Dialettica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 24 Dec 2024 23:01:16 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Hegel: un ”cane morto” molto vivace. Intervista a Vladimiro Giacché https://www.carmillaonline.com/2024/01/19/hegel-un-cane-morto-molto-vivace-intervista-a-vladimiro-giacche/ Thu, 18 Jan 2024 23:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80786 di Luca Cangianti

Nel “Poscritto alla seconda edizione” del Capitale Marx stigmatizzava la generale disposizione a trattare Hegel da «cane morto», si professava suo discepolo ed evidenziava l’imprescindibile necessità della dialettica per afferrare il funzionamento del modo di produzione capitalistico. Tuttavia, se in Marx vediamo la dialettica al lavoro, rimane pur sempre aperta la questione di che cosa sia nello specifico. Certo, ci si può rivolgere direttamente a Hegel per togliersi la curiosità, ma il pensiero di questo filosofo è notoriamente esposto con un linguaggio spesso oscuro. Per accostarci a questo pensatore, quindi, un’opera come Hegel. La dialettica di Vladimiro Giacché (Diarkos, [...]]]> di Luca Cangianti

Nel “Poscritto alla seconda edizione” del Capitale Marx stigmatizzava la generale disposizione a trattare Hegel da «cane morto», si professava suo discepolo ed evidenziava l’imprescindibile necessità della dialettica per afferrare il funzionamento del modo di produzione capitalistico. Tuttavia, se in Marx vediamo la dialettica al lavoro, rimane pur sempre aperta la questione di che cosa sia nello specifico. Certo, ci si può rivolgere direttamente a Hegel per togliersi la curiosità, ma il pensiero di questo filosofo è notoriamente esposto con un linguaggio spesso oscuro. Per accostarci a questo pensatore, quindi, un’opera come Hegel. La dialettica di Vladimiro Giacché (Diarkos, 2023, pp. 240, € 18,00) risulta di grande utilità. Nella nuova edizione (la prima era uscita nel 2020 in piena pandemia), l’autore ha ulteriormente semplificato il linguaggio (in verità già ampiamente chiaro), arricchito la parte antologica e aggiornato i riferimenti alle nuove edizioni critiche.

LC – Hegel viene considerato da molti il filosofo della reazione prussiana. Eppure da giovane scrive opere sovversive (che si guarda bene dal pubblicare), sostiene la necessità dell’abolizione dello stato e manda alle stampe testi politici anonimi. Poi, nel corso di tutta la vita, intreccia rapporti con rivoluzionari, liberali ed ebrei fino ad aiutare un prigioniero politico. Insomma, che tipo di filosofia è quella di Hegel? Ha ragione Marx a ritenerla rivoluzionaria o di contro Popper a sostenere che fosse reazionaria?

VG – Popper sicuramente non ha ragione. Di contro alle opere giovanili e a quanto contenuto nelle lettere, è vero che nei volumi pubblicati e specialmente nella Filosofia del diritto si avverte un adeguamento alla situazione politica vigente. Ma il tema va affrontato in termini più filosofici che politici. Il problema è come interpretiamo il rapporto tra razionale e reale. Come noto, per Hegel «ciò che è reale è razionale”. Ma questo non significa affatto che tutto ciò che esiste, per il fatto stesso di esistere, sia razionale. Uno stato cattivo può ben esistere, ma per Hegel è “non-vero”, cioè inadeguato, imperfetto. Inoltre – Engels lo ha spiegato molto bene – il nesso realtà-razionalità in Hegel non può esser considerato in termini statici: in questo senso si può dire che era razionale il feudalesimo, ma anche il capitalismo che l’ha sostituito. La filosofia di Hegel è basata sulla processualità delle cose e sulla realtà della contraddizione. Questa non è un fallimento del pensiero, ma una sfida per il pensiero, che deve essere capace di comprenderla. Una filosofia del genere non si presta a giustificare un ordine economico e giuridico immutabile. Alla base del pensiero hegeliano c’è l’inquietudine.

LC – Nel tuo libro sottolinei l’importanza attribuita dalla filosofia hegeliana alla «capacità del soggetto di essere una struttura autocentrata, in grado di conservarsi e mantenersi in unità con sé nel rapporto con l’esterno» e noti come la Fenomenologia dello spirito sia stata pubblicata in Germania proprio quando erano diffusi i romanzi di formazione. In «queste opere letterarie – sostieni – veniva descritto il duro e necessario cammino, costellato di difficoltà e sconfitte, attraverso cui il protagonista della narrazione poteva infine giungere alla conquista della verità su se stesso e sulla vita.» Queste affermazioni mi fanno tornare in mente il viaggio dell’eroe così come concepito da Joseph Campbell e Christopher Vogler, ma anche da Carl Jung. Sono similitudini che vedo solo io o c’è qualcosa di più sostanziale?

Vladimiro Giacché

VG – Hegel definiva i filosofi come «eroi della ragione pensante» e la stessa struttura della Fenomenologia è debitrice al modello letterario dei romanzi di formazione, quali il Wilhelm Meister di Goethe e l’Heinrich von Ofterdingen di Novalis. Bisogna tuttavia fare tre precisazioni.
La prima: la riflessione di Hegel è focalizzata sul concetto di soggettività e ha come riferimenti storici in primo luogo fonti filosofiche: Kant – che rivendica alla centralità del soggetto il processo conoscitivo -, l’irriducibilità dell’Io fichtiano e in misura minore la nostalgia romantica nei confronti dell’assoluto; in questo contesto per Hegel il soggetto (sia esso un essere umano, un organismo vivente o un sistema politico) è ciò che fa perno su di sé nel rapporto con l’altro, è la capacità di confrontarsi con il mondo esterno senza venire sopraffatti e senza perdere la propria identità; è questo che Hegel definisce «essere presso di sé nell’altro».
Seconda precisazione: Hegel non è un filosofo dell’originario. Per filosofia dell’originario intendo quelle concezioni che presuppongono una perfezione originaria perduta e da recuperare: alla fine del viaggio l’eroe si limita insomma a recuperare qualcosa che aveva perduto. Il ritorno di Hegel, invece, non è un vero ritorno, perché è il raggiungimento di una situazione più ricca. In una delle sue lezioni Hegel paragona l’idea assoluta (il punto d’arrivo della Scienza della logica) «al vecchio che pronuncia le stesse frasi religiose del fanciullo, ma per lui queste frasi hanno il significato di tutta quanta la sua vita». L’attenzione di Hegel non è rivolta al punto di partenza, ma al punto di arrivo, in quanto questo comprende in sé tutto il percorso compiuto: «l’interesse – afferma – sta nell’intero movimento».

LC – Insomma, il viaggio del soggetto hegeliano sembra un viaggio che non finisce, che, guarda caso, assomiglia agli itinerari più eterodossi della narratologia, quelli in cui l’eroe non torna a casa a restaurare l’ordine sconvolto dall’incidente scatenante, ma riparte per nuove avventure come l’Ulisse dantesco e il Che. Adesso però non dobbiamo dimenticarci della terza precisazione che avevi annunciato.

VG – Certo, si tratta di una caratteristica della soggettività hegeliana che non è in linea con molte tendenze contemporanee: il soggetto per Hegel non è un’entità ricombinabile a piacimento; l’autocoscienza nel suo confronto vincente con il mondo esterno non può plasmarsi fisicamente, psicologicamente, culturalmente a piacere. L’idea di un’identità indefinitamente plasmabile è estranea all’orizzonte hegeliano. Il soggetto hegeliano non è qualcosa di immobile, si evolve e cresce nel confronto e nello scontro con la realtà. Ma non è liquido.

LC – Tu, anche per motivi professionali, ti sei occupato molto di economia, anzi direi che sei più conosciuto come economista, malgrado la tua originaria formazione filosofica. In cosa può esser utile Hegel in una disciplina apparentemente così prosaica?

Non esiste un’economia hegeliana, anche se Hegel nella Filosofia del diritto si è occupato di questa disciplina studiando Adam Smith, riflettendo sul pauperismo e sulla società civile. Per rispondere alla tua domanda, tuttavia, bisogna tornare al nucleo della sua filosofia, al suo modo di pensare: Hegel offre un metodo che consente di reagire produttivamente alla sfida della complessità, quando le variabili in gioco sono molte, gli interessi in ballo molteplici, la linea causale non unica né univoca. Questo pensatore si trovava poco a suo agio con la meccanica newtoniana del suo tempo proprio perché il suo metodo alludeva ante litteram alla cibernetica, alla considerazione di dinamiche di azione e reazione, di correlazione tra quantitativo e qualitativo. Tutti strumenti concettuali ancora validi. Faccio un esempio: nelle crisi che abbiamo vissuto, prima del 2008 e poi del 2011, il sistema produttivo italiano ha avuto un cambiamento quantitativamente importante riducendosi di un quarto. Ciò ha provocato un mutamento qualitativo che impedisce ormai di riferirsi a questa formazione economico-sociale negli stessi termini di prima. La morfologia economica dell’Italia è ormai sostanzialmente differente rispetto a 15 anni fa. Un altro esempio: tutta l’insistenza sull’austerità e sul debito pubblico elevato che necessiterebbe di restrizioni di bilancio per contenere il deficit è profondamente anti-dialettica. Non considera infatti che la restrizione di bilancio può ridurre il denominatore, cioè la crescita, più del numeratore. Poi ci si sorprende (almeno chi è in buona fede) che alla fine della “cura” il debito sia aumentato! Non si capisce che ci sono delle interdipendenze che trascurate possono avere effetti opposti a quelli perseguiti.

LC – Nella storia del marxismo abbiamo avuto pensatori che hanno riconosciuto il debito di Marx nei confronti di Hegel e altri che lo hanno negato. Come si spiega questa divergenza di giudizio?

VG – Questi posizionamenti vanno collocati nella cultura del tempo. Le letture antihegeliane di Marx in Italia nascono come una critica alle correnti marxiste influenzate dallo storicismo crociano; in Francia nascevano da una forte egemonia dello strutturalismo, evidente in Althusser per esempio. C’erano inoltre elementi di critica politica nei confronti dei rispettivi partiti comunisti, sia in Italia che in Francia, ritenuti colpevoli di aver assorbito nelle loro culture politiche impostazioni storicistiche e umanistiche considerate sbagliate. In verità, al netto di queste considerazioni, non vanno dimenticate due cose: in primo luogo Marx – dopo la critica giovanile agli esiti politici dell’hegelismo di destra – nei Grundrisse e nel Capitale utilizza una quantità impressionante di strutture concettuali hegeliane; in secondo luogo, ritiene che gli strumenti teorici offerti da Hegel, in particolare in riferimento al concetto di soggettività, siano utili a illustrare l’automovimento del capitale, la sua struttura e la sua articolazione. Per Marx Hegel è stato decisivo per leggere la realtà economica in opposizione all’economia borghese del suo tempo. Ecco perché Lenin nei Quaderni filosofici diceva che se non si capisce Hegel non si capisce nemmeno Marx. E qui voglio infine ricordare Brecht che nel Me-ti definiva la dialettica come il «Grande Metodo»: un metodo che «permette di riconoscere nelle cose dei processi» e che «insegna a porre delle domande che rendono possibile l’azione». Trovo questa definizione di grande importanza, perché fa emergere come alla dialettica sia inerente un elemento intrinsecamente trasformativo.

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Immaginare la fine del capitalismo con Fredric Jameson https://www.carmillaonline.com/2022/11/19/immaginare-la-fine-del-capitalismo-con-fredric-jameson/ Fri, 18 Nov 2022 23:10:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74752 di Fabio Ciabatti

Marco Gatto, Fredric Jameson, Futura Editrice, Roma 2022, pp. 192, € 14,25.

Recentemente Fredric Jameson ha fatto una interessante puntualizzazione su quella che è probabilmente la più citata delle sue affermazioni: “quando ho detto che è più difficile immaginare la fine del capitalismo che la fine del mondo, non volevo certo intendere che fosse impossibile”. Questa presa di posizione può essere letta come una precisazione relativa ai possibili esiti della sua celebre analisi sul postmodernismo che sembrerebbe depotenziare le istanze critiche presenti nei suoi precedenti lavori incentrati sulla produzione culturale [...]]]> di Fabio Ciabatti

Marco Gatto, Fredric Jameson, Futura Editrice, Roma 2022, pp. 192, € 14,25.

Recentemente Fredric Jameson ha fatto una interessante puntualizzazione su quella che è probabilmente la più citata delle sue affermazioni: “quando ho detto che è più difficile immaginare la fine del capitalismo che la fine del mondo, non volevo certo intendere che fosse impossibile”. Questa presa di posizione può essere letta come una precisazione relativa ai possibili esiti della sua celebre analisi sul postmodernismo che sembrerebbe depotenziare le istanze critiche presenti nei suoi precedenti lavori incentrati sulla produzione culturale moderna e modernista. La citazione conclude la prefazione, firmata dallo stesso critico americano, al testo di Marco Gatto, intitolato Fredric Jameson.1 Il libro ripercorre sinteticamente le fasi più rilevanti dell’avventura intellettuale di un autore capace di produrre testi fondamentali, in ambito marxista e non solo, come Marxismo e forma, L’inconscio politico e Postmodernismo. Opere in cui si sostanzia “l’esperimento materialista di Jameson” che, sintetizza Gatto, consiste nello “sforzo di capire il presente attraverso le forme e le rappresentazioni dell’immaginario”.2
Il senso ultimo di una lettura dialettica dei fenomeni culturali consiste, secondo Jameson, nel mettere in luce la relazione profonda che essi intrattengono con una storia che li contiene e surclassa. Cosa accade a questo approccio, quando, con l’avvento del postmodernismo, possiamo sostenere, utilizzando la formula suggerita da Marco Gatto, che la spazialità sostituisce la temporalità? In questo articolo si cercherà di ritagliare un percorso di lettura attraverso il testo di Gatto per abbozzare una risposta a questa domanda, cercando di non fare torto alla densità concettuale della sua ricostruzione di un percorso intellettuale quanto mai complesso.

Possiamo iniziare col notare che, nel mettere in relazione storia e immaginario, Jameson combatte su due fronti. Da una parte, contro la riduzione della realtà a linguaggio, pone l’accento sul contenuto storico-materiale dell’opera d’arte, sottolineando che un’adeguata descrizione dell’evoluzione letteraria sia possibile a condizione che “il contenuto, materiale grezzo disponibile, non sia visto soltanto come cianfrusaglia inerte, ma come ciò che favorisce o impedisce lo sviluppo della forma letteraria che ne fa uso”.3   Dall’altra parte, la sua “metodologia dialettica [è] capace di demistificare la tendenza, propria di certo marxismo, a scorgere una relazione omologica, e dannosamente statica, tra il testo e la realtà storica”.4 In breve, il testo letterario non è mero riflesso di una realtà sottostante, ma “atto simbolico” che elabora attivamente quella stessa realtà.
La natura dell’atto simbolico non è manifesta, ma va ricostruita attraverso l’interpretazione che “presuppone sempre, per Jameson, l’esistenza di una ‘mistificazione’ o di una ‘rimozione’ da ricondurre a una qualche pratica intellettuale di contenimento”.5 La ricostruzione dei nessi tra atto simbolico e materiale grezzo evidenzia la necessità di concepire l’oggetto testuale come una sorta di freudiana “formazione di compromesso” che dissimula la relazione implicita del testo stesso con una totalità più ampia. Una relazione  che occorre recuperare in sede analitica, scardinando la pretesa autonomia dell’opera d’arte.
Ciò avviene nell’ambito di tre orizzonti interpretativi che ampliano progressivamente il contesto di riferimento. Il testo letterario si costruisce come “risoluzione immaginaria di una contraddizione reale” nell’ambito della storia politica di breve periodo, come frammento dei grandi discorsi collettivi di classe nell’ambito dello scontro tra questi soggetti collettivi, come campo di forze attraversato dalle tensioni determinate dai distinti sistemi di segni che corrispondono univocamente a ciascuno dei differenti modi di produzione (quello egemonico e quelli arcaici, residuali o emergenti) simultaneamente presenti in un dato momento storico.

Occorre sottolineare che per Jameson la critica letteraria non può limitarsi esclusivamente alla demistificazione.

Il testo certamente produce il riflesso di una direzione ideologica o il rispecchiamento di certi valori dominanti. Ma la sua azione simbolica non può esaurirsi nell’aderenza passiva a certe precondizioni. Come abbiamo già detto, il fatto estetico è una risposta; e di per sé ciò implica un contrasto o un’elaborazione potenzialmente imprevedibili.6

Jameson, per essere ancora più chiari, 

senza rinunciare alla critica demistificante, insiste sulla costruzione di un senso condiviso e di una collettività nuova, diversa. Non è un caso che L’inconscio politico si chiuda con un richiamo all’utopia.7

A questo punto torniamo alla questione sollevata all’inizio per notare che è proprio questo impulso utopico che non sembra più rintracciabile nell’epoca postmoderna, così come descritta dallo stesso Jameson. La dimensione storica, che apre all’utopia, appare infatti congelata quando una spazialità priva di barriere e confini si presenta come la cifra dominante della nostra epoca: con la globalizzazione del capitale e la mondializzazione del web il postmodernismo  sembrerebbe annunciare la fine della storia. Il capitale, data la sua intrinseca tendenza all’accumulazione senza fine, si caratterizza da sempre come un progetto, benché portato avanti da un soggetto non antropomorfo, finalizzato a riplasmare il mondo intero a sua immagine e somiglianza. Il capitale, detto altrimenti, è da sempre una totalità in costruzione, ma in epoca postmoderna ambisce a presentarsi come una totalità già compiuta.
Lo spazio totalizzante del capitale contemporaneo è contrassegnato dalla molteplicità e dalla frammentazione con la conseguente disgregazione delle forme collettive e condivise di vita sociale e culturale. Ogni insieme umano diventa un aggregato provvisorio, un surrogato di comunità, un volubile sciame digitale. Non va meglio all’ego borghese moderno perché il postmodernismo ne decreta la fine annullando l’esperienza come acquisizione progressiva di conoscenza. L’individuo postmoderno, potremmo dire, non ha più una storia e men che meno una storia che possa essere raccontata come un romanzo di formazione. L’individuo si muove, per così dire, soltanto in orizzontale attraversando l’“iperspazio” postmoderno con fluidità, apparentemente senza traumi, accumulando esperienze effimere incapaci di consolidarsi come tappe di un qualche tipo di sviluppo che procede per gradi.
Tutto ciò non può essere disgiunto da un processo di mercificazione sempre più pervasiva che approfondisce una tendenza propria della modernità capitalistica, ma con una significativa differenza: la produzione estetica si è oramai integrata nella produzione di merci in generale. Ciò contribuisce a generare l’illusione ottica di una totalizzazione culturale onnipervasiva. Se tutto diventa cultura, i rapporti tra struttura e sovrastruttura, tra natura e cultura, tra corpo e mente si trasformano in un modo profondamente disorientante.
Il disorientamento, però, non giunge ai suoi esiti estremi perché la suadente brillantezza della merce, che satura lo spazio postmoderno, promette un risarcimento edonistico all’individuo spaesato e favorisce una forma di euforia compensatoria al soggetto che ha smarrito sé stesso. A prevalere è dunque una nuova tonalità emotiva ilare e leggera, grazie al dominio dell’immagine sulla parola, dell’apparenza epidermica sul fondamento concreto, del simulacro sull’oggetto reale e della superficialità sulla profondità. 

Ma condannare moralisticamente il postmodernismo non avrebbe alcun senso per Jameson. E’ necessario piuttosto mettere in evidenza il nodo politico che esso pone: l’estrema difficoltà di rappresentare filosoficamente la realtà postmoderna in modo sistematico. Per usare direttamente le parole di Jameson, oggi ci troviamo di fronte alla “incapacità delle nostre menti, almeno al presente, di tracciare una mappa della grande rete comunicazionale, globale, multinazionale e decentrata, nella quale ci troviamo impigliati in quanto soggetti individuali”.8  Detto altrimenti, il postmodernismo oppone una sostanziale “resistenza ideologica nei confronti del concetto di totalità”.9
Per un pensiero dialettico non è però possibile rinunciare a una qualche rappresentazione della totalità. Senza di essa non si dà la possibilità di pensare fino in fondo le contraddizioni fondamentali del proprio tempo e dunque la capacità di immaginare un futuro realmente diverso che sia in grado di superarle. Senza totalità non si dà utopia. Per dirla con le parole di Marco Gatto, per Jameson “Pensare la totalità (e rappresentarla) significa considerare il punto di vista sul presente scatenato da una dimensione superiore, che è quella del futuro (e delle sue possibilità)”.10
Non sorprende dunque che dopo Postmodernismo Jameson torni sull’utopia. Come aveva già sostenuto, ogni coscienza di classe, ogni ideologia in senso forte è per sua stessa natura utopistica perché esperienza e coscienza, nella lotta, dell’unità di un determinato gruppo sociale che rimanda, anche se solo allegoricamente, alla possibilità di una concreta vita collettiva in una società senza classi. Perciò, anche al di là dell’esplicito impegno alla realizzazione di un programma utopico, è possibile rintracciare una pulsione utopica oscura ma onnipresente che trova modo di affiorare in superficie in tante forme ed espressioni camuffate. Per esempio, ricorda Jameson, gli spazi utopici sono descrivibili come “un’oasi territoriale immaginaria all’interno dello spazio sociale reale”.11 La differenziazione spaziale e sociale tipica della frammentazione postmoderna non spinge in una direzione simile? Detto altrimenti, una quantità di sottosistemi originariamente semiautonomi, i distinti livelli sociali definiti in termini culturali, religiosi, razziali, di genere ecc., non sono forse portati a rivendicare la propria immaginaria autonomia? A ritagliarsi, cioè, una nicchia utopica che si pretende al riparo dallo spazio sociale reale?
L’ideologia,  insomma, è  una pratica narrativa che permette al soggetto di sperimentare una serie di vive e reali contraddizioni attribuendo loro una qualche forma, seppur embrionale, di significato condiviso. Questa necessità non viene meno nel tardo capitalismo ma la sua soddisfazione è tutt’altro che scontata perché il sistema ideologico postmodernista lavora alla produzione di “un individuo privo di ancoraggio spazio-temporale e dunque disorientato anche e soprattutto sul piano ideologico-rappresentazionale”.12 La contraddizione, motore della storia, non viene risolta ma addomesticata attraverso strategie di contenimento. Il tutto si gioca, potremmo dire, sulla capacità del sistema di continuare a offrire con sufficiente persuasività quelle compensazioni edonistiche e euforiche che danno espressione a una nuova e contraddittoria idea di libertà: una libertà “fondata su un’accettata costrizione a esprimersi, esporsi, rappresentarsi”13 dietro la quale, però, si può rintracciare “una gratificazione utopica che straripa dalla repressione in atto”.14

Ma, ci chiediamo, la tonalità emotiva ilare e leggera del postmodernismo può sopravvivere in un periodo contrassegnato da lockdown e razionamenti? Negli anni ruggenti della globalizzazione, della finanziarizzazione e della digitalizzazione abbiamo assistito ad un crescita economica che, sebbene fragile, era reale e come tale poteva puntellare i toni entusiastici dell’ideologia postmodernista. Oggi i nodi vengono al pettine perché pandemie e guerre non sono fattori esterni, ma l’esito di contraddizioni interne allo sviluppo del tardo capitalismo. Di fronte alla malattia e ai bombardamenti la materialità dei corpi riemerge alla faccia della pretesa della loro completa culturalizzazione, la fisicità delle fonti energetiche e delle relative infrastrutture di trasporto si fa beffe della pretesa smaterializzazione dell’economia digitale. Con questo, però, non vogliamo sostenere che siamo fuori dal postmoderno. La molteplicità, la frammentazione e lo spaesamento segnano ancora la nostra esperienza anche se la tonalità emotiva dominante si fa, per così dire, bipolare: di fronte allo sradicamento degli individui la compensazione euforica si alterna con una di segno opposto che dà sfogo a passioni tristi e rancorose.
In questo contesto rimane prezioso l’approccio dialettico di Jameson che, assumendo la frammentazione del postmoderno, rifiuta di farsi sistema, ma senza rinunciare a una rappresentazione della totalità. A tal fine, non si tratta semplicemente di rinviare alla determinazione in ultima istanza della marxiana struttura, operazione che comunque continua ad avere una sua valida ragion d’essere per il critico americano. Occorre piuttosto, riprendendo la lezione di Benjamin, rispondere alla frammentazione postmoderna con “uno studio specifico del ‘fatto in sé’ … e della sua ricchezza, capace di cogliere, nella datità singolare del testo o del fenomeno preso in esame, sia il momento generale della produzione sia quello individuale della rappresentazione (base e sovrastruttura, insieme; nel loro contraddittorio dualismo)”.15 Potremmo azzardare l’ipotesi che le immagini dialettiche di cui parla il filosofo berlinese possono rappresentare i nodi di quella mappa concettuale invocata da Jameson per ricostruire una qualche rappresentazione, o forse sarebbe meglio dire approssimazione, della totalità. Una costellazione di fattori concreti e fenomeni interrelati.
Diversamente dalle sue origini, la dialettica stessa deve essere concepita “in termini utopici, come una modalità di pensiero del futuro”,16 sempre provvisoria e costitutivamente irrealizzabile. Erede del pensiero moderno e delle sue ambizioni deve fare i conti con un nuovo contesto storico in cui

non è certo la descrizione di Marx dell’‘essenza’ del capitalismo a essere cambiata (e neppure la descrizione delle ‘determinazioni’ del pensiero approntata da Hegel), quanto piuttosto, a essere precisi, quell’‘apparenza oggettiva’ del mondo del capitalismo globale che sembra parecchio lontana dalla vita esteriore del periodo vittoriano o del nascente modernismo vissuto da Marx”.17

Pensiero della totalità che non vuole farsi sistema, metodo che non vuole trasformarsi in automatismo, la dialettica di Jameson non ci offre facili vie di fuga dallo scintillante pantano del postmoderno. Di sicuro ci invita ad abbandonare molte delle certezze che, nel bene e nel male, avevano dato forza e attrattiva a una vera e propria visione del mondo che si voleva alternativa totalizzante a quella dominante. Ma, con altrettanta certezza, mantiene una vocazione rivoluzionaria aiutandoci a immaginare una possibile fine del capitalismo perché, come sostiene Marco Gatto in conclusione del suo volume, non rinuncia mai al compito “di mostrare la disintegrazione laddove sussista l’unità e l’unità laddove sembri profilarsi un confuso paesaggio di rovine”.18


  1. M. Gatto, Fredric Jameson, Futura Editrice, Roma 2022, edizione Kindle, p. 9. 

  2. Ivi, p. 19. 

  3. F.  Jameson, La prigione del linguaggio, cit. in M. Gatto, op. cit., p. 41. 

  4. M. Gatto, op. cit., p. 48. 

  5. Ivi, p. 55. 

  6. Ivi, p. 70. 

  7. Ivi, p. 67. 

  8. F. Jameson, Postmodernismo, cit. in M. Gatto, op. cit., p. 95. 

  9. F. Jameson, Postmodernismo, cit. in M. Gatto, op. cit., p. 94. 

  10. M. Gatto, Frederic Jameson, ed. cit., p. 126. 

  11. F. Jameson, Il desiderio chiamato utopia, cit. in. M. Gatto, op. cit., p. 116. 

  12. M. Gatto, Frederic Jameson, ed. cit., p. 115. 

  13. Ivi, p. 94. 

  14. Ivi, p. 113. 

  15. Ivi, p. 145. 

  16. F. Jameson, Jameson on Jameson: Conversation on Cultural Marxism, cit. in M. Gatto, op. cit., p. 133. 

  17. F. Jameson, Valences of the Dialectic, cit. in M. Gatto, op. cit., p. 138. 

  18. M. Gatto, op. cit, p. 146. 

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Hegel ai tempi della pandemia https://www.carmillaonline.com/2020/03/26/hegel-ai-tempi-della-pandemia/ Wed, 25 Mar 2020 23:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58856 di Luca Cangianti

Vladimiro Giacché, Hegel. La dialettica, Diarkos, 2020, pp. 208, € 18,00.

Quando sarà nuovamente possibile viaggiare e vi capiterà di andare a Berlino, concedetevi una visita al Cimitero di Dorotheenstadt. Entrate al civico 126 di Chausseestraße: sulla destra si trova la casa dove abitarono Bertolt Brecht e Helene Weigel, ma voi senza indugio immergetevi nella selva di monumenti funebri classicheggianti alla ricerca dell’ultima dimora di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, nato 250 anni fa e morto nel 1831 di colera – stando almeno a quanto riportato sul [...]]]> di Luca Cangianti

Vladimiro Giacché, Hegel. La dialettica, Diarkos, 2020, pp. 208, € 18,00.

Quando sarà nuovamente possibile viaggiare e vi capiterà di andare a Berlino, concedetevi una visita al Cimitero di Dorotheenstadt. Entrate al civico 126 di Chausseestraße: sulla destra si trova la casa dove abitarono Bertolt Brecht e Helene Weigel, ma voi senza indugio immergetevi nella selva di monumenti funebri classicheggianti alla ricerca dell’ultima dimora di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, nato 250 anni fa e morto nel 1831 di colera – stando almeno a quanto riportato sul certificato di morte. Chiese di esser seppellito accanto a un altro filosofo, Johann Gottlieb Fichte, morto di tifo 17 anni prima.
Hegel è stato considerato il filosofo ufficiale dell’assolutismo prussiano, ma sono molte le tessere anomale che non permettono di completare coerentemente il puzzle di questa immagine: da giovane scrive opere sovversive che si guarda bene dal pubblicare, sostiene la necessità dell’abolizione dello stato, manda alle stampe testi politici anonimi, intreccia nel corso di tutta la vita rapporti con rivoluzionari, liberali ed ebrei fino ad aiutare un prigioniero politico; i funzionari del governo e della corte disertano infine il funerale del filosofo e, che se ne sappia, non inviano messaggi di condoglianze.
Sulla base di queste circostanze Jacques D’Hondt sostenne che dietro la rinomata oscurità del periodare hegeliano, si nascondesse un filosofo tutt’altro che conservatore – ipotesi che riceve un indiretto sostegno anche dalle persecuzioni giudiziarie della maggior parte dei suoi collaboratori.1

Conosciamo Vladimiro Giacchè come professionista del mondo finanziario e autore di opere di storia economica quali Anschluss. Adesso, con la nuova monografia dedicata a Hegel per i tipi di Diarkos, scopriamo che dietro quelle analisi eterodosse sull’euro e la crisi economica si nasconde un motore filosofico capace di pensare la complessità con una potenza da mille cavalli vapore. Il libro è un’introduzione che illustra con grande chiarezza i temi chiave del filosofo tedesco, accompagnandoli con una ricca sezione antologica.
La filosofia di Hegel è un viaggio verso la soggettività concepita, secondo Giacchè, come «capacità del soggetto di essere una struttura autocentrata, in grado di conservarsi e mantenersi in unità con sé nel rapporto con l’esterno». Non è casuale, quindi, che la Fenomenologia dello spirito sia stata pubblicata nel 1807, quando in Germania erano diffusi i romanzi di formazione (si pensi al Wilhelm Meister di Goethe, all’Enrico di Ofterdingen di Novalis, all’Iperione di Hölderlin, ma anche all’Emilio di Rousseau). In «queste opere letterarie – afferma l’autore – veniva descritto il duro e necessario cammino, costellato di difficoltà e sconfitte, attraverso cui il protagonista della narrazione poteva infine giungere alla conquista della verità su se stesso e sulla vita.»
Similmente in Hegel la verità non è mai un semplice risultato da contrapporre alla fallacia, ma il percorso della coscienza che proprio superando errori e apparenze di visioni del mondo, forme di religione e relazioni sociali, si eleva al sapere assoluto, cioè alla verità che incorpora in sé anche le tappe precedenti del cammino intrapreso. In questo modo la verità assume un carattere processuale: è «il risultato di un approfondimento, di uno scavo nelle implicazioni delle categorie del pensiero, dalle più semplici alle più complesse, in un processo in cui le prime rimandano, conducono… alle seconde». In questo viaggio filosofico la dialettica, mossa dalla “negazione determinata” a partire da una concettualizzazione multidimensionale della realtà, mostra il lato transeunte di ogni cosa, il suo essere mero momento di un cammino infinito. Da questo punto di vista l’intelletto è il pensiero della singola tappa e può andar bene per realtà semplici e statiche; se ci confrontiamo però con fenomeni complessi e interattivi – un organismo vivente, un sistema sociale, una crisi economica o uno sconvolgimento dello status quo – allora abbiamo bisogno della facoltà della ragione che sa pensare la contraddizione.

Nel “Poscritto alla seconda edizione” del Capitale Karl Marx stigmatizzava la generale disposizione a trattare Hegel da “cane morto”. È un monito valido anche al giorno d’oggi, perché quando dietro le catastrofi sanitarie si nascondono, rimosse, quelle sociali, le apparenze feticistiche prima o poi si dissolvono, dogmi e parametri cadono a pezzi e perfino i morti possono tornare nel mondo dei vivi.


  1. Cfr. Jacque D’Honte, Hegel. Biographie, Camann-Lévy, 1998 

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