Dick Hebdige – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La pillola rossa dell’alt-right – 3 https://www.carmillaonline.com/2023/07/23/la-pillola-rossa-dellalt-right-3/ Sun, 23 Jul 2023 20:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77812 di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto [...]]]> di Gioacchino Toni

Con la comparsa nei primi anni Novanta dei videogiochi “sparatutto in soggettiva” è stata data la possibilità a tanti gamer maschi e bianchi di sfogare individualmente la loro dose di nichilismo, violenza e aggressività attraverso un’estetica e una cultura che promuovono la ricerca della sola soddisfazione individuale.

Degli elementi di contiguità tra l’universo videoludico e gli ambienti dell’alt-right statunitense si è occupato Matteo Bittanti sia direttamente che curando la pubblicazione di materiale anglosassone. «Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto consumatore passivo della televisione, del cinema e della letteratura – ciò che preoccupa maggiormente è la convergenza tra l’identità gamer e l’estrema destra»1.

Diversi studi evidenziano la parziale sovrapponibilità tra il target di riferimento dell’alt-right e quello dell’industria videoludica; se Kristin Bezio2, ad esempio, coglie la contiguità demografica tra i potenziali partecipanti alle discussioni promosse dall’alt-right e i gamer, Anita Sarkeesian3 individua diverse affinità in termini di immaginario, bersagli e strategie tra alcune campagne sorte all’interno dell’universo videoludico e i movimenti politici della destra radicale statunitense.

Il caso forse più eclatante di come una campagna d’odio esplosa nelle piattaforme degli appassionati di videogame fortemente intrisa di immaginario conservatore, reazionario, che desidera ripristinare un passato idealizzato in cui l’universo videoludico era appannaggio esclusivo di uomini bianchi eterosessuali, è sicuramente quello del cosiddetto GamerGate.

Tutto è iniziato nell’agosto del 2014 quando, a partire da  un’invettiva contro una sviluppatrice di videogiochi pubblicata dall’ex fidanzato su un blog, una nicchia di giovani gamer maschi e bianchi ha lanciato una delirante campagna votata a denunciare la “corruzione” del mondo dei videogiochi in buona parte, a loro dire, determinata dalla presenza di alcune donne intenzionate a stravolgerlo. Si è trattato di uno dei primi casi in cui una discussione priva di rilevanza pubblica, porta avanti da un gruppo di individui, grazie al web, è sfociata in una campagna reazionaria di proporzioni spropositate rispetto alla causa scatenate, palesando quanto rancore misogino e chiusura identitaria covassero in corpo tanti giovani gamer.

Michael Salter4 invita a guardare quanto si manifesta all’interno degli ambienti videoludici come a una spia delle trasformazioni sociali in atto. «Non a caso, è nel contesto videoludico che l’aggressione rappresenta una modalità standard di partecipazione pubblica sulle piattaforme tecnologiche». Gli abusi e le molestie che contraddistinguono gli ambienti dei gamer risultato «in stretta relazione alle dinamiche più reazionarie dell’identità maschile e alla sottesa ideologia della tecnologia digitale»5. In particolare, Salter ricostruisce l’evoluzione del concetto di gender in ambito informatico mettendo in luce i suoi legami con la “mascolinità geek” fondata sul concetto di padronanza tecnologica.

Nell’ambito di Gamergate, l’impulso maschile a difendere determinate tecnologie – videogiochi e internet in primis – dall’assedio (reale o percepito) da parte di donne e utenti più diversificati, ha evidenziato la fragilità della mascolinità geek e la sua dipendenza da forme inique di egemonia tecnica. Non è un caso che particolari piattaforme – come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter – si siano rivelate terreno fertile per le campagne misogine di Gamergate6.

L’analisi di Salter mostra come «la lotta delle donne e di altri soggetti marginalizzati per accedere in modo più equo alla cultura e al contesto lavorativo dell’high tech» sia «complicata dalla mascolinizzazione della tecnologia, che privilegia l’egemonia di genere»7.

Nella cultura occidentale l’equiparazione della mascolinità alla tecnologia ha attribuito il primato maschile sull’accesso ai mezzi tecnici e la «progressiva mascolinizzazione delle industrie e delle culture informatiche ha incentivato intensi investimenti affettivi e identificazioni psicologiche da parte di uomini e ragazzi, generando permutazioni tecnologiche della soggettività maschile, che ha assunto nuove forme. Una delle più recenti è stata definita mascolinità geek8. Con tale espressione si indica «una soggettività di genere che prevede la rivendicazione – da parte di adulti e adolescenti di sesso maschile – della padronanza tecnologica come fattore essenziale dell’identità maschile»9.

La mitologia della rivoluzione informatica celebra gli ideali dell’individualismo, della competitività e dell’aggressività, elementi normativi nella mascolinità geek fin dall’avvento delle reti.[…] L’afflusso di utenti femminili e più diversificati sulle piattaforme di social media, nei videogiochi e in altri campi dell’elettronica di consumo ha messo in discussione l’equivalenza tra la tecnologia maschile e l’identità maschile geek. Il fenomeno è stato accompagnato da un’escalation di abusi e molestie che hanno avuto origine nelle sottoculture dominate dai geek, ma che oggi sono diventate parte del mainstream. […] Gamergate illustra in modo paradigmatico la congruenza sociotecnica tra la mascolinità geek e una comunicazione che prevede la sistematica oppressione dell’altro. Questa esplosione senza precedenti di molestie online che ha avuto origine all’interno delle sottoculture videoludiche si è diffusa in modo virale grazie a piattaforme come 4chan, 8chan, Reddit e Twitter. […] Tale campagna di abusi è diventata endemica perché la sua razionalità di fondo era evidente nella progettazione, governance e strategia comunicativa di numerose piattaforme online. Non si tratta di una mera coincidenza: l’architettura e l’amministrazione di queste piattaforme condividono l’ideologia della cultura geek e delle industrie correlate. Ergo, l’abuso online prodotto e promosso da questa campagna d’odio non è un’anomalia: la tecnologia è sempre simbolicamente e strategicamente implicata nelle affermazioni dell’aggressione maschile10.

Su GamerGate si sono fatti le ossa, conquistando la popolarità, personaggi poi divenuti di spicco nell’ambito dell’alt-right come Milo Yiannopoulos e Phil Mason.

Il nucleo narrativo di Gamergate secondo il quale i simboli della tecno-mascolinità, come i videogiochi e internet, sono stati attaccati frontalmente in una “guerra culturale” condotta da femministe e progressiste, si è fuso con altri movimenti reazionari dell’identità maschile, assumendo forme inaspettatamente virulente. 4chan e le forme associate di mascolinità geek hanno svolto un ruolo chiave nel promuovere e sostenere la campagna elettorale del presidente americano Donald Trump attraverso strategie che hanno offuscato il confine tra politica mainstream, misoginia organizzata e supremazia bianca11.

Se l’intrecciarsi di disuguaglianza di genere, alienazione capitalistica e tendenza maschile a riversare sulle donne le proprie frustrazioni non è di certo una novità, di nuovo c’è, secondo Salter, l’uso che ne ha fatto l’alt-right per mobilitare l’aggressività maschile.

Lo stesso Trump ha beneficiato dei meccanismi retorici e di mobilitazione che si sono sviluppati in rete nella sua campagna contro i politici di professione pretendendo di dare voce al rancore contro l’establishment di “un intero popolo” alle prese con gli effetti della globalizzazione. Trump è certamente espressione di un populismo che, riprendendo la definizione proposta da Jan-Werner Müller, può essere visto come

una particolare visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato – ma, direi, fondamento immaginario – a delle élite corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori. Essere critici nei confronti di tali caste è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere considerato populista […]. La rivendicazione di fondo del populismo è dunque una forma moralizzata di antipluralismo. […] Il populismo prevede un’argomentazione pars pro toto e la rivendicazione di una rappresentanza esclusiva, entrambe intese in senso morale, anziché empirico12.

Il web offre ai leader populisti la possibilità di attuare una relazione, almeno apparentemente, diretta con i propri seguaci, dunque di costruire una sorta di carisma digitale che, per quanto contraddittorio possa sembrare, bene si amalgama al mito della cultura online della “protesta senza leader”.

I leader carismatici contemporanei prescindono dal supporto dei partiti strutturati, o almeno tentano di celarlo il più possibile, sfruttando quell’immagine anti-establishment resa necessaria dall’impresentabilità delle formazioni politiche tradizionali, rafforzando al contempo i rapporti con i loro potenziali seguaci con «promesse che si sa già non potranno essere mantenute, solo per rassicurare un bacino elettorale sicuro di niente, ma solo di essere stato trascurato da tutte le altre forze politiche. Ad esso ci si rivolge cercando di creare processi identificativi inesistenti, facendo credere di essere parte della massa»13 anche miliardari abituati al lusso più sfrenato che hanno cosrtruito il loro impero economico in buona parte prorprio attraverso ciò che dicono di voler combattere.

Indubbiamente questa particolare forma di cyberpopulismo, derivata dall’idea che le tecnologie della connettività possano realmente sostenere un processo di autodeterminazione fondato sulla valorizzazione delle individualità, ha potuto dilagare anche perché si è rivelata «capace di assorbire le istanze sociali che sono state deluse dai processi di globalizzazione e di dislocazione della forza lavoro verso la periferia del mondo»14.

La fortuna di molti movimenti d’opinione etichettati come populismi, secondo Alessandro Dal Lago, è in buona parte dovuta al diffondersi di un tipo di comunicazione online in cui prevalgono i soggetti digitali sugli esseri umani reali.

Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali15.

L’editorialista del “Chicago Tribune” Clarence Page ha messo in relazione il successo della serie televisiva The People Vs. O.J. Simpson. American Crime Story (2016)16 e la campagna elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca, sostenendo che per entrambi i casi si può parlare di dispute tra “narrative” di intrattenimento17.

La “narrativa”, sostiene Page, ha un ruolo determinante nella vittoria elettorale e il consenso può essere ottenuto ricorrendo a strategie da reality show date in pasto a un pubblico avido di essere intrattenuto: occorre dire qualcosa di scandaloso per poi, mentre tutti ne stanno ancora discutendo, rilanciare con una nuova affermazione scioccante. Ai seguaci spetta il compito di costruire sui social una comunità di sostengo impenetrabile da ogni altra informazione discordante. Quando serve riconquistare il centro della scena si ricomincia da capo rimettendo in moto il meccanismo.

Trump si è rivelato sicuramente abile nell’adottare per le sue campagne meccanismi propri dei reality show, di buona parte dell’entertainment della tv generalista contemporanea e dello stesso universo online, in questo, non poi così diverso dagli odiati media verticistici tradizionali di cui si pretende tanto diverso.

Una caratteristica riscontrabile nei dibattiti digitali, sostiene il sociologo Dal Lago, è la tangenzialità: il più delle volte gli interlocutori evitano di entrare nel merito di ciò che commentano, preferendo limitarsi a sfruttare l’occasione per ribadire punti di vista e credenze già posseduti e sostanzialmente indipendenti da ciò che si dovrebbe commentare. Nelle discussioni l’utente digitale pare essere alla ricerca di un pretesto per sfogarsi, per ribadire le proprie credenze in maniera, appunto, tangenziale rispetto alla questione iniziale: molti dibattiti online si rivelano contenitori di interventi del tutto privi di argomentazioni.

Negli Stati Uniti, a tutto ciò si deve aggiungere un sempre più esibito orgoglio del “non sapere le cose”, soprattutto in ambito politico. L’ignoranza, al pari di una narrazione semplicemente altra, poco importa quanto improbabile possa essere, diviene una sorta di trincea entro cui rifugiarsi per evitare il difficile confronto con quanto viene derubricato come narrazione dominate, dunque da rigettare aprioristicamente.

Tutto ciò, sostiene Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia (Luiss University Press 2023), si colloca ben oltre la tradizionale avversione americana per gli intellettuali. Ciò che si sta palesando negli Stati Uniti da qualche tempo non è soltanto un’incredibile disponibilità a credere a qualsiasi cosa non sia percepita come versione manistream, ma anche un’orgogliosa e arrogante opposizione attiva ad approfondire le questioni su cui si interviene pur di non abbandonare la comfort zone delle proprie improvvisate convinzioni. Non si tratta di «non fidarsi di qualcosa, metterla in discussione o cercare alternative», quanto piuttosto di «una miscela di narcisismo e disprezzo per il sapere specialistico, come se quest’ultimo fosse una specie di esercizio di autorealizzazione»18.

La propensione a cercare informazioni che avvalorino e rafforzino ciò in cui già si crede e a rigettare aprioristicamente quanto possa contraddirlo non nasce certo con internet ma è indubbio quanto questo si presti al meccanismo del “bias di conferma”. Se le leggende popolari e altre superstizioni sono tipici esempi di bias di conferma e di argomentazioni non falsificabili, i casi più estremi, sostiene Nichols, sono ravvisabili nelle teorie complottistiche. «I teorici del complotto manipolano tutte le prove tangibili per adeguarle alla loro spiegazione, ma, quel che è peggio, usano anche l’assenza di prove come conferma ancora più definitiva. […] Fatti, assenza di fatti, fatti contraddittori: tutto è una prova. Nulla può mettere in crisi la convinzione su cui si basa la teoria»19.

Il successo del genere conspiracy thriller, continua Nichols, deriva anche dal suo eroicizzare l’individuo che trova la forza e il coraggio di combattere contro una grande cospirazione capace di soffocare qualsiasi altro comune mortale. «La cultura americana, in particolare, è attratta dall’idea del dilettante di talento (in contrasto, per esempio, con gli esperti e le élite) che può sfidare interi governi – o organizzazioni addirittura più grandi – e vincere»20. Le teorie del complotto, che oggi sembrano sembrano derivare soprattutto dal disorientamento economico e sociale provocato dalla globalizzazione, risultano particolarmente attrattive per coloro che hanno difficoltà a dare un significato alla complessità e non sono in grado o non intendono compiere lo sforzo necessario per approfondire spiegazioni meno suggestive21. L’alternative right è prosperata online anche grazie a tutto ciò.

Se nel successo di Trump numerosi commentatori hanno visto una sorta di reazione della “gente qualunque” sentitasi abbandonata dallo snobismo liberal, in realtà, secondo Angela Nagle, a darsi è stato piuttosto il passaggio

da una certa forma di elitismo sottoculturale a un improvviso amore per il proletariato, addirittura per il disinteressato sostengo dei meno fortunati, come se la destra sostenesse da sempre argomenti come quelli di Thomas Franck e non, come in effetti era sempre accaduto, tesi favorevoli alla diseguaglianza o altri argomenti misantropici o economicamente elitari a sostegno della gerarchia naturale22.

Ben da prima che la retorica della “gente qualunque” diventasse onnipresente sui siti di destra, personaggi dell’alt-right come Milo Yiannopoulos si facevano fotografare con t-shirt recanti la scritta “Stop Beeing Poor”, riprendendo una maglietta sfoggiata da Paris Hilton. Dopo il successo trumpiano lo stesso Yiannopoulos ha tenuto diverse conferenze sulla “nuova classe operaia bianca”.

A fronte di questo improvviso interesse per la classe operaia bianca, occorre sottolineare come nell’ambito dell’estrema destra statunitense vi fosse la tendenza a rigettare l’idea dei conservatori che voleva la massa come loro “naturale” alleato ritenendo piuttosto ormai irrecuperabile la società massificata e indottrinata dal “multiculturalismo femminista di sinistra”. Nell’universo dell’alt-right sul web prevale da tempo una sottocultura snobistica verso le masse e la cultura di massa; la destra radicale online si vuole ristretta avanguardia altra rispetto alla massa nei cui confronti guarda con diffidenza quando non con ostilità.

Sono state proprio le idee incredibilmente vacue e fraudolente della trasgressione controculturale a creare il vuoto in cui oggi può confluire qualsiasi cosa purché ostenti sdegno dei gusti e dei valori manistream. È proprio questo che ha permesso che una cultura oggi evidente in tutto il suo orrore venisse romanticamente interpretata dai progressisti come una forza di opposizione all’egemonia culturale. La verità che tutto ciò ha svelato, secondo [Angela Nagle], è che sia la cultura vicina alla destra di 4chan, sia quella politicamente ipercorretta dell’accademia, hanno subito il fascino controculturale dello sdegno per tutto ciò che è di massa23.

Angela Nagle sottolinea anche come i Cultural Studies della Scuola di Birmingham abbiano guardato con occhi eccessivamente acritici alle sottoculture esaltandole per la loro carica radicale, trasgressiva e antiegemonista. Tale benevolenza deriverebbe, secondo la studiosa Sarah Thornton24, dal desiderio di trovare nelle sottoculture una sponda utile a contrastare le ideologie dominanti e perché tanto l’oggetto di studio (le sottoculture) che chi le affrontava (studiosi) erano accomunati da una sostanziale ostilità nei confronti della società di massa.

Il limite di approcci come quello di Dick Hebdige25, secondo Thornton, consiste nella tendenza a guardare alle sottoculture come a realtà nude e pure, mentre, a suo avviso, queste si intrecciano inevitabilmente con l’ambito mainstream e ciò risulterà sempre più evidente a partire dagli ultimi decenni del vecchio millennio quando il sistema si è dimostrato perfettamente in grado di riassorbire anche le spinte culturali più provocatorie rendendole profittevoli26:

rispetto alla scena inglese indagata da Hebdige le cose sono cambiate e parecchio, tanto da rendere oggi problematico anche solo ricorrere al termine sottocultura nelle modalità con cui vi si ricorreva qualche decennio fa. Ad essere mutata è anche la capacità della macchina del business di mercificare e di riassorbire fenomeni nati più o meno con intenzioni sottrattive, se non antagoniste, rispetto al sistema stesso. […] Da qualche tempo lo stesso ricorso alla provocazione è divenuto una strategia utilizzata con una certa frequenza dalla cultura e della moda manistream. […] Nella contemporaneità sembra ormai che normalità e devianza, da questo punto di vista, siano due strade, nemmeno così diverse, che conducono all’omologazione della mercificazione. Indipendentemente da quale sia il percorso seguito, le identità faticosamente costruite necessitano comunque di conferme, di una patente ottenuta attraverso una pubblica accettazione e qua fanno capolino i social network, ove i like o altri indicatori di apprezzamento rappresentano l’unità di misura del successo davanti al pubblico27.

Nelle sottoculture geek, sostiene Angela Nagle, l’idea di preservare il proprio ambito da contaminazioni che potrebbero “normalizzarlo” è molto presente. In tali ambienti generano forte disprezzo, ad esempio, le giovani ritenute un po’ superficiali con gusti mainstream che tentano di inserirsi nelle sottoculture alt-right utilizzando scorrettamente gli indicatori di appartenenza al gruppo dimostrano così di non aver compreso lo status elitario dei suoi appartenenti e per questo sono trattate con ostilità.

Come molte sottoculture, anche quelle della galassia alt-right, quasi sempre dominate da nerd maschi e bianchi, guardano con ostilità a tutto ciò che non appartiene alla loro cerchia. Chi, ad esempio, non trova esaltante il ritorno al separatismo razziale o l’idea di porre fine all’emancipazione femminile viene frequentemente accusato in internet, soprattutto se donna, di essere “normie” e “basic bitch”. «Siamo al punto che l’idea di essere figo/controculturale/trasgressivo può mettere un fascista in posizione di superiorità morale rispetto a persone normali», scrive Nagle; occorre dunque «riconsiderare il valore di queste idee di controcultura ormai stantie e logore»28.

Angela Nagle, oltre all’indubbio merito di ricostruire i conflitti culturali online degli ultimi decenni che hanno contribuito a formare l’immaginario di tanti giovani statunitensi che nel frattempo si sono fatti adulti, mostra anche come ribellione, provocazione e logiche controculturali che prendono di mira il sempre più logoro establishment non siano affatto esclusiva di una sinistra che, quando non si palesa essa stessa come establishment, ha saputo esprimere

un progressismo puramente identitario e autoreferenziale, cresciuto a sua volta nelle sottoculture web e arrivato poi nei campus universitari […]. Tutto d’un tratto sembrano lontanissimi i giorni dell’utopia, della rivoluzione digitale senza leader di Internet, quando i progressisti si rallegravano che “il disgusto” fosse “diventato un network” e fosse esploso nella vita reale29.

Quel disgusto fattosi network online non ha fatto che rigurgitare dapprima sullo schermo, poi fuori da esso, i peggiori istinti di esseri umani alienati e incapaci di mettere radicalmente in discussione un modello economico, di vita e di relazioni sociali che rappresenta la causa principale delle loro sofferenze.

Di certo la via di uscita non la si otterrà inseguendo le promesse reticolari-partecipative di un web sempre più indirizzato al controllo comportamentale e predittivo, capace di estrarre profitto anche dalle pretese antisitemiche sullo schermo più radicali, né rincorrendo le logiche della “pillola rossa” rivelatrice di verità il più delle volte coincidenti con semplicistici ribaltamenti di quanto passa il manistream, credendo davvero che le culture dei due ambiti siano nettamente differenziabili.

Le tecnologie della connettività online che stanno facendo la fortuna dell’alterntive right si stanno rivelando inadeguate allo sviluppo di esperienze realmente trasformative della realtà in senso libertario e solidaristico.

Sulla Rete riecheggiano e si amplificano i problemi di quella che abbiamo chiamato società del comando: la disgregazione sociale, la precarietà, la frattura tra dinamismo psicosomatico e realtà sociale, il carattere oppressivo e discontinuo del potere governamentale. Se si vogliono dare nuove prospettive al pensiero della resistenza o dell’antagonismo bisogna ripartire da qui, dalle derive della singolarizzazione che distorce la socializzazione e determina alienazione. Se l’obiettivo è quello di riuscire a organizzare le nostre singolarità in una soggettività politica, […] non si tratta più di liberare un desiderio ormai addomesticato o una pulsionalità repressa, ma di dare una forma sostenibile e vitale alla corporeità, oggi sempre più esaltata e allo stesso tempo mortificata nelle dinamiche del consumo e dello sfruttamento30.

In astinenza da piazze e socialità novecentesche, occorrerà  negare sostegno a un establishment impresentabile, non tanto perché “corrotto” ma innanzitutto in quanto espressione di un sistema di per sé indifendibile, e al contempo evitare di farsi prendere dalla frenetica ricerca di facili quanto improbabili scorciatoie ottenute attraverso semplicistici “ribaltamenti” di quanto è mainstream, di guardare a indigeribili alleanze, di indirizzarsi verso logiche complottistiche e parole d’ordine improponibili pensando davvero di poter controllare il mostro anziché farsi dominare da questo.

La pillola rossa dell’alt-right – serie completa


Bibliografia

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  2. Kristin Bezio, Ctrl-Alt-Del: GamerGate as a precursor to the rise of the altright, in “Leadership”, 2018, vol. 14, n. 5. 

  3. Anita Sarkeesian, Anita Sarkeesian Looks Back at GamerGate, in “Polygon”, 23 dicembre 2019 

  4. Michael Salter, Dalla mascolinità geek a Gamergate: la razionalità tecnologica dell’abuso online, in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020. 

  5. Ivi 142 

  6. Ivi, p. 143. 

  7. Ivi, p. 169. 

  8. Ivi, p. 146. 

  9. Ivi p. 147. 

  10. Ivi, pp. 149-151. 

  11. Ivi, p. 161. 

  12. Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo, Egea, Milano, 2017. 

  13. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto. Immagini, fake news e mass media: armi di due populisti a confronto, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 56-57 [su Carmilla]

  14. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, 2017, p. 22 [su Carmilla]

  15. Alessandro Dal Lago, Populismo digitale, op. cit., pp. 73-74. 

  16. The People v. O.J. Simpson: American Crime Story (2016) – prima stagione della serie televisiva American Crime Story prodotta da FX Netwoks – riprende il libro di successo The Run of His Life: The People v. O.J. Simpson (1997) di Jeffrey Toobin. 

  17. Cfr. Anna Camaiti Hostert, Enzo Antonio Cicchino, Trump e moschetto, op. cit. 

  18. Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Luiss University Press, Roma 2023, p. 13. 

  19. Ivi, p. 69. 

  20. Ivi, p. 71. 

  21. Cfr.: Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, prima parte, in “Internazionale”, 15 ottobre 2018; Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, in “Internazionale”, 29 ottobre 2018 

  22. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018,, pp. 143-144. 

  23. Ivi, p. 149. 

  24. Sarah Thornton, Club Cultures. Music, Media and Subcultural Capital, Polity Press, Cambridge, 1995. 

  25. DickHebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, Milano, 2017. Sul volume si veda: Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, in “Il Pickwick”, 18 ottobre 2017. 

  26. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Quando lo street style diventa mainstream, in “Carmilla”, 5 giugno 2022. 

  27. Gioacchino Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, op. cit. 

  28. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, op. cit., p. 152. 

  29. Ivi, p. 168. 

  30. Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 126-127 [su Carmilla]

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La pillola rossa dell’alt-right – 2 https://www.carmillaonline.com/2023/07/14/la-pillola-rossa-dellalt-right-2/ Fri, 14 Jul 2023 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77740 di Gioacchino Toni

Come visto precedentemente [su Carmilla], gli ambienti mediali si sono rivelati in grado di intensificare gradualmente l’odio provato da un individuo agendo sulle sue capacità decisionali fornendogli opportunità volte a stimolare e soddisfare i suoi desideri più riprovevoli su cui canalizzare frustrazioni e disillusioni maturate quotidianamente.

L’alt-right online si è dimostrata efficace nell’integrare ideologie debolmente correlate a temi e argomenti di grande interesse. Luke Munn ha ricostruito il processo attrattivo della destra alternativa statunitense: attraverso un calibrato periodo di acclimatazione viene definita una nuova base cognitiva [...]]]> di Gioacchino Toni

Come visto precedentemente [su Carmilla], gli ambienti mediali si sono rivelati in grado di intensificare gradualmente l’odio provato da un individuo agendo sulle sue capacità decisionali fornendogli opportunità volte a stimolare e soddisfare i suoi desideri più riprovevoli su cui canalizzare frustrazioni e disillusioni maturate quotidianamente.

L’alt-right online si è dimostrata efficace nell’integrare ideologie debolmente correlate a temi e argomenti di grande interesse. Luke Munn ha ricostruito il processo attrattivo della destra alternativa statunitense: attraverso un calibrato periodo di acclimatazione viene definita una nuova base cognitiva per ciò che è accettabile; dal momento in cui il discorso viene riconosciuto come consueto e condivisibile, l’utente viene accompagnato in modo “naturale” verso lo stadio successivo ove incontrerà immagini più forti e discorsi più radicali.

Naturalmente, gli individui affiliati anche in modo informale all’alt-right sono relazionali nel senso che sono connessi a vaste infrastrutture sociali e comunità online. Ma non appartengono a un’organizzazione e nemmeno a una cellula. Infatti, questi giovani, spesso disoccupati, si ritirano intenzionalmente dalla società, abbracciando il loro nuovo isolamento sociale anziché rifuggerlo […] Le recenti violenze perpetrate dall’alt-right sono difficili da prevedere e prevenire. Il razzismo e la xenofobia degli aggressori sono stati alimentati, coltivati e incoraggiati negli ambienti più disparati della rete […] Istigando soggetti alienati attraverso una retorica basata sull’odio e l’antagonismo, l’esito non può che essere distruttivo. Le condizioni che alimentano e incentivano l’indignazione, che incitano alla violenza, che perpetuano gli stereotipi razzisti, prima o poi spingeranno un soggetto particolarmente impressionabile e psicologicamente debole a comportamenti estremi1.

Gli individui che esprimono idee vicine all’alt-right sono il più delle volte persone comuni – spesso giovani bianchi disoccupati che si isolano intenzionalmente dal resto della società – che, un passo alla volta, meme dopo meme, video dopo video, hanno maturato convinzioni che considerano corrette e lapalissiane. Pur non facendo parte di gruppi “emarginati” o “assediati”, i discorsi di molti uomini bianchi che si sono avvicinati all’alt-right sono infarciti di retorica di persecuzione e vittimismo. Stando a un recente rapporto, circa undici milioni di statunitensi si dicono persuasi che nel loro paese i bianchi siano le “vittime” ed esprimono la profonda convinzione dell’importanza della “solidarietà bianca”2. «In breve, ci sono undici milioni di americani potenzialmente ricettivi ai messaggi dell’alt-right. Considerato nel più ampio contesto della popolazione, il simpatizzante dell’alt-right è un normale radicale e un estremista mainstream»3.

Lungi dall’essere per forza un emarginato, il soggetto su cui può far presa la retorica dell’alt-right è un individuo disilluso e cinico che, anche quando socialmente inserito, non trova felicità nella sua quotidianità e nel sistema politico che la governa. Un individuo alla ricerca di una sua dimensione all’interno di una comunità strutturatasi nell’universo online su una specifica questione che spesso diventa la sua unica questione esistenziale, una figura che, secondo Matteo Bittanti 4, non è molto diversa da quella di tanti gamer appassionati di giochi “sparatutto in prima persona” che magari, in diversi casi, sono usciti dagli schermi per partecipare all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

Oltre che poter contare su una rete di supporter influenti e su un’immensa disponibilità economica, senza le quali, è bene sottolinearlo, nessuna escalation si sarebbe potuta dare, Trump ha saputo sfruttare la cultura dell’altrnative right permettendole di contaminare l’establishment. Nell’analizzare il successo del tycoon statunitense, Alain Badiou5 ha argomentato come a suo avviso le posizioni politico-culturali di questo outsider rappresentino una sorta di “esteriorità interna” al sistema, un’esteriorità dispensatrice di false promesse portate avanti con un linguaggio roboante, violento, demagogico, irrazionale e semplicistico che non ha esitato a recuperare vecchi immaginari nazionalisti, razzisti, bigotti e sessisti, pur presentandoli, talvolta, in maniera nuova.

Come diversi analisti, anche Badiou ritiene che il successo di Trump sia stato costruito sfruttando quel senso di profonda frustrazione derivata dall’incapcità di proiettarsi nel futuro patito da larghi strati della popolazione privi, come sintetizza efficacemente Fabio Ciabatti, di «un insieme sufficientemente forte e articolato di principi condivisi in grado di fungere da mediazione tra il soggetto individuale e il progetto collettivo dell’emancipazione, di costituire un’unione strategica globale di tutte le forme di resistenza e di azione politica»6.

La “pillola rossa” offerta dall’alt-right e la “pillola blu” dispensata dall’establishment, al di là del diverso colore, conterrebbero, in definitiva, il medesimo principio attivo volto a preservare le fondamenta basilari di un sistema che non ammette alternative a sé stesso.

Sandro Moiso individua nella retorica del “duro lavoro”, onnipresente nel discorso dell’alt-right trumpiana, uno degli elementi cardine del suo successo tra la working class statunitense.

Perché è proprio nel concetto di lavoro inteso come partecipazione alla creazione della ricchezza della Nazione che si nasconde la grande fascinazione esercitata dal fascismo su una parte significativa della classe operaia. Nazionalismo, razzismo, esclusione e prevaricazione di genere, bellicismo non sono altro che i corollari, a livello ideologico, di un concetto che è penetrato in profondità nella mentalità di coloro che collegavano e collegano ancora il benessere proprio alla fatica e allo sfruttamento produttivo. […] Il barbecue famigliare e buy american cui il nuovo presidente invita i suoi elettori è fatto di cibo spazzatura e di illusioni di grandezza, di violenza e odio nei confronti degli immigrati e di qualsiasi nemico. Esterno o interno che sia7.

Tutto ciò, sostiene Moiso, era già presente, per quanto in maniera meno esplicitata, in quell’establishment di cui l’universo alt-right trumpiano si dichiara nemico. Rispetto alla tranquillizzante “pillola blu” proposta dall’establishment liberal-democratico o conservatore, ciò che la “pillola rossa” alt-right trumpiana ha esplicitato è «l’intima connessione tra interesse privato e nazionale che è il fondamento dei rapporti di produzione basati sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta. Da cui deriva l’intrinseca e inscindibile connessione che corre tra le politiche liberali e il loro rovescio apparente: il fascismo»8.

Se al fine di “smascherare” qualche personaggio o istituzione dell’establishment nel corso del tempo hanno fatto ricorso a forme di “hacktivismo moralizzatore” tanto militanti di sinistra che di destra, questi ultimi hanno saputo garantirsi una certa egemonia all’interno della chan culture. Spetta a 4chan il ruolo di apripista in tale ambito. Per dare un’idea del bacino su cui ha potuto contare la cultura di destra fattasi egemone su 4chan, basti pensare che la sezione del forum Something Awful intitolata The Anime Death Tentacle Rape Whorehouse, inaugurata nel 2003, luogo di ritrovo di tanti appassionati di anime giapponesi, ha  raggiunto circa 750 milioni di visualizzazioni mensili nel 2011.

Attraverso una prolifica produzione di meme e troll la comunità di 4chan ha dato voce a una cultura profondamente misogina di appassionati di videogame di guerra e di film come Fight Club (1999) di David Fincher e The Matrix (1999) di Lana e Lilly Wachowski, per quanto letti da una prospettiva probabilmente altra rispetto a quella degli autori. L’anonimato consentito dal sito ha certamente incoraggiato i partecipanti a esprimersi senza freni in un’escalation sempre più sguaiata in cui l’ironia e la parodia hanno finito per intersecarsi con le provocazioni, le minacce e gli insulti della destra radicale. «La troll culture di 4chan brulicava di razzismo, misoginia, deumanizzazione, pornografia disturbante e nichilismo anni prima di diventare una forza centrale dietro l’estetica e lo humor della alt-right»9.

Ad accomunare tanti frequentatori di 4chan e gli estremisti della destra più radicale è stata la comune insofferenza nei confronti del politcally correct, del femminismo, del multiculturalismo e, soprattutto, il timore che tali tendenze potessero “infettare” il loro mondo online privo di regole e dominato dall’anonimato. Il livello degli insulti e delle minacce online ha spesso preso come bersaglio le donne accusate, in definitiva, di aver condotto al declino del “maschio occidentale”. Nella preoccupazione per la mascolinità bianca e occidentale che emerge in molta web culture anonima e priva di leader, secondo Nagle, si potrebbero cogliere  la avvisaglie di un malessere occidentale che va ben al di là dello specifico.

All’espansione di politiche identitarie liberal ha fatto da contraltare il proliferare di reazioni sempre più sguaiate e incattivite portate avanti, in internet, attraverso raffiche di meme e troll virulenti fino alle minacce dirette con tanto di  pubblicazione di informazioni riservate, indirizzi compresi, dei soggetti presi di mira, soprattutto da parte dei gamer antifemministi, dunque allargando, di fatto, la sfera d’azione al di fuori degli schermi.

Secondo Nagle a diffondere la misoginia – come del resto il razzismo, la transfobia ecc. – presente in internet nelle pieghe del corpo sociale, più che le frange radicali dell’alt-right sarebbe stata la sua componente maggioritaria, la cosiddetta alt-light, grazie a personaggi come Milo Yiannopoulos, molto popolare su Twitter e su diversi blog, Mike Cernovich, autore di una celebre guida all’essertività maschile, e una schiera di produttori di meme (Pepe the Frog ecc.) mossi, più che da una visione politica precisa, dalla propensione al politicamente scorretto fine a sé stesso.

Sebbene si tenda ad associare la cultura della trasgressione alla sua manifestazione negli anni Sessanta del secolo scorso nell’ambito di quella rivoluzione sessuale che ha nei fatti minato alle fondamenta la famiglia tradizionale, di per sé, sostiene Angela Nagle, la trasgressione si è storicamente mostrata «ideologicamente flessibile, politicamente intercambiabile e moralmente neutr[a]» tanto da poter «caratterizzare la misoginia tanto quanto la liberazione sessuale»10.

Figure di spicco delle battaglie culturali condotte dalla destra trumpiana come Milo Yiannopoulos e Allum Bokhari nel tratteggiare il pantheon intellettuale dell’alternative right citano personalità quali: Oswald Spengler (Il tramonto dell’Occidente, 1918); H.L. Mencken, avverso al New Deal e promotore di una critica nietzschiana alla religione e alla democrazia rappresentativa; Julius Evola, soprattutto per la sua esaltazione dei valori tradizionali maschilisti; Samuel Francis, paleoconservatore avverso al neoconservatorismo capitalista. Anche la Nouvelle Droite francese rientra nell’eterogeneo pacchetto di influencer a cui guarda l’alt-right statunitense.

Durante gli anni della presidenza Obama, sostiene Nagle, i millenial liberal dotati di buon livello culturale non hanno approfittato dello spazio offerto dai nuovi media dopo il declino dei quotidiani e delle televisioni generaliste, tradizionali luoghi di dibattito politico. Si sono limitati a riempire le piattaforme di contenuti melensi, pieni di sentimenti edulcorati ritenendoli sia attrattivi che utili a costruire identità politica.

Affetto da miopia o da sprezzante disinteresse e snobismo, l’universo liberal non ha saputo/voluto vedere come nel frattempo l’alt-right stesse costruendo un impero mediatico online alternativo e stratificato capace di intercettare «adolescenti che creavano meme ironici e pubblicavano online contenuti contrari all’etichetta comportamentale di Internet formavano un esercito di riserva di produttori di contenuti, composti perlopiù di immagini in stile manga e anime spesso utilizzati in un contesto di umorismo nero»11.

Un esercito facilmente convocabile da parte di celebrità della destra alternativa online come Milo Yiannopoulos, Andrew Breitbart, Cathy Young, Mike Cernovich, Alex Jones, Richard Spencer, ecc. Un mileu di personalità decisamente eterogeneo per quanto accomunato dal livore nei confronti della politica e del giornalismo tradizionali che, dopo l’elezione di Trump, evento che ha ulteriormente rafforzato la loro notorietà mediatica, in molti casi ha dato luogo, come prevedibile, ad esasperate lotte intestine.

La metafora della “pillola rossa” ha permesso tanto ai misogini quanto ai razzisti di raccontare come si sono “risvegliati” «dall’ingannevole prigione mentale del pensiero liberal»12. L’alt-right ha un ruolo di primo piano nella cosiddetta  “maschiosfera”, ambito egemonizzato dalla misoginia di individui in preda a forme di risentimento nei confronti delle donne, come nel caso di quanti si dichiarano soggetti al “celibato involontario” o denunciano le preferenze delle donne per i “maschi alfa” su quelli “beta”. «Sotto i vessilli del “movimento degli uomini” negli Stati Uniti si sono riuniti gruppi di diverso orientamento, da quelli cristiani come i Promise Keepers al movimento mitopoietico del poeta Robet Bly, impegnato nella ricerca dell’autenticità maschilista persa in una società moderna femminilizzata e atomizzata»13.

Tra le figure più note della galassia in cui misoginia e razzismo si mescolano vi è sicuramente James C. Weidmann (“Roissy in DC”) autore di proclami in cui miscela psicologia evoluzionista, antifemminismo e difesa della razza bianca dicendosi convinto che il “declino della civiltà bianca” derivi dall’immigrazione, dalla mescolanza razziale e dalla scarsa attività procreativa delle donne bianche “fuorviate dal femminismo”. Secondo Weidmann, tale declino potrebbe essere invertito attraverso la “restaurazione del patriarcato” e la “deportazione di chi non è bianco”.

Il sito Vox Day, oltre a vedere nel femminismo una minaccia per la civiltà occidentale, palesa la sua contrarietà al concetto di “stupro nel matrimonio” ritenendolo “un attacco all’istituto del matrimonio, al concetto di legge oggettiva e, di fatto, al fondamento stesso della civiltà umana”. Il movimento separatista di uomini eterosessuali Men Going Their Own Way (MGTOW) rifiuta “relazioni romantiche” con donne per protestare contro la cultura che le invita alla realizzazione personale e all’indipendenza. Tra i personaggi più in vista a cui si rifà il movimento vi è lo scrittore maschilista e suprematista bianco Francis Roger Devlin, nemico della “morale elastica” e della “confusione dei ruoli”.

Secondo Nagle molti giovani statunitensi sono attratti dalla galassia dell’estrema destra per il suo denunciare la rivoluzione sessuale come causa delle unioni matrimoniali sempre meno durature e per il suo aver posto fine ai vincoli del matrimonio non appena scemato il rapporto d’amore sgravando i coniugi dal tradizionale obbligo di sacrificarsi per la famiglia. Il prolungarsi indefinito dello stato di irresponsabilità adolescenziale avrebbe dunque condotto a una gerarchia sessuale in cui le donne, rotti i vincoli di monogamia, si concederebbero quasi esclusivamente ai maschi al vertice della piramide sociale condannando tanti altri al celibato involontario.

L’ostilità viscerale degli uomini nei confronti delle donne presente sul web sembra spesso mossa da un senso di rivalsa nei loro confronti. «Sono proprio i giovani uomini con difficoltà relazionali con l’altro sesso e che hanno sperimentato il rifiuto a riempire spazi come Incel, la sezione di Reddit dedicata al celibato involontario, nella quale cercano consigli o soltanto la possibilità di esprimere la propria frustrazione»14. La rabbia che cova tra i livelli inferiori della “gerarchia sessuale”, ossia i maschi che si sentono scarsaemnte desiderati dalle donne, è tale da esplodere, in taluni casi, in maniera estrema.

Alla maschiosfera appartengono anche i Proud Boys, fondati da Gavin McInnes, che si rifanno alla dottrina “No Wanks” e che indicano tra i loro principi guida: «governo minimo, massima fedeltà, opposizione alla correttezza politica, diritto a detenere armi, guerra alle droghe, confini chiusi, opposizione alla masturbazione, culto dell’imprenditorialità e culto delle casalinghe»15. McInnes ha più volte affermato di aver derivato alcune linee di condotta dalla scena hardcore statunitense degli anni Ottanta; non a caso le stesse produzioni grafiche dei Proud Boys riprendono la pratica do-it-yourself degli ambienti punk-hardcore.

L’eterogeneo universo dell’alternative right statunitense si contraddistingue anche per la presenza di una serie di teorie del complotto proliferate e cresciute online poi, in taluni casi, uscite dagli schermi fino a raggiungere il manistream16.

I teorici del complotto lavorano sullo stupore, sulla fascinazione, sui punti di vista inconsueti. Nel fare questo, intercettano e soddisfano bisogni autentici: nelle nostre vite abbiamo bisogno di sorpresa, meraviglia, nuove angolature da cui guardare il mondo e sentirci diversi. I teorici del complotto forniscono tutto ciò e fanno sentire speciali i loro seguaci. Non a caso usano la metafora della “pillola rossa” tratta dal film Matrix: prendere la pillola rossa significa scoprire la verità sul complotto e vedere finalmente la griglia nascosta della realtà»17.

[continua]


La pillola rossa dell’alt-right completo: Parte 1 – Parte 2  – Parte 3


  1. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 158-159. 

  2. Cfr. George Hawley, The Demography of the Alt-Right, in “Institute for Family Studies”, 9 agosto 2018. 

  3. Luke Munn, Il processo di radicalizzazione dell’alt-right, op. cit., p. 161. 

  4. Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023 [su Carmila] 

  5. Alain Badiou, Trump o del fascismo democratico, Meltemi, Milano, 2018. 

  6. Fabio Ciabatti, Dopo Trump, il rilancio dell’idea comunista per superare lo sgomento, in “Carmilla”, 12 maggio 2018. 

  7. Sandro Moiso, Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo), in “Carmilla”, 21 febbraio 2017. 

  8. Sandro Moiso, Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo), op. cit. 

  9. Ivi, p. 149. 

  10. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 53. 

  11. Angela Nagle, Contro la vostra realtà. Come l’estremismo del web è diventato manistream, Luiss University Press, Roma, 2018, p. 66. 

  12. Ivi, p. 126. 

  13. Ivi, p. 125. 

  14. Ivi, p. 139. 

  15. Ivi, p. 135. 

  16. Cfr.: Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, prima parte, in “Internazionale”, 15 ottobre 2018; Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, in “Internazionale”, 29 ottobre 2018. 

  17. Wu Ming 1, Come nasce una teoria del complotto e come affrontarla, seconda parte, op. cit. 

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Estetiche inquiete. Quando lo street style diventa mainstream https://www.carmillaonline.com/2022/06/05/estetiche-inquiete-quando-lo-street-style-diventa-mainstream/ Sun, 05 Jun 2022 20:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72215 di Gioacchino Toni

Provocazione, trasgressione sessuale e spontaneismo sembrano ormai elementi irrinunciabili dell’immaginario veicolato dalle produzioni mainstream – dal cinema ai programmi televisivi, dall’infotainment allo sport-spettacolo, dalle pubblicità ai nuovi protagonisti della scena (video)musicale, dai contest ai festival nazional ed euro-popolari… – così come in quello dispensato sul Web dai professionisti della vetrinizzazione. Non c’è ormai programma televisivo di studio o di fiction narrativa, pubblicità o videoclip in cui manchi qualche parola o atteggiamento sopra le righe, qualche riferimento ad una sessualità altra rispetto a quella tollerata da Santa Romana Chiesa e qualche dress code di derivazione street style.

Di come [...]]]> di Gioacchino Toni

Provocazione, trasgressione sessuale e spontaneismo sembrano ormai elementi irrinunciabili dell’immaginario veicolato dalle produzioni mainstream – dal cinema ai programmi televisivi, dall’infotainment allo sport-spettacolo, dalle pubblicità ai nuovi protagonisti della scena (video)musicale, dai contest ai festival nazional ed euro-popolari… – così come in quello dispensato sul Web dai professionisti della vetrinizzazione. Non c’è ormai programma televisivo di studio o di fiction narrativa, pubblicità o videoclip in cui manchi qualche parola o atteggiamento sopra le righe, qualche riferimento ad una sessualità altra rispetto a quella tollerata da Santa Romana Chiesa e qualche dress code di derivazione street style.

Di come si sia trasformato quest’ultimo, anche nel suo eccedere l’universo strettamente vestimentario, tratta il volume di Nello Barile, Dress Coding. Moda e stili dalla strada al Metaverso (Meltemi 2022).

La carica contestataria dello street style sembra ormai essere stata assorbita dalle logiche della moda contemporanea che, anziché sentirsi oltraggiata, irrisa o respinta da questo, ha finito per trasformarlo nel suo contenuto più rilevante. Perso il suo contenuto originario, nella sua forma sempre più globalizzata lo street style contemporaneo sembra sempre più proporsi come logica ed estetica dominante nelle mani dei grandi brand.

Nonostante l’immaginario contemporaneo sia costantemente bombardato da messaggi volti a convincere dell’avvenuta scomparsa delle classi sociali, risulta evidente la polarizzazione crescente tra una ristretta élite che nell’ambito della moda è dedita un consumo di iperlusso e una, per quanto eterogenea, moltitudine che è costretta al low-cost. Nel frattempo è venuto ad affievolirsi quel ruolo ponte tra i due poli storicamente proprio della classe media che ha a lungo svolto un ruolo fondamentale all’interno del sistema della moda moderna. Insomma, gli eccessi e l’andamento caotico della moda contemporanea parrebbero avere molto a che fare con l’acuirsi della polarizzazione sociale e la crisi della classe media.

Il rapporto intercorso tra street style ed universo della moda a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso si è evoluto notevolmente. Se diverse storie sociali della moda hanno insistito sul processo di “democratizzazione” che vi sarebbe stato, altri studi hanno preferito concentrarsi sul fatto che mentre storicamente lo street style avrebbe connotati di autenticità, la moda si sarebbe limitata ad un’opera di campionamento e reinterpretazione delle sue idee.

Focalizzarsi sulla moda come artificio e sullo stile come autenticità rischia di far perdere di vista le zone liminali tra i due mondi ed è per questo motivo che Barile prende in esame proprio tale ambito di interscambio intensificatosi soprattutto negli ultimi anni contraddistinti da manifestazioni schizofreniche di coesistenza e giustapposizione tra opposti, fenomeno, quest’ultimo, che non riguarda di certo soltanto il dress code. A proposito dell’intreccio contemporaneo dei due ambiti, Barile sottolinea che «nell’epoca della globalizzazione il concetto di stile ha contagiato quello di moda mentre la forma pura della fashion è penetrata nell’universo dello stile alterandone la struttura. Si tratta di una collusione universale che non culmina in sintesi pacifiche, ma che alimenta conflitti semiotici su ambedue i livelli e che rappresenta il motore della creatività contemporanea» (p. 11).

Se alcuni studiosi individuano nella moda una costante antropologica propria dell’intera storia delle civiltà, altri vedono in essa un’esperienza esclusiva e costitutiva dell’epoca moderna. Facendo riferimento a quest’ultima prospettiva, diviene possibile definire la moda come «una uniformità socioculturale che scaturisce dall’innovazione ciclica e sistematica» (p. 15).

A differenza del costume tradizionale, tendenzialmente stabile, l’abbigliamento alla moda rappresenta invece qualcosa di dinamico che non vuol dire per forza di cose successione di novità assolute ma, soprattutto in epoca recente, di riproposta ciclica attualizzata. Nel momento in cui la moda si è trasformata in sistema, le innovazioni e l’obsolescenza sono state tendenzialmente regolarizzate e programmate in determinati momenti dell’anno. La ferrea stagionalità delle collezioni ha subito un primo contraccolpo nel momento in cui il fenomeno prêt-à-porter ha moltiplicato i centri creativi e produttivi – decisamente polarizzati nel panorama della Haute Couture – e ampliato a dismisura la clientela.

Le categorie della moda e dello stile possono essere limitate ai soli aspetti vestimentari o allargarsi fino a comprendere una vasta gamma di linguaggi e di comportamenti propri dei diversi periodi storici. L’antropologo statunitense Stuart Ewen, ad esempio, ricorre ai termini attitude e latitude per indicare i due atteggiamenti limite entro cui collocare le politiche stilistiche contemporanee: il primo, più vicino alla moda, indicherebbe un modello aristocratico, una trasmissione piramidale delle tendenze, mentre il secondo incarnerebbe la tendenza a ricorrere ai codici visivi e vestimentari per costruire/affermare l’identità, avrebbe dunque più a che fare con lo stile.

Oltre allo scarto tra coercizione-eleganza e autonomia-libertà, la distinzione semantica tra moda e stile è profondamente legata alla variabile temporale, o meglio all’esperienza che si fa del tempo attraverso l’abbigliamento. Nella catalogazione operata dall’antropologo americano sull’epoca storica dei cosiddetti street style emerge il principio discriminante di una diversa temporalità che sfida quella universale e astratta della moda. Già nell’etimo anglosassone il termine stile rimanda a un certo tipo di stagnazione temporale. Nello stile, suggerisce Barile, si potrebbe ravvisare l’incarnazione dell’idea bergsoniana di “durata” nell’ambito dell’estetica dell’individuo.

Se la moda segue il senso di una successione cronologica astratta, di una temporalità uniforme e progressiva, scandita da eventi ciclici, lo stile resiste a tutto ciò, rivendicando una chiusura centripeta verso la profondità del vissuto quotidiano. Si tratta dunque di un concetto complementare a quello di moda, che palesa la medesima esigenza espressiva e comunicativa, ma che definisce l’identità seguendo vettori affatto opposti. Rispetto alla forma di esclusione verticale, tipica del fashion, lo stile promuove un’esclusione orizzontale che non si fonda sulla possibilità economica di dotarsi di un patrimonio di segni, ma sull’adeguatezza esistenziale ad assumere una certa immagine. Se la moda cambia incessantemente e trasferisce delle identità prefabbricate al suo pubblico, lo stile si genera intimamente negli appartenenti a un gruppo ed esprime il grado di immersione in un dato tempo e in una data realtà sociale che, in questo caso, potremmo definire come “la strada” (p. 20).

Secondo Sarah Thornton il limite di approcci come quello di Dick Hebdige consiste nella tendenza a guardare alle sottoculture come a realtà nude e pure, mentre a suo avviso queste sono in qualche modo influenzate dall’ambito mainstream.

Le due esigenze fondanti la storia degli street style, l’autenticità e la spettacolarità, sono in netta contrapposizione e mettono in evidenza una sensibilità schizoide che si è accentuata con l’avvicinarsi della fine del millennio. Solo tenendo ben presente tale scissione può essere spiegato il rapporto controverso di amore/odio nutrito dalle varie generazioni di giovani nei confronti dei beni di consumo e del sistema dei media. Una sindrome che dagli anni Sessanta ha coinvolto anche lo stesso sistema della moda ufficiale, costretto a rinnegare i suoi antichi presupposti, tra cui l’esclusività e il lusso, per sposare la causa democratica di una moda che si diffonde negando se stessa. […] Da quando il sistema-moda ha interpolato la curva evolutiva degli street style, la logica onnivora del lusso ha assorbito molteplici contenuti provenienti dalle subculture giovanili tra cui: la provocazione politica, la trasgressione sessuale, lo spontaneismo. In altri termini il lusso è evoluto alla volta di un contenuto di unicità che spesso confligge con la sua anima industriale e commerciale (pp. 21-22).

Nel corso degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, di pari passo con l’esaurirsi della spinta propulsiva della moda moderna, secondo Barile si è assistito anche al concludersi della fase storica degli street syle che hanno man mano perso la loro connotazione antagonista dando vita a un rapporto sempre più colluso con il sistema della moda. La capacità degli street style di recuperare e decontestualizzare capi propri della moda per ricontestualizzarli cambiando loro di segno fino ad assorbirli in pratiche antagoniste ha finito per essere fatta propria dal fashion system che ha operato allo stesso modo nei confronti delle sottoculture: decontestualizzando e ricontestualizzando le loro estetiche.

Quella pratica sottoculturale di agire sullo stile in cui Dick Hebdige aveva scorto un tentativo di resistenza tanto alla cultura tradizione, quanto agli imperativi manistream dell’obsolescenza programmata dal consumismo, non solo è finita per divenire territorio di saccheggio da parte della macchina della moda, ma, secondo Barile, ne è divenuta complice, come dimostra l’esplicita “alleanza” tra cultura hip hop degli anni Ottanta e i grandi brand dello sportswear.

Grazie a questa nuova “alleanza” tra mercato e cultura giovanile, supportata dalla progressiva dilatazione della categoria di gioventù, lo sportswear divenne un segmento strategico per un elevato numero di aziende. La collusione con il brand system può spiegare la longevità di questa sottocultura, che ancora oggi si presenta come il fenomeno stilistico e musicale di maggiore rilevanza mondiale. […] Con il nuovo millennio si compie il processo di sublimazione e di universalizzazione dello street style. Un fenomeno paradossale perché la negazione del lusso, che un tempo era il tratto distintivo delle sottoculture giovanili, ora trasforma lo street style nel nuovo lusso. Ciò vuol dire che, da un lato, tale categoria si svuota di una serie di riferimenti culturali e contestuali che in passato lo caratterizzavano (la strada), dall’altro, tende a marcare il suo legame con un contesto storico, mimando le sue radici, la sua origine, la sua autenticità sopratutto per una questione di coerenza comunicativa del brand (pp. 45-46).

Sicuramente la progressiva dilatazione della categoria di gioventù contribuisce a spiegare il successo dello sportswear. Affacciatasi sulla scena nel corso degli anni Cinquanta palesando specificità proprie, la categoria dei giovani, oltre a conquistare un ruolo inedito all’interno del mondo politico e culturale, non ha tardato ad attrarre l’interesse delle industrie dell’intrattenimento e dell’abbigliamento capaci di intuirne velocemente il potenziale in termini di propensione al consumo e di facile adesione alle mode in linea con un desiderio di continuo cambiamento. Non è pertanto un caso che siano proprio i settori dell’intrattenimento e dell’abbigliamento a spingere maggiormente sull’immaginario degli adulti affinché si sentano “giovani” il più a lungo possibile; una tale dilatazione della giovinezza rappresenta un allargamento della propensione al consumo a frequente obsolescenza. Inoltre, a differenza dei “giovani veri”, che possono più facilmente dar vita a qualche fiammata contestataria, questa platea allargata di “giovani attempati” risulta solitamente meno incline alla messa in discussione dell’esistente, dunque decisamente più rassicurante.

Il concetto di street style è inevitabilmente mutato anche alla luce dell’avvento dei social media che da un certo punto di vista hanno esasperato la propensione alla “vetrinizzaizone”, all’esigenza di vedere ed essere visti. Molti look che un tempo erano considerati alternativi, sono oggi esibiti nei programmi televisivi e nei locali mainstream anche perché i brand della fast fashion, con la loro ossessione di accelerare sempre più il succedersi di nuove collezioni, oltre che alle proposte delle passatelle non mancano di trarre ispirazione dalla strada. «L’esigenza da parte della moda di mettere in discussione la contrapposizione tra classi sociali incentiva la congiunzione tra lusso e sportswear o tra lusso e fast fashion. Tale operazione parte spesso dal mash up del logo, un tempo considerato come l’inviolabile tratto identitario del brand, ma che diventa oggi il punto di fusione tra know how diversi che hanno storie e brand image diametralmente opposte» (p. 48).

In diversi casi la fusione riguarda non solo il logo ma anche l’identità stilistica e la comunicazione del progetto che non manca di porre particolare enfasi a questioni che toccano, sebbene assai superficialmente, il multiculturalismo e, sempre più spesso, la fluidità di genere, tematiche che sembrano offrire nuovi ambiti di interesse merceologico.

Un curioso fenomeno che segnala il processo di trasformazione dell’idea di street style in ambito consumistico non proprio low cost riguarda la scena hipster. Se le radici di tale fenomeno posso essere individuate nella Beat generation degli anni Cinquanta, in realtà i nuovi hipster

sono totalmente collusi col sistema dei consumi e con brand tendenzialmente di nicchia che caratterizzano il loro stile. In secondo luogo sono newstalgici, ovvero provano una nostalgia vicaria per consumi e tendenze dei propri genitori, che dunque non hanno mai esperito. Tale aspetto li pone in netto contrasto con i giovani ribelli di un tempo che fondavano la propria identità sul conflitto generazionale con le generazioni più anziane. Forse, proprio perché vivono la fase avanzata della cultura postmoderna, caratterizzata da saturazione dei media e dei consumi e dunque da fluidità e crisi delle identità sociali […], prediligono rifugiarsi in un mondo rassicurante e stabilizzate, fatto di mode e consumi passati (p. 49).

In un momento storico di forte polarizzazione socioeconomica, diverse collaborazione tra stilisti e marchi sportswear si sono date all’insegna della ripresa di capi e particolari propri degli street style trasformando l’originaria creatività di questi ultimi in prodotti di lusso non accessibile ai più. Vi sono poi importanti brand storici che, dovendo riposizionarsi sul mercato, «mirano a incorporare il vissuto dei nuovi consumatori […] rinnegando la stressa idea di lusso che hanno incarnato per anni» (p. 52) proponendo così un nuovo modello di lusso applicato agli street style.

Il dato sociologico più rilevante è che, in una società sempre più polarizzata come quella occidentale, dove i ceti medi tendono a sgretolarsi mentre l’élite e i ceti subalterni divergono, la cultura del consumo tende a far convergere le classi sociali all’insegna di uno stile popolare ma esclusivo. Se gli street style classici soffrivano di una certa scissione, ambivalenza o schizofrenia nell’opporsi frontalmente al sistema, cercando di affrontarlo tatticamente, per poi esserne sfruttati in maniera inesorabile […], i nuovi street style usano la trasgressione, anche la più estrema, per affermare globalmente il proprio potere simbolico e la propria coolness. Quanto più radicale è la negazione, tanto più accresce il loro valore e la venerazione da parte del pubblico. Il meccanismo tipico della logica neoliberista, capace di estrarre valore da differenza, difformità, radicalismo ecc., trova la sua ampia applicazione, come nel mondo dell’arte con cui, non a caso, la moda intrattiene una relazione sempre più intima (p. 54).

Circa i rapporti tra social media, nuove tecnologie, moda e street style, indagati da Barile nella seconda parte del volume, varrà la pena tornare successivamente.


Estetiche inquiete serie completa su Carmilla

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Estetiche inquiete. Tribù e bande giovanili catalane, messicane e transnazionali https://www.carmillaonline.com/2020/07/24/estetiche-inquiete-tribu-e-bande-giovanili-catalane-messicane-e-transnazionali/ Fri, 24 Jul 2020 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61319 di Gioacchino Toni

Carles Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 160, €13,00

Mentre sul finire degli anni Settanta Margaret Thatcher si impossessa dei locali londinesi al numero 10 di Downing Street, inaugurando un’era politico-culturale di cui oggi si vedono compiutamente i risultati, in Inghilterra viene dato alle stampe Subculture: The Meaning of Style (1979) di Dick Hebdige, un saggio destinato a cambiare il modo di guardare alle culture giovanili.

Scritto a ridosso della fase eroica dell’epopea punk inglese, prima che la macchina del business si attivasse a [...]]]> di Gioacchino Toni

Carles Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 160, €13,00

Mentre sul finire degli anni Settanta Margaret Thatcher si impossessa dei locali londinesi al numero 10 di Downing Street, inaugurando un’era politico-culturale di cui oggi si vedono compiutamente i risultati, in Inghilterra viene dato alle stampe Subculture: The Meaning of Style (1979) di Dick Hebdige, un saggio destinato a cambiare il modo di guardare alle culture giovanili.

Scritto a ridosso della fase eroica dell’epopea punk inglese, prima che la macchina del business si attivasse a pieni giri, il libro viene tradotto in italiano nei primi anni Ottanta incontrando una scena punk nazionale vitale e, almeno in alcuni suoi settori, attiva in ambito antagonista.

Nell’edizione edita da Meltemi nel 2017 tradotta da Pierluigi Tazzi e revisionata da Massimiliano Guareschi, scrive a tal proposito quest’ultimo nell’introduzione al volume:

In quel frangente, Sottocultura forniva preziose chiavi di lettura per decifrare le coordinate di un protagonismo non più inquadrabile nelle forme consuete della militanza politica. Anche nell’autocomprensione delle stesse sottoculture, nonostante il rifiuto di principio che le componenti più oltranziste potevano opporre a qualsiasi sguardo esterno o alle oggettivazioni del sapere accademico, il libro svolse un ruolo non trascurabile.1

L’uscita del libro nei primi anni Ottanta ha rappresentato probabilmente anche una delle prime occasioni per gli studiosi italiani di familiarizzare con i cultural studies successivi alla

assunzione da parte di Stuart Hall della direzione del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham e il riorientamento della precedente vocazione prevalentemente storico-letteraria in direzione sia di una focalizzazione su tematiche quali la resistenza attraverso i rituali, la guerriglia semiotica messa in scena dai comportamenti giovanili, la risignificazione dal basso dei consumi, l’interazione fra pubblico e media aggirando le ipoteche delle letture unidirezionali in termini di meccanico travaso di contenuti dall’emittente al destinatario o di moralistica stigmatizzazione dell’abbrutimento delle masse nell’era del consumismo e della massificazione.2

Si può riconoscere al volume di Hebdige il merito di aver indotto in questo paese non solo gli ambienti accademici ma anche settori di quell’universo underground da lui chiamato in causa a guardare con occhi nuovi al mondo delle sottoculture giovanili e ad ampliare l’interesse verso gli studi sulle culture subalterne portati avanti da tempo da autori come Ernesto De Martino e, prima ancora, dallo stesso Antonio Gramsci.

A questi due ultimi studiosi, De Martino e Gramsci, è debitore, come ha modo di ribadire egli stesso nel volume, lo spagnolo Carles Feixa che, con il suo Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili (DeriveApprodi 2020), ha recentemente inaugurato Anomalie Urbane di DeriveApprodi, collana intenzionata a proporre tanto contributi originali che traduzioni e riedizioni di classici dedicati alle culture metropolitiane prendendone in esame, sia da un punto di vista teorico che empirico, linguaggi, spazi e condotte conflittuali.

Lontano dai pregiudizi e dalle etichettature di comodo della politica istituzionale e dei media, la collana, curata da Luca Benvenga, intende dunque affrontare le culture giovanili, siano esse sub o contro-culturali, nelle loro contraddizioni, nei loro splendori e nelle loro miserie. Ad essere indagati sono pertanto, tra gli altri, i processi di soggettivazione prodotti da tali realtà, il ricorso alla violenza e alla mascolinità come strumenti di affermazione del sé sociale, le modalità di convivenza cooperanti e solidali, le questioni etniche, di genere e di classe, la dimensione popolare degli sport nelle comunità…

Il volume di Feixa, docente di antropologia sociale presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona, raccoglie cinque saggi sulle culture giovanili stesi negli ultimi decenni in cui vengono riportati i risultati di un’analisi sul campo relativa alle tribus urbanas spagnole degli anni Ottanta e i chavos banda messicani del decennio successivo, alle bandas latinas della prima metà degli anni Duemila e alle bande transnazionali come “agenti di mediazione” tra Europa, Nordafrica e America.

Nell’impossibilità di prendere in rassegna tutta la casistica affrontata dal libro, in questo scritto ci si limiterà a tratteggiare le differenze principali tra due tipi di bande giovanili: le tribus urbanas spagnole degli anni Ottanta e i chavos banda messicani degli anni Novanta.

Sin dalla sua prima immersione all’interno delle bande giovanili spagnole, lo studioso nota come alcuni interlocutori rispondessero a

identità etniche e di classe precedenti (i pijos, giovani della classe media, in genere studenti, ossessionati dal consumismo e dalla moda, si contrapponevano ai golfos, immigrati della periferia, generalmente disoccupati). Altre classificazioni riconducevano a modelli più universali: reminiscenze del passato (hippies), revivals (mods) e nuove creazioni subculturali (punk, posmodernos). Modelli provenienti da altri tempi e luoghi (la Gran Bretagna degli anni Sessanta e Settanta) e non introiettati in maniera passiva o puramente esteriore, si adattavano a nuove funzioni e bisogni e si mescolavano con le influenze autoctone (la cultura gitana e il nazionalismo catalano).3

Nelle sue prime indagini sul campo nella Spagna degli anni Ottanta, Feixa nota come curiosamente le tribù urbane tendono a essere indicate come fenomeno generazionale nonostante risultino composte da un esiguo numero di giovani e come siano lette come metafora della crisi, un sorta di rielaborazione simbolica del disincanto politico postfranchista, una risposta alla mancanza di lavoro e di futuro per i giovani.

Se in Spagna per i giovani della generazione del dopoguerra lo svago tende a ridursi, salvo qualche festa privata, alle passeggiate lungo la via principale della città, a partire dalla metà degli anni Sessanta le nascenti sale da ballo offrono ai giovani un luogo alternativo in cui impiegare il tempo libero. È però con la morte di Franco, nel 1975, che la gioventù inizia davvero a ritagliarsi uno spazio proprio, regolato da leggi e valori altri, all’interno delle città.

La prima analisi proposta dallo studioso riguarda il formarsi delle tribù giovanili nella città catalana di Lleida ove, nel corso degli anni Ottanta, nella parte antica della città, nella cosiddetta “zona dei vini”, diversi vecchi bar a buon mercato, in cui è possibile ascoltare musica, vestire informalmente e fumare hashish liberamente, si trasformano in uno spazio giovanile frequentato dalle diverse tribù, ognuna connotata dal suo particolare stile. Quim, un interlocutore catalano diciottenne, così spiega la nascita e la diffusione delle bande giovanili: «Senza lavoro, le persone non sono state in grado di adattarsi alla società e hanno creato un gruppo per appartenere a un qualche tipo di società»4.

Il processo di massificazione, sostiene Feixa, ha poi indotto alcuni gruppi giovanili ad abbandonando la “zona dei vini” per differenziarsi. Ad esempio, i progres, studenti di sinistra con influenze controculturali, si spostano nei locali della zona bassa della città, ove si ascolta musica jazz, rock progressivo e cantautori catalani, mentre i pijos optano per la parte borghese della città, ove frequentano locali più costosi caratterizzati da un’estetica più commerciale, un abbigliamento firmato e musica da discoteca. In altre parti della città vengono ricavati da vecchi magazzini grandi locali, detti posmodernos, contraddistinti da un’estetica punk, rockers e musica hard rock. Successivamente, la stessa “zona dei vini” inizia a differenziare nettamente i locali per rispondere a comunità specifiche: hardcores, heavies, rockabillies, acratas, femministe ecc.

Con l’emergere delle tribù urbane, a Lleida si ha una settorializzazione degli spazi urbani dedicati allo svago giovanile. In molti casi, nota Feixa, non si tratta di gruppi con base territoriale, organizzati sul modello della banda; lo spazio di aggregazione tende a concentrarsi nel centro della città ed è lì che i gruppi si ritrovano indipendentemente dalla provenienza territoriale dei membri.

Ogni ragazzo può fare proprio uno stile in modo più o meno radicale, identificarsi in successione con stili diversi o adottarne solo parte degli ornamenti esteriori, o più semplicemente condividere l’amicizia con i componenti del gruppo. Di fatto, la tribù esiste esclusivamente come “mappa mentale” per consentire di orientarsi e interagire quotidianamente con gli altri giovani. I “travestimenti” di solito non vengono indossati a scuola o al lavoro, ma sono prerogativa specifica del fine settimana, quando ci si reca nella zona dei vini al sopraggiungere della sera.5

Nel corso del tempo si sono dati importanti cambiamenti in seno alle diverse tribù e ai loro stili, con non irrilevanti processi di inversione simbolica, come ad esempio l’appropriazione dello stile skinhead, tradizionalmente proprio di frange di proletariato ribelle, da parte di ragazzini di estrazione borghese, spesso di estrema destra e razzisti. Più in generale, sostiene lo studioso, «gli stili maggiormente connessi con la crisi e che hanno come protagonisti giovani operai (punks, heavies) hanno lasciato il posto ad altri stili che, sebbene di origine operaia, riconducono ad altre epoche (gli anni Sessanta) e sono ripresi dai giovani della classe media (mods, skinheads), facendosi interpreti di nuove metafore sociali (il consumismo, il razzismo)»6.

I chavos banda degli anni Novanta presenti in diverse città messicane sono invece composti da giovani disoccupati o attivi nell’economia sommersa dell’ambiente urbano-popolare, tendenzialmente stanziali nei rispettivi quartieri e appassionati di musica rock che si oppongono ai chavos fresa, giovani della classe media, spesso studenti, ossessionati dalla moda e dal consumismo che fanno delle discoteche il loro punt di ritrovo.
Sin dal principio degli anni Ottanta, lo stile chavos banda tende a divenire egemonico tra larghi strati di popolazione giovanile sia maschile che femminile permettendo alla marginalità di fare irruzione sulla scena urbana. Lo studioso, oltre a tratteggiare le esperienze storiche da cui sono derivati i chavos banda, ne indaga l’identità generazionale, etnica, di classe e di genere.

Confrontando i chavos banda messicani con le tribus urbanas spagnole, lo Feixa nota come, al di là degli elementi affini, mentre i primi si sono trasformati in un’esperienza di massa duratura nell’ambiente urbano-popolare, nel secondo caso si è trattato di un fenomeno decisamente minoritario e legato a una particolare congiuntura.

Mentre la banda è una struttura collettiva sufficientemente stabile, con capi e rituali costanti che abbraccia gran parte della vita quotidiana e del percorso di vitale dei chavos, le tribù urbane tendono a essere raggruppamenti instabili, solo occasionalmente di massa, discontinui, i cui membri di rado si lasciano coinvolgere totalmente. Mentre i chavos banda si localizzano prevalentemente nelle periferie delle grandi città e conservano vincoli profondi con il territorio (la cui difesa è il motivo di conflitti endemici con altre bande ugualmente territoriali), le tribù urbane hanno mantenuto come scenario soprattutto il centro urbano, con conflitti episodici e determinati prevalentemente da divergenze di stile o rivalità calcistiche, piuttosto che appartenenze territoriali.7

Mentre i chavos ostentano la loro identità di gruppo sempre e ovunque, l’esibizione dell’appartenenza alle bande urbane è assai più circoscritta, inoltre se i primi tendono a rifarsi a circuiti economici informali o autogestiti, i secondi restano sostanzialmente all’interno del circuito di mercato tradizionale. Le stesse risposte del potere nei confronti delle due esperienze sono differenti: decisamente di stampo repressivo nel caso messicano, più tollerante nel caso catalano.

L’identificazione con questi stili è un processo simbolico, tuttavia l’appropriazione produce in ogni luogo manifestazioni culturali completamente diverse, e ciò confuta le teorie che vedono nella cultura dei giovani un processo di omologazione su scala planetaria. L’esperienza dimostra che i ragazzi provenienti da contesti subalterni, sia nelle zone periferiche che in quelle centrali, possono essere emarginati ma non necessariamente marginali. Attraverso l’identificazione con un modello, l’emarginazione da stigma passa a essere un emblema. Emblema che crea una comunicazione col mondo esterno, che offre un linguaggio universale e quindi mette in crisi l’idea tradizionale della cultura della povertà come un’entità chiusa.8

Per quanto riguarda le altre esperienze analizzate da Feixa, relativamente alle bandas latinas barcellonesi della prima metà degli anni Duemila, lo studioso si propone di mostrare come, al di là egli stereotipi di comodo politico-mediatici, esistano differenti modalità di identificazione dei giovani di identità latina con le bande. Nel volume vengono analizzati anche alcuni fenomeni socio-culturali che in ambito catalano si contraddistinguono per la presenza tanto di una dimensione locale che una globale, mentre un saggio rimanda al progetto TRANSGANG – Transnational Gangs as Agents of Mediation: Experiences of Conflict Resolution in Street Youth Organizations in Southern Europe, North Africa and the Americas – che anziché concentrarsi sui fallimenti e sull’esclusione sociale, si occupa dei casi in cui le bande giovanili sono state protagoniste di percorsi di inclusione sociale. Si tratta di un progetto che, focalizzato sulle esperienze di mediazione delle bande giovanili di due comunità transnazionali (latinoamericane e arabe) in tre ambiti geo-culturali (Europa Merdionale, Africa Settentrionale e le Americhe), mira a favorire politiche maggiormente inclusive in cui i protagonisti esercitano un ruolo attivo di primo piano.


  1. D. Hebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, Meltemi, Milano 2017, p. 12. Sul volume si veda: G. Toni, La rivolta dello stile. Dick Hebdige e la “sottocultura”, Il Pickwick, 18 ottobre 2017. 

  2. Ivi, p. 13. 

  3. C. Feixa, Oltre le bande. Saggi sulle culture giovanili, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 9. 

  4. Ivi, p. 7. 

  5. Ivi, p. .12. 

  6. Ivi, p. 12. 

  7. Ivi, p. 21. 

  8. Ivi. pp. 22-23. 

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