diamat – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 25 Dec 2024 21:00:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 6 https://www.carmillaonline.com/2023/09/03/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-6/ Sun, 03 Sep 2023 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78426 di Emilio Quadrelli

Potere operaio e programma comunista

Abbiamo visto come la centralità operaia abbia ben poco di oggettivo e tanto meno di scontato. Certamente nella loro evoluzione le lotte operaie assumeranno forme tali da imporsi all’attenzione di tutti, difficile, infatti, ignorare l’autunno caldo quando milioni di operai entreranno in lotta ma ciò che nel contesto a noi interessa è osservare tutto ciò che accade prima. Ciò che diventa importante, soprattutto se vogliamo recuperare quella storia nel presente, è come l’ordine discorsivo intorno alla centralità operaia si sviluppa. In questo senso un [...]]]> di Emilio Quadrelli

Potere operaio e programma comunista

Abbiamo visto come la centralità operaia abbia ben poco di oggettivo e tanto meno di scontato. Certamente nella loro evoluzione le lotte operaie assumeranno forme tali da imporsi all’attenzione di tutti, difficile, infatti, ignorare l’autunno caldo quando milioni di operai entreranno in lotta ma ciò che nel contesto a noi interessa è osservare tutto ciò che accade prima. Ciò che diventa importante, soprattutto se vogliamo recuperare quella storia nel presente, è come l’ordine discorsivo intorno alla centralità operaia si sviluppa. In questo senso un giornale come “La classe” può assumere un valore paradigmatico. Due sembrano essere gli aspetti centrali: l’attenzione continua per tutte le lotte e le insubordinazioni operaie che si sviluppano e la ricerca costante del punto di vista operaio.

Questo corpo militante, una parte del quale si è formato all’interno delle varie esperienze operaiste degli anni precedenti mentre un altro è maturato nel ’68, che dà vita a “La classe” lavora costantemente per mettere in contatto le lotte, anche di modesta proporzione, che si sviluppano nella classe operaia. Qui riemerge in maniera non dogmatica quell’uso del giornale come elemento essenziale finalizzato alla messa in forma di quel partito dell’insurrezione che aveva fatto da sfondo al leniniano “Che fare?”.

Ma cosa significa mettere in contatto le lotte? Certo, banalmente, far sapere che esistono, ma non è solo questo il punto. Il dialogo e la conoscenza tra gruppi di lotta significa socializzare delle esperienze, unificare dei comportamenti, rompere l’isolamento a cui, di fatto, la vita operaia rinchiusa nella fabbrica–prigione è costretta. Significa che gli operai possono iniziare a riconoscersi come corpo sociale collettivo e percepirsi concretamente come classe ma non solo. Un giornale che focalizzi l’attenzione sul punto di vista operaio, e quindi assume le parole operaie come punti cardinali per la propria azione, non si limita a fare della cronaca o dell’informazione, ma assolve a un duplice obiettivo: da una parte è veicolo d’organizzazione e dall’altro fa sì che la lotta operaia assuma un ruolo centrale sulla scena politica. Ma questo è possibile solo se la centralità operaia è depurata tanto da un qualunque sostrato ideologico quanto da ogni sorta di mitologema. La centralità operaia può essere fattivamente tale se, in primo piano, è posta la concretezza operaia del suo qui e ora. Ciò che verrà definito protagonismo operaio sarà esattamente l’essere di questa concretezza che, dentro esperienze come “La classe”, iniziò a elaborare una propria sintassi e un linguaggio appropriato.

Solo chi della classe operaia ha una conoscenza del tutto astratta e, come diretta conseguenza, profondamente mitologica, ignora le condizioni materiali della vita operaia. Solo chi è estraneo al lavoro operaio può esaltarlo mentre, chi dentro a quel lavoro è costantemente imprigionato, non può fare altro che odiarlo. Gli operai se ne fottono della classe operaia in astratto ma, molto più realisticamente e sensatamente, non vogliono più essere operai. Ma il comunismo non era forse la soppressione del lavoro salariato? Allora si tratta, a partire da ciò, di leggere i comportamenti che spontaneamente pongono in crisi la macchina del comando. Il giornale diventa, in pieno stile leniniano, un organizzatore collettivo, un momento tanto di sintesi quanto di elaborazione e, con ciò, uno strumento d’organizzazione. Il giornale diventa lo strumento che costruisce la linea politica operaia perché è da dentro la classe e solo dentro di lei che può darsi linea politica e organizzazione. Non si dà linea politica, non si dà linea operaia precipitandosi davanti ai cancelli delle fabbriche con le direttive di un qualche improvvisato Comitato Centrale, ma si dà linea politica e linea operaia solo dentro la pratica dell’inchiesta e delle lotte.

Per altro verso questo lavoro è costantemente attento al punto di vista operaio perché è proprio questo a fornire l’ossatura del partito dell’insurrezione. Scorrendo anche solo di sfuggita i numeri de “La classe” è facile notare la quantità di materiali empirici di cui il giornale è ricco. Si tratta di resoconti operai, interventi in fabbrica, interventi in assemblea, interviste insomma tutto ciò che dentro la classe si muove e questo produce almeno tre risultati: da un lato rompe qualunque possibilità di isolamento della classe operaia e delle sue lotte, le quali, grazie alla risonanza che il giornale offre loro, si socializzano con una certa facilità, gli operai comprendono che quanto accade in una determinata officina non è un fatto isolato, ma quanto accade ha dinamiche e motivazioni del tutto simili a qualcosa in atto a qualche chilometro di distanza, o anche a centinaia di chilometri.

La classe operaia, così, comprende di non essere un insieme di individui casualmente piombati in una particolare situazione, ma di essere parte di un tutto che condivide la medesima condizione e sta condividendo le stesse esperienze. Attraverso la circolarità delle lotte non vi è solo la socializzazione di queste ma lo scambio delle esperienze. Da ogni contesa si può apprendere un modus operandi e la sua eventuale generalizzazione. Infine, ma certamente non per ultimo, queste esperienze diventano oggetto di discussione per tutti i militanti che si pongono sul terreno della conflittualità operaia. La classe operaia, quella vera e non la sua icona propria delle varie ortodossie comuniste, diventa il costante punto di riferimento di tutto il dibattito politico del movimento. Va detto chiaramente: senza tutto questo impegno le lotte operaie ben difficilmente sarebbero state in grado di avere quel ruolo centrale che tutta la società italiana gli ha riconosciuto e “La classe” rappresenta un passaggio essenziale di tutto questo, così come, ed è quanto si proverà ad argomentare nelle pagine seguenti, avrà l’indubbio merito di portare nel dibattito operaio l’insieme di tensioni politiche, culturali ed esistenziali che il ’68 aveva fatto albeggiare. In questo modo la lotta concreta dell’officina può coniugarsi con le astrazioni che agitano il mondo emancipando la fabbrica dai suoi angusti perimetri e la classe operaia dal suo isolamento.

Mao e il maoismo sono sicuramente una di queste astrazioni. L’interesse de “La classe” per la Cina e per la Rivoluzione culturale che la sta attraversando non è cosa secondaria. Prima di parlare del maoismo che trova un certo spazio nel giornale necessita una premessa al fine di emancipare sin da subito “La classe” da quell’insieme di gruppi e gruppuscoli, per non dire della quantità di neopartiti comunisti marxisti–leninisti, formatisi sulla scia del maoismo i quali se meritano una nota storica, questa è una nota tutta perimetrata nell’ambito del folclore e del ridicolo. Il Mao che sta dentro “La classe” è un eretico, forse ancor più di Lenin e comunque un Mao che non ha nulla di quell’esotico e/o terzomondismo che caratterizza le diverse organizzazioni maoiste.

In prima istanza il Mao che interessa a “La classe” è quello che si contrappone radicalmente al socialimperialismo sovietico. Qui l’interesse è duplice: da una parte significa identificare sul piano internazionale un polo innovativo finalizzato allo sviluppo del movimento rivoluzionario internazionale, anche dentro le metropoli imperialiste e focalizza lo sguardo proprio su ciò che accade nelle metropoli imperialiste. Mentre il socialimperialismo è artefice non secondario del mantenimento dello status quo post bellico, la Cina maoista è fondamentalmente propensa a far saltare il banco della spartizione del mondo in precise e delimitate sfere di influenza allo stesso tempo, così come il socialimperialismo è tutto dentro i Palazzi, la Cina si mostra come un valente interlocutore della o delle Strade quindi, il rapporto con il maoismo, può essere giocato tutto contro il riformismo il quale si identifica appieno nel blocco socialimperialista e delle relazioni politiche ufficiali delle quali ha fatto il suo solo orizzonte.

Ciò era stato quanto mai evidente nel corso del ’68 quando, proprio Mao e la rivoluzione cinese, erano diventati uno dei punti di riferimento centrali di quel movimento che aveva sconvolto gli equilibri di tutti i sistemi politici1. Mao e il maoismo sono l’elemento di rottura internazionale che affascina gran parte della gioventù rivoluzionaria e in ciò un ruolo non secondario lo gioca il fattivo appoggio che la rivoluzione cinese sta offrendo al popolo vietnamita in guerra con l’imperialismo americano ma anche il rapporto che il maoismo costruisce con realtà come le Black Panther e i vari movimenti di resistenza sviluppatisi dentro le metropoli imperialiste. Mao, in un mondo che sembra immutabile, è il vento dell’est che ritorna a dire: “Bisogna sognare!” e lo fa ponendo nuovamente al centro del suo agire quella marxiana violenza, ostetrica della storia, messa al bando dal movimento operaio ufficiale.

Sulla scia di ciò “La classe” trova nel maoismo uno strumento di battaglia politica contro il riformismo e con ciò Mao è portato, così come è stato fatto con Lenin, dentro la fabbrica tanto che si potrebbe dire da Lenin in Inghilterra a Mao a Mirafiori. Di ciò si ha una corposa dimostrazione attraverso le scritte, già ricordate, fatte dagli operai legati a “La classe” in fabbrica: “Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina!” è esattamente questo il maoismo privo di fronzoli e folclore immesso nella metropoli imperialista. È il Mao stratega militare2 che viene ripreso e modellato dentro la fabbrica prima e, almeno per la componente che darà vita a Lotta Continua, nella metropoli poi, così come il principio della guerra di lunga durata diventa il punto di riferimento costante di tutto ciò che ruota nella e intorno a “La classe”.

Questo apre su un altro tema centrale, tanto della teoria politica maoista quanto, come si è provato ad argomentare in precedenza, negli orizzonti de “La classe”, ovvero la questione della violenza. Mentre il riformismo, attraverso l’assunzione della guerra di posizione come solo e unico orizzonte politico, ha espunto la questione politico–militare, Mao, con il suo: “Il potere politico nasce dalla canna del fucile”, aveva riportato, e lo aveva fatto come leader di una delle più grandi potenze del mondo, la questione della violenza al centro dell’agenda politica dei movimenti comunisti e lo aveva fatto declinandola interamente sulle masse. Non la guerra degli apparati cara al socialimperialismo, ma la guerra di popolo, la guerra delle masse e la sua organizzazione. Abbiamo detto che il principio maoista della guerra di lunga durata3 è assunto per intero da “La classe” il che comporta tutta una serie di ricadute che, dalla teoria maoista, possono ricevere non secondarie indicazioni. Lo studio degli “Scritti militari” di Mao diventano un passaggio centrale per tutta una generazione di avanguardie operaie e militanti comunisti che, proprio su questo terreno, si erano mostrati completamente vergini.

Attraverso gli scritti militari di Mao è possibile cogliere la questione dell’edificazione del dualismo di potere che, secondo i militanti de “La classe”, sarà la caratteristica del processo rivoluzionario dentro le metropoli imperialiste. Ciò che la lotta di fabbrica ha fatto albeggiare è un conflitto che non si risolverà in una battaglia ma che per forza di cose si protrarrà nel tempo, un conflitto che, pur con tutte le tare del caso, assumerà contorni simili alla guerra rivoluzionaria in Cina ossia una guerra fatta di avanzate e ritirate, di zone liberate e instaurazione del potere rosso, ma anche di ripiegamenti repentini sotto l’incalzare della contro offensiva padronale e statuale.

Qui vi è un salto politico radicale rispetto all’operaismo che ha preceduto questa nuova stagione della lotta operaia. Il vecchio operaismo non era stato certamente parsimonioso nel decretare il potere operaio ma era un potere che, a conti fatti, non trovava mai una qualche forma. Nel vecchio operaismo il potere operaio non trovava mai un momento di cristallizzazione politico–organizzativa ma si dava soltanto come elemento di una conflittualità permanente capace di definire rapporti di forza e di potere continuamente in trasformazione senza che, il potere operaio, trovasse degli istituti politici stabili in grado di esercitarsi sino in fondo. Per il vecchio operaismo il potere operaio è ciò che sta nella sua potenza, una potenza che non ha necessità e bisogno di trovare una sua concretezza stabilmente organizzata. Da questa impasse “La classe” si emancipa sin da subito e l’incontro con il maoismo, in ciò, gioca un ruolo per nulla secondario. Vale la pena di sottolineare, infatti, come proprio nell’assunzione del maoismo come possibile referente teorico–politico la questione dello stato venga assunta per intero e, con ciò, la rottura con tutte le ambiguità proprie dell’operaismo delle origini si consumi appieno. Anche se solo abbozzata la necessità di offrire uno sbocco organizzativo politico–militare alla lotta operaia è ormai un bisogno reale. Da qui non si torna indietro e gli anni immediatamente a ridosso di questa stagione daranno, di tutto ciò, più che una conferma. Mentre i gruppi e partitini maoisti si caratterizzeranno per la loro dimensione da operetta finendo con l’esaurirsi in un mare di ridicolo, il maoismo che fuoriesce da “La classe” sarà all’origine delle più significative pratiche rivoluzionarie dei primi anni settanta.

Un ulteriore aspetto che lega “La classe” al maoismo è l’inchiesta. Anche in questo caso l’immediata vena polemica con il riformismo è tanto evidente quanto immediata. La famosa asserzione di Mao: “Solo chi fa inchiesta ha diritto parola”4, suona come miele alle orecchie de “La classe” che proprio sulla centralità dell’inchiesta operaia aveva declinato la sua linea di condotta. Mentre per il riformismo a contare sono solo gli equilibri politici e il punto di vista delle masse è del tutto inessenziale tanto che, per lo più, si mostra del tutto incapace di leggere e comprendere le trasformazioni intervenute all’interno della composizione di classe, mentre Mao pone al centro dell’attività del partito il lavoro di inchiesta e quindi la soggettività delle masse al centro dell’iniziativa di partito.

In ciò non vi è solo un aspetto metodologico ma il completo recupero della dialettica marxiana. Lo stile di lavoro basato sull’inchiesta recupera interamente la triade marxiana prassi/teoria/prassi e, con questa, rimette in sella tutte le argomentazioni di Lenin intorno a Hegel presenti nei “Quaderni filosofici”5, ma con ciò, e non è cosa di poco conto, vi è la completa presa di distanza dalla svolta impressa al marxismo dal Diamat6 e il recupero integrale del rapporto dialettico tra classe e partito. Ma questa lettura di Mao che cosa è se non il pieno recupero di quella attualità della rivoluzione che il ’68 aveva fatto albeggiare in occidente? Anche su ciò almeno due tratti del maoismo si mostrano particolarmente affini a ciò che “La classe” ha appreso dalle lotte operaie le quali con il ’68 hanno non poco a che fare.

Il secondo aspetto del maoismo che cattura l’attenzione de “La classe” è quel fenomeno in atto in Cina, fortemente voluto da Mao, che ha preso il nome di Rivoluzione culturale la quale non poche aspettative ha creato dentro tutto quel mondo comunista che ha rotto con il movimento operaio ufficiale. Sparare sul quartier generale è l’incipit attraverso il quale la Rivoluzione culturale si è presentata. Questo, in prima istanza, significa ridare la parola alle masse ponendo tra parentesi fino ad azzerarlo il potere che una casta di burocrati di partito sta esercitando, ma questo significa anche cogliere nella fase attuale della rivoluzione cinese quell’antiautoritarismo così presente nelle istanze più radicali del ’68 e che adesso rivive, e per di più in maniera amplificata, dentro le lotte operaie. Se c’è qualcosa che padroni e riformisti lamentano è proprio la messa in mora dell’autorità da parte degli operai. La non governamentalità della fabbrica trova origine proprio nel rifiuto del principio di autorità e la rivoluzione culturale sembra sintetizzare proprio questo. Dando l’indicazione di sparare sul quartier generale Mao rimette al centro l’azione dal basso, il potere delle masse e la necessità di esautorare ogni forma di autorità burocratica ma, in questo, c’è anche molto di più. In ciò vi è il completo recupero dell’insegnamento leniniano per il quale la legittimità del partito è tale solo se espressione e sintesi della soggettività di classe, solo come passaggio intermedio della dialettica marxiana prassi/teoria/prassi. A fronte di un potere burocratico che azzera i poli della prassi per assolutizzare la sintesi teorica (che si incarna nell’apparato) Mao rimette in campo Lenin. Se necessario, se il partito diventa un corpo burocratico estraneo alle masse, il partito va azzerato e l’organizzazione ricostruita ex novo a partire da quelle che sono le istanze delle masse, bisogna, cioè, sparare sul quartier generale, ma non è forse questa la linea di condotta proprio de “La classe”? Molto sinteticamente questo il maoismo con il quale “La classe” si contamina. Ma non è solo Mao l’orizzonte astratto che occupa le pagine del giornale poiché a farsi prepotentemente strada è il rapporto razza/classe e le coeve forme di colonialismo interno che fanno da sfondo al ciclo di accumulazione capitalista.

( 6continua)


  1. Tra l’immensa pubblicistica si può vedere, P. Ortoleva, I movimenti del sessantotto in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988.  

  2. Al proposito si veda, Mao Tse Tung, Scritti militari, Edizioni Oriente, Milano 1966.  

  3. Cfr. Mao Tse Tung, Scritti militari, cit.  

  4. Mao Tse Tung, Chi non fa inchiesta non ha diritto di parola, in Id. Opere volume 3, Edizioni Rapporti Sociali, Milano 1991.  

  5. V. I. Lenin, Quaderni filosofici, P. Greco, Milano 2021.  

  6. Con Diamat si intende la rivisitazione teorica compiuta da Stalin nei confronti del materialismo storico, una rivisitazione dove veniva del tutto espunta la dialettica e, ancor più, ogni possibile legame di Marx con Hegel. Il Diamat si ascrive così a pieno titolo in quel materialismo rozzo e meccanicista il quale, non per caso, finì con lo sposarsi velocemente con il positivismo e lo scientismo. J. Stalin, Materialismo dialettico e materialismo storico, in Id. Questioni del leninismo, Edizioni in lingue estere, Mosca 1948.  

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L’Italia ha ancora qualcosa da dire? https://www.carmillaonline.com/2023/01/26/litalia-ha-ancora-qualcosa-da-dire/ Thu, 26 Jan 2023 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75780 di Luca Baiada

A settembre 1944, per la riapertura dell’Università di Firenze, Piero Calamandrei fa un discorso che verrà stampato col titolo L’Italia ha ancora qualcosa da dire. L’anno che si apre sotto il governo Meloni, invece, consegna al futuro un paese impoverito, confuso, profondamente ingiusto e innamorato di tristi balocchi: sport corrotto, barbarie da schermo, ossessioni mangerecce, devozionismi piazzaioli, sottocultura fisica fatta di tatuaggi, di tinture per capelli, di sesso ginnico, seriale o immaginato.

Le rovine non sono quelle della battaglia di Firenze, non c’è un comandante «Potente» da piangere [...]]]> di Luca Baiada

A settembre 1944, per la riapertura dell’Università di Firenze, Piero Calamandrei fa un discorso che verrà stampato col titolo L’Italia ha ancora qualcosa da dire. L’anno che si apre sotto il governo Meloni, invece, consegna al futuro un paese impoverito, confuso, profondamente ingiusto e innamorato di tristi balocchi: sport corrotto, barbarie da schermo, ossessioni mangerecce, devozionismi piazzaioli, sottocultura fisica fatta di tatuaggi, di tinture per capelli, di sesso ginnico, seriale o immaginato.

Le rovine non sono quelle della battaglia di Firenze, non c’è un comandante «Potente» da piangere insieme, stretti alla Brigata Sinigaglia, ma non c’è neanche da festeggiare la sconfitta dei cecchini, i terroristi del gerarca Pavolini tirati giù dai tetti a fucilate. Anzi, solo a parlare di combattimento a mano armata si rischiano accuse di odio, perché adesso, fra gli ammennicoli di una società rigidamente classista, c’è un accessorio da psicopolizia: l’accusa di malanimo. Un po’ è nipote dei sospetti di stregoneria e malocchio, un po’ è figliastra di certi reati d’opinione evanescenti, quelli nel codice penale che porta la firma di Mussolini, e che la mano del nuovo quadro politico potrebbe persino peggiorare.

Il buon uso delle rovine, alla Franco Fortini, ha fatto poca scuola, e se si dovesse guardare a Firenze si avrebbe un bel campionario: la città vetrina, coi negozi tirati a spolvero, con le luci giuste e il diffusore di profumo, non è quella in Mara di Blasetti (ma da Vasco Pratolini), con Yves Montand, nel 1954. Nel senso che la devastazione, a Firenze come nelle altre città italiane, passa dagli occhi, dalle mani, dai cellulari, c’è chi la trova divertente e c’è chi l’ha trasformata in spettacolo senza intervallo, monolocale nei contenuti e tascabile nei terminali. È il trionfo di un affarismo estrattivo, a spese dell’ambiente naturale, umano, culturale. Persino a spese di qualcosa che si potrebbe chiamare anima, se il concetto non fosse stato prima abusato nelle sacrestie, ma adesso, con più furbizia, accaparrato dalla pubblicità dei prodotti per animali da compagnia.

Bolton King, nel suo Fascism in Italy del 1931, bollava Mussolini come «cattivo europeo» e denunciava: «Odia il “malsano internazionalismo” ed è stato amaro contro le “parole di pace, di umanità, di fratellanza tra i popoli”; accetta la Società delle Nazioni solo in quanto vi è obbligato». Le parentele di questo col sovranismo del XXI secolo sono carsiche e alterate da convitati di pietra: una massa di denaro europeo da spartire, uno sciame di investitori che si sposta secondo le convenienze, un ceto di mediatori che ci fa la cresta con le provvigioni. Di Fascism in Italy, libro asciutto e molto british, stampato clandestinamente da Giustizia e libertà, Lauro De Bosis gettò un po’ di copie, in volo su Roma, prima di inabissarsi nel Mar Tirreno col suo piccolo aeroplano. Oggi De Bosis sembrerebbe un Icaro in vestaglia, un esteta balordo con le paturnie, perché fra le cose che ci hanno rubato c’è il senso profondo di santità civile. È stato sostituito da una italica levitas immutabile, tornata su dai tempi dei cicisbei, degli abatini e delle accademie, come le blatte, inesorabilmente, tornano su dall’acquaio, a dispetto di tutti i disinfettanti.

Anche Cesare Zavattini aveva fiutato la trappola, aveva capito che ci sono molti modi per dire, e molti di più per mettere a tacere: «Per la verità la censura è come Proteo, si trasforma continuamente»; l’autore di Totò il buono vedeva lontano: «Insomma è un modo di vita, un modo di governo». Lo scriveva a proposito di cinema: censura attraverso i finanziamenti, i suggerimenti politici, i premi; ma vale per tutto. Le sue parole riemergono in la Pace. Scritti di lotta contro la guerra (La nave di Teseo, 2021), e il titolo è proprio così, comincia con la minuscola e poi s’ingrossa. Somiglia a lui. Me lo ricordo nel suo studio, coi fiaschi di vino sugli scaffali, insieme ai libri. Adesso il Proteo piglia la forma di una memoria ingessata, innocua, imprigionata in una pappa di chiacchiere, come certi insetti di milioni di anni fa, che non pungono più perché sono avvolti in una goccia d’ambra, mutati in gioielli. La memoria diventata soprammobile: un fermacarte chiamato memoria. Un accompagnamento indispensabile nelle case perbene, come quei fiori da niente in cui Raffaello Giolli vedeva il sunto atroce della sconfitta del Risorgimento, fin nel privato, nella prostituzione degli intellettuali: la conservazione era già riuscita a impadronirsi di ogni cosa; «ma non della storia, che è un’altra cosa. Tutt’al più, s’è detto, dei libri degli storici: ma anche questi non erano che oggetti deperibili, un illuso ornamento dell’ora, altri fiori di carta». Così scriveva, quel grande, prima di essere deportato a Mauthausen Gusen, da cui non avrebbe fatto ritorno.

In questo momento l’Italia non ha nulla da dire perché si parla nell’ombelico, perché non ha niente da dire agli altri, perché è un paese rattrappito.
Gli avvertimenti non erano mancati, e presto. Nell’Antologia della Resistenza, ideata nel 1950 a Torino, al congresso nazionale dei centri del libro popolare, c’è un’introduzione di Augusto Monti, che ci tiene a far sapere di averla scritta a Cavour:

Oggi, a cinque anni soli dalla Liberazione, in Italia c’è di nuovo il fascismo, nella Europa occidentale e centrale c’è di nuovo il nazifascismo, in America è spuntato e s’espande il fascismo. E si voleva, di nuovo, dare l’allarme: ricordare che il fascismo è come la gramigna, che finché non s’è fatto tutto per estirparla non s’è fatto niente; e un campo dove alligni anche una piccola radice di tale zizzania non può portar nulla di buono. Il fascismo è il fior del male. È il grido della civetta, segna la morte. È come la stella cometa che viene ad annunciare la guerra: oggi il fascismo, domani il peggio.

Ma nel 1950 l’unità del fronte antifascista era già quasi un ricordo. Tutti si sentivano più furbi di quell’arnese superato, troppo corto per una rivoluzione e troppo lungo per il quieto vivere, come l’abito smesso di un fratello a cui si rimproverano oscure colpe, per nascondere la propria inadeguatezza. Tutti avevano priorità urgenti, escatologie formidabili, promesse dell’avvenire, di qua o di là dalla morte. Qualcuno voleva imparare da Machiavelli i trucchi per giocare d’astuzia il papato, mentre il Vaticano si leccava ancora le labbra per il buon boccone concordatario, incassato nel 1929 ed entrato nella nuova Costituzione, nel 1947, a dispetto della Repubblica.

Le promesse al di qua della morte, prima della fine del secolo si sarebbero rivelate più facili da mettere alla berlina: sarebbe bastato prendere a picconate un muro. Le altre, si sa, si prestano meglio a differimenti controllati, a indulgenze, a compravendite di anime del Purgatorio, al «vi faremo sapere». Questo spiega perché la morte di un tedesco coi modi zuccherini dell’Omino di burro di Collodi, un bavarese che nel 1950 era un giovane chierico, ma che pochi anni prima aveva fatto parte della Hitlerjugend, della Wehrmacht e della Flak, combattendo per Hitler, nel 2023 attira folle a Roma, e si sente gridare «santo subito» come per il suo predecessore polacco, che lui stesso canonizzò a furor di popolino.

Il secolo breve che comincia a Sarajevo, finisce a Sarajevo, nota Eric Hobsbawm in The Present as History, uno scritto vertiginoso pubblicato come «Creighton Lecture», perciò rispettabile come una bombetta londinese. Le questioni nazionali si ripresentano, ombre col corpo, false perché hanno qualche verità fra parentesi. Le insiemistiche umane che le solidarietà di classe perdono di vista, tornano a braccetto delle sorellastre identitarie e viscerali, e finisce l’incantesimo: Cenerentola si ritrova nei cenci di serva, la carrozza d’oro torna a essere una misera zucca.
L’Italia, un po’, aveva provato a fare chiarezza, soprattutto quando era stata chiarezza di parte. Raffaello Ramat, nel melmoso clima badogliano dell’agosto 1943:

Di questo avvilimento generale una classe sopra tutte è responsabile: quella degli scrittori. Gli scrittori hanno il compito di educare. Non si venga fuori con l’autonomia dell’arte: quello è un altro discorso, e chi lo incominciasse ora, vorrebbe imbrogliare le carte. […] In ispecie agli scrittori dei giornali, si deve la situazione che si era stabilita in Italia, per cui ciascuno mentiva e chi l’ascoltava fingeva di crederlo in buona fede perché gli altri fingessero di crederlo in buona fede quando fosse arrivato il suo turno di mentire.

Si vede che non era stato ascoltato, molto tempo prima, Giuseppe Mazzini: «Pensate a rinnovare l’edificio intellettuale con gli scritti poiché il politico non potete; scotete le menti, mutando il punto di mossa e la linea di direzione, scrivete storie, romanzi, libri di filosofia, giornali letterari; ma sempre colla mente all’intento unico che dobbiamo prefiggerci, col cuore alla patria». Patria. Si ascolta male, questa parola, se a ripeterla adesso è un governo che vuole togliere ai poveri un misero sussidio, persino diversificare i diritti sociali secondo le regioni, chiamando l’inganno «autonomia differenziata». Si ascolta male, mentre ragazzini imberbi cadono sul lavoro, in omicidi chiamati «incidenti». Ma il senso del discorso era forte, in Mazzini: l’Italia e l’unificazione nazionale, o sono per l’umanità, o non sono. Pericoloso o inconfessabile?

Renzo Renzi, che era stato fascista, che si era chiarito le idee in guerra, e che nel 1953 finì in galera per il progetto di un film imbarazzante, L’armata s’agapò, mise in guardia: «Il fascismo era la patria. Com’era possibile rovesciare il fascismo senza rovesciare anche la patria, religiosa comunità degli italiani? (Simili giochetti sono di moda anche oggi da parte di chi si identifica con la patria, quindi esige il massimo rispetto)». Ma neanche negli anni Cinquanta, un partito si sarebbe cucito un nome sforbiciando le prime parole dell’inno nazionale.

Quando il progetto fu continentale, invece, patria si poté dire con altri sensi. Una fotografia, a Montefiorino. Due partigiane armate ne affiancano una terza, raggiante, che srotola da un pennone una bella bandiera. Guardi meglio, cerchi il punto alla Roland Barthes, e vedi che il pennone è un mattarello, la bandiera è una sfoglia di farina: forse serve per una grossa piadina, forse è la base per ritagliarci i tortellini. Una frugale abbondanza armata, una padronanza del proprio destino che sprizzano gioia. Allora, l’Italia ebbe qualcosa da dire, affidando l’orazione a una pagina appetitosa e a grosse biro d’acciaio, di quelle col manico e la cinghia a tracolla. Ma il volume era un’opera aperta, che sotto raspava la terra e intorno la sognava tutta quanta, come il trattore della famiglia Cervi, col mappamondo montato sopra il motore.

Antonio Gramsci, ricordando il primato italiano riconosciuto proprio da Mazzini, come da Gioberti, lo considera retorico ma salva la sostanza: c’è un cosmopolitismo italiano, non perché romano né perché cattolico, ma come produttore di civiltà: «La tradizione italiana si continua dialetticamente nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale o nell’intellettuale tradizionale». È il «popolo lavoratore», cosmopolita per vocazione storica, che non sfrutta ma coopera alla costruzione del mondo, perché «si può dimostrare che Cesare è all’origine di questa tradizione». Di questo non c’è una migliore spiegazione, ma quel che conta è che Gramsci finisca per salvare un primato. Eppure, persino lo storico Cesare Balbo aveva messo in guardia dalla pretesa di imitare l’impero romano: «Per non essere degeneri bisogna saper essere decaduti», aveva scritto nel Sommario della storia d’Italia, lettura d’uso dell’Ottocento. E Benedetto Croce, in La storia come pensiero e come azione, ha buon gioco a chiarire che gli italiani non sono gli antichi romani, insomma a spiegare:

Un popolo nuovo col nostro male e col nostro bene, strettamente legato al mondo tutto del nostro momento storico, un popolo che si ricongiunge, ma solo idealmente, agli altri che vissero sulla medesima terra (medesima a un dipresso), quando compie nella vita civile cose grandi come le compierono quelli.

Una continuità in funzione del merito, ma non quello che nel 2023 dà il nome a un ministero. E poi: cose grandi, ma non si sa come. Tutto questo non ricorda il barone di Münchhausen e il suo gesto salvifico, quando si solleva da un fosso, lui e il cavallo, tirandosi per il codino? In ambito marxista, c’è un ruolo messianico della classe operaia, specialmente quella tedesca. Secondo Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, negli «Annali franco-tedeschi», il proletariato che è vittima dell’ingiustizia assoluta può riscattare l’uomo e tutta la società, e questa è l’emancipazione tedesca; l’emancipazione del tedesco è l’emancipazione dell’uomo, filosofia e proletariato possono realizzarsi ed emanciparsi solo insieme, «il giorno della resurrezione tedesca sarà annunziato dal canto del gallo francese». Negli stessi «Annali», però, ci sono i versi di Georg Herwegh, un poeta oggi trascurato:

Su un altare arroventato,
com’è l’uso dei tedeschi,
ci indoraste le catene
per non farle arrugginire.
Tirapiedi dei Borboni –
puah! che storia fastidiosa!
Quale mai, fra le nazioni
la Germania non tradi? […]
Testimone, quella morta
Repubblica italiana.

Un secolo dopo gli «Annali franco-tedeschi» il gallo francese, servo dell’aquila con la svastica, produrrà il mostro di Vichy agli ordini di Berlino. Ma contemporaneamente un altro poeta, stavolta italiano, Pier Paolo Pasolini, si sottrarrà alla divisa della Rsi, e in seguito darà il titolo al primo romanzo prendendolo proprio da Marx, da una lettera del 1843, negli stessi «Annali»:

Riforma della coscienza, non mediante dogmi, bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente.

Come si sia potuto, partendo da questo sogno e da questa liberazione, mettere sugli altari il diamat, materialismo dialettico in confezione staliniana, è un’opera al nero che può sorprendere chi non considera altre imbalsamazioni: partendo dalla presa della Bastiglia, si è arrivati a incoronare Napoleone e consorte, imperatore e imperatrice, direttamente in una cattedrale; partendo dal Discorso della montagna, si è arrivati allo Ior e ai patriarchi ortodossi che benedicono le armi russe e ucraine, magari litigando sul calendario del Natale.

Ha qualcosa da dire, chi fa e dice per gli altri. Per questo, l’Italia incapricciata d’un padrone, o al limite d’una padroncina, può tutt’al più borbottare.
L’ultima lettera dell’austriaco Rudolf Fischer alla figlia ce la consegna la raccolta Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, a cura di Malvezzi e Pirelli, con prefazione di Thomas Mann: «Credimi: chi vive solo per sé, chi solo per sé cerca la felicità, non vive bene e nemmeno felice. L’uomo ha bisogno di qualcosa che sia superiore alla cornice del proprio io, dico di più, che sia sopra al suo stesso io». Fischer è decapitato dai nazisti il 28 gennaio 1943.

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