Dilma Roussef – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estrattivismo pandemico/2 https://www.carmillaonline.com/2020/07/30/estrattivismo-pandemico-2/ Thu, 30 Jul 2020 03:25:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61808 di Alexik

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“Il massacro al villaggio ikoots di San Mateo del Mar non è il risultato di un conflitto interno o post elettorale, così come lo considera il presidente Andrés Manuel López Obrador, ma ha alla sua origine il rifiuto da parte delle assemblee comunitarie dei megaprogetti connessi al canale interoceanico, e mette in evidenza gli interessi di persone e gruppi che aspirano a convertirsi nei capataz locali  prima di questa nuova conquista” (Preparatoria Comunitaria José Martì).

La strage [...]]]> di Alexik

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“Il massacro al villaggio ikoots di San Mateo del Mar non è il risultato di un conflitto interno o post elettorale, così come lo considera il presidente Andrés Manuel López Obrador, ma ha alla sua origine il rifiuto da parte delle assemblee comunitarie dei megaprogetti connessi al canale interoceanico, e mette in evidenza gli interessi di persone e gruppi che aspirano a convertirsi nei capataz locali  prima di questa nuova conquista” (Preparatoria Comunitaria José Martì).

La strage di San Mateo de Mar mette a nudo la vacuità delle retoriche sulla ‘quarta trasformazione’, il cambiamento radicale proclamato da López Obrador che tanto entusiasmo aveva generato nella sinistra messicana e internazionale, e che prometteva di farla finita con la corruzione e l’impunità, oltre che di attuare una politica di lotta alle disuguaglianze attraverso il ripristino del ruolo interventista e redistributivo dello Stato, in discontinuità con le politiche neoliberiste dei predecessori.
Una discontinuità promessa nel nome di un nazionalismo interclassista che pretende di coniugare la lotta alla povertà con l’aumento dei profitti e degli investimenti, secondo una narrazione che identifica la causa della miseria nella ‘assenza di sviluppo’ e la soluzione nel più classico ‘desarrollismo’.
E’ in nome dello sviluppo, della creazione di posti di lavoro, della redistribuzione della ricchezza, e addirittura del ‘rispetto del medio-ambiente’ (!)1, che il governo messicano si appresta alla distruzione delle condizioni di riproduzione economica, sociale e culturale delle comunità investite dai megaprogetti del Tren Maya e del Corridoio Transistmico, prefigurando per loro un futuro di marginalità e sfruttamento salariato nelle maquiladoras e nel turismo di massa, e riproducendo, fra l’altro, le condizioni per il dilagare di quella corruzione, impunità e violenza che la retorica moralizzatrice della ‘quarta trasformazione’ si proponeva di combattere.

A proposito di impunità, attualmente, a un mese dell’eccidio di San Mateo del Mar, i funzionari e i dipendenti pubblici ritenuti responsabili della strage non sono stati nemmeno sollevati dall’incarico, e i familiari delle vittime hanno richiesto l’apertura di un’inchiesta da parte della Commissione Interamericana per i Diritti Umani (CIDH), mostrando evidentemente poca fiducia nella giustizia messicana.

Oltre all’uccisione dei quindici militanti Ikoots nell’Oaxaca, la quarantena ha favorito in tutto il Messico gli assassini di altri attivisti per la difesa ambientale, come quello di Isaac Medardo Herrera, storico difensore delle riserve naturali contro la speculazione edilizia, ucciso da un gruppo armato in casa sua, nello stato di Morelos, seguito da Juan Zamarrón, militante contro la deforestazione nella municipalità di Bocoyna (Chihuahua), ammazzato a domicilio assieme a due suoi familiari.
L’otto aprile è stato il turno di Adán Vez Lira, creatore di un importante progetto di ecoturismo comunitario nel villaggio di  La Mancha (Actopan , Veracruz), su una laguna che rappresenta uno dei luoghi di sosta degli uccelli migratori più importanti del mondo. Assieme alla sua gente si era opposto all’assedio delle imprese minerarie, che premono per l’introduzione ad Actopan dell’estrazione  a cielo aperto.
I sicari non si sono fermati nemmeno di fronte ai ragazzini, con l’omicidio a San Agustin Loxicha (Oaxaca) di Eugui Roy, 21 anni, studente di biologia, divulgatore scientifico e militante ambientalista.
Nomi di compagni che quasi si perdono nel conto complessivo dei morti ammazzati  nel paese che hanno raggiunto il record di quota 17.982 solo nei primi sei mesi di quest’anno.

Scendendo dal Messico al Cono Sur, è la Colombia a detenere il primato delle esecuzioni extragiudiziali di militanti sociali, in un contesto dove gli accordi di pace fra il governo colombiano e le FARC, ratificati all’Avana il 23 giugno 2016, non hanno affatto rimosso le ragioni sociali che avevano dato origine alla guerriglia.
La smobilitazione delle FARC dai territori sotto il loro controllo lascia il campo libero alla penetrazione di interessi estrattivi, alla crescita di egemonia dei cartelli, all’imperversare di gruppi paramilitari di ultradestra (che a differenza delle FARC non hanno smobilitato) e di bande criminali di ogni tipo, esercito compreso.
Per quanto spesso in violenta frizione con le popolazioni locali, le FARC avevano perlomeno avuto, in questo senso, una funzione deterrente.
Dal 2016, la ‘pace’ seguita agli accordi ha per ora lasciato in terra circa un migliaio fra ex guerriglieri tornati alla vita civile e leader sociali, abbattuti con omicidi selettivi.
Nel 2020 sono stati assassinati, oltre a 36 ex guerriglieri, 179 fra militanti indigeni, contadini, sindacalisti e ambientalisti e loro familiari.
Succede in un paese dove non basta nemmeno la copertura come collaboratore ONU a salvarti la vita, come dimostra l’uccisione del cooperante italiano Mario Paciolla del 15 luglio scorso, per le autorità colombiane ufficialmente vittima di un suicidio a cui nessuno crede2.

Quest’anno gli omicidi mirati dei militanti in Colombia sono cresciuti a un ritmo quasi doppio rispetto agli anni scorsi3, e 108 sono stati portati a termine dall’inizio della quarantena.
Per Carlos Medina Gallego, docente della Universidad Nacional de Colombia, in questa escalation è palese la connivenza dello Stato con i gruppi paramilitari, la partecipazione frequente alle violenze di membri delle forze armate, le azioni e le omissioni di alti funzionari, e la responsabilità del governo di ultradestra di Iván Duque4.

Carlos Medina segnala come circa il 70% degli omicidi dei leader sociali siano connessi ai conflitti agrari o ambientali, e circa il 10% alle eradicazione forzate da parte della forza pubblica delle coltivazioni di coca delle comunità indigene e contadine.
Eradicazioni attuate in violazione degli accordi di pace del 2016, che prevedevano il sostegno ad un processo di sostituzione volontaria delle colture, fonte di sostentamento di migliaia di persone nelle campagne.
L’ultimo caduto in questo tipo di conflitto è stato il contadino quindicenne José Oliver Maya Goyes, appartenente al popolo Awà, ucciso il 20 luglio dalla Policía Nacional Antinarcóticos durante un’eradicazione forzata a Putumayo.
Non pago dell’omicidio di minorenni e in spregio agli accordi di pace, il governo Duque sta lavorando per riattivare le fumigazioni aeree di glifosato sulle coltivazioni di coca, vietate dal 2015 per le conseguenze devastanti sull’ambiente e sulla salute delle popolazioni rurali, dimostrate dagli studi dell’OMS.

Sul fronte antiminerario, va ricordata la morte violenta del sociólogo colombiano Jorge Enrique Oramas, ucciso il 16 maggio scorso, conosciuto per la sua instancabile attività nella difesa dell’agricoltura contadina e contro l’agrochimica.
Difensore della biodiversità è stato un irriducibile oppositore dei tentativi di sfruttamento minerario del Parco nazionale dei Farallones di Cali.

Se l’attacco ai difensori della terra in Colombia si articola in centinaia di singoli agguati, Jair Bolsonaro in Brasile ha deciso di fare molto di più.
Non perché in Brasile si disdegnino gli assassini mirati, anzi.
Il 31 marzo nello stato amazzonico del Maranhão è stato ammazzato Zezico Rodrigues Guajajara, coordinatore della Commissione dei capi indigeni e promotore dei Guardiani della Foresta, un gruppo di 120 volontari a protezione del territorio di Araribóia dal disboscamento e dal commercio illegale di legname.
Negli ultimi due mesi del 2019 erano già caduti Paulo Paulino Guajajara, precedente portavoce dei Guardiani della Foresta, ed altri tre indigeni Guajajara, due capivillaggio e un ragazzino (squartato), uccisi in uno stato, il Maranhão, dove la copertura forestale è stata più che dimezzata negli ultimi quattro anni5.
A livello complessivo la situazione non va meglio: tra gennaio e giugno 2020 sono stati perduti oltre tremila chilometri quadrati di foresta amazzonica brasiliana, con un incremento del 25% rispetto al già disastroso 2019.

In maggio Bolsonaro ha deciso di fermare gli incendi schierando l’esercito nelle foreste, e destinandogli un budget 10 volte superiore a quello dell’Ibama, l’Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais deputato a questo tipo di lavoro6.
I risultati della militarizzazione “ambientalista” si vedono: nel solo mese di giugno 2020 nella foresta amazzonica sono stati registrati oltre 2.248 incendi, il 19,5% in più rispetto allo stesso mese dell’anno scorso7.

Le esecuzioni, la deforestazione e gli incendi sono la cifra della pressione esercitata sull’Amazzonia per trasformarla in una distesa per le coltivazioni intensive della soia, pascoli per la produzione di carne, campi di estrazione mineraria e petrolifera, e per imporre megaprogetti idroelettrici ai suoi grandi fiumi.
E’ il sogno di Bolsonaro e del blocco di potere da lui rappresentato, che trova ostacolo nella resistenza delle popolazioni indigene, già accusate dal presidente di voler impedire il progresso e di rappresentare una minaccia per la sovranità nazionale.
Un ostacolo da abbattere non più solo tramite la condiscendenza verso le uccisioni mirate, ma direttamente con il genocidio, usando il coronavirus.

In una recente lettera aperta, il teologo Frei Betto ha identificato nella determinazione di Bolsonaro nel sabotare l’attuazione delle misure per l’emergenza covid la volontà criminale di decimare la popolazione brasiliana anziana, malata e povera per risparmiare su pensioni, assistenza e sanità8. Una politica genocida che ha dedicato particolare attenzione agli indigeni e agli afrodiscendenti.
L’8 luglio il presidente, invocando ‘l’interesse pubblico’, ha posto infatti il veto ad una legge che intendeva garantire il diritto all’acqua potabile e all’assistenza ospedaliera per le popolazioni indigene e quilombo in tempi di pandemia, ed obbligare il governo a fornire materiali per l’igiene e la pulizia, l’installazione di Internet e la distribuzione di cibo, semi e strumenti agricoli ai loro villaggi.
Ai primi di luglio, secondo l’Articulação dos Povos Indígenas do Brasil (APIB) il coronavirus colpiva già 122 gruppi etnici indigeni brasiliani, con 12 mila contagi e 445 morti tra le comunità originarie del paese, fra le più povere ed escluse dall’accesso all’assistenza sanitaria.

Fra i morti di covid anche Paulinho Paiakan, capo del popolo indigeno Kayap, difensore delle foreste dai tempi della lotta contro la costruzione dell’autostrada Transamazzonica, nei primi anni ’70.
Fu sempre in prima fila contro lo sfruttamento minerario dell’Amazzonia, contro il mercato illegale del legname, e contro la diga di Belo Monte sul fiume Xingu, la seconda centrale idroelettrica del Brasile, voluta da Lula e ultimata da Dilma Rousseff, che comportò all’epoca l’espulsione di 20.000 persone dalle zone allagate, ed ha stravolto per sempre l’ecosistema e la vita degli abitanti del corso del fiume. (Continua)


  1. Que es el Tren Maya ?, pamphlet propagandistico. 

  2. Mario Paciolla  era volontario nella Missione di Verifica delle Nazioni Unite sull’applicazione degli accordi di pace, e si occupava del reinserimento sociale degli ex combattenti delle Farc nella zona di San Vicente del Caguán. Si era impegnato in prima persona nella difesa delle famiglie di otto adolescenti uccisi nel novembre scorso da un bombardamento dell’aviazione militare Colombiana contro un accampamento dell’ala dissidente delle FARC. 

  3. Nel 2016 ne sono stati conteggiati da Indepaz 132, 208 nel 2017, 282 nel 2018, 250 nel 2019 

  4. Va rilevata la piena continuità di Iván Duque con la linea di Alvaro Uribe, suo padrino politico, veterano della guerra sporca contro la guerriglia e i movimenti sociali, condotta con ampio uso della tortura, esecuzioni extragiudiziali, ‘falsi positivi’, massacri e sparizioni.  Durante la sua presidenza (2002/2010) non si curò di celare la sua vicinanza ai paramilitari. 

  5. Celso H.L.Silva Junior, Danielle Celentano, Guillaume X.Rousseau, Emanoel Gomesde Moura, István van Deursen Varga, Carlos Martinez, Marlúcia B.Martins, Amazon forest on the edge of collapse in the Maranhão State, Brazil, Land Use Policy, Volume 97, 2020. 

  6. Hyury Potter, Forças Armadas recebem orçamento 10 vezes maior que Ibama para não fiscalizar Amazônia, The Intercepter, 9 luglio 2020. 

  7. André Shalders, Brasil entrará em temporada de queimadas sem plano para a Amazônia, BBC Brasil, 2 luglio 2020. 

  8. Frei Betto, La politica necrofila di Bolsonaro sta compiendo un genocidio, Il Manifesto, 18 luglio 2020. 

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Caso Battisti: Smascherando la provocazione giudiziaria https://www.carmillaonline.com/2015/03/07/caso-battisti-smascherando-la-provocazione-giudiziaria/ Fri, 06 Mar 2015 23:00:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21130 di Carlos A. Lungarzo *

BattistiFiglieQuasi tutti hanno capito (anche se la maggioranza finge il contrario) che, dal 2007, il caso Battisti non è stato altro che una sequenza infame di provocazioni senza senso, di desideri di vendetta e di manovre dell’opposizione per far fallire il governo del PT. In questo post mi riferisco all’ultima e più truculenta di tutte: un membro del MPF (Pubblico Ministro federale) del DF (Distretto Federale, cioè la capitale Brasilia, ndt), sconosciuto all’opinione pubblica ma assoggettato agli interessi dei partiti d’opposizione di destra, ha [...]]]> di Carlos A. Lungarzo *

BattistiFiglieQuasi tutti hanno capito (anche se la maggioranza finge il contrario) che, dal 2007, il caso Battisti non è stato altro che una sequenza infame di provocazioni senza senso, di desideri di vendetta e di manovre dell’opposizione per far fallire il governo del PT. In questo post mi riferisco all’ultima e più truculenta di tutte: un membro del MPF (Pubblico Ministro federale) del DF (Distretto Federale, cioè la capitale Brasilia, ndt), sconosciuto all’opinione pubblica ma assoggettato agli interessi dei partiti d’opposizione di destra, ha presentato una ACP (Azione Civile Pubblica) nel 2011 per far revocare il permesso di soggiorno di Cesare Battisti in Brasile. Tale notizia è stata diffusa poco e l’azione è rimasta archiviata fino al momento in cui non s’è presentata l’occasione ideale. La situazione è arrivata: il piano golpista della destra e il caso Pizzolato. La giudice Adverci Rates Mendes de Abreu ha emesso una sentenza che, oltre al suo ovvio carattere “a richiesta”, è così contradditoria, fallace e illegale che il mio tentativo d’analisi può sembrare d’una facilità innecessaria. Ciononostante preferisco non semplificare perché, alla fine, ciò che sta dietro tutto questo è importante: golpisti civili e non civili, mercanti dell’oscurantismo, finanzieri, impresari e interessi stranieri.

In un paese in cui le persone che vogliono sostituire la scienza con la superstizione e quelle che esportano benzoilmetilecgonina (volgarmente, cocaina) si considerano in diritto di competere per la massima carica dello stato (il riferimento è al candidato del PSDB-Partito SocialDemocratico Brasiliano, Aecio Neves, sconfitto alle presidenziali del 2014 da Dilma Roussef, del PT-Partito dei Lavoratori, ndt), tutto può succedere.

Anticipando la conclusione

Ciò che tutti sappiamo, ma che ora vogliamo mostrare, è che: la legge sugli stranieri proibisce la permanenza di uno straniero processato all’estero per reati passibili d’estradizione, però…

L’estradizione è stata negata dal potere esecutivo. Ve ne ricordate? Quindi Battisti non è più soggetto all’estradizione. Già lo è stato fino all’8/6/11, ma non lo è adesso.

A tutti gli stranieri, la cui estradizione è stata rigettata, è stato istruito un processo per l’estradizione. E’ chiaro? Se qualcuno impedisce l’estradizione di Tizio, è perché qualcuno ha richiesto l’estradizione di Tizio e, pertanto, Tizio è stato accusato di qualche reato. Non è così? In Brasile negli ultimi decenni sono stati realizzati oltre mille processi per estradizione (quella di Battisti è la numero 1085) e centinaia di questi sono finiti con un rifiuto o negazione. Cioè la persona non è stata estradata. Dunque tutte quelle persone sono state condannate o giudicate, o per lo meno indiziate all’estero per un reato per cui era prevista l’estradizione. Pertanto la pittoresca giudice dovrebbe chiedere immediatamente l’annullamento del permesso di soggiorno e la deportazione di almeno 500 persone.

Come ha detto (e vedremo dopo) Maierovitch, la legge sugli stranieri non può essere interpretata liberamente perché questo conduce a dei paradossi.

Giudicare circa l’autorizzazione dell’estradizione è competenza del STF (Tribunale/Corte Suprema Federale), ma non lo è quella della sua esecuzione che spetta, invece, al potere esecutivo. Se l’estradizione o la deportazione fossero di competenza del potere giudiziario, allora certamente nessun giudice, per quanto possa essere contrario, potrebbe porsi al di sopra del STF che ha chiuso il caso in data 9/6/2011 alle ore 00:44.

Infine va detto che la legge 6851 fu inviata al Parlamento dal dittatore Figueiredo (1979-1985), su richiesta del sanguinario tiranno argentino Rafael Videla, il quale voleva la deportazione di oltre 20.000 argentini che abitavano in Brasile. In quel momento tutto il MDB voto contro, salvo Brossard. Favorevoli furono i deputati della dittatura (ARENA) che avevano una maggioranza risicata. L’allora deputato della città di Bahia, Chico Pinto, disse che la legge era fascista e stalinista. Niente di più esatto. Ebbene, ora un po’ di storia di questa sporca faccenda, poi gli argomenti e le conclusioni.

I fatti che hanno portato alla ACP

Il 31/12/2010 il presidente uscente del Brasile, Lula da Silva, firmo um decreto in cui rigettava l’estradizione richiesta dall’Italia nel caso Ext 1085, cosa che, secondo la legislazione nazionale e la CF, chiudeva definitivamente il caso.

All’epoca i magistrati Marco Aurélio e Ayres Brito protestarono contro l’esigenza (totalmente illegale e antigiuridica) di Peluso, il quale s’opponeva alla liberazione di Battisti e perse tutto il tempo che era possibile nel giudicare la decisione contraria all’estradizione. Inoltre quel giudizio era innecessario e fu una manovra sporca di alcuni magistrati.

Il giurista Luis Roberto Barroso ricordò come queste pratiche facevano tornare indietro la giustizia ai tempi di quella “disfunzionalità” chiamata “dittatura”.

Siccome Peluso, insieme a Mendes e Ellen, aveva dalla sua la forza bruta, visto che era sostenuto dai media e dalla destra parlamentare, è riuscito a prendere tempo di fatto fino all’8 giugno 2011.

Quel giorno Mendes entrò in una specie di delirio subitaneo e fece un discorso non-sense (molto più che d’abitudine), ripetendo fino a sette volte frasi grottesche (per esempio disse che il Tribunale Supremo Federale non era un club di ricreazione poetica [sic]). Lady Ellen fece un commento pieno da ultra-snob in cui paragonava la “arroganza” di Lula alla umiltà della Regina d’Inghilterra. Sarebbe potuta andare peggio: per lo meno non hanno parlato delle tecniche di corteggiamento o dell’etichetta a tavola, il che fu molto prudente da parte loro.

Peluso mantenne la serietà che caratterizza gli inquisitori e i boia più apprezzati. Dopo aver perso per 3 voti contro 6, Peluso s’indignò, accusò Lula di illegalità e disse che “nonostante tutto avrebbe accettato la decisione della maggioranza”, suggerendo che, se avesse voluto, avrebbe comunque potuto ribellarsi alla decisione. Di fatto, quando Barroso salì sul palco e chiese un’ordinanza di rilascio, Peluso lo guardò in cagnesco e disse che più tardi l’avrebbe scritta.

A partire da quel momento, Cesare Battisti fu messo in libertà, anche se doveva risolvere il suo status giuridico per il soggiorno. Non è la prima volta che il Brasile nega un’estradizione. Ci sono alcune centinaia di casi e in tutti, eccetto quattro, sempre è stata data l’opzione all’ex estradabile di restare nel paese come residente permanente. I casi in cui questo non è accaduto si spiegano col fatto che gli ex estradabili hanno optato volontariamente per recarsi in un paese terzo. Vale la pena sottolineare che il giudice Marco Aurélio de Melo ebbe l’onestà di dire che Battisti avrebbe potuto richiedere un’indennità per stato imprigionato illegalmente durante un lungo periodo.

Un fatto deve rimanere chiaro. Anche i più onesti e impegnati difensori di Battisti commettono degli errori che pregiudicano la sua difesa e gettano benzina sul fuoco delle menzogne dei mass media. Per esempio:

Lula non ha dato lo status di rifugiato a Battisti. Questo status era stato dato da Tarso Genro e fu cassato da un’intromissione inconcepibile del STF il 9/9/2009, violando il principio di separazione dei poteri.

Dopo essere stato liberato il 9/6/2011, Battisti è diventato uno “straniero ex estradabile” in attesa della normalizzazione della sua permanenza in Brasile.

Proprio dopo la sua liberazione il Consiglio Nazione dell’Immigrazione (organo del MTE) há concesso a Battisti la residenza permanente e ha inviata, quindi, alla polizia federale la richiesta per ottenere la condizione di residente permanente. Nell’agosto 2011 la condizione di residente permanente venne concessa dalla polizia federale di San Paolo, in un processo amministrativo assolutamente valido che non fu viziato da nessuna irregolarità. Quel giorno venne stilata anche una carta d’identità da residente permanente che è identica, tranne che per il numero e la foto, a quella che possiedono tutti gli stranieri in Brasile, includendo quelli che non sono accusati di nulla. E’ falso, quindi, totalmente falso, che Battisti abbia ottenuto una condizione migratoria ristretta o limitata.

Riassumendo: Cesare Battisti dall’agosto 2011 possiede una residenza permanente in brasile che può essere annullata, secondo la legge sugli stranieri, solo dal capo di stato e con l’assenso del STF. L’anagrafe nazionale degli stranieri sarà rinnovata nel 2019, ma questa pratica serve solo ad aggiornare i dati e non può cambiare la situazione migratoria di Battisti che resta la stessa di qualunque altro straniero che si è stabilito definitivamente in Brasile e che non è ancora stato naturalizzato. Non è un visto precario da rifugiato, da chi ha ottenuto l’asilo politico, da temporaneo o simili.

Il pubblico ministero carica l’AK-47

Il 13 ottobre 2011, cioè 127 giorni dopo la liberazione di Battisti, l’MPF (Ministero Pubblico Federale) del DF (Brasilia) presentò una Azione Civile Pubblica (ACP) contro il governo federale in cui Battisti figurava come “in attesa di giudizio” o “col processo in sospeso” (lett. “litispedente”, secondo una figura giuridica presente in alcuni paesi dell’America Latina, ndt). Il caso era affidato al procuratore Hélio Heringer. Questi non ha molte menzioni su Google, tanto per collocarlo. Fa cose di routine in procura. E’ diventato più o meno noto quando si lanciò nell’indagine sui due figli di Lula per cui credette di scorgere il famoso fantasma della corruzione. Ma pare che non abbia scoperto nulla. Heringer presentò un’accusa il cui colpevole principale era il governo federale, accusato dia ver violato la legge con la concessione a Battisti della residenza permanente. Il “litispendente”, in sospeso, era Cesare Battisti.

A questo link alcuni dettagli. Per risparmiare al lettore lunghe pagine di stupidaggini, riporto qui il paragrafo centrale con l’argomento del Pubblico Ministero: “In questo modo, essendo reati dolosi e soggetti a estradizione secondo la legge brasiliane, non deve essere concesso il permesso di soggiorno da straniero a Cesare Battisti”. Per chi non trova ovvia la fallacia, mi si permetta un tentativo profano di dare una spiegazione. La Legge nº 6.815, del 19 agosto 1980, articolo 7, dice, al comma IV, che non si concederà il visto allo straniero “condannato o processato in un altro paese per un reato doloso, passibile d’estradizione secondo la legge brasiliana”. Osservate che la legge stabilisce due condizioni simultanee:

  • Non deve essere condannato per un reato doloso,
  • Il reato non deve essere passibile d’estradizione in Brasile.

Ossia non è sufficiente che lo straniero sia condannato per un reato doloso. Deve anche essere suscettibile d’essere estradato secondo la legge brasiliana.

Per esempio fare le gare in macchina è un reato con dolo eventuale in Brasile. Ora, se uno straniero è sotto processo per aver ferito qualcuno in una gara, non è chiaro se sarà estradato o no. Allora, quasi ci siamo. Affinché a qualcuno venga impedito di ottenere il visto, è necessario che questa persona possa essere estradata, non solo che il reato sia doloso: lo straniero deve essere estradabile. Tale persona è colei che, in funzione della sua condanna, deve essere restituito al suo paese, consegnato alle autorità che lo richiedono. Però questa situazione non si verifica in questo caso per due motivi.

Il potere esecutivo ha negato l’estradizione il 31/12/2011, una facoltà dell’esecutivo che già era stata autorizzata dal STF nel novembre 2009 e chef a parte delle prerogative presidenziali in virtù della CF (Costituzione Federale), della giurisprudenza nazionale e delle convenzioni internazionali.

Perché il STF per 6 voti contro 3 (Mendes, Peluso e Ellen Gracie) ha sostenuto la decisione del potere esecutivo e ha ordinato la liberazione immediata di Battisti

Quindi Battisti è stato estradabile fino al 31/12/2010 o, se volessimo essere ancora più precisi, fino al 9/6/2011, ma, quando è uscito di prigione, non era più estradabile. Quando ha fatto i suoi documenti nell’agosto 2011, il processo d’estradizione era chiuso.

Oso congetturare che la giudice ha capito che mettersi a giocare con l’estradizione poteva costarle un facile smascheramento e ha preferito seguire il suggerimento del PM di deportare Battisti e non estradarlo. Ma anche questo sarebbe illegale.

Secondo la legge 6851 allo straniero è vietato possedere documenti o può vederseli cancellare solo se è ancora estradabile. Cioè non si possono annullare in qualunque momento i documenti di uno straniero per la semplice volontà di un burocrate al servizio di chissà chi. Se si vuole espellere uno straniero dal pese, tramite deportazione a luoghi determinati oppure con una semplice espulsione, una volta che questi ha in mano i suoi documenti da residente, ci vuole l’autorizzazione del capo di stato, con l’assenso del STF, ma avere la sicurezza del fatto che non si stanno violando i diritti dello straniero è responsabilità della Corte.

L’opinione di Maierovitch

La azione/accusa (ACP) presentata dal PM federale di Brasilia era ovviamente tanto inconsistente che solo è stata difesa dalla più becera destra brasiliana. Le persone con qualche nozione di diritto, inclusi i nemici di Battisti, hanno riconosciuto che si trattava di una sparata.

Persino il giurista Walter Maierovitch, che è stato colui che più sforzi e tempo ha profuso per ottenere l’estradizione di Battisti, ha criticato la proposta del PM federale. Maierovitch ha attaccato Battisti molte volte con argomenti non totalmente esatti, come quando ha affermato che il sindacalista Guido Rossa, informatore del PCI, era stato assassinato da Prima Linea, quando in realtà erano state le Brigate Rosse. Tuttavia in questo caso della ACP ha mostrato molta oggettività, cosa che sconcertò gli altri nemici di Battisti che pensavano di trovare in lui un sostegno. Ecco le sue parole: “L’azione proposta dal PM di Brasilia in riferimento all’annullamento del permesso di soggiorno e di lavoro concesso a cesare Battisti in Brasile soffre, con il dovuto rispetto, di una forte miopia” (a questo link il commento originale completo)

Le conseguenze dell’azione del PM federale

L’azione del PM non è stata lanciata per caso. Alcuni si chiedono perché il PM avrebbe fatto una cosa così ridicola. Il fatto è che quell’azione sarebbe ridicola altrove, ma non in America Latina, dove nessuno sa quali siano i propri diritti, salvo le élite che poi sono quelle che fabbricano quei diritti. Gli obiettivi in quel momento erano:

  • Rinforzare le bravate dell’Italia che ha minacciato di ricorrere, senza poi farlo, al Tribunale de l’Aia e addirittura, usando gruppi privati, ha lasciato intendere che avrebbe catturato Battisti con la forza, cosa che fu approvato da alcune televisioni brasiliane.
  • Accendere l’odio contro il PT il cui trionfo elettorale per la terza volta aveva reso isterica la destra. E oltre a questo c’erano le solite ragioni di sempre legate al grande odio che alimenta uno stato di polizia e inquisitoriale contro le persone di sinistra, aperte o veramente democratiche. Ci sono state alcune conseguenze dirette e un’altra non tanto.

La più sorprendente di quelle dirette è stata un’azione condotta da un giudice il 4 agosto 2012. Un giudice federale del 20esimo distretto, anche lui di Brasilia, Alexandre Vidigal, ha richiesto un’indagine della polizia per identificare il domicilio di Battisti. Allo stesso tempo in Italia oltre 5000 blog, giornali e riviste elettroniche stavano diffondendo notizie allarmiste del tipo: “Battisti desaparecido”, “Battisti fugge ancora”, “La giustizia brasiliana cerca Battisti”.

Il motivo dell’estemporanea azione del giudice era che, secondo lui, non si sapeva dove si trovava Battisti. Ma, in quello stesso momento, lo scrittore stava presentando il suo ultimo libro nelle librerie dello stato di Rio Grande do Sul. Sarà che il giudice non ne aveva avuto notizia? Vi furono altri fatti isolati di cui è facile immaginare le origini. Per esempio un giovane che ha finto d’essersi alterato per la “rabbia” ha simulato il sequestro di un di un concierge di un hotel di Brasili il 9/9/2014, richiedendo a gran voce la “rinuncia di Dilma” e “l’estradizione di Battisti”.

Dopo ciò la ACP del pubblico ministero è restata in letargo per tre anni nell’ufficio del 20esimo distretto federale di Brasilia. Perché tanto tempo?

Sentenza avversa

Alla fine la settimana scorsa uma giudice há scoperchiato il vaso di Pandora, sostenendo che non sono la stessa cosa una deportazione e un’estradizione. Meno male che ci ha fatto la gentilezza d’informarci! Facciamo attenzione a questo: nessuno sta dicendo che la giudice, almeno ufficialmente, stia chiedendo l’estradizione di Battisti. D’accordo. Lei lo vuole deportare in altri paesi come il Messico e la Francia, dunque non in Italia. Questa non sarebbe, in apparenza, un’estradizione. Ma osserviamo.

Il PM, nel proporre la ACP, e la giudice, nel momento in cui decide di accettarla, usano (loro e non noi) il concetto di estradizione per qualificare il presunto crimine di Battisti.

C’è dell’altro. Quello che ha detto la giudice, cioè che l’estradizione e la deportazione sono istituti molto differenti, è pura teoria. Nella pratica sono molto simili, e comunque, a meno di una giornata di volo tra l’aeroporto Benito Juárez di Città del Messico e Fiumicino.

Dato che il Messico non ha nulla contro Battisti, questo paese lo riceverà, ma l’Interpol è già autorizzata a portarlo in Italia da qualunque luogo in cui lo troverà. Non può farlo solamente in Brasile perché qui è ufficialmente un “immigrato” con documenti legittimi di soggiorno. Anche se la situazione con la Francia fosse differente, la proposta di mandarlo lì è un’altra provocazione. Battisti non è obbligato ad andare in nessun paese. E’ uno straniero che ha gli stessi diritti miei e di altri 300.000 stranieri che vivono in Brasile.

Qual è l’obiettivo di tutto ciò?

Questi i più importanti. Utilizzare il caso Battisti, come già è stato fatto altre volte, per forzare il ritorno in Brasile del sindacalista italo-brasiliano Henrique Pizzolato (su questo caso: Link 1 – e i nessi con la situazione di Cesare Battisti: Link 2). Ormai in Italia le scorie fasciste che occupano tutti gli spazi dello stato stanno celebrando l’ennesimo passo avanti della loro vendetta. Sono così contente che consegnerebbero perfino il Papa o alcuni capi della mafia pur di recuperare Battisti.

Contribuire alla enorme tempesta golpista che la destra brasiliana, uscendo da tutti gli anfratti in cui vive, sta promuovendo dalle ultime elezioni.

Il caso Battisti ha un peso minimo, ma la destra non spreca niente. La questione dell’inchiesta sul mensalão (lett. “la mensilità o mensile”, scandalo scoppiato nel 2005 relativo alla compravendita di voti in parlamento che ha coinvolto alti dirigenti del partito di governo, il PT, ndt), di Petrobrás (compagnia petrolifera statale brasiliana i cui ex dirigenti sono coinvolti in processi per corruzione, ndt) e, tra altri infiniti pseudo-casi, il caso Battisti, sono esplosivi dal potenziale differente, ma tutti servono. Mandare Battisti a morire in Italia non è così importante per la destra come vendere la Petrobras. Ma è pur sempre una consolazione. Nemmeno l’Inquisizione guadagnava qualcosa di concreto mandando adolescenti al rogo, ma soddisfaceva l’odio, la demenza e il sadismo di mistici e bellicisti.

 *Attivista e accademico argentino, autore del saggio: Os cenários ocultos do caso Battisti (Geração, 2013, pp. 384, 45 Rs). La Prefazione del libro in italiano è Qui – Introduzione in italiano LINK qui 

Blog di Carlos lungarzo e articolo originale: link

Geraldina Colotti su Battisti e lotta armata @Radiondadurto LINK Intervista

[Traduzione dal portoghese di Fabrizio Lorusso]

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Il Brasile non si ferma e manifesta https://www.carmillaonline.com/2013/07/05/il-brasile-non-si-ferma-e-manifesta/ Thu, 04 Jul 2013 22:00:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7311 di Fabrizio Lorusso

TARIFA ZEROLa Confederation Cup è finita, il Brasile ha vinto il torneo, ma le piazze di decine di città non si sono più svuotate da quando, il 6 giugno scorso, il Movimento Passe Livre (MPL, nato nel 2005, di natura autonoma e orizzontale) convocò le prime manifestazioni della stagione contro l’aumento delle tariffe del trasporto pubblico. L’MPL lotta per una “tariffa zero” nei trasporti, un “diritto alla città” per tutti che eliminerebbe le barriere alla mobilità e la ghettizzazione di classe nelle [...]]]> di Fabrizio Lorusso

TARIFA ZEROLa Confederation Cup è finita, il Brasile ha vinto il torneo, ma le piazze di decine di città non si sono più svuotate da quando, il 6 giugno scorso, il Movimento Passe Livre (MPL, nato nel 2005, di natura autonoma e orizzontale) convocò le prime manifestazioni della stagione contro l’aumento delle tariffe del trasporto pubblico. L’MPL lotta per una “tariffa zero” nei trasporti, un “diritto alla città” per tutti che eliminerebbe le barriere alla mobilità e la ghettizzazione di classe nelle metropoli brasiliane. Per questo il movimento precede e trascende le proteste di questi giorni e ha una visione di lungo periodo che punta a mettere in discussione il modello di sviluppo postcapitalista e postmoderno delle città brasiliane che riproduce gli schemi della segregazione etnica e di classe.

In giugno, dopo una settimana di manifestazioni pacifiche, interrotte da meno pacifiche cariche della polizia, milioni di persone non protestavano più “solo per 20 centesimi”. Ed anche l’MPL, in realtà, non ha mai lottato “solo per 20 centesimi” ma per ben altro. Fino ad oggi, però, quella frase, riprodotta dai titoloni dei media di mezzo mondo fino allo spasimo, è servita da una parte a rendere l’idea della crescita del movimento e delle sue richieste, ma dall’altra ha contribuito in qualche modo a mettere in secondo piano o a diluire le rivendicazioni e la portata radicale, fondamentalmente anticapitalista, dello stesso MPL che è stato incalzato dagli eventi, almeno nelle prime fasi.

Da allora le manifestazioni continuano, anche se con intensità e partecipazione affievolite, e continua anche la repressione dalle Ruas alle favelas, con le incursioni della polizia che in questi quartieri popolari non usa “solo” proiettili di gomma ma pallottole vere e approfitta delle operazioni contro i manifestanti per rincarare la dose e invadere le comunità. La lotta storica dell’MPL e l’apparizione sulla scena e nelle strade della “nuova classe media”, cioè quegli oltre 40 milioni di brasiliani emersi dalla povertà con le politiche distributive di Lula e Roussef dal 2003, sono state accompagnate e, in più occasioni, messe in ombra dalla presenza di provocatori, di neofiti delle piazze esaltati o spaesati, da settori di classe medio-alta con un discorso più classista e nazionalista.

La moltiplicazione delle iniziative, delle città mobilitate, delle interpretazioni azzardate intorno al movimento e, infine, delle motivazioni scatenanti delle manifestazioni, con organizzazioni e persone molto diverse e addirittura contrapposte nelle stesse piazze, risponde a un’effettiva eterogeneità di idee e intenzioni, di lotte ed esigenze, che viene propiziata dall’uso massiccio dei social network come spazi dell’attivismo virtuale fai da te e del dibattito a colpi di slogan efficaci e click facili. Questo mix ha finito per mettere troppa carne al fuoco: richieste nuove, più astratte o generiche, come la lotta alla corruzione, alle tasse o all’inflazione, funzionavano come slogan e catalizzatori di un consenso traversale e di un malessere reale senza tradursi, però, in un programma politico che andasse oltre una lista di rivendicazioni.

san paoloAnche i reazionari media mainstream (Globo TV per prima) e le reti sociali, uno strumento utile ma ambiguo nel contempo, stavano palesemente contribuendo a trasformare le percezioni e la natura stessa della protesta, o almeno parti significative (e più mediatizzate) di essa, soprattutto in alcune città (per es. San Paolo): le rivendicazioni concrete passavano in secondo piano sotto la bandiera brasiliana, che “mette tutti d’accordo”, e sotto l’egida dell’antipolitica, non solo antigovernativa, ma anche potenzialmente antidemocratica.

Il “risveglio” è comunque andato avanti: anche docenti, camionisti, abitanti delle favelas, contadini e gruppi afrobrasiliani manifestano, nonostante il circo mediatico non se ne occupi. Circola uno slogan eloquente in rete: “chi non ha mai dormito abbraccia chi s’è svegliato”, che sta quasi a celebrare, con un pizzico di sarcasmo, un’unità d’intenti di vecchi e nuovi movimenti, di realtà vive e vegete e di altre, risvegliate dalla congiuntura, che sono più o meno strutturate, si ritrovano ora nelle piazze insieme alle altre e non si prevede quanto dureranno e come evolveranno.

Si ritrovano alcuni elementi del concetto di moltitudine, sviluppato da Michael Hardt e Toni Negri, nel movimento brasiliano, che tende a rifiutare i canali politici tradizionali e ad organizzarsi nella pluralità, orizzontalmente, senza leader, ma non in modo disorganizzato e del tutto spontaneo. Ne ha parlato Hardt in un’interessante intervista tradotta in italiano su GlobalProject, sottolineando come la tecnologia, anche nel caso brasiliano, sia solo uno strumento mentre l’organizzazione sociale e politica, insieme alla “maturità per combattere le provocazioni e gli interventi della destra” e la capacità di formare un potere “costituente” e non solo “destituente”, restino le vere sfide per il futuro del movimento.

Le proteste di buona parte dei movimenti non si erano mai addormentate. Alcuni risultati sono stati ottenuti nelle ultime due settimane, ma mi sembrano più congiunturali, magari anche emblematici, piuttosto che strategici: bloccato l’aumento del prezzo dei biglietti per il trasporto pubblico nelle grandi città, stanziati maggiori fondi per le infrastrutture, ritirate la PEC 37 (la legge che limitava le indagini sul reato di corruzione sottraendolo all’azione dei PM su cui, però, esiste un dibattito a sinistra relativo ad eventuali derive giustizialiste per l’eccessivo potere dei PM) e la legge omofoba e assurda nota come “cura gay” che trattava l’omosessualità come una malattia e prevedeva cure psicologiche per gli omosessuali.

Il senato ha approvato un provvedimento per ridurre a livello nazionale le tariffe dei trasporti pubblici che ora passa alla camera. La presidente Dilma Roussef ha incontrato l’MPL e i governatori, ha chiesto al parlamento di convocare un referendum sulla riforma politica e ha deciso di destinare il 75% dei proventi del petrolio all’istruzione e il 25% alla sanità. Ha anche rispolverato una vecchia proposta, da sempre osteggiata dai medici brasiliani, di contrattare dottori stranieri per far fronte alle emergenze sanitarie nazionali. Ma i medici dicono che non servono più dottori ma più investimenti.

A Belo Horizonte gli studenti dell’Assemblea Popolare Orizzontale (APH) da una settimana occupano l’edificio della camera, sede del potere legislativo locale dello stato di Minas Gerais, ed esigono la revoca degli aumenti dei biglietti dei mezzi pubblici, maggiore trasparenza nei contratti tra il comune e le imprese di trasporti, la tariffa zero per studenti e disoccupati oltre ad una riduzione generalizzata delle tariffe.

Il 3 luglio il Movimento dei Lavoratori Senza Tetto (MTST), i collettivi Resistencia Urbana, CSP-Conlutas, Itersindical, Periferia Ativa, il Forum Popolare per la Salute e l’MPL sono scesi in piazza a San Paolo, occupando la rinomata Avenida Paulista, per proporre alla Roussef un’agenda che superi i punti da lei proposti e le prime misure adottate: quindi tariffa zero, 10% del PIL per l’educazione, orario di lavoro a 40 ore settimanali senza riduzione del salario e dei benefici previdenziali, controllo statale sugli affitti ed eliminazione degli  sfratti, no alla privatizzazione della sanità, la classificazione della repressione delle forze dell’ordine come crimine grave e la demilitarizzazione dei corpi di polizia.

L’11 luglio ci sarà uno sciopero generale, indipendente dalle proteste dell’ultimo mese anche se ci sono molte rivendicazioni comuni, e unirà i sindacati delle città ai movimenti rurali per chiedere trasporti a “tariffa zero”, l’aumento degli investimenti in salute ed istruzione, lo stop alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, aumenti salariali e riduzione dell’orario di lavoro. L’MPL, che si mantiene molto attivo anche per la difesa dei detenuti politici (link bollettino), ha annunciato nuove mobilitazioni contro la repressione e la criminalizzazione dei movimenti sociali, per la tariffa zero, per una sanità e un’educazione pubbliche e gratuite e per il diritto alla casa.

Infine segnalo (e raccomando) il racconto “Cronaca di un titano incompreso”, metafora della situazione del Brasile e delle proteste.

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La protesta invade le strade del Brasile https://www.carmillaonline.com/2013/06/22/la-protesta-invade-le-strade-del-brasile/ Fri, 21 Jun 2013 23:51:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6866 di Fabrizio Lorusso

BrasilOltre un milione di persone si sono riversate per le strade di un centinaio città brasiliane nel pomeriggio di giovedì 20 giugno. Ma sono più di dieci giorni che in decine di città del Brasile le manifestazioni popolari sono inarrestabili, nonostante numerosi episodi di repressione violenta da parte della polizia e, a un livello più “folclorico” ma emblematico, gli spropositi proferiti da O Rey Pelè che ha cercato di richiamare all’ordine i manifestanti, suggerendo loro di concentrarsi sulle partite della seleção e farla finita con le proteste. Il suo appello è giustamente sprofondato nell’oblio. Intanto, solo nella [...]]]> di Fabrizio Lorusso

BrasilOltre un milione di persone si sono riversate per le strade di un centinaio città brasiliane nel pomeriggio di giovedì 20 giugno. Ma sono più di dieci giorni che in decine di città del Brasile le manifestazioni popolari sono inarrestabili, nonostante numerosi episodi di repressione violenta da parte della polizia e, a un livello più “folclorico” ma emblematico, gli spropositi proferiti da O Rey Pelè che ha cercato di richiamare all’ordine i manifestanti, suggerendo loro di concentrarsi sulle partite della seleção e farla finita con le proteste. Il suo appello è giustamente sprofondato nell’oblio. Intanto, solo nella sera di giovedì 20, ci sono stati 60 feriti a Rio, altri 30 a Brasilia e 1 morto a Ribeirão Preto. Come erroneamente alcuni media italiani hanno riportato, non si tratta di un movimento “contro i mondiali di calcio” o semplicemente contro il rincaro dei biglietti dei trasporti pubblici, deciso dai sindaci delle località che ospiteranno le partite nel 2014, per provare a recuperare le spese sostenute in questi anni. Di fatto, per esempio a Brasilia, la protesta è stata battezzata come un “Atto nazionale contro l’aumento dei biglietti, le violazioni legate alla coppa del mondo e la criminalizzazione della lotta popolare”. Dopo le prime giornate di lotta la settimana scorsa la gente è scesa in massa per le strade anche per rispondere alla repressione della polizia che aveva fatto 100 feriti e 190 detenuti. Ad ogni modo i motivi e le chiavi di lettura della protesta rivelano scenari e sentieri poco praticati dai mezzi di comunicazione nostrani, spesso avvezzi alla semplificazione della realtà e della storia latino americane.

Dalla Turchia al Brasile le piazze e la gente s’espongono e s’indignano, sperimentando diverse forme di partecipazione e protesta. Lottano contro l’esclusione dalla democrazia reale, sempre più lontana, “televisivamente” contaminata e infine sostituita dai surrogati del mercato e del privatismo, e dal sogno dello “sviluppo economico” di cui gran parte della popolazione è più vittima o semplice spettatrice che artefice o beneficiaria. Ed è un “sogno” che, tra l’altro, i paesi dell’America Latina hanno già provato a vivere a più riprese, quasi sempre interrotte da dittature, populismi, ingerenze straniere, colpi di stato e “problemi strutturali” sia negli anni trenta che negli anni sessanta del secolo scorso.

Da Istanbul a Brasilia parliamo di due paesi cosiddetti “emergenti”, seppur in modi, contesti e tempi assai differenti tra di loro, e di risvegli improvvisi, ma non imprevedibili né ingiustificati. Non sono gli alberi del Gezi Park a Istanbul o l’aumento di 20 centesimi di Real del biglietto per i trasporti pubblici di San Paolo e Rio (e di altre città che ospiteranno i mondiali di calcio) i motivi dell’incendio, ma sono solo le scintille che appiccano il fuoco e uniscono le masse attorno a esigenze certamente più trascendenti e ispiratrici che  coinvolgono settori anche molto diversi della popolazione e spaziano da proposte di riforma del sistema fino a idee per il suo superamento.

Il Brasile del PT (Partido dos Trabalhadores), dell’ex presidente Ignacio “Lula” da Silva (il “presidente operaio”, dal 2003 al 2010) e di Dilma Roussef (la “presidentessa guerrigliera”, 2011-14) ha 200 milioni di abitanti, è la prima economia dell’America Latina, sesta del mondo, e nell’ultimo decennio ha sicuramente fatto dei grossi passi avanti nella lotta alla povertà e nell’ampliamento della classe media grazie a un’economia che ha registrato una media di crescita del 4% per otto anni di fila (2003-2011). Il “gigante del Sud” si erge dunque a potenza regionale sudamericana, ma anche ad attore geopolitico di caratura mondiale e acquista più peso a livello internazionale. Per citare un paio di esempi, sono brasiliani il direttore generale della OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), Roberto Azevedo, e quello della FAO, José Graziano da Silva. Il Brasile fa parte dei paesi emergenti inclusi nella fantomatica sigla “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), organizzerà le Olimpiadi nel 2016 e i Mondiali di calcio l’anno prossimo, dopo aver già realizzato l’anno scorso la Conferenza ONU Rio +20 sull’ambiente. Ma non è tutto oro quel che luccica.

Undici giorni consecutivi di proteste, un crescendo di partecipazione popolare attivata dai social network, che riproducono lo slogan “Brasile, svegliati!”, convertito in hashtag e trending topic su twitter nel giro di poche ore, stanno lì a ricordare al mondo, ipnotizzato dalla Confederation Cup che sta per arrivare alla fase finale, che questo è anche il paese delle enormi disuguaglianze socio-economiche, tra le più grandi in America Latina, della corruzione, degli sprechi per il mondiale e dello sviluppo incompiuto. La crescita economica s’è quasi fermata per un paio d’anni passando a tassi europei (da declino o quasi) del 2,7% nel 2011 e dello 0,9% l’anno scorso, mentre l’inflazione è cresciuta fino al 6,5%.

L’alto costo della vita, che è semplicemente proibitivo per la maggior parte della popolazione, almeno nelle grandi città, e l’imposizione fiscale, tra le più alte in America Latina, farebbero pensare ad un paese che sta toccando le vette del tanto agognato “sviluppo” economico e del cosiddetto “primo mondo” (dove appunto tasse e costo della vita sono alti), ma la realtà è un’altra. I segni esteriori e i dati economici di un “paese sviluppato” (o in via di sviluppo) non sempre corrispondono alla situazione della vita reale né alla totalità della sua gente. Affianco alla nuova classe media salariata, sempre più appiattita su standard e modelli di vita estremamente consumistici, esistono masse popolari che dalle favelas alle periferie, dalle regioni amazzoniche al Nordest, storicamente più arretrate rispetto al Sud e all’asse Rio-San Paolo, non sono ancora riuscite a fare “il grande salto” e probabilmente dovranno attendere qualche decennio in più per farlo (se mai succederà). Il modello della potenza regionale che aspira ad essere un “global player” e proietta un’immagine nazionale positiva e amichevole al resto del mondo comincia a scricchiolare proprio in questi giorni in cui l’attenzione dei media avvia la sua fase ascendente per colpa della, o grazie alla, Confederation Cup.

Proprio il 22 giugno si gioca Italia-Brasile a Salvador de Bahia e sono annunciate nuove mobilitazioni, mentre la preparazione per i mondiali del 2014 rende irrequieta, anzi arrabbiata, la popolazione che vede fluttuare le spese per gli stadi e le infrastrutture mentre aumentano gli sfollati e i senza tetto, pagati una miseria per abbandonare le loro case site nei pressi dei nuovi megaprogetti, e s’abbassano la qualità e la copertura della sanità e del sistema educativo. Questi sono alcuni altri motivi che hanno spinto migliaia di persone a scendere in piazza. Un’altra delle richieste della popolazione “indignata” riguarda la trasparenza nella gestione dei circa 13 miliardi di dollari investiti dal governo per i mondiali e le Olimpiadi e i freni contro la corruzione. “Meno circo e più pane”, chiedono i manifestanti. Gli aumenti nei prezzi dei biglietti sono stati revocati, ma le proteste continuano.

Secondo uno studio (da prendere con le pinze ma almeno indicativo) citato dalla stampa brasiliana e portoghese nei giorni scorsi, l’84% dei manifestanti non dichiara simpatie di partito, il 71% partecipa per la prima volta a una protesta di piazza e più della metà ha meno di 25 anni. L’81% delle persone han saputo delle iniziative attraverso Facebook. Dal 1992, quando venne contestata la presidenza di Fernando Collor de Mello, non si vedevano manifestazioni così imponenti nelle metropoli brasiliane e queste sono le prime che vengono convocate prevalentemente tramite le reti sociali. L’origine viene dalle mobilitazioni convocate dal movimento contro l’aumento del costo dei trasporti pubblici (Movimiento Pase Libre), ma la continuazione e gli sviluppi delle manifestazioni passano dalle reti sociali e dall’estensione della protesta ad altri settori, in genere non rappresentati a livello istituzionale e appunto convocati spontaneamente per le strade.

In Brasile chi riesce a “entrare nel sistema”, magari grazie a un contratto decente, alla carriera in una grande impresa nazionale o in una multinazionale, oppure con un posto statale, ha l’illusione di raggiungere di una qualità di vita da “primo mondo” (per quanto questa definizione possa avere un significato attualmente). Ciononostante, gli alti indici di criminalità (per esempio un tasso di omicidi ogni centomila abitanti superiore a 25, di fatto simile a quello del Messico della narcoguerra) e un tasso di sviluppo umano (indice che incorpora la valutazione di istruzione, sanità e reddito) che colloca il paese al posto numero 85, sotto Perù e Venezuela per esempio, contraddicono l’ottimismo dei nuovi settori emergenti.

C’è chi ha provato a strumentalizzare politicamente la protesta, puntando il dito esclusivamente contro Dilma Roussef e riducendo le manifestazioni a un movimento contro il governo in carica. Invece la popolazione nelle piazze tende a lanciarsi contro tutta la classe politica, da una parte, e contro un modello di sviluppo incompleto, dall’altra. D’altro canto è vero che, rispetto al periodo di Lula, c’è stato un distacco maggiore dei movimenti sociali dai partiti di governo.

In un editoriale uscito sul quotidiano portoghese Publico del 20 giugno, l’accademico Boaventura de Sousa Santos sottolinea luci ed ombre del Brasile di Lula e Dilma, una potenza che ha proiettato internazionalmente l’idea (solo in parte seguita dalla pratica) di uno sviluppo “benevolo ed includente”, di una società effettivamente meno povera e con prospettive per il futuro, ma che è composta comunque da due paesi diversi, forse meno identificabili rispetto alle “due Turchie” che da tre settimane si scontrano nelle piazze del paese euroasiatico. Il Brasile “altro”, quello che sfugge alle analisi più comuni, è spiegabile tramite tre narrative.

La prima è quella dell’esclusione sociale, quella di un paese tra i più ingiusti al mondo, malgrado la crescita e le politiche dell’ultimo decennio, in cui le oligarchie latifondiste, il vecchio mondo provinciale e autoritario, le élite razziste e chiuse sono ancora vive e vegete. La seconda è quella della rivendicazione della democrazia partecipativa dell’ultimo quarto di secolo, culminata con la Costituzione del 1988, i bilanci partecipativi a livello municipale, l’impeachment del presidente Collor de Mello nel 1992, la creazione dei consigli cittadini per la gestione di alcune politiche pubbliche a vari livelli. La terza narrativa ha una decina d’anni e riguarda le politiche d’inclusione sociale portate avanti dal presidente Lula dal 2003 che hanno portato a un aumento della classe media “consumista”, a una riduzione della povertà e alla presa di coscienza pubblica sulla discriminazione razziale contro gli discendenti dei popoli indigeni e africani.

Da quasi tre anni a questa parte, con la presidenza di Dilma Roussef, c’è stato un rallentamento nelle azioni e nei discorsi legati alle ultime due narrative. “Lo spazio politico corrispondente è stato occupato dalla prima narrativa, rinforzata dall’ideologia dello sviluppo capitalista a tutti i costi e dalle nuove e vecchie forme di corruzione”, secondo Boaventura de Sousa, e “le forme di democrazia partecipativa sono state cooptate, neutralizzate dall’avvento delle grandi infrastrutture e i megaprogetti, perdendo interesse per le nuove generazioni”. Sono in aumento gli omicidi di sindacalisti e attivisti contadini nel vecchio Brasile rurale, per esempio, e la distribuzione della ricchezza sta vivendo un momento di stagnazione.

Quindi la vita urbana è peggiorata dato che gli investimenti per il trasporto, l’educazione, la salute e i servizi sono finiti nel calderone dei progetti per gli eventi internazionali organizzati dal Brasile. Ma questi stessi eventi rischiano di diventare un boomerang, anche se, forse, rischiano di diventare delle occasioni uniche per il risveglio della protesta popolare che, forte dell’attenzione mediatica globale, può spingere per una trasformazione più profonda della società, la redistribuzione della ricchezza e un riorientamento del modello di sviluppo che non dimentichi le narrative dell’inclusione politica, sociale ed economica.

La presidentessa del Brasile ha appena rivolto un discorso di “riconciliazione” alla nazione e specialmente a quel milione di manifestanti che minacciano di moltiplicarsi e continuare con le mobilitazioni. La Roussef ha dichiarato che destinerà il 100% delle risorse del settore petrolifero all’istruzione, che riceverà i leader delle proteste (che però non si sa esattamente chi siano e quindi forse il riferimento è al Movimento Pase Libre) per arrivare a una soluzione e che c’è bisogno di “ossigenare il sistema politico”. L’apertura al dialogo con tutti, sempre secondo il discorso della presidentessa, è d’obbligo, ma va condotto “in ordine e senza violenza”, quindi la polizia proteggerà il “patrimonio pubblico”. Mi sembrano parole un po’ fredde e promesse ancora poco definite, ma è un impressione esterna, per cui restiamo in attesa della risposta delle piazze e della definizione di un movimento che forse è ancora difficile “inquadrare”, ma che sta svegliando dal torpore un paese e stanando alcune sue contraddizioni.

PS. Segnalo due articoli interessanti (in portoghese e in spagnolo) che cercano di interpretare le direzioni e le sfumature del movimento inedito che sta riempiendo le strade brasiliane in questi giorni. Da una parte c’è una visione preoccupata e l’appello alle forze anticapitaliste che segnala (LINK Passapalvra) il pericolo (e la presenza) di strumentalizzazioni e infiltrazioni della destra e di una eventuale deriva nazionalista e conservatrice, dall’altra (LINK Rebelion) la forza del popolo per le strade, la riappropriazione degli spazi e lo spontaneismo che stanno facendo risvegliare il paese, dunque non solo un “movimento” della classe media. Foto degli scontri nelle diverse città: LINK

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