bisogno di camminare molto,

o che il suo pavimento è arredato con ceramica economica … scivolosa!

Il problema non sta nello scivolare … tanto quanto nell’acqua,

nel calore … nel vetro rotto … nelle spine … nei rami secchi e nelle rocce appuntite.

La scarpa non è una soluzione perfetta

ma in qualche modo adempie allo scopo desiderato

esattamente come la ragione

e come la passione.

La mia passione si è estinta da quando te ne sei andata l’ultima volta,

non posso raggiungerti più

da quando sono stato detenuto in una cassa di cemento sostenuta da barre fredde di metallo

da quando mi hanno dimenticato tutti … a cominciare dalla mia libertà … e a finire dalla mia

scarpa affetta da una crisi di identità.

*traduzione di Sana Darghmouni

 

Link al libro e recensioni:

Feltrinelli on line – link

Ibs Libri – link

Da La macchina sognante-1

La macchina sognante-2

 

[1] Crepe di pelle.

[2] Le macchie difficili.

[3] Alla leggera.

[4] Ictus cerebrale.

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Il femminismo delle Zingare e la costruzione di coalizioni https://www.carmillaonline.com/2018/12/14/il-femminismo-delle-zingare-e-la-costruzione-di-coalizioni/ Fri, 14 Dec 2018 22:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49834 di Gioacchino Toni

Laura Corradi, Il femminismo delle Zingare. Intersezionalità, alleanze, attivismo di genere e queer, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00

«Questo è un libro fondamentale e altamente stimolante, che racconta un mondo di lotte e resistenze femministe trascurate sino a oggi» Silvia Federici

«[Il libro] ripropone e rilancia un principio pratico del femminismo radicale: la questione non è mai occuparsi di “donne rom”, in quanto vittime, bensì di entrare in relazione per potenziarsi a vicenda, vedendo la forza di un’altra, di altre, in quel che vanno esprimendo ed elaborando, all’incontro [...]]]> di Gioacchino Toni

Laura Corradi, Il femminismo delle Zingare. Intersezionalità, alleanze, attivismo di genere e queer, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 162, € 15,00

«Questo è un libro fondamentale e altamente stimolante, che racconta un mondo di lotte e resistenze femministe trascurate sino a oggi» Silvia Federici

«[Il libro] ripropone e rilancia un principio pratico del femminismo radicale: la questione non è mai occuparsi di “donne rom”, in quanto vittime, bensì di entrare in relazione per potenziarsi a vicenda, vedendo la forza di un’altra, di altre, in quel che vanno esprimendo ed elaborando, all’incontro tra biografie, lotte, percorsi di liberazione» Federica Giardini

«Corradi denuncia la retorica razzista dell’anti-zingarismo (rom-fobia), mettendo in luce la potenzialità radicale della coalizione e della solidarietà tra attiviste/i di genere rom da diverse collocazioni geopolitiche oltre i confini dello stato-nazione. Un contributo originale agli studi critici della razza e della colonialità in Europa» Chandra Talpade Mohanty

In che modo si sviluppa una coscienza di genere in un contesto in cui il ruolo della donna ha un’importanza fondamentale per la sopravvivenza della comunità stessa? Quali tratti distintivi ha il femminismo delle zingare rispetto a quello di altri gruppi sociali? In quali paesi il fenomeno appare più presente? Queste sono alcune delle questioni di cui tratta il libro di Laura Corradi pubblicato lo scorso anno negli Stati Uniti – Gypsy Feminism. Intersectional Politics, Alliances, Gender and Queer Activism (Routledge, 2018) – e in uscita proprio in questi giorni in edizione italiana nella collana “Relazioni pericolose” di Mimesis edizioni.

La comunità zingara è «la più demonizzata d’Europa, soggetta a costanti e ripetute stereotipizzazioni, oggi nuovamente assurta a capro espiatorio, in particolare a causa delle politiche neoliberali e della crisi economica» (p. 119); non a coso l’anti-zingarismo risulta oggi «l’unica forma di razzismo socialmente accettata in Europa» (p. 120). È a partire da tale contesto che, prendendo in considerazione il punto di vista e le sfide delle attiviste zingare, Corradi affronta un fenomeno sociale scarsamente conosciuto in Europa come il femminismo delle donne rom, gitane e traveller, focalizzandosi sulle soggettività che producono saperi e lotte contro il sessismo, il classismo, la rom-fobia, le espressioni di anti-zingarismo tutt’oggi radicate nel tessuto sociale.

L’apertura del volume è dedicata ad alcune riflessioni terminologiche non di poco conto visto che definizioni e categorie non sono mai neutre e da questo punto di vista la parola “Zingara/o” non fa certo eccezione. Introdotto nel XV secolo il termine viene utilizzato ancora oggi per designare genericamente chi ha vita nomade e nell’immaginario collettivo si è sedimentata l’idea che vuole le Zingare come rapitrici di bambine/i e ladre, propense a prostituirsi e madri del tutto inaffidabili e gli uomini come individui violenti e stupratori. Il termine, pur essendo spesso utilizzato come insulto – «sinonimo di vagabondo, pigro, sporco, incapace di lavorare, inaffidabile, falso e astuto. Essere Zingari nelle società occidentali rappresenta un’alterità radicale» (p. 19) – può dirsi oggi un termine conteso: si può criticarne il ricorso in quanto su di esso si è sedimentato un senso spregiativo, ma si può anche decidere di ricorrervi nonostante il retaggio negativo. «La parola è stata rivendicata da ricercatrici/ori e attiviste/i di diversi gruppi etnici e non etnici allo scopo di rendere possibile la comprensione e la valorizzazione delle differenze interne – nella consapevolezza di essere accomunati dallo stesso tipo di oppressione. Infatti, tutti i popoli Rom, Sinti, Manouche, Kalé, Yanish, Gitani, Camminanti, Gens du Voyage e Traveller sono stati chiamati Zingari e hanno affrontato l’anti-zingarismo e le persecuzioni» (p. 20). Oltre che per tali ragioni Corradi sceglie di ricorrere alla parola “Zingara/o” anche per un motivo di natura politica: «questa parola indica un crocevia di lotte collettive in parte condivise, un luogo comune a partire dal quale costruire alleanze» (p. 20).

La studiosa-attivista segnala come a livello istituzionale in Europa esistano due diverse tendenze: se da una parte il Consiglio d’Europa mantiene una distinzione tra termini diversi, paesi come la Francia e l’Italia tendono invece a raggruppare le diverse definizioni. Entrambe le opzioni mostrano elementi di contraddittorietà: il mantenimento delle distinzioni, apparentemente più corretto, potrebbe però rafforzare le divisioni, mentre il raggruppamento delle differenze in un unico termine potrebbe dar luogo a un rafforzamento del senso di appartenenza a una sfera comune facilitando coesione e alleanze.

Nel volume viene evidenziato come durante il processo di allargamento europeo si sia attuata un’importante e netta cesura: «il discorso politico sulle comunità zingare occidentali è diventato marginale, mentre le nuove narrazioni sulla situazione delle/dei Rom nei paesi dell’Est hanno catalizzato l’attenzione. La designazione “Zingara/o” è stata usata “come ponte” tra le due comunità fino a quando non è stata tracciata una linea politica di divisione, che nel discorso e nella pratica istituzionale ha separato […] le comunità zingare e nomadi occidentali dalle comunità rom orientali» (p. 22.) Si tratta di una scelta volta ad attuare una frammentazione funzionale al dominio. «Zingari e Nomadi venivano lasciati da parte come “gruppi non etnici”, mentre le popolazioni Rom venivano categorizzate come minoranza da rispettare e proteggere» (p. 22). Lo stesso ricorso all’etichetta «di un gruppo sociale come “minoranza”», ricorda Corradi, «non è al di sopra di ogni sospetto. Il termine richiama l’idea di minore, minuscolo, insignificante, trascurabile o inferiore; esso appartiene alla cornice cognitiva dominante che svaluta gli oggetti della pratica definitoria. Il fatto che ci si riferisca a ogni gruppo di persone di colore come a “minoranze” occulta il fatto che nel mondo le persone bianche sono una minoranza rispetto alle persone di colore». (p. 22). «La Dichiarazione di Strasburgo del 2010 ha optato per identificazioni su base etnica come Rom o Sinti e la maggior parte degli Stati membri ha adottato la stessa politica. In Italia, l’Ufficio nazionale contro il razzismo vieta l’uso del termine “Zingare/i”, ignorando le comunità e i gruppi di ricerca che tentano di praticare una riappropriazione semantica della parola […] D’altro canto, assistiamo a una riedizione dell’impiego negativo della parola “Zingara/o” come epiteto offensivo da parte di gruppi politici di destra e razzisti» (pp. 22-23).

Parte della debolezza del termine “Zingara/o”, sostiene la studiosa-attivista, deriva dal fatto che esso è il risultato di un processo di alterizzazione ovvero della definizione di un gruppo da parte del gruppo dominante in cui spesso si ricorre a termini inferiorizzanti, in questo caso la definizione deriva dalla volontà delle popolazioni sedentarie di indicare come estranee quelle nomadi. Consapevole delle ambiguità dei termini e del loro «essere oggetti contesi in termini di significato, e della loro funzione politica in quanto significanti» (p. 24), scrive Corradi, è pur vero che se da un lato «la definizione di chi sia “Altro” è una prerogativa di chi ha potere, la ri-definizione diventa una attività autopotenziante per le categorie oppresse. La decisione di intitolare questo libro Il femminismo delle Zingare può essere letta come espressione di fiducia verso il potenziale sovversivo di ri-significazione delle parole inteso come atto politico in divenire. La produzione di contro-definizioni può avvenire attraverso un’inversione semiotica dei significanti dispotici, come è avvenuto in passato nel caso di parole come Freak, Fag, Dyke e, la più nota di tutte, Queer» (p. 25).
A proposito di linguaggio, il ricorso della comunità zingara a termini come Gagé per indicare le persone che non ne fanno parte può essere letta come una forma di autodifesa contro chi ha «il potere di definire ed esercitare la supremazia», si tratta di una «una pratica importante in termini di costruzione di contropoteri semiotici all’interno della comunità e nei rapporti con le molteplici agentività politiche esterne, aventi diversi gradi di prossimità» (p. 26).

Dopo le precisazioni di carattere terminologico, il libro prosegue con una ricostruzione storica e sociale utile a comprendere tanto la situazione che oggi vede le Zingare in Europa strette tra razzismo, sessismo e povertà, quanto «alcune battaglie di genere e le sfumature di un patriarcato profondamente radicato, che ha resistito al cambiamento sociale, sopravvivendo come forma anche opposizionale alle diverse persecuzioni sofferte dalle comunità nel corso della storia» (p. 29). Inaugurata nel Medioevo, la mostrificazione dell’alterità ha probabilmente raggiunto il culmine durante l’Inquisizione e, sostiene Corradi, buona parte dell’armamentario di stereotipi contemporaneo sembra riprendere quanto si è sedimentato in quell’epoca.

È forse utile riportare qualche dato. «In Europa, la comunità rom costituisce ufficialmente la più grande “minoranza” etnica: si stimano circa 12 milioni di Rom con lingue e tradizioni simili. La comunità rom, specie nell’Est europeo, è una parte sostanziosa della popolazione comunemente definita “zingara”. Le persone zingare, probabilmente sottostimate, sono quasi 20 milioni sparse in 66 paesi del mondo. Più di 10 milioni vivono in Europa, escludendo le comunità zingare della Russia (circa un milione di persone) e quelle della Turchia, che potrebbero ammontare a 5 milioni […]. In Europa, le comunità zingare, gitane, Gents du Voyage e Camminanti vivono nei paesi dell’area mediterranea: Spagna, Grecia, Francia, Italia. Mentre le/i Traveller risiedono nel Regno Unito e in Irlanda. I paesi orientali, Ungheria e Albania, e gli stati balcanici della Romania e della Bulgaria ospitano invece la maggioranza delle/i Rom» (p. 30).

«La prima legge contro la comunità zingara fu emanata in Moravia nel marzo del 1538. Nello stesso secolo, la corona inglese emanava una serie di leggi antiegiziane per espellere o uccidere gli “Egyptian”, da cui Gypsy. Per molti secoli la comunità zingara è stata perseguitata, spesso a causa di sentenze dei tribunali cattolici dell’Inquisizione, specialmente in Italia e in Spagna. Intere comunità zingare rom furono costrette alla schiavitù nei Balcani, e oltreoceano ridotte in catene insieme alle popolazioni africane e ai nativi-americani – messi ai lavori forzati nelle colonie inglesi. L’apice della persecuzione si raggiunse nel XX secolo con il Barò Porrajmos (letteralmente “Grande divoramento”) nazista, risultato della combinazione tra spinte etnocide e propositi genocidi» (p. 34).

Durante la Seconda guerra mondiale circa mezzo milione di Rom, Sinti e altri gruppi zingari sono stati sterminati nei campi di concentramento nazisti e altrettanti morirono a causa delle persecuzioni. Si stima che in Europa circa tre quarti del popolo rom sia stato sterminato in epoca nazi-fascista. Se nella Spagna franchista la lingua romanés finì addirittura per essere vietata, sono parecchie le parti d’Europa in cui le persone zingare sono state discriminate e si deve attendere il 27 gennaio 2005, data dell’approvazione di una risoluzione delle Nazioni unite volta a commemorare tutte le vittime dell’Olocausto, che si ha a livello istituzionale il riconoscimento della persecuzione subita dalle comunità zingare. «In questa data, le persone rom uccise durante il Porrajmos sono ricordate e onorate da tutte le comunità. Nei contesti dell’attivismo si celebra anche l’anniversario della insurrezione zingara di Auschwitz-Birkenau del 16 maggio» (p. 35). Se in Europa il Porrajmos è poco riconosciuto, e ancora meno si è al corrente degli episodi della Resistenza zingara, ciò è in buona parte dovuto alla sistematica cancellazione della memoria funzionale alle «tendenze politiche etnocide e svolgono un ruolo importante nel rendere invisibili la storia e l’agire politico delle comunità zingare» (p. 36).

I rapporti di Amnesty International evidenziano le violazioni dei diritti umani subite dalle donne rom a causa di discriminazioni di etnia e genere e alcune ricerche europee indicano come il numero di persone che manifestano pregiudizi verso altri gruppi etnici sia il doppio rispetto a quanti hanno pregiudizi verso le/gli omosessuali. «Il fenomeno dell’anti-zingarismo ha ricevuto l’attenzione dei media solo in seguito agli incendi dei campi, dopo attacchi neofascisti e xenofobi in alcune circostanze istigati da politici. Talvolta gli assalti coinvolgono coloro che abitano nelle vicinanze dei campi, spesso persone di classe bassa afflitte dalle condizioni degradate del quartiere, dall’abbandono delle istituzioni, dalle condizioni di pericolo per la salute pubblica» (p. 39). Non è infrequente che dopo qualche atto criminale raggruppamenti fascisti e razzisti si adoperino per istigare le frange urbane più vulnerabili a individuare nelle comunità zingare un capro espiatorio.

«A livello sociale, Zingari, Rom e Traveller sono spesso rappresentati in modo idealizzato, le comunità sono viste come luoghi in cui il tempo e lo spazio non sono merci e possono fungere da struttura per il legame collettivo. Le persone gagé possono leggere le relazioni interpersonali zingare come “non capitalistiche” a causa della grande importanza data all’amicizia, alla convivialità, alla reciprocità, al sostegno e ad altri valori non materiali. Eppure, queste culture sono rappresentate dai media mainstream come brutali e materialiste, caratterizzate dall’avidità per l’oro e da un’eccessiva preoccupazione per il denaro. In questo caso, le persone gagé sottovalutano l’insicurezza economica in cui di solito vivono le persone zingare, che solitamente non possiedono beni immobiliari o altre garanzie. L’insicurezza economica spiega il fatto che le famiglie diano ancora oggi particolare importanza a beni e oggetti di valore che siano trasportabili, quando diventa necessario andarsene» (pp. 41-42).

Nel primo capitolo – Tradizioni patriarcali e ricerca intersezionale femminista – la studiosa-attivista si sofferma su alcune ricerche-azioni femministe contro la violenza domestica nei campi e nelle comunità zingare. «Le ricercatrici hanno raggiunto risultati significativi adottando una metodologia partecipativa, intersezionale e non eurocentrica» (p. 48). Tra le istituzioni promotrici vengono citate il Segretariato Gitano in Spagna e la Fondazione Brodolini in Italia.

«Progetti come Empow-air considerano la violenza un elemento strutturale delle società dominate dagli uomini a livello globale: “non esiste paese al mondo in cui le donne siano libere dalla violenza”. Tutte le società tendono a negare, legittimare o minimizzare la violenza contro le donne e questo contribuisce a mantenerle in una posizione subalterna. Ciò avviene anche nelle comunità zingare, sebbene la cultura non rappresenti in sé una spiegazione dell’esistenza del patriarcato, mentre è utile a capire i modi specifici in cui si articola ogni patriarcato. La ricerca-azione Empow-air ha dimostrato la necessità per l’attivismo di genere e per le femministe di concentrarsi su tutti i tipi di violenza che le Zingare devono fronteggiare oggigiorno, a partire da violenza di stato, molestie della polizia, attacchi di rom-fobia, sgomberi forzati dai campi, forme materiali e simboliche di razzismo istituzionale. Una pratica discorsiva sulla violenza in famiglia dovrebbe superare le resistenze e i comportamenti difensivi di donne e uomini di diverse età e status per le/i quali parlare di abusi domestici è ancora un tabù. La denuncia legale intentata dalla vittima è percepita come violazione della solidarietà di gruppo e causa la perdita di prestigio e d’immagine dell’intera comunità. Per queste ragioni, le/ gli attivisti gagé (non zingare/i) devono possedere competenze culturali, abilità, sensibilità e inclinazione per gli scambi interculturali; devono impegnarsi in una decostruzione costante dei propri privilegi in quanto Gagé, dei propri pregiudizi e comportamenti “da bianchi”. La Weltanschauung (visione del mondo) prodotta dalla cultura egemone, viene solitamente vissuta come “naturale” e influisce sul modo di percepire le altre culture. Il movimento femminista delle donne bianche aveva ritenuto politicamente importante la denuncia pubblica della violenza di genere, mentre le donne di colore e le comunità oppresse hanno dimostrato in molti casi che per loro è più utile un approccio diverso. La creazione di progetti di empowerment sensibili alle differenze etniche ha consentito la creazione di spazi sicuri dove poter parlare di questioni intime, sessualità, verginità, matrimoni precoci e molestie. Così sono emersi nuovi modi di affrontare la violenza domestica e sessuale, la formazione di gruppi di pressione tra pari per delegittimare il maschilismo, i comportamenti prevaricatori e gli stereotipi sessuali sulle donne nei discorsi tra soli uomini e negli spazi omosociali, tipici della mascolinità dominante» (pp. 48-49).

Nel secondo capitolo – Vent’anni di femminismo e attivismo di genere – Corradi prende in considerazione alcuni esempi di diffusione di una coscienza di genere, di nascita di gruppi reti di donne zingare e di forme specifiche di femminismo. «La libertà che negli anni Settanta il vento femminista ha portato con sé e che ha rimodellato le società dell’Europa occidentale sembrava non avere scosso le famiglie rom. Tuttavia, durante gli anni Novanta, dopo la riunificazione della Germania, fioriscono nuovi gruppi di donne zingare » (p. 62).
In particolare come esperienza transnazionale di successo viene indicata la rete International Roma Women Network le cui «attiviste, mettendo in discussione simultaneamente razzismo e disuguaglianze di genere, si impegnano a sensibilizzare sulle difficoltà e sui pregiudizi che le Rom affrontano sia nella società dello spettacolo sia nelle comunità rom tradizionali. La Roma Women Network è un modello di pratica femminista intersezionale guidata da Rom in collaborazione con non Rom, particolarmente utile per la costruzione di alleanze» (p. 70). Corradi sottolinea anche come «non tutte le attiviste rom impegnate nelle questioni di genere si definiscono femministe; alcune danno priorità alla lotta antirazzista o all’orgoglio etnico e sostengono i diritti delle donne solo su alcuni argomenti specifici. Oggi, le attiviste di genere rom possono articolare le loro problematiche sia nell’ambito dei diritti umani delle donne sia in quello del femminismo globale» (p. 70).

Se il Terzo capitolo – Femminismo rom – è dedicato all’analisi di alcuni scritti collettivi sul femminismo rom pubblicati su riviste internazionali, il Quarto – Decolonizzare teoria e pratica femminista – si apre con le riflessioni della sociologa maori Linda Tuhiwai Smith che sottolinea come «la produzione di conoscenze accademiche, saperi e prassi di ricerca» risulti ancora decisamente «influenzata dalle priorità e dai valori europei nati durante l’Illuminismo. Alla base della supremazia culturale euro-atlantica risiede la nozione di scienza fondata sulla razionalità, ritenuta forma superiore di conoscenza, a discapito di esperienza e intuizione. La persistenza dell’egemonia occidentale trova radici nel costrutto gerarchico che distingueva i colonizzatori dai colonizzati, le persone bianche dalle non-bianche, i sovrani dai subalterni e, all’interno di tutte queste categorie, le donne dagli uomini» (p. 85).
Negli ultimi decenni numerose ricercatrici e attiviste sono giunte a condividere la necessità di decolonizzare il sapere, la teoria e anche il femminismo. Corradi ricorda come «le donne zingare, le donne nere, indigene, aborigene e maori hanno messo in discussione l’uso della parola “femminismo”. Ciò che si può ritenere una tematica o una lotta femminista varia notevolmente in base al contesto culturale. […] Di fatto, mentre alcune attiviste di genere e donne leader si definiscono femministe, altre non amano l’espressione femminismo, che può apparire antagonista o minacciosa agli uomini e alle donne della propria comunità. Alcune attiviste di genere percepiscono il femminismo come storicamente legato all’eredità e al lessico delle donne bianche; in passato il termine implicava un rischio di sovra-determinazione, l’imposizione di una progettualità non condivisa» (p. 86). Il capitolo indaga pertanto le modalità di ricerca e di attivismo femminista in grado di fare i conti con tale complessità.

Il Quinto capitolo – Gypsy queer – affronta le condizioni e le aspirazioni delle persone queer. Se in generale «le persone che mostrano preferenze sessuali o identità di genere “non conformi” tendono a essere escluse dalla famiglia e dalla comunità» (p. 96), ciò, sostiene Corradi, accade anche nelle comunità zingare. «L’identità di genere e l’orientamento sessuale sono argomenti delicati, nel contesto culturale rom e gitano, difficili da ricostruire storicamente, perché mancano le fonti» (p. 96). A partire dal particolare tipo di identità gypsy e queer, Corradi ricorda come «essendo collettività senza stato, sia le persone zingare che le persone queer non hanno paese, eserciti o confini stabiliti. Le bandiere zingare, come le bandiere queer, rappresentano luoghi dell’anima. Nella lotta del popolo kurdo di Rojava sono emerse teorie politiche sul superamento dello stato, forma storicamente obsoleta, a favore di federazioni di comunità di gruppi etnici e religiosi diversi. Tali idee di democrazia diretta e di autogoverno sono state messe in pratica da donne e uomini kurde/i in una situazione di resistenza drammaticamente difficile, contro lo stato islamico (Daesh) e la politica fascista e genocida della Turchia. L’interesse internazionale per il federalismo democratico della Federazione Rojava nella Siria del nord può essere spiegato grazie all’accento posto sull’interculturalità, l’inter-confessionalità e l’impegno a superare costituzionalmente le disuguaglianze di classe e di genere. In effetti, il Rojava Social Contract (Carta costituente della Federazione), firmato da diversi gruppi etnici, esige cooperazione, diritti delle donne e valorizzazione delle diversità. Potrebbe diventare fonte di ispirazione anche per le comunità zingare apolidi, per lo sviluppo dell’autogoverno e di nuove alleanze» (p. 107).

Il Sesto capitolo – Invisibilità accademica, epistemologia zingara e importanza del meticciato – è dedicato alla necessità di «decolonizzare la conoscenza e disconnettersi dalla cultura dominante» visto che «la maggior parte degli studi rom sono ancora controllati da studiosi/e bianchi/e non rom, che le università sono ancora luoghi coloniali, appannaggio delle classi benestanti, dove le élite culturali e le gerarchie accademiche difendono i loro privilegi» (p. 112).

Nel Settimo capitolo – Body politics, media-attivismo e riappropriazione dei significati – l’autrice-attivista, vista la portata della cultura visuale sulla società attuale, si sofferma sull’importanza che, nell’ambito della politica del corpo, riveste per le femministe il monitoraggio e l’analisi dei contenuti dei media. Il capitolo si sofferma, inoltre, sulla creazione da parte femminista di «nuovi media in grado di produrre conoscenze, idee e immagini» ricordando come la riappropriazione del corpo, «dopo la schiavitù e la persecuzione, l’annichilimento e l’inferiorizzazione delle persone zingare [abbia] un notevole peso anche da un punto di vista semiotico» (p. 120). Pertanto, suggerisce Corradi, il «fiorire di reti di donne zingare e di blogger femministe e attiviste di genere» (p. 120) deve essere assolutamente essere percepito come importante indicatore di un cambiamento in atto. «Nell’ambiente artistico le immagini stereotipate di donne e uomini zingari e gli standard di bellezza ufficiali vengono rifiutati e prende piede, a più livelli di coscienza ed espressione, una ri-significazione autogestita e liberatoria del corpo zingaro, dalla danza al teatro, dall’arte di strada alla fotografia. L’oppressione materiale e semiotica vissuta dalla comunità zingara ha prodotto una ri-significazione di segni, gesti e oggetti di riconoscimento: vestiti, capelli, e gesti. Rivendicarli ha l’effetto di ri-nobilitare un intero processo di adattamento a condizioni avverse» (pp. 123-124).

In conclusione, il volume realizzato da Corradi analizza «il contributo del femminismo delle Zingare mettendo in luce alcune idee, progetti, forme di azione, esperienze e conoscenze elaborate nella specificità dei margini rom, gypsy e traveller, dove nascono nuove prospettive epistemologiche al crocevia fra razza/etnia, genere, classe, età, sessualità, status, religione e diverse abilità. Il femminismo delle Zingare è utile per riflettere in modo inclusivo sulla società, su teorie e metodologie di ricerca-azione, sulle politiche antirazziste e sulle alleanze fra comunità oppresse » (p. 129). «Il protagonismo etnico e non-etnico delle Zingare ha riconfigurato l’agentività politica e l’attivismo di genere, dando vita a varianti geografiche in rapido mutamento. In questa rinascita sociale delle comunità rom, gitane, sinte e traveller, l’emergere del femminismo delle Zingare costituisce un momento di autoriflessione all’interno delle comunità e aiuta a costruire ponti verso il mondo esterno, processi cruciali in un momento in cui le comunità vengono sottoposte a varie forme di controllo» (p. 130).

Corradi individua tre fattori che rendono significativa l’azione femminista zingara. Il primo ha a che fare con l’incremento dei fenomeni di antizingarismo e dii attacchi razzisti/xenofobi. A tal proposito i media insistono spesso nel denunciare il permanere delle comunità in uno stato di arretratezza culturale e tendono a sfruttare i casi di violenza di genere «per spettacolarizzare un evento e rappresentare gli uomini rom come brutali, criminalizzando l’intera comunità» (p. 130). Secondo Corradi il femminismo delle Zingare permette di mantenere «la direzione del cambiamento verso il rispetto per le differenze, l’empowerment e la coesione sociale nelle comunità e insieme facilita la comunicazione con il mondo esterno sulle questioni di genere» (p. 130). Il secondo fattore per cui il femminismo delle Zingare risulta fondamentale «riguarda la consapevolezza culturale della complessità dei processi alla base della formazione dell’identità, accompagnata da una diversa considerazione per le opere d’arte e la musica, le memorie e il linguaggio, nonostante il rischio di mercificazione cui sono esposti gli artefatti culturali. Anche in questo caso, considerata la costruzione di genere delle pratiche di lavoro, dei segni etnici e delle identità sociali, le femministe zingare offrono utili strumenti di autoriflessione e forme decisionali partecipative, una volta chiarito che le identità (e tutto ciò che esse producono sul piano materiale e simbolico) non sono in vendita» (p. 130). Il terzo fattore per cui «il femminismo delle Zingare si rivela essenziale consiste nel fatto che nessuna comunità può superare un’oppressione secolare conservando forme di assoggettamento interne. Il contributo dell’intelligenza e dell’abilità delle donne nella vita sociale e nei processi decisionali collettivi, così come nelle famiglie, è una risorsa vitale per la piena fioritura di una primavera zingara (Roma Spring). Lo stesso si può dire per le pratiche inclusive che riguardano coloro che vengono percepite/i come “diverse/i”. La lotta per il rispetto sociale non può venire vanificata da atteggiamenti marginalizzanti all’interno delle comunità. Le persone zingare queer non meritano l’esclusione né l’umiliazione, devono essere accettate come componenti della famiglia e del gruppo di pari» (p. 131).

Il femminismo delle Zingare, dunque, secondo Corradi, «offre la possibilità di allargare le prospettive in termini di intersezionalità a coloro che hanno a cuore la lotta contro tutte le disuguaglianze sociali. Esso è fonte di ispirazione per la sua capacità di costruire coalizioni, grazie alle particolari qualità di resilienza sviluppate in diversi paesi europei e al transnazionalismo che le donne rom, sinte, e traveller incarnano. Le loro prospettive sono importanti sia per qualsiasi discorso politico sul superamento dello stato sia nel dialogo tra femminismi etnici e non etnici, nei “sud del mondo” come ovunque. Il femminismo delle Zingare trascende i confini, sfida i pregiudizi geografici occidentali e gli atteggiamenti eurocentrici partendo da un punto di vista molteplice e mutevole, quello di un “quarto mondo” recente ma con radici antiche» (p. 131).

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Rapporto su una guerra già da lungo tempo in atto 1/2 https://www.carmillaonline.com/2018/10/11/rapporto-su-una-guerra-gia-da-lungo-tempo-in-atto-1-2/ Thu, 11 Oct 2018 19:30:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49156 di Sandro Moiso

Tra il 5 e il 7 ottobre si è svolto nel Salento un workshop internazionale dal titolo “Policing extractivism: security, accumulation, pacification”, già precedentemente annunciato su Carmilla (qui). Nata dalla collaborazione tra il Movimento No Tap, il Transnational Institute, l’Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia e l’Università del Salento-Cedeuam, l’iniziativa, chiusasi con un’assemblea popolare a Melendugno nel pomeriggio di domenica 7 ottobre, ha visto la partecipazione di accademici, rappresentanti di vari movimenti in difesa dei territori sconvolti dallo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie o agricole oppure da grandi opere inutili e dannose e di organizzazioni internazionali [...]]]> di Sandro Moiso

Tra il 5 e il 7 ottobre si è svolto nel Salento un workshop internazionale dal titolo “Policing extractivism: security, accumulation, pacification”, già precedentemente annunciato su Carmilla (qui). Nata dalla collaborazione tra il Movimento No Tap, il Transnational Institute, l’Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia e l’Università del Salento-Cedeuam, l’iniziativa, chiusasi con un’assemblea popolare a Melendugno nel pomeriggio di domenica 7 ottobre, ha visto la partecipazione di accademici, rappresentanti di vari movimenti in difesa dei territori sconvolti dallo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie o agricole oppure da grandi opere inutili e dannose e di organizzazioni internazionali che si battono in difesa della Terra e dei diritti dei popoli che la abitano, che hanno dato vita e corpo ad un programma e a un dibattito intenso e mai scontato.

L’attività del workshop, che è stata preceduta il 4 ottobre da una visita al cantiere di San Basilio da parte di una folta delegazione internazionale, ha visto rappresentato al proprio interno gran parte del mondo occidentale, considerato che sia gli accademici che i militanti dei movimenti e delle differenti organizzazioni (tutte rigorosamente apartitiche) provenivano dall’Italia, dalla Francia, dal Regno Unito, dall’Olanda, dal Canada, dagli Stati Uniti, dal Perù e dall’Argentina e, pur con le dovute differenze e specificità locali e nazionali, ha potuto dare vita ad un confronto sui temi dell’estrattivismo inteso come sfruttamento sia agricolo che speculativo dei suoli sia, ancora, come estrazione vera e propria di ricchezza dall’uso dei sottosuoli tramite l’estrazione di materie prime (gas e petrolio in primis), mettendo costantemente in luce come tale accaparramento privato delle ricchezze così prodotte non solo vada a colpire economicamente le comunità interessate, ma anche, e forse in maniera ancora più dannosa, l’ambiente e il futuro delle stesse, locali o nazionali che esse siano.

Il quadro che ne è uscito, mettendo in relazione tra di loro lo sfruttamento dell’ambiente e la repressione di coloro che si oppongono a tali perniciosissime politiche economiche, è quello di un mondo già sostanzialmente in guerra. Una guerra, come affermava il titolo del manifesto di convocazione, invisibile ma non per questo meno pericolosa, devastante e spietata di quelle apertamente combattute già, e forse ancor di più in futuro, in varie aree del pianeta.

Una sorta di autentica guerra civile preventiva combattuta dai governi in nome della sicurezza e del benessere, se non addirittura dei diritti, dei propri cittadini che, troppo spesso finiscono col costituire invece proprio l’autentico nemico interno se soltanto osano opporsi a tali nefande decisioni e speculazioni. Sia economiche che politiche.

Proprio per questi motivi, lo sforzo collettivo è stato quello di chiarire e chiarirsi meglio il significato reale di termini quali ‘estrattivismo’ e ‘pacificazione’ sia sul piano politico che giuridico, economico, storico e sociale. Verificando come, pur prendendo corpo attraverso gradi e modi diversi di attuazione, tali temi costituiscano elementi fondamentali per comprendere i gravi conflitti sociali ed economici che contraddistinguono le società odierne. Sia che esse si trovino in una fase di sviluppo capitalistico, quali quelle asiatiche, sia che esse siano in una fase di crisi quali quelle occidentali, tanto nel Nord quanto nel Sud del mondo.

Pur senza entrare per ora nello specifico dei singoli interventi, che saranno presentati sia on line che in una prossima pubblicazione cartacea, si può comunque affermare che si sono potute cogliere similitudini e differenze che rinviano comunque ad un ordine mondiale autoritario, antidemocratico e decisamente rivolto ad uno sfruttamento sempre più intensivo delle risorse del pianeta, siano esse agricole o di carattere minerale, e della forza lavoro necessaria a trasformarle in ricchezze accumulabili.

Poiché riassumere insieme tutti i singoli e più che numerosi interventi potrebbe richiedere uno spazio ben maggiore di quello possibile sulle pagine di Carmilla, occorre concentrare qui l’attenzione sui due termini dominanti il convegno cercando di riassumere ed estrapolarne al meglio le valenze e i significati attribuitigli dai redattori e dai differenti partecipanti al dibattito.

Iniziamo dunque dal termine ‘estrattivismo’ che più che distinguere una nuova fase del capitalismo riesce in realtà a riassumere al meglio quelle che sembrano essere le caratteristiche dello stesso sia nel passato che nel presente e nell’immediato futuro.
Infatti se ci limitiamo a considerare l’estrattivismo come lo strumento attraverso il quale il capitale nutre la propria accumulazione di valore attraverso lo sfruttamento delle risorse minerarie e dell’agricoltura occorre, allora, considerare che questo ha già di per sé una data piuttosto antica di inizio: il 1492. Anno in cui l’America meridionale, poi detta Latina, iniziò a veder sfruttate le popolazioni indigene, spesso poi sterminate e sostituite con schiavi introdotti da altre parti del mondo, insieme ai suoi territori ricchissimi sia sul piano minerario che su quello della produttività dei terreni messi a coltura. Proprio come hanno sostenuto, di fatto, tutti i relatori che hanno parlato di quel continente o che da esso provenivano.

La novità potrebbe essere invece costituita dal fatto che l’estrattivismo, al di là della tradizione di estrazione di ferro e carbone dalle aree del centro e nord Europa, è oggi tornato a giocare un ruolo importantissimo per la valorizzazione del capitale proprio nel continente da cui la conquista del Nuovo Mondo era iniziata. Un estrattivismo che sembra costituire una nuova strategia per la messa a valore di aree precedentemente ritenute marginali rispetto alle aree industriali delle maggiori nazioni e metropoli dell’impero d’Occidente e che oggi, nonostante la loro fragilità ambientale e, spesso, geologica vengono utilizzate per estrarre dal territorio e dal suo sfruttamento quel valore che, a causa della deindustrializzazione e la delocalizzazione delle fabbriche in altre aree del globo, non è più possibile estrarre dalle aree, coincidenti spesso con le maggiori metropoli, un tempo fortemente caratterizzate dalla presenza dell’industria.

Estrattivismo che, oltre allo sfruttamento degli scisti bituminosi tramite fracking che sembra ormai destinato a devastare vaste aree, un tempo agricole, del Regno Unito e degli Stati Uniti, può anche consistere nella sostituzione delle colture tradizionali con forme di agricoltura intensiva e devastante come quella proposta proprio nel Salento in sostituzione di quella collegata agli olivi secolari e attaccata ‘scientificamente’ ed economicamente con la scusa della diffusione della xylella. Oppure nello sviluppo delle cosiddette grandi opere (alta velocità in Val di Susa, condutture di gas ad alta pressione che dovrebbero attraversare intere nazioni e continenti come il TAP, enormi depositi di scorie nucleari come quello di Bure in Francia solo per fare alcuni esempi) inutili, dannose, devastanti per l’ambiente e le specie che lo abitano. Compresa quella umana.

Ma ‘estrattivismo’ rinvia in fin dei conti alla motivazione primaria di ogni capitalismo storico, nazionale o multinazionale ovvero a quella estrazione di valore (e plusvalore) che può avvenire tramite ogni attività economica: sia essa produttiva o speculativa, legata alla rendita fondiaria o finanziaria oppure alla semplice speculazione, anche nelle sue forme criminali o mafiose. Definizione quest’ultima che, va qui chiarito subito, se male interpretata, potrebbe far credere che esistano due capitalismi: uno buono e legale e un altro cattivo e illegale. Mentre in realtà da sempre, e in maniera ancora più accelerata oggi, l’estrazione di valore e plusvalore costituisce sempre il risultato di un’azione arbitraria di appropriazione da parte dei singoli o degli stati nei confronti di quelli che dovrebbero essere considerati “beni comuni” e della ricchezza socialmente prodotta dal lavoro umano.

Estrattivismo che troppo spesso si è accompagnato all’ideologia lavorista e progressista che il movimento operaio ha condiviso, più o meno inconsciamente, con il suo avversario storico e i suoi portavoce, e che proprio nel dramma dell’ILVA di Taranto, ancora una volta in Puglia, ha visto una profonda e perniciosa divisione attraversare il mondo del lavoro e gli abitanti della città in nome del lavoro e dello sviluppo da un lato e della difesa della vita, della saluta e dell’ambiente dall’altro. Dimostrando come l’incapacità di una fetta cospicua di classe operaia e di tutti i suoi partiti di andare realmente oltre il modello di sviluppo capitalistico e del suo immaginario (politico, giuridico, economico e scientifico) possa ancora costituire un atto di forza violentissimo in favore del modo di produzione vigente. Tanto nelle nazioni di vecchia industrializzazione ed accumulazione, quanto in quelle in cui opera un mai abbastanza criticato e compreso socialismo del XXI secolo, nazionalista ed estrattivista, come ha sottolineato con dovizia di dati Juan Kornblihtt dell’Università di Buenos Aires nella sua relazione su «Rendita fondiaria e lotta di classe sotto i governi ‘alternativi al neoliberalismo’ in America Latina».

Estrattivismo contro il quale nemmeno le costituzioni, in cui troppo spesso i militanti e cittadini continuano a credere fideisticamente, possono costituire un baluardo e che, anzi, finiscono con l’esserne, più che vittime, complici. Come ha sostenuto, in un intervento profondo e meditato sul tema «Il Diritto costituzionale del nemico», il prof. Michele Carducci dell’Università del Salento.
Intervento durante il quale Carducci ha richiamato l’attenzione sulla necessità di uscire dall’immaginario giuridico che fonda le leggi attuali e gli stessi diritti umani per giungere ad una differente concezione del Diritto e dei doveri, basata sostanzialmente su altri parametri, in cui il rispetto di quella che ha chiamato Madre Terra (così come molti altri relatori) vada di pari passo con lo sviluppo di un differente ordine sociale e di condivisione dei beni e delle ricchezze.

Soprattutto in un paese come l’Italia, dove il vero proprio assalto in corso ai territori e all’ambiente, dalla Basilicata a tutto il mare Adriatico, dal Salento alla Pianura Padana è ancora sostanzialmente regolamentato da un Regio Decreto del 1927 (caso mai qualcuno avesse ancora qualche dubbio tra la sostanziale continuità tra Repubblica e Fascismo), come ha dimostrato il prof. Enzo Di Salvatore, dell’Università di Teramo, nel suo intervento su «Estrazione del petroli e diritti: il caso italiano».

Occorre a questo punto sospendere, per ragioni di spazio e di tempo del lettore, il discorso fin qui condotto per affrontare l’altro termine su cui si è concentrato il workshop: ‘pacificazione’ che, per l’appunto è quasi indivisibile dal primo. Ovunque infatti l’estrattivismo come forma primaria o anche solo importante dell’estrazione di valore dal territorio e di chi viene lì sfruttato, sia lavorativamente che dal punto di vista delle proprietà piccole o comuni espropriate, la pacificazione sembra diventare l’indispensabile corollario politico, militare, poliziesco ed economico del primo.

Mark Neoucleous, della Brunei University di Londra, nella sua relazione dedicata al tema «Cos’è la pacificazione?», ha richiamato alla memoria di tutti i partecipanti che il termine fece la sua prima comparsa durante la guerra del Vietnam, che gli americani intendevano ‘pacificare’.
Il termine, infatti, racchiude in sé la definizione di differenti e variegati sistemi di riduzione alla ragione (propria del capitalismo e dell’imperialismo) di tutti i possibili avversari.

Dall’Azerbaijan al Nord Europa, tanto per seguire il percorso del gasdotto Trans-Adriatico (in inglese Trans-Adriatic Pipeline da cui l’acronimo TAP) le forme della pacificazione possono variare enormemente per modalità, intensità e violenza. Dalle librerie e dalle case distrutte dalle ruspe quando in esse siano anche solo stati presentati da parte dell’opposizione libri o autori invisi al regime di Ilham Aliyev, autentico presidente padrone dello Stato, al regime dittatoriale di Erdogan in Turchia e alle manganellate democraticamente distribuite nel Salento contro i manifestanti, su su fino all’arrivo del gas previsto in Germania la repressione poliziesca e militare può assumere, nonostante tutto, un diverso grado di intensità, comunque sempre insopportabile.

Ma d’altra parte anche nella patria della democrazia borghese, il Regno Unito, mica si scherza, come hanno dimostrato con filmati e descrizioni più che dettagliate Kevin Blowe del Network for Police Monitoring, con la sua relazione su «Lezioni dalla criminalizzazione dell’opposizione al fracking nel Regno Unito», e William Jackson, della John Moore University di Liverpool, parlando su tema «Rendere sicura l’estrazione: l’uso dell’ordine pubblico per il fracking nel Regno Unito».
Che in qualche modo si ricollegavano a quanto già detto da Mark Neocleous quando non ha mancato di ricordare come nella stessa Gran Bretagna negli ultimi anni ci siano stati 1600 decessi tra coloro che si trovavano in una condizione di detenzione preventiva.

Se l’avvocato Elena Papadia e Xenia Chiaramonte dell’Università di Bologna hanno dettagliatamente descritto le proporzioni e le forme delle repressione nei confronti dei difensori della terra sia nel Salento che in Val di Susa, rimane sempre l’America Latina l’area occidentale in cui si sviluppa maggiormente la violenza repressiva nei confronti dei movimenti di resistenza, soprattutto indigeni. Infatti sia Kornblihtt che il peruviano David Velazco, avvocato e membro dell’Osservatorio dei conflitti minerari per l’America Latina, hanno sottolineato come nella scala repressiva siano spesso i popoli indigeni a pagare il prezzo più alto della repressione statale. Così Maria del Carmen Verdù, del Coordinamento contro la repressione poliziesca e istituzionale in Argentina, sottolineando la continuità della tradizione repressiva nei confronti dei popoli indigeni (ad esempio dei Mapuche), ha riportato l’attenzione sul fatto che nell’Argentina ‘democratica’ e post-dittatoriale dagli anni Ottanta ad oggi ci siano stai almeno duecento desaparecidos e migliaia di morti ammazzati durante le operazioni di repressione messe in atto dalla polizia e dalle forze paramilitari nei confronti delle varie resistenze sviluppatesi nel paese sia sul piano economico che su quello ambientale e territoriale.

Ci sono poi territori in cui l’estrattivismo, inteso come messa a resa di un territorio e il suo sfruttamento non soltanto minerario o agricolo, e pacificazione si fondono in un tutt’uno come nel caso della Palestina e della striscia di Gaza in particolare. Un territorio in cui il vero e proprio furto dell’acqua messo in atto da parte israeliana nei confronti dei Palestinesi, come ha dimostrato Mia Tamarin, dell’Università del Kent, con la sua relazione su «La mercificazione dell’acqua come processo di pacificazione del conflitto. Il caso israelo-palestinese», si accompagna ad uno sfruttamento del territorio e dei suoi abitanti come autentico laboratorio di prova per armi e nuove tecnologie di controllo sviluppate non soltanto in Israele, ma negli Stati Uniti e nel resto del mondo occidentale, come ha sostenuto Rhys Machold, della Università di Glasgow, nel suo intervento sul tema «La globalizzazione della conoscenza delle forze di polizia». Contribuendo così a chiarire una volta per tutte le ragioni del silenzio degli stati ‘democratici’ nei confronti della sanguinosa repressione messa in atto dalle forze militari e poliziesche israeliane delle marce del rientro messe in atto quest’anno dai Palestinesi. Una sorta di autentico showroom a cielo aperto destinato a pubblicizzare le più moderne tecniche repressive.

Si può poi trarre valore dalla pacificazione in sé? A quanto pare sì, se è vero, e lo è certamente, ciò che ha affermato Ben Hayes, del Transanational Institute di Londra, con la sua presentazione del progetto dello stesso istituto londinese sui temi della guerra e della pacificazione, che ha sostenuto come le attuali politiche di sicurezza costituiscano non solo uno stato di guerra permanente che spinge verso forme sempre più autoritarie e totalitarie di governo, ma anche una vera e propria nuova corsa agli armamenti in cui le aziende sono stimolate a proporre nuove armi, nuovi sistemi di intelligence e raccolta dati e nuove tecniche di controllo dell’ordine pubblico e del territorio.

Ma non solo poiché anche Mark Neoucleous e Tia Dafnos, dell’Università di New Brusnwick in Canada, hanno ulteriormente sottolineato come la frammistione tra forze dell’ordine istituzionali e agenzie di sicurezza private porti sempre più in direzione di un autentico business della repressione. In una sorta di circolo infernale in cui la necessità di estrarre valore dai territori richiede una politica della sicurezza che a sua volta è principalmente organizzata per produrre valore proprio in quanto tale. Cosa che ci narra molto più di quanto di solito pensi sull’attuale crisi del modello capitalistico di sviluppo in Occidente e del suo processo di accumulazione. Una sorta di estrazione di plusvalore dagli agenti della repressione che ricorda molto da vicino il popolare detto del “cavar sangue dalle rape”.

Operazione che, soprattutto negli Stati Uniti, come ha rilevato Brendan McQuade della Cortland State University di New York (SUNY) con la sua esposizione sul tema «La nuova COINTELPRO1 e i moderni Pinkertons. L’azione politica della polizia negli Stati Uniti», ha portato a forme sempre più invasive di controllo sociale e del territorio. Tanto da dar vita, in alcuni casi a comunità che si armano per difendersi dall’eccesso di attenzioni dello Stato e delle agenzie, anche private, di sicurezza e intelligence. Utilizzando probabilmente in questo senso il secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti2 che, a giudizio di chi scrive, troppo spesso e soprattutto da una sinistra scarnificata di tutti i suoi contenuti antagonistici, è visto soltanto come espressione della violenza privata e degli interessi dell’industria americana delle armi. Dimenticando che esso, approvato nel 1791, si ricollegava direttamente a quella parte della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 che recita così: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità».

Ma è ancora una volta proprio in America Latina che il collegamento tra forze di polizia statali e agenzie private ha portato a situazioni in cui le stesse forze di polizia istituzionali firmano contratti privati con le imprese di cui dovranno poi proteggere gli interessi, gli investimenti e le proprietà, mentre sempre più spesso le agenzie private di sicurezza legate alle imprese che si occupano di idrocarburi e di estrazione mineraria partecipano direttamente alle operazioni di polizia nei territori interessati dalle proteste, dalle rivendicazioni e dalle lotte dei lavoratori e delle popolazioni indigene. In particolare in Perù, come ha sostenuto David Velazco con la sua relazione su «Criminalizzazione e repressione delle proteste in Perù»; che ha anche ricordato che l’uso del termine pacificazione fu usato per la prima volta nel suo paese per definire a suo tempo l’azione di governo nei confronti di “Sendero Luminoso”.

(Fine della prima parte – continua giovedì prossimo 18 ottobre)


  1. COINTELPRO sta per Counter Intelligence Program, programma che dal 1956 fino al 1971 il Federal Bureau of Investigation (FBI) ha portato avanti nel settore dell’infiltrazione e del controspionaggio  

  2. «Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto»  

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Haiti non esiste: i rifugiati haitiani alla frontiera di Tijuana https://www.carmillaonline.com/2016/11/23/haiti-non-esiste-rifugiati-haitiani-alla-frontiera-tijuana/ Tue, 22 Nov 2016 23:00:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34812 di Caterina Morbiato (foto di Heriberto Paredes)

haitiani-tijuana-1Tijuana é la cittá di frontiera per antonomasia: un approdo per naufraghi arrivati da ogni dove alla ricerca di un nuovo inizio o una nuova partenza. Esplorare le sue strade significa impastarsi le mani di una belleza sordida, nata dal transito di culture e di lingue che si ibridano e si contaminano. La frontiera plasma Tijuana con il continuo transito di genti diverse: ora i deportati dagli Stati Uniti; ora gli sfollati messicani che fuggono da zone seviziate dal narco e che cercano, invano, di essere [...]]]> di Caterina Morbiato (foto di Heriberto Paredes)

haitiani-tijuana-1Tijuana é la cittá di frontiera per antonomasia: un approdo per naufraghi arrivati da ogni dove alla ricerca di un nuovo inizio o una nuova partenza. Esplorare le sue strade significa impastarsi le mani di una belleza sordida, nata dal transito di culture e di lingue che si ibridano e si contaminano. La frontiera plasma Tijuana con il continuo transito di genti diverse: ora i deportati dagli Stati Uniti; ora gli sfollati messicani che fuggono da zone seviziate dal narco e che cercano, invano, di essere riconosciuti come rifugiati; ora i migranti centroamericani che incarnano una crisi umanitaria che sembra non avere fine. Basterebbe osservare chi si muove attraverso e attorno a el bordo -come a Tijuana chiamano il confine, distorcendo la parola inglese “border”- per intuire quello che succede nell’intera regione. Da qualche mese una nuova presenza si somma a questa eclettica fusione di umanitá: sono le centinaia di uomini e donne haitiani che arrivano giornalmente dopo aver intrapreso un viaggio interminabile. Chi non riesce a trovare posto nei diversi centri di accoglienza, dorme in piccoli hotel o case di privati che hanno improvvisato alloggi informali, ma in molti si ritrovano a passare la notte per strada. Secondo l’Istituto Nazionale di Migrazione messicano da maggio di quest’anno ad oggi circa 14mila haitiani sarebbero entrati in Messico; a Tijuana sarebbero circa 6mila e ulteriori arrivi sono previsti nei prossimi mesi a causa dei danni provocati dall’uragano Matthew che a inizio ottobre si é abbattuto sull’isola.

haitiani-tijuana-5Quella haitiana é una migrazione forzata dovuta a condizioni di vita insostenibili: da anni sono migliaia le persone che decidono di cercare fortuna altrove a causa della profonda instabilitá politica, economica e sociale. L’espropriazione delle terre da destinare a megaprogetti turistici di lusso finanziati da imprese internazionali, il buco nero in cui sono scomparse le donazioni piovute a fiotti per l’emergenza del terremoto del 2010, un regime salariale da fame e l’insicurezza dilagante, sono solo alcune delle calamitá che pesano su Haiti.

Le migliaia di migranti che in questi mesi stanno approdando a Tijuana sperano di poter dare il passo finale ed essere accolti come richiedenti asilo negli Stati Uniti. Dal 22 settembre scorso la situazione si é peró complicata: il governo USA ha dato il via a una repentina manovra di chiusura delle frontiere, revocando lo stato di protezione temporanea (TPS) che dal 2012 veniva concesso alla popolazione haitiana a causa della devastazione provocata dal terremoto.

 Il viaggio

Gli Stati Uniti non sono stati l’unico paese ad offrire permessi di soggiorno: dopo il terremoto, che provocó circa 250mila morti, anche diversi paesi latinoamericani aprirono le porte alla popolazione haitiana. In Brasile le circostanze sono risultate piuttosto proficue per l’economia nazionale: molti degli sfollati haitiani hanno trovato impiego nella costruzione delle infrastrutture dei mondiali di calcio del 2014, per cui era necessaria manodopera a basso costo e in abbondanza. La carenza di politiche pubbliche in materia d’accoglienza ha aggravato le condizioni dei migranti, propiziando ostilitá e rigurgiti xenofobi da parte della popolazione brasiliana. Negli ultimi anni sono stati denunciati diversi casi di “lavoro schiavo” -in cui imprese private mantenevano i lavoratori haitiani in condizioni di vita degradanti- anche se la maggioranza delle situazioni di sfruttamento estremo continua a rimanere sommersa. La crisi economica e politica in cui negli ultimi tempi é sprofondato il Brasile ha determinato l’espulsione massiccia dei lavoratori meno qualificati, rimasti presto disoccupati. Migliaia di haitiani hanno cosí iniziato a lasciare il gigante del sud per mettersi nuovamente in viaggio; lo stesso é accaduto con altri paesi latinoamericani. La maggior parte dei migranti che ora cercano di raggiungere gli USA non parte da Haiti ma si ritrova a migrare per la seconda o terza volta, in preda alla volatilitá del capitale.

haitiani-tijuana-6Angel Jean Louis é un uomo di bassa statura dagli zigomi forti e i gesti misurati, sicuri. Come molti altri suoi connazionali che ora si ritrovano concentrati a Tijuana, anche lui ha lasciato Haiti da tempo. Racconta la sua storia in uno spagnolo impeccabile, dalla forte cadenza caraibica; di tanto in tanto pesca una parola in portoghese poi una in francese. É nato 45 anni fa a Cap-Haïtien, il secondo porto del paese, dove é propietario di un piccolo terreno. La sua é stata una transumanza costante: fin da bambino ha fatto il pendolare tra Haiti e la Repubblica Dominicana, poi mettendo su famiglia da un lato e facendo ogni tipo di lavoro dall’altro. Nell’ottobre del 2014 ha deciso di cercare fortuna in Brasile; la crisi peró si faceva ormai sentire e dopo aver lavorato come impiegato in un centro commerciale, poi in un’industria di prodotti alimentari e infine come muratore, ha scelto di migrare ancora. Il salario minimo brasiliano (70 reales al giorno, equivalenti a circa 20 euro) e i periodi di disoccupazione sempre piú lunghi non gli permettevano di garantire una vita dignitosa ai quattro figli rimasti in patria.

La traversata verso nord porta i migranti haitiani a percorrere dai nove ai dieci paesi e a investire una media di 5000 dollari a persona. Angel Jean Louis e sua moglie sono partiti dalla frontiera di Rio Branco, tra Brasile e Perú; hanno attraversato l’Ecuador e la Colombia, dove sono stati rimbalzati indietro diverse volte prima di riuscire ad entrare a Panamá. Una volta in Costa Rica hanno camminato per una settimana nella selva armati di galloni d’acqua, gatorade, biscotti, riso e pentole per cucinare. Anche se non esiste un registro ufficiale, sono molte le persone che non riescono a sopravvivere alle inclemenze della foresta. Secondo i racconti di molti migranti il Nicaragua rappresenta il punto piú complicato del viaggio: da mesi il paese ha chiuso le frontiere agli haitiani e per attraversarlo bisogna affidarsi ai coyotes (persone che guidano i migranti attraverso le frontiere) locali che impongono un pedaggio di almeno 1500 dollari a persona e che spesso lavorano in accordo con gruppi di assaltanti.

haitiani-tijuana-3“Passare per il Nicaragua é un vero inferno -conferma Angel Jean Louis-: é pieno di reciniti elettrificati, molta gente muore nel cammino. Quando scappi dalla polizia non fai troppa attenzione a dove metti i piedi, scappi e basta perché se ti fermano ti portano indietro e perdi i soldi con cui hai pagato il coyote”. La frustrazione, l’attesa infinita nei centri d’accoglienza improvvisati lungo la frontiera, le condizioni sanitarie precarie e il rischio di essere derubati o sopresi dalle autoritá nicaraguensi, fanno sí che la situazione stia diventando una bomba a orologeria. Se il governo nicaraguese continuerá ad ostacolare il libero transito dei migranti, non solamente i prezzi imposti per attraversare il paese clandestinamente aumenteranno, ma nell’intera zona si potrebbe consolidare la tratta e il traffico di persone.

Honduras, Guatemala e Messico sono le ultime tappe di un percorso che puó durare dai due ai tre mesi. Il Messico -che i migranti attraversano a bordo di autobus di lunga percorrenza viaggiando per tre giorni consecutivi- si é trasformato nella frontiera finale di una crisi migratoria che ha iniziato a incubarsi da tempo e a cui nessun paese ha voluto prestare troppa attenzione.

Haiti non esiste

Bernard Deshommes é originario di Porto Principe, dove per anni ha gestito un emporio di vestiti che gli assicurava buoni incassi. Grazie agli studi e a una buona inclinazione per le lingue parla speditamente spagnolo, portoghese e inglese, oltre al creolo e al francese. Per problemi familiari ha deciso di lasciare il suo paese, passando prima dalla Repubblica Dominicana, poi per le Isole Vergini, nuovamente per la Repubblica Dominicana e arrivando poi in Cile, dove ha cercato lavoro come interprete ma senza successo, dice, per il forte razzismo che esiste nei confronti della popolazione nera. Dopo due mesi di viaggio per mezzo continente si vede deperito e assomiglia poco al ragazzo dallo sguardo serio e le guance piene che appare nella foto pubblica del suo profilo whatsapp.

Da diversi giorni aspetta con impazienza nel rifugio che hanno improvvisato i fedeli di una piccola comunitá evangelica incastonata nella Divina Provvidenza, un quartiere che si perde nelle vallate terrose del Canyon dello Scorpione, nella zona occidentale di Tijuana: poco lontano le sbarre del famoso muro che divide il Messico dagli Usa emergono arrugginite dalla spiaggia fino a perdersi nel mare come la spina dorsale di un grosso mammifero marino rimasto incagliato nella sabbia.

haitiani-tijuana-2Mentre racconta del viaggio e del suo paese, Bernard Deshommes sbotta con rabbia: “Haiti é parte del continente americano ma nessuno lo vuole riconoscere: il mondo non vuole ammettere che stiamo soffrendo. A nessuno piace abbandonare il suo paese, ma se mancano il lavoro, i servizi medici e non c’é sicurezza, che fai?”.

A causa del terremoto devastante del 2010 Haiti conquistó le prime pagine dei giornali per poi essere risotterrata nel silenzio generale. Nelle ultime settimane l’uragano Matthew ha provocato la stessa breve notorietá mediatica ed emergenziale: Haiti inizia ad esistere solo quando qualche catastrofe miete centinaia di vittime, per il resto sembra essere condannata all’invisibilitá. Eppure é stato il primo paese d’America ad abolire la schiavitú e il primo a dichiararsi indipendente: ogni paese latinoamericano nutre nei suoi confronti un debito storico e ideologico enorme. Nonostante i miliardi che la cooperazione internazionale ha fatto piovere sull’isola ogni qual volta si presentasse un’“emergenza umanitaria” Haiti non smette di essere la nazione piú povera dell’intero continente americano, occupando il 163° posto di 188 nella classifica dell’Indice di Sviluppo Umano.

Da oltre un decennio nel paese si convive con le truppe della Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti (MINUSTAH). Installata nel 2004 dopo la deposizione del presidente Jean-Bertrand Aristide, la missione é da piú parti considerata come una vera e propria occupazione di stampo umanitario. Negli anni la poca concretezza delle operazioni d’aiuto, gli abusi di cui sono spesso protagonisti i soldati e la militarizzazione del territorio -specialmente delle zone piú marginali- hanno suscitato un’opposizione popolare sempre piú dura. L’organizzazione haitiana femminista SOFA (Solidarity Fanmi Ayisèn) ha denunciato numerosi casi di violenza sessuale perpetrati dai soldati della MINUSTAH. Anche l’epidemia di colera scoppiata nel 2010 é da rimettersi alla presenza militare: dopo anni di disinformazione e depistaggi la ONU ha recentemente riconosciuto la responsabilitá dei caschi blu, in particolare del contingente nepalese, nella diffusione del batterio che in brevissimo tempo ha provocato la morte di almeno 9mila persone.

Bernard Deshommes ha lavorato per un breve periodo per la MINUSTAH, ma é un’esperienza della quale preferisce non parlare; secondo lui Haiti é un’isola sfortunata: “Ci sono momenti in cui vorrei cambiare nazionalitá: in certi paesi se dici che sei haitiano ti arrestano. Per questo diciamo che veniamo da altri paesi, come il Congo: lí c’é una guerra civile. Se ci riconoscono come congolesi possiamo sperare di ottenere asilo politico!” spiega, riferendosi alla strategia che moltissimi haitiani applicano quando sono registrati dalle autoritá migratorie dei diversi paesi che attraversano.

Deportati

haitiani-tijuana-4a recente chiusura della frontiera USA ha provocato la separazione di numerose famiglie: mentre donne e bambini sono stati fatti passare, la maggior parte degli uomini sono stati respinti o rinchiusi nei centri di detenzione per migranti da dove non riescono piú a comunicare con familiari e amici. Per la legge statunitense i richiedenti asilo possono essere ammessi nel territorio nazionale per poi venir detenuti se non possiedono i documenti sufficienti o nel caso in cui non riescano a dimostrare una “paura credibile” di persecuzione; nel caso dei richiedenti asilo haitiani il rischio della detenzione e della deportazione, alto fin dall’inizio, si é concretizzato bruscamente pochi giorni fa. Nonostante le ferite dell’uragano Matthew siano ancora fresche, nell’ultima settimana gli Stati Uniti hanno silenziosamente dato il via alle deportazioni. I primi voli stanno giá atterrando tra le migliaia di sfollati, la scarsitá di scorte alimentari e le nuove ondate epidemiche di colera che imperversano nell’isola. I migranti non solo verranno deportati nel mezzo di una grave crisi, ma molti di loro si ritroveranno a vivere in un paese che hanno lasciato ormai da anni. Con le recenti elezioni negli Stati Uniti muri e deportazioni tornano all’ordine del giorno, intanto a Tijuana la temperatura sta iniziando a scendere e le notti si fanno gelide.

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Se i migranti sono gli europei: apocalissi future per la disumanità del Potere https://www.carmillaonline.com/2016/11/20/migranti-gli-europei-apocalissi-future-la-disumanita-del-potere/ Sat, 19 Nov 2016 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34370 di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che [...]]]> di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che Arpaia abbia utilizzato la stessa strategia attuata a suo tempo da George Orwell in 1984: ambientare un racconto nel futuro per denunciare (a cominciare dal titolo, rovesciamento della data della stesura del romanzo, 1948) le problematiche del suo tempo.

Protagonista della storia è il napoletano Livio Delmastro, anziano professore universitario di neuroscienze, che si ritrova incolonnato insieme a migliaia di altri profughi italiani verso l’Europa del Nord. Siamo intorno al 2070 e tutta l’Italia e l’Europa centrale si sono trasformate in deserto. A causa dell’inquinamento, infatti, il pianeta si è surriscaldato e le fasce climatiche aride si sono espanse; il clima temperato, quello che ha sempre caratterizzato la zona del Mediterraneo e l’Europa, ormai, si è spostato a nord, in Scandinavia la quale, insieme al Canada e ai territori settentrionali del Globo, si presenta come l’unica terra abitabile. Il racconto ci mostra, in forma distopica, un futuro che però non è solo fantascienza, purtroppo: la principale denuncia del romanzo è contro la leggerezza con la quale i governanti affrontano il problema del surriscaldamento globale. Come Arpaia scrive in una Avvertenza finale, il suo racconto si basa sugli scritti e sui saggi di numerosi scienziati, nonché sui rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – e non è la prima volta che lo scrittore si confronta direttamente con la scienza: basti ricordare il precedente L’energia del vuoto (2011), ambientato nel mondo dei fisici delle particelle.

Si tratta di un immaginato scenario futuro apocalittico che potrà essere non troppo lontano da quello reale se non si ridurranno drasticamente e rapidamente le emissioni inquinanti. La narrazione prosegue alternando le vicende di Livio e degli altri profughi in viaggio verso il Nord a quelle di un lungo flashback in cui viene raccontata la giovinezza del protagonista: l’amicizia con Victor e la loro diversità di opinioni in fatto di cambiamento climatico, l’innamoramento con la fisica Leila e la loro successiva convivenza, la nascita del figlio Matias, la decisione dei due giovani di trasferirsi in California per seguire le proprie ricerche scientifiche. Sullo sfondo, l’aumento progressivo delle temperature, l’inaridimento della terra e l’innalzamento del livello dei mari, eventi segnati, periodicamente, da terribili catastrofi naturali.

Oltre, quindi, al ‘macrotema’ del cambiamento climatico, il romanzo ci offre altri ed interessanti spunti di riflessione. Come precedentemente accennato, quell’Europa del futuro che si sta sgretolando sotto distruzioni e disumanità non è nient’altro che uno specchio in cui guardare la nostra società. Quelle migliaia di migranti europei che si muovono verso il Nord come profughi in fuga dalla desertificazione e dalle guerre chi altro sono se non i migranti del nostro tempo, che fuggono dalle guerre e dalla progressiva desertificazione di molti paesi africani e asiatici? E quegli stati, Svezia, Norvegia, Finlandia, Canada ecc. che nel racconto di Arpaia si chiudono a riccio in una Unione del Nord e che, dopo un rigidissimo controllo, permettono l’ingresso solo ai profughi che abbiano già dei parenti sul loro territorio cos’altro sono se non la civilissima, attuale Unione Europea, all’interno della quale si erigono muri e si creano sempre maggiori controlli per impedire l’arrivo di profughi dal sud e dall’est del mondo? E quella specie di campi di concentramento, che l’autore descrive con orrore, come veri e propri inferni, che si trovano sulle coste del Mare del Nord e nei quali vengono rinchiusi i profughi che non riescono a entrare in Svezia, cos’altro sono se non i nostri cosiddetti “CPT”, i “centri di permanenza temporanea”, spesso dei veri e propri lager dove vengono rinchiusi gli immigrati?
Vale la pena, a questo proposito, leggere uno dei numerosi flashback presenti nel libro, nel quale, quando ancora Livio e Leila sono giovani e non si è arrivati al disastro finale, si narra una situazione mondiale in netto peggioramento, situazione che sembra avere le sue radici al giorno d’oggi:

Il Mar Mediterraneo era relativamente piccolo e poco profondo: si stava riscaldando molto, perdendo la capacità di mitigare le temperature sulla terraferma dei paesi che bagnava. E l’afflusso di clandestini dalle sue coste meridionali sembrava impossibile da arginare se non con le maniere forti. Alla Germania, alla Francia e ai paesi nordici non era bastato cancellare gli accordi di Schengen per evitare di essere invasi da quei disperati, anche se l’Unione europea aveva deciso di vendere a prezzo ridotto derrate alimentari all’Italia, alla Spagna e alla Grecia per calmare le acque. Il capitano dell’incrociatore Ardito, Olimpio De Falco, era diventato famoso perché era stato il primo a dover eseguire l’ordine di sparare a vista sui barconi degli immigranti. Il numero dei morti non era mai stato accertato (p. 65).

E, successivamente, dopo alcuni anni, quando Livio, Leila e Matias sono tornati in Italia, a Napoli, per stare vicino alle rispettive famiglie, la situazione è notevolmente peggiorata: le strade della città ormai sono irrimediabilmente sconnesse, i cinema, i teatri e le librerie sono scomparsi, dovunque “baraccopoli di cartoni e lamiere che nascevano e si sviluppavano come un cancro alla periferia e nel cuore del centro urbano” e i “pochi ricchi si barricavano in quartieri recintati da poliziotti e cani”, mentre per le strade imperversa la violenza in uno scenario socialmente e politicamente apocalittico:

i moti di piazza di folle affamate e assetate che saccheggiavano supermercati, magazzini, chiese, moschee e palazzi, Venezia che sprofondava in mare, piazza Navona e la fontana del Bernini completamente distrutte durante i violenti scontri del 2068, il Colosseo ridotto a un accampamento di senzatetto, la terra arida delle campagne che si spaccava e luccicava di sale, i profughi africani e italiani che si spostavano in massa verso nord, i palazzi Vaticani razziati da un’orda di miserabili, il mare che lambiva Padova, L’ultima cena ridotta a calcinacci durante gli scontri fra bande rivali per il controllo di Milano, gli Uffizi accartocciati su se stessi sotto un fitto fuoco di mortai, gli attentati ai server e la Rete che funzionava sempre peggio finché una sera non aveva più dato segni di vita e anche l’Italia si era ritrovata catapultata a un secolo prima, ma senza più nessuno che fosse in grado di fare a meno dei computer. Livio l’aveva visto da bambino nei vecchi film di fantascienza, ma non avrebbe mai pensato di potervi assistere davvero: l’ultima finzione di Stato si esaurì per stanchezza, per inutilità. Senza troppa sorpresa, le elezioni non vennero più celebrate e nessuno sembrò sentirne la mancanza. Le bande dei signorotti locali, spesso malavitosi, si spartirono il territorio in miriadi di guerre locali che sembravano non avere mai fine. Era già successo in Spagna e in Grecia, poi avvenne in Francia, in Belgio, nell’Olanda risucchiata dal mare, nella Germania centrale, lontana dalle acque fredde dell’Atlantico e devastata ormai quasi quanto l’Italia. Allora l’Unione del Nord si era chiusa a riccio come l’Inghilterra: aveva arretrato le proprie frontiere allo Skagerrak e al mar Baltico, abbandonando al proprio destino il resto dell’Europa (pp. 190-191).

Si tratta di uno scenario veramente apocalittico: un mondo devastato dal disastro climatico ma anche dall’autodistruzione verso cui l’umanità si è incamminata, un’umanità che, sempre più chiusa in se stessa, ha perduto le sue prerogative ‘umane’. Lo scenario inquietante delineato da Arpaia fa venire in mente un altro bel romanzo italiano di questi ultimi anni, Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante – venato comunque di tonalità più fantastiche – nel quale si narra di una “sciagura” che avviene in Italia e nel mondo e che provoca una grave crisi finanziaria. Anche nella storia di Bertante, le città vengono abbandonate, tutti si chiudono in se stessi e vige il diritto del più forte: quelli che nella società erano stati i più cinici ed egoisti (rozzi manager e uomini di potere) adesso imbracciano armi e fucili e si organizzano in bande violente. Solo il montanaro anarchico Alessio, intrepido e generoso, erede della Resistenza partigiana, riuscirà, in un paesino perduto fra le montagne, a salvare e proteggere la piccola Nina dalle violenze e dal disastro.

In questa apocalisse infernale, i muri, le barriere, la chiusura non sono altro che sinonimi di autodistruzione. Il più significativo punto di forza di Qualcosa là fuori, perciò, è la capacità di rappresentare questa devastata società del futuro come se fosse la nostra società en travesti, in una narrazione all’interno della quale l’allusione spesso si fa metafora. Come a voler dire: non dimentichiamo, noi europei ‘benestanti’, che, se un tempo fummo noi stessi migranti, potremmo ridiventarlo in futuro a causa di una apocalisse naturale scatenata dall’incuria e dal cinismo degli uomini di potere sottoposti al diktat neocapitalistico. Nel romanzo si possono intravedere, inoltre, altre allusioni alla società contemporanea, soprattutto a quella statunitense. Ad esempio, nel poliziotto corrotto che, a un posto di blocco a Napoli ferma Leila e il piccolo Matias diretti all’ospedale e che, di fronte all’impossibilità di Leila di pagarlo, non esita ad ucciderli, si può incontrare un riferimento alla violenza della polizia nei confronti di molti giovani di colore in America; oppure, nella figura del reverendo Thomas Hayne, della Coalizione di Dio, ferocemente xenofobo, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti nel 2050, si può intravedere un riferimento all’attuale candidato repubblicano Donald Trump.

Nei momenti finali del libro, i personaggi, dopo essere stati controllati da poliziotti in tute protettive e rinchiusi in una stanza in attesa (davvero, vengono in mente molte sequenze del toccante documentario Fuocoammare, del 2016, di Gianfranco Rosi, dedicato agli sbarchi dei migranti a Lampedusa), guardano da una finestra la vita che si svolge nella cittadina svedese, una vita ancora ‘normale’. Due bambini, che facevano parte della colonna dei migranti europei e italiani – e che potrebbero essere benissimo bambini africani che al giorno d’oggi vedono per la prima volta una città italiana – la osservano: “loro non avevano mai visto una città calma e ordinata, la gente che passeggiava tranquilla in riva al mare, le auto silenziose, i grattacieli, l’acqua delle fontane sul corso principale, le case dai colori accesi senza una sbavatura nell’intonaco, i giardini così belli e rigogliosi” (pp. 209-210).

Perciò, in quel “qualcosa là fuori”, nella realtà codificata dal nostro cervello, come spiega Livio a Marta, una compagna di sventura con la quale si stabilisce un rapporto di affetto, mentre marciano incolonnati per il Nord, ci dovrebbe essere spazio per l’umanità, per l’apertura all’altro, per l’ibridazione di società e di culture. Nell’erigere muri contro i migranti, nella chiusura a riccio di un’Unione europea che conosce solo le leggi dell’economia e della finanza, dimenticandosi i diritti umani, nell’arringa populista dello xenofobo di turno, c’è la distruzione, la catastrofe, l’apocalisse. Nell’apertura all’altro, nella solidarietà, nell’ibridazione, nel “restare umani”, invece, c’è un mondo da guadagnare.

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Genova 2001: Avevamo Ragione Noi / anche se non c’eravamo https://www.carmillaonline.com/2016/08/30/genova-2001-avevamo-ragione/ Mon, 29 Aug 2016 22:01:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32661 di Simone Scaffidi

indexDomenico Mungo, Avevamo ragione noi. Storie di ragazzi a Genova 2001, illustrato da Paolo Castaldi, Eris Edizioni, 2016, pp. 256, € 13.00

Scrivere di Genova 2001 senza esserci stati è un po’ come recensire un libro senza averlo mai letto. Un grande classico di cui hai sentito parlare tante volte, ne conosci la trama, i personaggi principali, le ambientazioni, Carlo Giuliani, Bolzaneto e la Diaz. Hai anche visto il film di Vicari. Puoi parlarne per ore fingendo di averlo letto, di [...]]]> di Simone Scaffidi

indexDomenico Mungo, Avevamo ragione noi. Storie di ragazzi a Genova 2001, illustrato da Paolo Castaldi, Eris Edizioni, 2016, pp. 256, € 13.00

Scrivere di Genova 2001 senza esserci stati è un po’ come recensire un libro senza averlo mai letto. Un grande classico di cui hai sentito parlare tante volte, ne conosci la trama, i personaggi principali, le ambientazioni, Carlo Giuliani, Bolzaneto e la Diaz. Hai anche visto il film di Vicari. Puoi parlarne per ore fingendo di averlo letto, di esserci stato. Ma la verità è che non avrai mai più occasione di leggerla Genova 2001. Quello che ti resta è fartela raccontare.

Sei il ricordo appannato di Genova 2001.
Un tredicenne che alle medie si vestiva di nero dalle scarpe al collo e che ben prima dell’estate rideva coi compagni dichiarandosi black block. Com’erano stati bravi a farti entrare nella mente i buoni e i cattivi, il bianco e il nero, la polizia e i manifestanti. Chissà cos’è a tredici anni, con la coscienza politica compressa nei cristalli liquidi di un Nokia 5110, che ti spinge a scegliere tra il bianco e il nero. Vorresti darti una risposta consolatoria, che abbia il gusto della presenza, vorresti convincerti che quel ragazzino aveva già capito da che parte stare. Che il suo G8 era quotidiano, in classe, con le mani al cielo, le manifestazioni di dissenso, i banchi rovesciati. Ma la realtà è un’altra. Genova era a soli 40 minuti di treno da quella classe, ma nel 2001 era una gita scolastica all’acquario. E i pinguini, quelli sì, ti avevano colpito.

Cinque anni dopo. È il 2006.
Sei al liceo e Rifondazione Comunista suscita gran scalpore intitolando a Carlo Giuliani la sede del proprio ufficio di presidenza al Senato. Hai i capelli lunghi, condizione sufficiente per meritarsi l’appellativo di “comunista”. Ma Marx è solo una barba, devi ancora studiarlo e la tua coscienza politica ha lasciato perdere i cristalli per divenire totalmente liquida. Ricordi la prof di filosofia, il dibattito, l’incapacità di schierarsi con forza e intransigenza dalla parte di un ragazzo come te – sì proprio come te, non provare a storcere il naso – ammazzato brutalmente dalla polizia. E poi il silenzio e la vergogna.

Possibile che non avevi ancora letto niente su Genova 2001?
Che nessuno t’aveva mai raccontato nulla di cos’era successo per davvero. Che c’erano solo la televisione e una canzone dei Modena City Ramblers a raccontarti quel libro? Erano già passati cinque anni da quell’assolato pomeriggio di luglio e il nero liquido che si apriva dietro la nuca di Carlo era già diventato oblio. Possibile che il grande classico della letteratura del terzio millennio – AA.VV, Genova 2001 – era andato perduto per sempre. Ne avevano censurato le copie originali. Le avevano mandate al macero. E poi ne avevano occultato i capitoli, riscrivendo paragrafi, inserendo nuovi personaggi e nuovi artifizi letterari. L’avevano fatto prima di luglio: con le sacche nere, il sangue infetto; durante quei giorni: con le molotov alla Diaz e il tossico spagnolo ammazzato; e non si sono ancora fermati, continuano a farlo quando si presenta l’occasione. No. Non poteva essere.

avevamo-ragione-noi-domenico-mungo-4A 15 anni da Genova 2001 cosa è cambiato.
Un diciottenne deve guadagnarseli con le unghie quei racconti di contrabbando. Deve cercare, scavare. Avere la fortuna di trovare qualcuno che gli racconti cosa sia successo. Che gli ripeta allo spasmo come un mantra che “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale” è avvenuta proprio in Italia, pochi anni fa. Ma lo sai che hanno torturato? Che hanno ammazzato? Che hanno spaccato teste? E che i responsabili della mattanza, gli stessi che hanno esultato alla morte di un ragazzo di 23 anni, sono stati premiati, hanno fatto carriera e ora siedono in posti di responsabilità e potere. E chi ha preso le botte? Chi è stato massacrato quei giorni di luglio? Be’, ha subito condanne penali durissime. Sapevi che due di loro dopo quindici anni sono ancora in carcere?

Farselo raccontare.
Prendersi tempo, domandare, farsi bruciare gli occhi dai video gonfi di gas CS e ingiustizia, conoscere chi quel giorno ha scritto con l’entusiasmo e col sangue un racconto tanto vicino alla fantascienza da rappresentare la più cruda realtà umana. Impossibile capirla da soli Genova 2001, neanche se ci sei stato. Piano piano si strozzano in gola i silenzi, la bocca inizia ad aprirsi e chiudersi, boccheggi e ti ritrovi in un mare troppo denso da decifrare, troppo profondo da affrontare da solo. Le eliche degli elicotteri rimbombano sopra le teste e ti tengono sveglio. Empatia. Il racconto diventa cura e comprensione comunitaria. Potevo esserci io. Potevo essere Carlo. Il mio sacco a pelo blu alla Diaz. Empatia. Non c’ero, ma ho mal di pancia. Non c’ero, ma avevate ragione voi.

“Avevamo Ragione Noi. Storie di ragazzi a Genova 2001” di Domenico Mungo.
È appena uscito per Eris Edizioni ed è uno di quei tasselli che contribuiscono a raccontarci quel libro collettivo che è Genova 2001. Fuggendo le retoriche e le manipolazioni dell’informazione mainstream e del potere. È un libro fastidioso, a tratti insopportabile, scritto da chi c’era e ha voluto raccontare la guerra. Quella vera, non la sua rappresentazione. Un coro di voci in azione, mosse da una vitalità urlata, un flusso caotico e disordinato che chiama il lettore a confrontarsi con una narrazione satura di “come” e di similitudini senza sosta. Come a dirci, lo capite quanto è difficile raccontare Genova 2001? Senza i “come” non posso raccontarvela. L’esasperato utilizzo della metafora è un’arma di difesa di fronte alla semplificazione binaria della narrazione dominante su Genova 2001 e rappresenta allo stesso tempo il tentativo di rendere giustizia alla biodiversità che ha contraddistinto quell’esperienza.

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Accanto alla similitudine, ai “come”, la ripetizione.
La ripetizione: funzionale a fissare qualcosa di talmente esagerato, che non resta che trovare parole sempre diverse per descriverlo, in maniera tale da dare consistenza al dramma collettivo. L’evento che si ripete nel libro senza soluzione di continuità è la morte di Carlo. Non si può raccontarla in una maniera sola e non si può permettere che la si racconti in una sola maniera viziata dall’infamia. E allora ascoltami. Ti ripeto da angolazioni diverse come è morto Carlo, per farti capire che ciò è stato e sempre sarà. Non fu finzione, non fu esercizio di stile. Fu morte. E io ancora quasi non ci credo che l’hanno ammazzato come un cane e hanno infierito sul suo corpo. Ma le tue orecchie devono comprendere la ribellione di corpi sanguinanti, violati in vita, violati in morte. Quanti Carlo eravamo ad abbracciare le strade di Genova 2001. La nostra morte non è altro che l’affermazione più degna delle nostre vite. Come possiamo non raccontarla?

Nessun tossico dietro quei passamontagna.
Nessuno spagnolo, nessun italiano, ma ragazzi attaccati a un rotolo di scotch, strappati, appesi al muro, violentati dalle forze dell’ordine nelle strade, nelle caserme, nelle scuole, dai media di regime, da tutti quei benpensanti che continuano a credere che se eri a Genova 2001 potevi morire, dovevi metterlo in conto, è inutile che fai finta di non essertela cercata, ti è andata solo bene che non ti chiamavi Carlo.

Se cercate una testimonianza classica o un’analisi politica ragionata di ciò che è successo a Genova non la troverete in Avevamo Ragione Noi, quello che troverete è la rabbia, la vitalità ribelle che non cede alla potenza mortifera del potere autoritario, la giustificazione della violenza come atto di resistenza e dignità. Domenico Mungo è lapidario, attraverso le voci dei personaggi del suo romanzo, nei giudizi contro il Genoa Social Forum, le Tute Bianche e Luca Casarini, rei di aver messo un cappello di gommapiuma al movimento. Caricaturale nella descrizione del poliziotto romano fascista, ultrà, figlio di un comunista, che non accetterà di festeggiare la morte di Carlo. Prudente nell’assunzione di responsabilità collettiva, nel riconoscere gli errori, riflettere la sconfitta. Ma questo non è il punto. Il suo è un romanzo prezioso, forse soprattutto per chi non c’era, un buon trampolino per tuffarsi nel mare denso che fu Genova 2001 e riemergerne un po’ più consapevoli di prima.

Il libro è arricchito da sette splendide illustrazioni di Paolo Castaldi, compresa la copertina. Graffi chiaro-scuri che restituiscono la misura dell’ingiustizia. Chi aveva ragione non ha volto: non ce l’ha Carlo dietro il passamontagna, non ce l’ha il ragazzo con il casco del Toro al fianco di Carlo, non ce l’hanno i muscoli tesi e le braccia contro il muro nella Caserma di Bolzaneto, e nemmeno quelle in copertina alzate contro il cielo. Chi aveva torto invece non ha occhi, è l’ombra cieca di se stesso.

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Special Track – CCCP, Sono come tu mi vuoi, Live in Punkow, 1996.
come un sudario / come il bagliore intermittente che si riflette sulla facciata / come un fiume che tracima, come una lama / come il fango di un’alluvione, come ululati primordiali / come bestie da macero / come fiammiferi di peltro / come i coriandoli a natale / come le tracce lasciate dalla selvaggina braccata dai lupi / come una fonderia che può esplodere da un momento all’altro / come ombre a Hiroshima / come dettato da una batteria di tamburi che attraversano le strade / come fosse un racconto! / come animali / come un pallone da calcio / come al circo. come al Colosseo. come allo stadio / come i nostri figli / ̀come vivere in un mondo di spaghetti di soia / come essere protagonista di uno di quei film giapponesi sulla Yakuzaa / come se fosse colorata dal sangue, dal vomito e dal cerone dei Danidanzatori Kabuki / come samurai cibernetici e vecchi reduci dell’Impero del Sole / come i cani con l’occhio di vetro che ruscano nei sacchi neri d’immondizia / come un mostro incurante degli affanni e del terrore / come cartellini della spesa che ho appena espropriato dall’ipermercato globale / come robocop avveniristici / come la campana di bronzo che rintocca a morto ogni 6 agosto / come un fiore di loto / come grotteschi musici paramilitari / come se fossero state ideate e disegnate dal genio visionario di H.R. Giger / come le sculture di Boccioni / come i bellissimi emaciati ragazzi di Pasolini / come i vergini di Salò / come lanzichenecchi da Blade Runner / come mosche radunate attorno all’increspato dolciastro del miele / come fuscelli nodosi / come un pallone sgonfio / come le letterine dello Scarabeo quando inizi una mano nuova di gioco / come tarantolate / come scenari della Hanoi posticcia di Full Metal Jacket / come corvacci spelacchiati e puzzolenti / come se fossero stati eterei specchi mobili / come ingoiate da un portentoso sciacquone / come falangi macedoni / come rami rassegnati di salici piangenti / come lapilli di arsenico / come un simulacro svuotato di prepotente violenza / come dei robot / come un mortaretto afono / come formiche impazzite / come una fontanella di vino rosso / come se Brixton e le banlieu in ebollizione esplosiva si fossero trasferite fra Marassi e Nervi, corso Torino e piazza Ferraris. Blade Runner e Che Guevara, i Rage Against the Machine che tiravano un calcio nel culo a Manu Chao e sfondavano i timpani di Fede e Mentana / come alla Millemiglia / come Terminator / come due minatori italiani in Belgio nel 1962 / come pellegrini a San Giovanni Rotondo / come robocop di carne e imbottiture / come stuzzicadenti spezzati / come un corridore-gladiatore di rollerball / come un grottesco cuore estirpato dal suo corpo ormai defunto dopo la violenza subita / come un interminabile serpente di celluloide che nel veleno conteneva le immagini della verità / come una forma di pecorino di carne umana / come er grande Francesco. Er Pupo. / come diceva quer frocio, ’na vita violenta / come n’imbuto senza uscita / come tanti topi a cerca’ de scappa’ da ’na parte all’artra / come quanno pescano li tonni / come jene / come allo stadio con ’na cintura in mano e mi rifila ’na frustata in pieno volto / come una ferita che non si coagula / come il coperchio di una scatola di sardine / come i solchi di questi anni / come le stagioni, come le persone, nella ciclicità del rimosso / come limoni in una fabbrica di limoncello di Gela / come sepolcri / come la marmellata di ciliegia Santarosa sul parquet della palestra di via Battisti / come un bracciale di una vecchia zia indossato per scherno / come napalm / come la guerra / come il partigiano che scendeva a valle, a mani nude, in canottiera / come una trance che blocca tutti gli altri sensi / come carne da cannone / come grottesche statue di guerrieri, all’assalto del popolo esasperato / come una cappa di invisibile fuliggine che si adagia sul piccolo e magrissimo fantoccio che travolto per due volte dalla fuga dissennata e terrorizzata, giace, ora, sull’asfalto, fra i cocci di bottiglia, i bastoni, le pietre, un accendino, delle monete da 500 lire e l’estintore, che, maledetto, sembra pascersi, saziandosi orridamente ingordo, del sangue nero, rosso / come i Comunardi nel 1871, a Parigi, sparare agli orologi per fermare il tempo della Rivoluzione / come mosche imprigionate in un bicchiere, che urlano, si agitano impazzite, rimbalzano contro il vetro / come una marionetta dinoccolata / come Pinocchio / come una carcassa di tacchino / come onde del mare agitate dal vento di ponente / come epigrafe di qualche edizione economica di Einaudi o di Feltrinelli / come un tiro al volo, scagliato di prorompente gioventù, dal limite dell’area all’incrocio dei pali / come un atleta e rapido come uno stambecco in fuga / come un pallone da calcio che ti colpisce in pieno viso / come un fiume in piena / come Corbari / come lupi eccitati e assetati di sangue / come le braccia festanti e le teste urlanti dopo un gol sugli spalti di uno stadio /come spartani alla volta delle Termopili / come quando andavo ai rave illegali nei boschi prealpini e tornavo a Torino due giorni dopo strafatto e incosciente / come in un film / come le sirene d’Ulisse ci incatena / come un pettirosso curioso / come il petrolio / come api impazzite / come statue di sale / come manichini avvizziti dalla paura / come guidare in galleria, a 1000 all’ora a fari spenti / come il cane rabbioso che abbaia perché ha paura, emette l’ultimo esclamativo / come la pece / come lucertole al sole sul lungomare farcito di diossina e sangue nella nebbia di polvere / come neve accumulata in un angolo / come quella di una macelleria / come un’onda che si riavvolge su se stessa dopo aver schiumato rabbiosa fin dentro la risacca / come un mostro biomeccanico, un mutoide cablato di viscere in pvc e legamenti di alluminio e argento chirurgico / come i fiumi che si gettano nel mare a parapendio concludendo la loro vorticosa fuga verso l’infinito / come i sinti ubriachi di gioia e dolore, raccontano gli istanti racchiusi nel pianto come un pugno di miele / come la colonna sonora dei suoi fotogrammi d’appendice.

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Donne… su tre lati della barricata https://www.carmillaonline.com/2016/05/02/donne-sui-tre-lati-della-barricata/ Mon, 02 May 2016 20:30:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30236 di Sandro Moiso

donne sulle barricate Diana Johnstone, Hillary Clinton Regina del Caos, Zambon Editore, Francoforte sul Meno 2016, pp.250, € 15,00 Augusto Cantaluppi – Marco Puppini, “Non avendo mai preso un fucile tra le mani” Antifasciste italiane alla guerra civile spagnola 1936-1939, Www.Aicvas.org, Milano, 2014. pp. 160, Sip.

Sono due libri molto diversi quelli che vengono qui proposti, sia per contenuto che per finalità. Il primo è destinato a smontare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, l’immagine della candidata “democratica” Hillary Rodham Clinton alla Casa Bianca sia come rappresentante [...]]]> di Sandro Moiso

donne sulle barricate Diana Johnstone, Hillary Clinton Regina del Caos, Zambon Editore, Francoforte sul Meno 2016, pp.250, € 15,00
Augusto Cantaluppi – Marco Puppini, “Non avendo mai preso un fucile tra le mani” Antifasciste italiane alla guerra civile spagnola 1936-1939, Www.Aicvas.org, Milano, 2014. pp. 160, Sip.

Sono due libri molto diversi quelli che vengono qui proposti, sia per contenuto che per finalità.
Il primo è destinato a smontare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, l’immagine della candidata “democratica” Hillary Rodham Clinton alla Casa Bianca sia come rappresentante di una politica anche solo vagamente progressista, sia come portavoce delle istanze femminili nella società e nel mondo della politica .

Il secondo ricostruisce, attraverso 67 schede biografiche, le vicende fino ad ora in gran parte sconosciute delle donne italiane che parteciparono in qualche modo alla guerra di Spagna schierandosi orgogliosamente e coscientemente dalla parte della Repubblica e, soprattutto nel caso delle anarchiche (che risultarono essere anche le più numerose), della Rivoluzione.

Pur nella loro diversità di intenti, però, i due testi pongono, il primo in maniera abbastanza esplicita mentre il secondo indirettamente, la questione del “genere” all’interno di un percorso di liberazione che nel voler realizzare le principali istanze femministe o LGBT tenga conto, o meno, di una più generale liberazione della specie dai lacci e dalle schiavitù economiche, politiche, sociali, morali e religiose che impediscono agli individui di realizzarsi pienamente al di fuori delle leggi dell’accumulazione capitalistica e delle società (tutte) divise in classi.

hillary clinton Da questo punto di vista il testo di Diana Johnstone, americana che da decenni risiede in Europa, è, allo stesso tempo, il più esplicito e il più problematico. Non a caso, poiché la figura di Hilllary Clinton è stata e rimane centrale all’interno dell’establishment americano per quella sorta di autorappresentazione degli Stati Uniti e dei loro governi come difensori dei “diritti umani”, anche a costo di guerre “disumane”, tesa a giustificarne le ingerenze politiche e gli interventi militari e a nasconderne i reali moventi economici e politici.

Proprio per questo motivo Susan Sarandon, attrice da sempre impegnata nella critica degli abusi operati dagli USA, ha potuto dichiarare recentemente che sarebbe “meglio una vittoria di Donald Trump se il candidato dei democratici fosse Hillary Clinton”.1 Infatti la figura della ex-First Lady e ex-Segretario di Stato statunitense rappresenta, oggi, la migliore opzione alla Presidenza degli Stati Uniti per quello che la Johnstone chiama esplicitamente il “partito della guerra”.

Partito della guerra che ha fatto della difesa dei generici “diritti umani”, della multiculturalità (ovunque questa, naturalmente, si adegui agli interessi dell’impero americano) e della “società aperta” lo strumento ideale, sia dal punto di vista politico che massmediatico, per la penetrazione nella coscienza dei cittadini e l’ingerenza (sempre più spesso militare) all’interno degli stati e dei governi che non si adattino o si contrappongano agli interessi e ai dettami del capitalismo finanziario anglo-americano.

Hillary sbandiera al vento il suo voler “sfondare il soffitto di vetro” che separa le donne dagli incarichi di rilievo a beneficio di tutte le cittadine americane, facendone una sorta di battaglia femminista qualificata. Dimenticando però, come ricorda l’autrice del libro, che da anni sono donne a ricoprire importanti ed aggressivi ruoli proprio nella politica estera americana (Condoleeza Rice, Madeleine Albright, Susan Rice, la stessa Clinton ed altre ancora) e che questo non ha affatto segnato una svolta in senso meno militarista delle politiche statunitensi. Anzi.

Lo stesso smart power che la Clinton presenta come sua caratteristica di “governo” non significa altro che la promessa di tenere conto di tutte le possibili soluzioni per risolvere i contrasti o i conflitti creati ad hoc, compresa e soprattutto quella di carattere militare. E basta dare un’occhiata ai principali finanziatori/donatori della Clinton Foundation per comprendere come la parte più avanzata del movimento femminista americano abbia da tempo denunciato la falsità delle proposte della Clinton.

Arabia Saudita, Kuwait, Exxon Mobil, Qatar, Boeing, Doe, Goldman Sachs, Walmart , Emirati Arabi Uniti sono solo alcuni tra quelli che partecipano alla Fondazione con cifre dagli otto ai sette zeri. Mentre tra gli “spilorci”, che hanno versato soltanto mezzo milione o poco più di dollari, troviamo Bank of America, Chevron, Monsanto e l’immancabile Fondazione Soros. Il fior fiore del capitalismo americano, dell’élite petrolifera mondiale e della speculazione finanziaria internazionale.

Nonostante il testo della Johstone, figlia di collaboratori di Franklin Delano Roosvelt all’epoca del New Deal, sia pesantemente inficiato da inspiegabili e talvolta assurde affermazioni nei confronti dell’anarchismo e dell’internazionalismo e da una difesa sin troppo esplicita delle ragioni di Putin, la sua lettura può rappresentare un significativo momento di riflessione sulle attuali politiche di comunicazione che, attraverso la semplificazione del discorso sui generici “diritti” e l’uso di strumenti quali Twitter, seminano la confusione tra interessi generali e particolari contribuendo a far scambiare per sinistra o progressismo ciò che è soltanto, ancora una volta, una politica di divisione all’interno della grande maggioranza degli sfruttati di ogni genere, razza e nazione.

Il secondo testo, che entra a far parte della ricostruzione delle vite e dei percorsi dei combattenti nella guerra civile spagnola portata avanti da tempo dall’AIVACS (Associazione Italiana Volontari Antifascisti Combattenti in Spagna), pur non essendo privo di lacune e rimozioni e pur sposando in toto la causa antifascista e repubblicana a discapito dell’ipotesi rivoluzionaria all’interno del conflitto che insanguinò la Spagna tra il 1936 e il 1939, porta anch’esso a riflettere sulle problematiche di genere all’interno di un percorso di liberazione collettiva.

donne in spagna Anche se di alcune di quelle donne, che affluirono tra le file degli antifascisti e dei rivoluzionari spagnoli ed internazionali, non ci rimane oltre al nome e cognome altra testimonianza se non la sintetica constatazione “Caduta in combattimento in prima linea” dovuta ai fascicoli degli archivi della Polizia di Stato, è chiaro che la partecipazione femminile a quel conflitto fu estremamente significativa ed ebbe molte cause.
Cause che differiscono sia per motivazioni politiche che di classe. Oltre a quella comune di rivendicare un maggiore spazio e ruolo per le donne nella politica e nella società.

Una prima differenza che salta immediatamente agli occhi scorrendo le schede biografiche è quella dovuta al fatto che mentre molte donne anarchiche accorsero in Spagna come “volontarie”, quelle legate al Partito Comunista (e tra queste primeggiano donne famose come Rita Montagnana, Teresa Noce o Tina Modotti) furono spesso inviate lì in qualità di funzionarie o/e per incarico del Partito.

Molte di loro, sia di una fazione che dell’altra, arrivarono in Spagna a seguito dei compagni o dei mariti, ma tutte, una volta arrivate lì, si sarebbero date ampiamente da fare assumendo le più diverse e svariate funzioni e mansioni. Molte arrivarono per combattere, soprattutto le anarchiche che avrebbero trovato nelle formazioni rosso-nere e soprattutto nella Colonna di Ferro di Buenaventura Durruti lo spazio e il ruolo combattente richiesto.

Saranno i Decreti sulla militarizzazione del 30 settembre e del 7 ottobre 1936, emanati dal governo di Largo Caballero con il voto favorevole dei comunisti e la contrarietà del POUM, degli anarchici e dei socialisti, a definire la cosiddetta “militarizzazione” che avrà come conseguenza l’inquadramento delle milizie nelle truppe regolari della Repubblica, il ristabilimento della disciplina e dell’obbligo di saluto, la leva obbligatoria e l’espulsione delle donne dalle file dei combattenti.

Disciplina militare borghese, controllo del Partito su tutte le strutture e le iniziative potenzialmente rivoluzionarie, eliminazione anche fisica degli avversari politici nello stesso schieramento e ridimensionamento del ruolo e dell’autonomia delle donne nel contesto della guerra civile andranno così di pari passo, fino alle ultime drammatiche conseguenze. Eliminazione dell’autonomia di classe e ridimensionamento delle istanze di genere sembrano così convergere, anche se il testo, mantenendo la struttura a schede e non affrontando, se non in maniera scontata, la questione evita di sfiorare o approfondire l’argomento.

Una altro aspetto che, all’interno del testo, sembra sottolineare le differenze di classe oltre che di scelte tra le donne stesse è proprio quello delle differenti condizioni sociali e delle differenti motivazioni che spingono le donne in Spagna, già prima della guerra. Tale differenza di condizioni è ben esplicato attraverso le biografie di chi poteva vantare titoli nobiliari nel proprio casato, oppure acquisiti attraverso il matrimonio, che, magari, garantivano una funzione direttiva nelle strutture di soccorso inglesi “alle vittime” e di coloro, invece, che si erano già trovate in drammatiche condizioni economiche durante l’esilio in Francia negli anni Trenta proprio per l’origine proletaria e il lavoro salariato mal pagato a cui avevano dovuto sottoporsi. La radicalità della scelta derivava così non da una ben ponderata riflessione di carattere ideologico, ma direttamente dalle condizioni di vita, di cui veniva a costituire il naturale corollario.

Allora, come oggi, il profugo o l’emigrato politico non poteva avere molti diritti nelle nazioni che lo ospitavano, mentre era facilmente ricattabile col foglio di via qualora avesse potuto anche solo lontanamente rappresentare un problema dal punto di vista sindacale. Da qui la scarsa fiducia nell’istituzione o nell’ordine costituito, repubblicano borghese o partitico che fosse.

Due testi per alcuni versi imperfetti, ma stimolanti per le riflessioni che, direttamente o indirettamente, impongono, chiedendoci di considerare che la barricata sulla quale le donne sono spesso state chiamate a schierarsi ha sempre avuto almeno tre lati: uno di genere e due di classe.


  1. http://www.huffingtonpost.it/2016/03/30/sarandon-trump-clinton_n_9571886.html  

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Nella Notte Ci Guidano le Stelle. Ayotzinapa e la Lotta per la Verità https://www.carmillaonline.com/2016/04/06/nella-notte-ci-guidano-le-stelle-ayotzinapa-la-lotta-la-verita/ Tue, 05 Apr 2016 22:00:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29660 di Fabrizio Lorusso 

ayotzinapa iguala_normlistas[Questo articolo è formato da un aggiornamento di Fabrizio Lorusso dal Messico sul caso Iguala-Ayotzinapa e da un comunicato stampa del Collettivo Parigi-Ayotzinapa che ripercorre cronologicamente la vicenda e decostruisce il discorso ufficiale. Il titolo del post è ripreso dal testo del canto della Resistenza “Fischia il vento” e dall’ispiratore titolo del romanzo Il sole dell’avvenire (vol. 3) di Valerio Evangelisti]

In Messico il numero dei desaparecidos ha superato ufficialmente l’impressionante cifra di 27.500[1], anche se ci sono stime che addirittura [...]]]> di Fabrizio Lorusso 

ayotzinapa iguala_normlistas[Questo articolo è formato da un aggiornamento di Fabrizio Lorusso dal Messico sul caso Iguala-Ayotzinapa e da un comunicato stampa del Collettivo Parigi-Ayotzinapa che ripercorre cronologicamente la vicenda e decostruisce il discorso ufficiale. Il titolo del post è ripreso dal testo del canto della Resistenza “Fischia il vento” e dall’ispiratore titolo del romanzo Il sole dell’avvenire (vol. 3) di Valerio Evangelisti]

In Messico il numero dei desaparecidos ha superato ufficialmente l’impressionante cifra di 27.500[1], anche se ci sono stime che addirittura raddoppiano l’entità di questa catastrofe umanitaria, e la crisi dei diritti umani, che le autorità cercano di sterilizzare e silenziare con una strategia mediatica e diplomatica, è pesantissima su tutti i fronti[2]. Il caso dei 43 studenti di Ayotzinapa è emblematico, metafora terribile della lunga notte messicana, ma è riuscito, a fasi alterne e grazie all’azione della società civile e dei media non allineati col governo, a rompere il silenzio su questa situazione. Ayotzinapa rappresenta tuttora una spina nel fianco del governo di Enrique Peña Nieto, presidente eletto nel 2012 e appartenente al Partido Revolucionario Institucional (PRI). A un anno e mezzo dalla “notte di Iguala”, in cui agenti della polizia locale di Iguala e Cocula, nel meridionale stato del Guerrero, sequestrarono 43 studenti della scuola normale rurale “Raúl Isidro Burgos” di Ayotzinapa, ultimarono extra-giudizialmente altre sei persone, ne ferirono decine e consegnarono i giovani a presunti narcotrafficanti, i normalisti restano ancora desaparecidos e il governo è in affanno, sempre alla ricerca di maniere sbrigative e “creative”, cioè ingannevoli, per chiudere il caso e ricostruire la falsa immagine di un Paese moderno e pacificato, pronto ad accogliere investimenti, agli occhi del mondo.

Crimine di Stato

Lo Stato non ha riconosciuto le sue responsabilità, malgrado le indagini giornalistiche rigorose svolte in questi diciotto mesi convulsi, che sono basate su testimonianze dirette ed evidenze audiovisuali, abbiano mostrato che vi fu un’operazione orchestrata da diversi apparati pubblici e dalle autorità contro gli studenti[3].

Alle stesse conclusioni è arrivato anche il rapporto del settembre 2015 stilato dal Gruppo Interdisciplinare di Esperti Indipendenti (GIEI)[4], un’equipe altamente qualificata della Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDH) che, grazie a un accordo d’assistenza tecnica siglato col governo del Messico, funge da coadiuvante delle indagini ufficiali[5].

Il GIEI ha parlato di “un’aggressione massiva, in ascesa, sproporzionata e senza senso” alla quale hanno partecipato non solo agenti della polizia locale e presunti criminali del cartello dei Guerreros Unidos, ma pure le forze armate e la polizia federale, che ignorarono o coprirono rastrellamenti e violenze, dunque furono conniventi coi crimini che si stavano commettendo[6].

Il GIEI e il quinto autobus

Inoltre ha mostrato che la PGR (Procura Generale della Repubblica) ha deciso di accantonare la linea delle indagini che riguarda uno dei cinque autobus che erano stati presi dagli studenti nella stazione di Iguala e che, senza che questi ne fossero a conoscenza, conteneva probabilmente una partita di eroina nel portabagagli. L’attacco contro i ragazzi, quindi, potrebbe essere stato guidato dall’intenzione di recuperare il prezioso carico di stupefacenti[7].

Gli autobus di linea sono infatti un mezzo di trasporto comune per i narcotrafficanti e, serve ricordarlo, proprio lo stato del Guerrero detiene la leadership storica nella produzione di marijuana e sperimenta da 3-4 anni un boom delle coltivazioni di papavero da oppio, pianta da cui si ricavano l’eroina e la morfina esportate negli Stati Uniti. Il Guerrero racchiude nei suoi confini il cosiddetto pentagono dell’oppio, una zona geografica delimitata da 5 vertici che dalla costa alle catene montuose, a ridosso dei vicini stati del Morelos, de México, del Michoacán e di Città del Messico, ospita le coltivazioni e i laboratori di stupefacenti. Ma le “cinque punte” della regione sono blindate e protette da altrettante postazioni militari, mentre gli snodi autostradali e le strade statali sono controllati dalla polizia federale e da quelle statali e municipali, rispettivamente. Sono queste le autorità che gestiscono i flussi e pattugliano i territori, negoziando a vari livelli coi gruppi della delinquenza organizzata. E sono queste “forze dell’ordine” che sono intervenute preventivamente e poi durante tutta la notte nella strage, gli attacchi e i sequestri compiuti il 26 settembre 2014 a Iguala e dintorni.

Il GIEI ha chiesto di poter intervistare i militari del 27º Battaglione di stanza a Iguala che erano presenti durante la persecuzione degli studenti, ma il governo gliel’ha proibito categoricamente e fino ad oggi ha continuato a difendere le azioni dell’esercito, mentre dal canto suo la PGR ha negato il coinvolgimento di autorità federali e non ha aperto nessun fascicolo al riguardo[8].

L’opera di ricerca del GIEI e dell’Equipe Argentina d’Antropologia Forense (EAAF) ha smontato la “verità storica” sulla notte di Iguala, presentata ai mass media nel gennaio 2015 dall’allora procuratore generale della Repubblica, Jesús Murillo Karam, la quale sostiene che i normalisti furono bruciati nella discarica di Cocula e i loro resti gettati nel vicino fiume San Juan.

Il tentativo di archiviare il caso prematuramente è fallito e l’investigazione s’è distinta per le incoerenze e le irregolarità. Non è riuscita a determinare con certezza il destino che hanno avuto i 43 studenti, né a soddisfare le richieste di giustizia e verità della società civile e dei genitori dei ragazzi. Questi, supportati da cittadini, collettivi e movimenti sociali di tutto il mondo, non hanno mai smesso di mobilitarsi per le strade e ovunque ne abbiano avuta la possibilità, tanto in Messico come all’estero.

La battaglia per il rinnovo del mandato del GIEI

Il 22 marzo 2016 i genitori e i loro rappresentanti, avvocati del Centro dei Diritti Umani della Montagna-Tlachinollán hanno fatto richiesta formale di una proroga affinché il GIEI prosegua nelle investigazioni sul caso. Il ministro degli interni, Miguel Ángel Osorio Chong, ha invece ribadito che il lavoro degli esperti si concluderà il 30 aprile e non ci saranno dilazioni. “Al posto di stare a discutere sul termine, abbiamo bisogno di conclusioni […] non troviamo una linea diversa da quella che ha studiato la PGR”, ha dichiarato in un’intervista radiofonica[9].

Invece Emilio Álvarez Icaza, segretario esecutivo della CIDH, ha mostrato apertura verso l’ipotesi di un nuovo mandato e tratterà il caso col governo durante le sessioni del 157º periodo ordinario di riunioni della Commissione Interamericana previsto tra il 2 e il 15 aprile[10]. “Abbiamo ricevuto una comunicazione da parte delle organizzazioni che rappresentano gli studenti con la richiesta di un prolungamento del mandato, ma nessuna notifica da parte del governo messicana”, ha spiegato Álvarez. Ancor più diretto è stato il presidente della Commissione Interamericana, James L. Cavallaro, che da Washington ha sentenziato: “Non è una decisione del signor Osorio Chong, ministro degli interni, dare per conclusa la partecipazione del GIEI nel caso Ayotzinapa”.

Secondo l’accordo siglato il 18 novembre 2014 tra la CIDH, i rappresentanti delle vittime e il governo messicano il futuro del GIEI non ha nulla a che vedere con le opinioni di Peña Nieto o di Osorio. Certo è che l’esecutivo e la procura possono ostacolare in tutto i modi il lavoro degli esperti e renderlo di fatto impossibile, cosa che a tratti hanno già cercato di fare. “E’ riprovevole questa manovra del governo per cui dice che non si rinnoverà, quando non è sua competenza farlo”, ha ribadito Cavallaro.

In un comunicato anche i gruppi nati in solidarietà con il movimento di Ayotzinapa in Europa si sono espressi in favore di una proroga “indefinita” e hanno sottolineato il loro pieno sostegno al GIEI, “di fronte alle recenti dichiarazioni in alcuni mezzi di comunicazione messicani, come MVS e Gruppo Milenio, in cui è stata attaccata l’integrità morale di alcuni dei suoi componenti”[11].

In Messico il conflitto è senza quartiere, il governo e la procura, supportati da gruppi mediatici alleati, si occupano da mesi, praticamente dall’inizio delle indagini, più di screditare gli studenti, le loro famiglie, i giornalisti indipendenti e gli esperti internazionali che di trovare soluzioni concrete e dimostrare una reale volontà politica di toccare le corde sensibili del “patto d’impunità” vigente nel Paese.

Trappole e manovre

Il 22 marzo la PGR, istituzione sempre più screditata agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, è arrivata addirittura ad ammettere l’apertura di un’indagine preliminare contro il segretario della CIDH, organi facente parte della OSA (Organizzazione Stati Americani), Álvarez Icaza, per una presunta frode nei confronti dello Stato messicano. Questa “malversazione di fondi” è stata denunciata dal Consiglio Cittadino per la Sicurezza Pubblica e la Giustizia Penale, un’associazione civile affine all’esecutivo di Peña Nieto[12].

Il presidente dell’associazione, José Antonio Ortega, s’è immaginato e ha denunciato un pregiudizio economico relativo al lavoro del GIEI, visto che la CIDH, non avrebbe rispettato il compromesso d’inviare in Messico in qualità di esperti “delle persone probe”. Così, secondo Ortega, “i cinque membri del GIEI sono tutto il contrario”. La CIDH ha espresso “costernazione e considera inammissibile l’apertura di un fascicolo in base a questa denuncia temeraria e infondata”. Si tratta di una vera e propria provocazione: la PGR ha preso la palla al balzo e ha fatto sfoggio del suo cinismo, non archiviando immediatamente la denuncia. Ci sono almeno 150.000 casi di omicidio negli ultimi 9 anni e migliaia di desaparecidos che meriterebbero la priorità, invece s’accetta d’iniziare una pratica insultante per la società e per le vittime. Ad ogni modo, dopo due settimane di rimpalli mediatici e reazioni, finalmente il 5 aprile la PGR ha desistito dall’azione penale “per mancanza dei requisiti a procedere”.

La pressione mediatico-giuridica contro il dirigente della CIDH e del GIEI viene ad unirsi a una prolungata “campagna di dispregio totale e spietata da una posizione di forza e dai mezzi di comunicazione”, come l’aveva definita e denunciata mesi fa lo studente di Ayotzinapa Omar García, sopravvissuto agli attacchi del 26 settembre. Dall’Italia, in cui si trova per l’iniziativa “Carovane Migranti” di Torino, Omar ha riaffermato: “Prolungare nel tempo l’indagine è quello che cercano, così il movimento si stanca e la gente dimentica. Non per altro è stata avviata la campagna di diffamazione del GIEI; non per altro hanno imposto questa terza perizia; non per altro ora vogliono indennizzare le famiglie. Le famiglie, avvocati, esperti e studenti, il movimento che accompagna Ayotzinapa, dovranno analizzare bene che fare di fronte a questa situazione.” Per questo “non abbandonare i genitori dei nostri 43 compagni desaparecidos. Se dimentichiamo, loro vincono”.

La terza perizia sull’incendio nella discarica di Cocula

In questo contesto la PGR ha diffuso a sorpresa il 2 aprile il risultato della terza perizia sull’incendio della discarica di Cocula, realizzata da un Gruppo Collegiale di esperti nominato ad hoc il febbraio scorso dalla procura, d’accordo con il GIEI. Lo studio, ancora parziale, indica “evidenza sufficiente” del fatto che c’è stato un “fuoco controllato di grosse dimensioni e almeno 17 esseri umani adulti che furono bruciati in quel luogo”.

Poche ore dopo in un comunicato il GIEI ha denunciato la violazione dell’accordo di riservatezza che aveva stabilito con la procura, deplorando “questa forma di cambiare la dinamica del dialogo e il consenso” e “le decisioni unilaterali” sulla diffusione del documento. Inoltre i genitori dei 43 non sono stati avvisati previamente dei risultati della perizia, come invece era stato accordato durante le loro conversazioni con lo stesso presidente Peña.

Prima della conferenza stampa il portavoce degli esperti, Ricardo Damián Torres, che hanno realizzato questa terza perizia avevano rassicurato il GIEI del fatto che “il messaggio era per dire che non s’era potuto determinare se il fatto era accaduto o no e che c’era bisogno di nuovi studi e prove sperimentali per determinarlo”, si legge sul comunicato di protesta del GIEI. Invece hanno fatto l’opposto, rinforzando l’idea dell’esistenza di una guerra sporca da parte delle autorità messicane nei loro confronti. “Ciononostante il suo messaggio s’è riferito a parti del contenuto del rapporto provvisorio che nemmeno erano state analizzate dal GIEI e, cosa ancor più grave, segnalando pubblicamente cose che non sono state spiegate al GIEI durante la riunione, né sono approvate unanimemente dai periti esperti di incendi”, approfondisce il comunicato. Il Messico firma a iosa trattati e convenzioni internazionali sui diritti umani, ma poi la realtà è questa.I periti forensi argentini dell’EAAF hanno commentato che non esiste “una risposta concludente” sulla calcinazione dei 43. La loro perizia, presentata il 9 febbraio 2016 e fondata su studi realizzati solo poche settimane dopo i fatti, ha confermato che nella discarica c’erano resti ossei di 19 persone. Ciononostante è impossibile stabilire le date di calcinazione che probabilmente si riferiscono a diversi incendi. Vidulfo Rosales, avvocato difensore dei genitori di Ayotzinapa, ha segnalato che nella discarica “viene bruciata spazzatura regolarmente, anche se si suppone che è la scena di un crimine”. Di fatto negli ultimi 5 anni si sono registrate più di 300 sparizioni forzate e decine di fosse comuni con resti umani nella zona. Fino ad oggi solo i resti dello studente Alexander Mora sono stati identificati con certezza, però erano stati ritrovati in una busta di plastica sulle rive del fiume San Juan, non nella discarica.  La nuova perizia, pertanto, “non conferma né smentisce l’ipotesi della PGR”, hanno dichiarato i periti argentini il 2 aprile [13]. Pertanto, dopo un’assemblea presso la normale di Ayotzinapa, i genitori dei 43 studenti e le organizzazioni della società che li sostengono hanno deciso di riprendere le mobilitazioni e le proteste a partire dal 6 aprile. Il Comitato Studentesco della nella scuola “Raúl Isidro Burgos” ha cominciato una sospensione indefinita delle attività e alcune organizzazioni, capeggiate dal “Campamento de los 43” hanno chiuso simbolicamente i cancelli della sede della PGR a Città del Messico.

La verità è oggetto di una guerra sporca in Messico, è stuprata dalla disonestà e dal cinismo ufficiali, mentre sta alla società, ai media autonomi e ai ricercatori indipendenti mantenere vive la memoria e le ricerche. Quello che segue è un tentativo (ben riuscito) in tal senso.

 

ayotzinapa_2Comunicato del 3 aprile 2016 – Collectif Paris-Ayotzinapa – parisayotzi@riseup.net

Nel gennaio 2015 il procuratore generale della Repubblica messicana, Jesús Murillo Karam, ha presentato le conclusioni del governo sul caso dei 43 studenti di Ayotzinapa vittime di sparizione forzata a Iguala il 26 settembre 2014. Secondo la sua versione i 43 studenti sarebbero stati assassinati dalla criminalità organizzata, i loro corpi bruciati nella discarica pubblica di Cocula e le loro ceneri gettate in un fiume sottostante. Nel settembre 2015 il GIEI (Gruppo Internazionale di Esperti indipendenti), nominato della CIDH (Commissione Interamericana dei Diritti Umani), ha reso pubblico un rapporto che rimetteva in discussione questa versione (qui il video della conferenza stampa). Questo rapporto raggiungeva le stesse conclusioni di quelle di numerosi specialisti tra cui l’Equipe Argentina d’Antropologia Forense (EAAF) che aveva determinato che non c’erano elementi scientifici che permettessero d’assicurare che i 43 studenti erano stati calcinati presso la discarica di Cocula. Messo davanti a queste perizie, che contestavano la cosiddetta “verità storica” di Murillo Karam, il governo messicano ha deciso d’effettuare un terzo studio servendosi di un nuovo gruppo di specialisti in tema d’incendi e fuoco.

Per questa perizia la PGR (Procura Generale della Repubblica) ha chiesto la collaborazione del GIEI che ha accettato di partecipare a condizione che tutte le decisioni fossero prese congiuntamente. Il primo aprile 2016 il nuovo gruppo di specialisti nominato dalla PGR e il GIEI ha reso alle autorità messicane un rapporto con alcuni risultati preliminari del proprio lavoro. Contrariamente a quanto convenuto con il GIEI, la PGR ha deciso unilateralmente di rendere immediatement pubblici i risultati di queste perizie. Ha dunque indetto una conferenza stampa che ha avuto luogo il giorno stesso e in cui i giornalisti non hanno avuto la possibilità di fare domande. Ricardo Damián Torres, membro de l’equipe di specialisti, s’è incaricato di fare da portavoce di tutto il gruppo. Contrariamente a quanto il signor Torres aveva indicato al GIEI prima della conferenza stampa, il suo messaggio non si è affatto limitato a segnalare l’impossibilità, al momento, di confermare o rifiutare l’ipotesi della calcinazione degli studenti nella discarica di Cocula. Anzi, è stata fatta allusione a elementi della ricerca che non erano ancora stati analizzati dal GIEI e sui quali non c’era consenso tra tutti i membri del gruppo di specialisti.

In questa conferenza di 4 minuti la PGR ha concluso che c’è stato un evento incendiario controllato di grandi dimensioni e che nella discarica sono stati ritrovati i resti umani di almeno 17 persone incenerite sul posto e che questo permette di formulare l’ipotesi che si tratti dei resti degli studenti scomparsi. La versione della procura si basa principalmente sulle confessioni, probabilmente ottenute sotto tortura (vedere rivista Proceso, 12 settembre 2015) di tre presunti sicari che hanno confessato di aver bruciato gli studenti presso la discarica di Cocula. Eppure, il 9 febbraio 2016 l’Equipe Argentina d’Antropologia Forense (EAAF), in una conferenza stampa durata oltre un’ora e mezza, aveva presentato in modo dettagliato i risultati della sua ricerca nella discarica (che era stata realizzata dal 27 ottobre al 6 novembre 2014, cioè solo un mese dopo la tragedia). Da questa perizia emerge che gli elementi probatori testimoniali forniti dai presunti sicari non concordano con le prove fisiche raccolte sul campo.

L’equipe argentina (cf. ALLEGATO 1) ha dimostrato che nella discarica ci sono stati, sì, molteplici episodi di fuoco controllato, ma che nessuno di essi ha avuto le dimensioni ipotizzate dalla PGR, né ha potuto avere luogo nella notte del 26 settembre 2014. L’EEAF ha trovato nella discarica i resti di almeno 19 individui, tra i quali compaiono due protesi dentali che non corrispondono ai profili degli studenti. L’equipe insiste sul fatto che questi 19 corpi sono stati molto probabilmente calcinati in momenti diversi e che ciò è da mettere in relazione con il contesto delle sparizioni forzate nella zona di Iguala. In effetti, in seguito alla sparizione dei 43 studenti e alle ricerche nella regione, sono stati denunciati a Iguala più di 300 casi di sparizione che sono stati commessi negli ultimi 4-5 anni e nei dintorni sono state scoperte dozzine di fosse clandestine. Per questo l’EAAF, al contrario della procura, afferma che ad oggi non c’è nessun prova fisica che permette di stabilire un legame tra i resti rinvenuti a Cocula e gli studenti scomparsi.

La sola prova al riguardo è costituita dall’osso che ha permesso l’identificazione dello studente Alexander Mora Venancio. Questo frammento osseo è stato ritrovato da membri della Marina all’interno di una busta di plastica scoperta sulle rive del fiume San Juan, in seguito alle confessioni dei presunti sicari. L’EAAF non era presente al momento del rinvenimento e, in mancanza di una catena di custodia, non è in grado di confermarne la provenienza. Il governo, d’altro canto, non ha permesso agli esperti del GIEI d’interrogare i membri della Marina che l’avevano ritrovata.

L’identificazione è stata eseguita dal laboratorio di medicina legale dell’università di Innsbruck, che è stato incaricato dal governo messicano d’analizzate 17 resti calcinati. Il solo frammento per cui è stato possibile estrarre il DNA nucleare è l’osso di A. Mora Venancio. Questo frammento, secondo l’EAAF, presentava un colore diverso, una dimensione maggiore e un minor grado d’esposizione al fuoco degli altri frammenti ossei ritrovati nella discarica o nelle buste. Gli altri campioni, essendo troppo calcinati per poterne estrarre il DNA nucleare, sono stati sottoposti a una procedura sperimentale per l’estrazione del DNA mitocondriale. Grazie a questo metodo gli esperti hanno trovato una corrispondenza con la madre dello studente Jhosivani Guerrero de la Cruz, ma la coincidenza genetica è debole in termini statistici e l’EAAF considera che questo risultato non permette un’identificazione definitiva, soprattutto se si tiene in conto il numero degli scomparsi nella regione. Inoltre il frammento in questione proveniva, anch’esso, dalla busta recuperata nel fiume. Il laboratorio di Innsbruck ha eseguito i test del DNA sul resto dei campioni e consegnerà i risultati nei prossimi giorni.

Insomma, in questa nuova ricerca realizzata un anno e mezzo dopo i fatti la PGR non apporta nuovi dati rispetto alle perizie precedenti, però ne ricava conclusioni differenti. Affermando che almeno 17 persone sono state bruciate nella discarica durante uno stesso evento incendiario, la procura cerca di eliminare le incoerenze tra le prove fisiche e le testimonianze dei sicari e d’imporre, così, la sua “versione storica” dei fatti. Il modo in cui questi risultati sono stati resi pubblici mostra nuovamente l’incompetenza del governo, il suo autoritarismo e il suo disprezzo per le vittime e i loro cari, non solamente per i 43 studenti di Ayotzinapa ma per centinaia di desaparecidos della regione di Iguala, alcuni dei quali potrebbero essere stati bruciati nella discarica di Cocula (basti pensare alla citata protesi dentale non appartenente ad alcun studente di Ayotzinapa).

Tutto questo accade in un contesto molto delicato. Infatti, malgrado la richiesta delle famiglie dei 43 di prolungare il mandato del GIEI, che scade in aprile, il governo ha deciso di non rinnovare la missione del Gruppo, nonostante il caso degli studenti, tuttora desaparecidos, sia lontano dall’essere risolto. Inoltre, da qualche mese, i membri del GIEI sono oggetto di una ignobile campagna di discredito su certi mezzi di comunicazione messicani e nelle reti sociali. Il governo messicano non ha mostrato nessuna volontà di mettere fine a queste diffamazioni che, sia beninteso, mirano a screditare il lavoro fatto dal GIEI. Al contrario, le autorità messicane hanno dato seguito a una denuncia infondata sporta contro il segretario esecutivo della CIDH, Emilio Álvarez Icaza, riguardante una presunta appropriazione indebita di fondi pubblici da parte del GIEI.

Non è la prima volta che il governo di Enrique Peña Nieto si mostra ostile verso gli organismi internazionali che denunciano la violazione dei diritti umani in Messico. Nel marzo 2015, quanto il relatore speciale dell’Onu sulla tortura, Juan Méndez, ritenne che la tortura in Messico era una pratica generalizzata, fu definito dalle autorità messicane “non professionale e non etico” (commento fatto da Juan Manuel Gómez Robledo, che all’epoca era responsabile dei diritti umani presso il Ministero degli Esteri e che è attualmente l’ambasciatore messicano in Francia). Inoltre la nuova autorizzazione per una visita che Juan Méndez ha richiesto al governo messicano per continuare il suo lavoro nel 2016 è stata appena rifiutata col pretesto di problemi di calendarizzazione.

L’informazione diffusa in Francia (e in genere in Europa) riguardante la nuova perizia non considera altro che il messaggio lanciato in conferenza stampa dal governo. Vi invitiamo a esaminare il comunicato stampa che il GIEI ha pubblicato immediatamente dopo la conferenza della PGR e in cui denuncia le manovre delle autorità messicane e le loro mancanze nel rispetto degli accordi sottoscritti. Vi invitiamo inoltre a entrare in contatto con le famiglie dei desaparecidos e con gli studenti che hanno subito l’aggressione del 2014 per conoscere la loro versione dei fatti. I familiari e i cari dei 43 rifiutano categoricamente l’annuncio fatto il primo aprile e sono determinati a continuare la loro lotta finché non si arrivi alla verità e alla giustizia.

Restiamo a vostra disposizione e vi invitiamo a mettervi in contatto con noi per ulteriori informazioni.

 

ALLEGATO 1 Conferenza stampa del 9 febbraio 2016 dell’Equipe Argentina d’Antropologia Forense (EAAF)

Ecco le principali conclusioni del gruppo di esperti argentini:

  • Rapporti metereologici realizzati da varie istituzioni registrano precipitazioni piovose nella zona di Cocula durante la notte tra il 26 e il 27 settembre 2014. Inoltre, le immagini satellitari confermano l’assenza di fuoco a tale data.
  • I 138 elementi balistici (bossoli e proiettili) ritrovati nella discarica provengono da almeno 39 armi da fuoco distinte. Si tratta per lo più di armi da spalla, mentre i presunti testimoni parlano di armi da pugno. Inoltre, alcuni di questi elementi balistici erano arrugginiti, il che significa che la loro presenza nella discarica precede la scomparsa degli studenti.
  • L’analisi del suolo, della vegetazione, di insetti e di escrementi animali ha dimostrato che nella discarica sono avvenuti numerosi episodi di fuoco controllato con differenti epicentri, il che è confermato dalle immagini satellitari degli ultimi anni. Per di più, dei tronconi d’albero sono stati ritrovati nel punto in cui, secondo i sicari, si trovava la pira usata per bruciare i corpi. Se l’indicazione dei sicari fosse esatta, i tronconi dovrebbero essere, anch’essi, completamente carbonizzati.
  • Nella discarica sono stati trovati centinaia di frammenti ossei carbonizzati che non possono essere stati calcinati in un solo evento incendiario, perché presentano differenti livelli di esposizione al fuoco e perché sono sparpagliati in vari punti della discarica. Basandosi sulle “rocche petrose” (che sono le ossa del cranio più resistenti) presenti nella discarica, l’EAAF ha calcolato che tali resti umani appartengono ad almeno 19 individui diversi. Tra questi resti, figurano due protesi dentarie, di cui una è fissata su una mandibola. Siccome nessuno degli studenti di Ayotzinapa portava protesi, nella discarica sono sicuramente presenti resti umani non attribuibili agli studenti.

Note

[1] (Legati a indagini di competenza federale e di ogni stato) http://secretariadoejecutivo.gob.mx/rnped/datos-abiertos.php

[2] https://youtu.be/aevgXsqTEIw  o http://www.hchr.org.mx/index.php?option=com_k2&view=item&id=767:declaracion-del-alto-comisionado-de-la-onu-para-los-derechos-humanos-zeid-ra-ad-al-hussein-con-motivo-de-su-visita-a-mexico&Itemid=265

[3] Steve Fisher y Anabel Hernández, Iguala, la historia no oficial, http://www.proceso.com.mx/390560/iguala-la-historia-no-oficial

[4] http://centroprodh.org.mx/GIEI/

[5] https://www.centrodemedioslibres.org/2015/09/06/informe-ayotzinapa-del-grupo-interdisciplinario-de-expertos-independientes-de-la-cidh/

[6] AAVV, México, la Guerra invisible. Informe de Libera contra las mafias. http://www.red-alas.net/wordpress/wp-content/uploads/2015/09/DossierMexico_LIBERA_ESP.pdf (pp. 52-55)

[7] José Reveles, Échale la culpa a la heroína, Grijalbo, 2015.

[8] Denise Maerker. Ayotzinapa, incompetencia y manipulación. http://www.eluniversal.com.mx/entrada-de-opinion/columna/denise-maerker/nacion/2015/09/8/ayotzinapa-incompetencia-y-manipulacion

[9] http://www.radioformula.com.mx/notas.asp?Idn=581856&idFC=2016

[10] http://www.oas.org/es/cidh/sesiones/docs/Calendario-157-audiencias-es.pdf

[11] Comunicado completo http://aristeguinoticias.com/2403/mexico/ongs-europeas-respaldan-en-un-comunicado-al-giei/

[12] http://www.seguridadjusticiaypaz.org.mx/

[13] http://aristeguinoticias.com/0204/mexico/el-tercer-peritaje-sobre-cocula-no-afirma-ni-niega-hipotesis-de-la-pgr-peritos-argentinos/

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I Silenzi di Papa Francesco in Messico https://www.carmillaonline.com/2016/02/28/i-silenzi-di-papa-francesco-in-messico/ Sat, 27 Feb 2016 23:00:04 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28880 di Fabrizio Lorusso

papa-francisco-ayotzinapa-desaparecidos-cnnSono molti i punti critici e salienti della visita di Papa Francesco in Messico, svoltasi dal 12 febbraio al 17, che non sono (quasi) apparsi sui media fuori dal Messico e che si riferiscono non solo a cosa ha fatto Bergoglio, ma soprattutto alle sue omissioni e ai suoi silenzi, senza dubbio molto significativi. Strategicamente ha coperto il territorio e alcuni settori della società, concentrandosi però sulle élite. Queste hanno avuto pieno accesso al pontefice, mentre i rappresentanti della società civile sono comparsi come figuranti. Geograficamente è passato dal centro [...]]]> di Fabrizio Lorusso

papa-francisco-ayotzinapa-desaparecidos-cnnSono molti i punti critici e salienti della visita di Papa Francesco in Messico, svoltasi dal 12 febbraio al 17, che non sono (quasi) apparsi sui media fuori dal Messico e che si riferiscono non solo a cosa ha fatto Bergoglio, ma soprattutto alle sue omissioni e ai suoi silenzi, senza dubbio molto significativi. Strategicamente ha coperto il territorio e alcuni settori della società, concentrandosi però sulle élite. Queste hanno avuto pieno accesso al pontefice, mentre i rappresentanti della società civile sono comparsi come figuranti. Geograficamente è passato dal centro (Città del Messico, Ecatepec, Michoacán) al sud (Chiapas, frontiera meridionale) e al nord (Ciudad Juárez, frontiera con gli USA). L’asse Nord-Sud è un elemento importante del pontificato di Bergoglio e la denuncia degli eccessi del capitalismo, delle disuguaglianze e della povertà ne è un asse portante. Per cui il suo discorso si riproduce come un canovaccio ovunque con qualche variazione sul tema.

Il momento del Messico

In Messico il copione ha funzionato e i media del mondo hanno osannato la visita del vescovo di Roma e i suoi discorsi contro la corruzione, anche nella Chiesa, e contro i privilegi e il narcotraffico. Ma il nucleo è sempre lo stesso, quello della dottrina sociale della Chiesa. Wojtyla utilizzava lo stesso corpus dottrinario e retoriche simili per parlare dell’asse Est-Ovest durante la Guerra fredda e degli eccessi del blocco sovietico. Ma l’impressione, nel suo caso, è che si schierasse tout court contro il comunismo. Caduta l’Unione Sovietica e i regimi dell’Est europeo, anche il Papa polacco cominciò a muoversi verso una retorica contro gli eccessi del mercato. Il filo rosso appare incentrato più sulla difesa del tradizionalismo, delle prerogative della Chiesa e di prospettive anti-moderne e, in parte, antiliberali che sull’attacco a questo o a quel sistema economico-politico.

El chapo nationIl “momento messicano” di gennaio e febbraio era molto delicato per cui il governo e la diplomazia non poteva tollerare altri colpi all’immagine del Paese. L’uccisione della sindaca Gisela Mota, la cattura del boss El Chapo Guzmán e l’intervista di Sean Penn che ha ridicolizzato il governo, le proteste per i 43 ragazzi desaparecidos di Ayotzinapa il 26 gennaio, a 14 mesi dal loro sequestro e sparizione. Poi il caso di cinque turisti messicani, una famiglia, desaparecidos a Veracruz per mano della polizia. E infine l’uccisione brutale della giornalista Anabel Flores, freelance dello stato di Veracruz, e il massacro avvenuto nella prigione di Topo Chico, a Monterrey, con un bilancio di 49 morti tra i reclusi. Il Papa ha portato un po’ d’aria fresca per l’esecutivo. Le sue critiche sono state leggere e sono state neutralizzate, anche se nel mondo la percezione è stata diversa.

Francesco ha incontrato la classe dirigente messicana nelle sue tre componenti principali: imprenditoriale e finanziaria (Carlos Slim, uomo tra i più ricchi della Terra, e un centinaio tra i più importanti imprenditori messicani a Ciudad Juárez); ecclesiastica (Episcopato Messicano e alti prelati); politica (Presidente e consorte, Angélica Rivera, onnipresenti, Manuel Velasco, governatore del Chiapas e aspirante alla presidenza, e poi una sfilata costante di politici locali e nazionali in tutto il viaggio).

Incontri e silenzi

Ha avuto incontri con alcuni settori sociali e popolari, anche se si trattava, all’interno di ogni categoria, di gruppi “scelti” o cooptati dalle rispettive diplomazie, la vaticana e la messicana. Indigeni, lavoratori, vittime della violenza, giovani, famiglie, carcerati, migranti, operatori del sociale. In Messico, però, sono state denunciate le mancanze gravi della visita e le occasioni perdute per dare un segnale chiaro alla società e alla classe dirigente.

Bergoglio non ha praticamente mai citato, nemmeno cripticamente, lo Stato, il governo e le loro rispettive responsabilità. Ha parlato genericamente di corruzione, sequestro e traffico di persone, senza additare né segnalare. Parallelamente, dunque, tutti i problemi si riconducono ai narcos, ai “trafficanti della morte”, intesi come entità quasi astratta, priva di referenti e conniventi, come fosse un rappresentante del male assoluto. Il riferimento quindi non va mai al governo, alle polizie, ai sindaci o ai funzionari pubblici che in alcuni casi sono ingranaggi e pezzi integranti delle stesse organizzazioni criminali, le favoriscono o, semplicemente, le coprono e le lasciano operare. Era un accordo diplomatico. Solo sull’aereo di ritorno Papa Francesco ha brevemente menzionato alcune tematiche che in Messico sono sensibili e avrebbero fatto la differenza: la pedofilia nella Chiesa cattolica e i desaparecidos.

Chiapas e “questione indigena”

angelia-rivera-papa-francisco-pencc83a-nieto-mexicoSul tema degli indigeni, in Chiapas (link Radio Onda D’Urto), il Papa ha reso omaggio a Vasco de Quiroga, il “protettore degli indios” del secolo XVI, e alla tomba dell’ex vescovo di San Cristóbal de las Casas, vicino al movimento dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale e alla teologia della liberazione, Samuel Ruíz. Storicamente la Chiesa, dopo i primi anni di barbarie dei conquistadores spagnoli, già nel secolo XVI s’era mossa in difesa delle popolazioni autoctone americane in quanto la loro estinzione totale avrebbe implicato l’eliminazione della manodopera necessaria all’impresa coloniale, com’era accaduto nei Caraibi dove si prese a schiavizzare e “importare” schiavi di colore dall’Africa, e dei fedeli necessari all’espansione del cristianesimo in America.

D’altro canto Bergoglio ha incontrato alcuni rappresentanti di comunità indigene ed è stato accolto da canti e preghiere nelle tre lingue più parlate nella regione: chol, tzeltal e tzotzil. Il suo passaggio nello stato più povero del Paese, governato da un’alleanza tra il partito del presidente, il PRI (Partido Revolucionario Institucional), e il PVEM (Partito Verde Ecologista Messicano, cui appartiene il governatore Manuel Velasco) è stato celebrato internazionalmente. Al centro del discorso del pontefice c’erano gli indigeni esclusi e le ingiustizie, la dignità di questi popoli e la loro importanza per l’identità messicana. Ma al centro dell’agenda politica, in realtà, c’era l’urgenza di recuperare i territori che vanno dal Chiapas a Panama, dato che sono quelli in cui l’emorragia di fedeli è inarrestabile e avanzano i pentecostali e gli evangelici. La visita alla tomba del prete-militante Ruíz ´servita invece a “recuperare” i settori più combattivi del movimento indigeno che collima con lo zapatismo o ne è parte effettiva.

E i desaparecidos? E il pedofilo Marcial Maciel?

Marcial pedofiloIn tutto il suo viaggio Francesco non ha nominato le persone scomparse o desaparecidos, la pederastia clericale, il caso dei 43 studenti di Ayotzinapa e i femminicidi, nonostante la sua tappa a Ciudad Juárez, la città simbolo di questo delitto di genere contro le donne.

In Michoacán, dove il Papa ha partecipato a vari eventi, i seminaristi in coro hanno contato da 1 a 43 per ricordare i desaparecidos di Ayotzinapa, ma i media internazionali quasi non ne hanno parlato. Proprio in quella regione nacque e cominciò a operare padre Marcial Maciel, fondatore della potente congregazione dei Legionari di Cristo e responsabile di decine di atti di pedofilia e molestie sessuali. Ci sono documenti che mostrano che il Vaticano ne era conoscenza e l’ha coperto per anni. Le indagini contro Maciel sono andate a rilento. Il fondatore dei potentissimi Legionari, che molti servigi hanno reso al Vaticano in terra azteca, è morto, ma è rimasto impunito. Anche se pedofili e criminali, i grandi servitori della Chiesa pare possano trovare un posto d’onore nella storia. E infatti Bergoglio ha addirittura perdonato la congregazione in vista del Giubileo.

Le vittime di Maciel in Messico avevano chiesto udienza al Santo Padre, ma questa non è stata concessa perché, secondo quanto Bergoglio ha dichiarato alla stampa, gli incontri con quelle vittime c’erano già stati in passato. Traduzione: non s’è voluto attaccare alla radice il problema, né dare visibilità alle vittime, in quanto significava magnificare le malefatte del Vaticano, ed è stato meglio criticare solo gli eccessi della curia in termini economici.

Ayotzinapa e i retroscena diplomatici vaticani

papa desaparecidosIl Papa non ha incontrato le vittime della strage di Iguala del 26 settembre 2014 e i genitori dei ragazzi di Ayotzinapa desaparecidos nonostante la società e i gruppi che li sostengono lo chiedesse a gran voce. Ha sostenuto invece che i diversi gruppi di vittime di sparizione forzata sono “in lotta tra di loro” e che comunque non avrebbe potuto incontrare tutte le vittime. Menzogne e scuse. Per i femminicidi sembra sia stato applicato lo stesso pretesto. Non ha nominato i giornalisti, gli attivisti, i prigionieri politici e i difensori dei diritti umani che vivono intollerabili persecuzioni. Il capitalismo selvaggio viene criticato, ma non i grandi progetti di spoliazione di territori e comunità, i megaprogetti minerari ed energetici, frutto di un modello di sviluppo escludente trainato dagli investimenti transnazionali e dalla brama di battere cassa del governo di turno.

Non la mancanza di tempo o l’ignoranza dei fatti, non i presunti dissidi interni tra i gruppi sociali o il ruolo di “capo di Stato” di Francesco. Quali sono i motivi veri del silenzio?

Il pontefice non ha potuto o voluto nominare lo Stato messicano, né legare i mali del Messico alle politiche di questi anni o al connubio narcos-Stato-economia (legale e non). Parlare di Ayotzinapa e desaparecidos, ma anche citare i diritti umani o i crimini contro la stampa, implica automaticamente richiamare casi che han fatto il giro del mondo e sono ancora aperti. Privi di giustizia e giustificazioni. Sono spine nel fianco del governo perché le parole stesse, “diritti umani” o “desaparecido”, incorporano nella loro definizione i concetti di omissione o d’azione diretta da parte dei poteri pubblici in una violazione gravissima contro una o più persone. Chiedere giustizia, come fa la società messicana organizzata da decenni, significa rivelare queste trame ed esporsi. “Narcos”, “privilegi” e “corruzione” sono sostantivi vuoti, vaghi, se non si specificano le loro interconnessioni e gli attori che le promuovono. Certo il narcotraffico e i trafficanti ci sono, sono una parte del problema sociale gravissimo del Paese.

Inoltre i “narcos” non sono dei folli sanguinari isolati dal mondo: il mercato finale delle droghe che passano dal Messico, così come quello delle persone vittime di tratta e dei migranti, si trova negli Stati Uniti e in Europa, mentre i morti della narcoguerra militarizzata restano a sud, anche per via della connivenza e la corruzione di politici, funzionari e mercanti della guerra che inondano di armi il Messico e tanti altri territori. I messaggi del Papa sono stati ampi e generici sui temi “caldi” per il governo messicano, su quelli sociali e politici, e più efficaci su quelli religiosi, rivolti all’episcopato, anche se alla fine la pedofilia ne è rimasta fuori. S’è parlato dunque di narcotraffico, ma non della mafiosità diffusa nelle istituzioni e in certe aree. Il Papa si scaglia, giustamente, contro la corruzione e i privilegi, ma non menziona i corrotti e i privilegiati, che invece fanno sfoggio di moine e selfie con cui dimostrano il loro potere, la loro “fede” e la sprezzante soddisfazione per “averla fatta franca”, di nuovo.

Vetrina di governo

Papa santa muerteIl viaggio di Francesco è stato gestito alla stregua dei megaeventi sportivi e, infatti, ha riscosso un grande successo di pubblico e di share in TV. Il governo del presidente Peña Nieto è uscito vincitore nonostante le critiche e l’esposizione dei problemi sociali messicani realizzate da una parte dei mass media. Il presidente, sua moglie e il loro entourage politico e del mondo dello spettacolo hanno praticamente scortato il pontefice ovunque fosse possibile. Le critiche generiche del Papa non hanno toccato le corde sensibili e la classe politica nel suo complesso ha potuto fare orecchio da mercante, approvando sui social network le parti critiche dei discorsi papali, soprattutto sul tema della corruzione e i privilegi. Ormai la ricerca della legittimità delle dirigenze politiche non risiede più nel popolo o nel loro operato, cioè nei risultati concreti, quanto nel gattopardismo e nelle dimostrazioni pubbliche della loro religiosità. In altre parole ha prevalso la figura del politico buon cattolico, che è screditato e criticato dalla gente, ma si guadagna consensi facendosi vedere con il Papa e realizzando opere in fretta e furia per mostrare in TV una città pulita quando passa il capo della Chiesa.

Pochi media internazionali hanno spiegato che la moglie del presidente Peña, l’attrice Angélica Rivera, nota anche come “La Gaviota” (La gabbiana), è nel mezzo di due scandali: uno di corruzione, per via della “casa Bianca”, residenza-abitazione sua e del presidente a Città del Messico, che sarebbe stata comprata con giri “poco trasparenti” da un’azienda contrattista di governo che in questi anni ha ottenuto molte commesse (Gruppo Higa), e un altro legato ai dubbi molto seri circa l’annullamento del suo precedente matrimonio religioso da parte del Vaticano, senza il quale non si sarebbe potuta risposare con Peña Nieto. I casi restano aperti a livello giornalistico, non giudiziario, ma accendono i riflettori su affari economico-religiosi poco chiari.

Trump e gli specchi per le allodole

TRUMP-PAPA-FRANCESCO-facebookLa polemica Donald Trump-Papa Francesco è servita ai fini elettorali del candidato americano alle primarie repubblicane e alla copertura dei punti critici della conferenza stampa itinerante da parte del Vaticano. Le provocazioni e le frasi estrapolate dal battibecco mediatico tra i due sono diventate virali e globali e hanno generato simpatie e consensi ai rispettivi pubblici di riferimento dei leader. I commenti di Bergoglio sul virus zika, quasi inesistente in Messico ma in espansione in Brasile, e l’aborto hanno coronato una conferenza stampa che è parte di una strategia mediatica ben orchestrata: commentare a freddo le domande che a caldo la società messicana avrebbe voluto rivolgere al pontefice e le critiche che non sono potute emergere prima.

Parlando dell’epidemia dello zika, Bergoglio non ha aperto sulla contraccezione, ma ha solo dichiarato che non è un “male assoluto”. Ciononostante non pochi mezzi di comunicazione, anche in Messico, hanno elogiato questa presunta “svolta”, ma non hanno parlato del tema dell’aborto che è delicatissimo. La metà dei 32 stati messicani non solo non permettono l’interruzione della gravidanza, neppure entro le 12 settimane, ma la penalizzano, per cui centinaia di donne scontano pene pesantissime e portano al collasso il sistema penitenziario. Solo a Città del Messico l’aborto è regolato e permesso.

Uno degli specchietti per le allodole, imboscato nell’omelia papale durante la sua visita presso la Basilica di Gudalupe, è stata la frase in cui, senza mai citarlo direttamente, Bergoglio ha criticato il culto alla Santa Muerte, osteggiato da sempre dalla Chiesa in tutti modi proprio per via della sua crescita inesorabile.

papa-francesco-i-vs-la-santa-muerte-L-wlgNEz“Mi preoccupano particolarmente tanti che, sedotti dalla potenza vuota del mondo, esaltano le chimere e si vestono con i loro macabri simboli per commercializzare la morte in cambio di monete che, alla fine, ‘le termiti e l’ossido fanno marcire e per le quali i ladri perforano muri o rubano’. Vi chiedo di non sottovalutare la sfida etica e anti-civica che il narcotraffico rappresenta per l’intera società messicana”, ha detto. Nuovamente si ripete il mantra della Santa Muerte come Madonna dei narcos e del delinquenti, mostrando, nel migliore dei casi, un’ignoranza enorme sul tema dei culti popolari messicani o una malafede classista e razzista verso la popolazione, comunque cattolica, che include tra le sue protettrici anche la Santa Parca con la falce.

Durante i preparativi per il tour papale si sono scontrati due gruppi con visioni diverse: governo e Conferenza dell’Episcopato Messicano, Legionari di Cristo e televisioni (Tv Azteca e TeleVisa) sposavano la prospettiva del potere e hanno prevalso nell’organizzazione del viaggio, mentre all’opposto c’erano la Compagnia di Gesù, gruppi ecclesiastici di base e organizzazioni della società civile, le quali volevano rendere visibili le vittime della delinquenza che risultano scomode al governo e denunciare il “patto d’impunità” tra classi dirigenti e criminalità. S’è trattato quindi d’una visita cooptata dalle diplomazie, più di Stato che pastorale, come invece era stata definita inizialmente, e diretta alle varie élite del Paese per rimettere un po’ d’ordine nelle gerarchie e inaugurare nuove fruttuose collaborazioni. Un’occasione perduta per rompere il silenzio (Link Latinoamericando Radio Coop Padova) o sulla grave crisi dei diritti umani messicana.

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