diagnosi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il riduzionismo psichiatrico e la variabile umana https://www.carmillaonline.com/2019/04/03/il-riduzionismo-psichiatrico-e-la-variabile-umana/ Tue, 02 Apr 2019 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51751 di Gioacchino Toni

Lorenza Ronzano, La variabile umana, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 220, € 16,00.

«Vado in ospedale ad ascoltare la sofferenza delle persone, con l’intenzione di trasformare i loro sintomi in qualcos’altro. Lasciate stare le diagnosi, non hanno importanza, raccontatemi la vostra storia, ditemi, com’è andata? Come mai siete qui? Per cosa vivete?» Lorenza Ronzano

«Penso che Lorena Ronzano abbia tutte le carte in regola per raccontarci come le trecento e più partizioni del manuale diagnostico americano siano poche, pochissime, insufficienti per ingabbiare tutti gli umani, perché le diagnosi umane sono almeno [...]]]> di Gioacchino Toni

Lorenza Ronzano, La variabile umana, Elèuthera, Milano, 2019, pp. 220, € 16,00.

«Vado in ospedale ad ascoltare la sofferenza delle persone, con l’intenzione di trasformare i loro sintomi in qualcos’altro. Lasciate stare le diagnosi, non hanno importanza, raccontatemi la vostra storia, ditemi, com’è andata? Come mai siete qui? Per cosa vivete?» Lorenza Ronzano

«Penso che Lorena Ronzano abbia tutte le carte in regola per raccontarci come le trecento e più partizioni del manuale diagnostico americano siano poche, pochissime, insufficienti per ingabbiare tutti gli umani, perché le diagnosi umane sono almeno sette miliardi quanti sono i terrestri, anzi, che dico, sono di più, perché dobbiamo aggiungervi le diagnosi dei tipi umani vissuti finora, di quelli che verranno, e moltiplicare per cento o per mille, perché ognuno di noi non è (ancora) un androide, è mutevole» Piero Cipriano

Come è noto a chi ha letto la “trilogia della riluttanza” pubblicata dalla casa editrice Elèuthera – composta da La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016) –, e il suo ultimo libro Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018), Piero Cipriano, pur nella consapevolezza di operare una semplificazione, suddivide schematicamente gli operatori che si confrontano con il disagio mentale in alcune categorie. Ai due estremi, che a volte sembrano finire col toccarsi, colloca i “manicomiali”, che non hanno bisogno di particolari presentazioni nel loro ruolo di integrati e complici del sistema repressivo istituzionalizzato in tutte le sue sfaccettature, e gli “antipsichiatri” che, nel loro comodo restare fuori dalle istituzioni, finiscono per lasciarle agire indisturbate. Tra questi due estremi Cipriano individua almeno altre due categorie: quella degli operatori di “buon senso” e quella dei “riluttanti”. Al primo raggruppamento appartengono i tanti psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, infermieri ed educatori, che pur essendo, il più delle volte, “brave persone”, non mettendo mai davvero in discussione le diagnosi ed il ricorso smodato ai farmaci, finiscono con l’accettare l’impianto generale della malattia e della cura psichiatrica senza mai trovare il coraggio di dire che tale macchina di gestione del disagio non aiuta davvero i pazienti. Al secondo raggruppamento appartengono invece gli “anti-istituzionali” (basagliani, para-basagliani, simil-basagliani ecc.), quei “riluttanti” che hanno scelto di combattere la propria battaglia nel cuore delle contraddizioni, cioè dall’interno del sistema per cambiarlo.

Dopo aver passato in rassegna le tappe principali della pratica psichiatria “prima e dopo Basaglia”, nel suo ultimo libro, uscito a quarant’anni dall’entrata in vigore della Legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi, Cipriano cede la parola ad una serie di persone che, a vario titolo, si rapportano con l’universo del disagio mentale in maniera non convenzionale: uno psicologo che preferisce svolgere la sua attività nell’orto anziché nel canonico studio; un giovane psichiatra che non smette di chiedersi se è possibile svolgere la sua attività in maniera più utile rispetto a quella imposta dalle modalità convenzionali; una giovane infermiera irriducibilmente ostile alle fasce di contenzione; un’economista amante di jazz che, pur in assenza di “titoli” alla cura, espone brillanti idee circa le modalità con cui una società dovrebbe prendersi cura di sé; una laureata in lettere che pratica “consulenze filosofiche” colloquiando con i pazienti in un day hospital psichiatrico.

Di quest’ultima “riluttante”, Lorenza Ronzano, è uscito da poco il libro La variabile umana (2019), pubblicato dalla sempre meritoria casa editrice Elèuthera, con un’introduzione dello stesso Cirpriano che, nel presentare l’opera, mette in evidenza come l’autrice sia un’operatrice psichiatrica un po’ particolare. Intanto il fatto che si tratti di una donna che si occupa di tali questioni non è affatto un elemento da sottovalutare, visto che la storia della psichiatria è stata in buona parte scritta da uomini. Ed oltre al fatto che Ronzano non è psichiatra, psicologa e nemmeno infermiera, a rendere tale libro particolarmente efficace, rispetto a «quelli scritti da psi è che la storia della psichiatria, da Pinel in poi, è sempre stata fatta da psichiatri, mai da psichiatrizzati» (p. 18). E Ronzano, come racconta direttamente nel suo contributo pubblicato su Basaglia e le metamorfosi della psichiatria di Cipriano, ha vissuto un’esperienza diretta con i fallimentari tentativi della psicoterapia: «sarebbe stata una giovane psichiatrizzata se a diciotto anni, con un gesto di orgoglio e strafottenza, non avesse ricusato, rigettato, vomitato, la diagnosi che lo psichiatra che aveva in cura suo padre le attribuì: tu sei come tuo padre, le disse, la schizofrenia è genetica, ereditaria, la tua stranezza, le ripeté, è figlia della stranezza di tuo padre, e come la sua stranezza anche la tua stranezza io al chiamo schizofrenia» (p. 18).

Se non bastasse la presenza di tali “anomalie”, rispetto ai dogmi vigenti, a rendere interessante il volume di Ronzano è, secondo Cipriano, il fatto che l’autrice «è una formidabile narratrice, una delle poche persone al mondo (direbbe Roberto Bolaño) che legge o meglio ha letto tutti i diari dei fratelli Goncourt, e dopo questo saggio narrativo (o conte philosophique, o oggetto narrativo non identificato, per dirla con Wu Ming) inevitabilmente esploderà (in senso buono) in seno alla narrativa italiana con i suoi romanzi scritti, appunto, alla Goncourt. Per cui – continua Cipriano – io potrò dire che non solo non le ho fatto la diagnosi né l’ho ricoverata, ma l’ho istigata, dopo che mi fece leggere il suo inedito manoscritto goncourtiano (anche se di primo acchito non lo apprezzai, perché l’insolito, il perturbante, appunto in quanto tale non può piacere, almeno a una prima lettura), a scrivere del suo mestiere di consulente filosofica in un day hospital psichiatrico della sua città. E così è venuto fuori questo libro. Che è una costola del suo romanzo, tutto sommato» (p. 19).

Lorenza Ronzano, dopo aver collaborato per alcuni anni con l’equipe medica di un reparto psichiatrico della sua città svolgendo colloqui individuali con i pazienti che passavano dal day hospital, è giunta alla conclusione che spesso il ricorso alla psichiatria è del tutto improprio. Secondo l’autrice spesso si ricorre allo psichiatra come ad una sorta di factotum in grado di risolvere tutti quei problemi che non si sa bene chi altri potrebbe risolvere. Per certi versi lo psichiatra sembrerebbe aver sostituito il sacerdote a cui, un tempo, si ricorreva perché in lui si individuava la figura deputata ad ascoltare quei problemi che non si sapeva bene a chi altri confidare, ma anche perché, attraverso il religioso, si poteva disporre dei contatti sociali dell’ambiente parrocchiale e questi avrebbero potuto tornare utili al fine di risolvere i problemi.

Se la maggior parte degli individui che si rivolgono ad un servizio psichiatrico lo fanno nella speranza che gli operatori prestino loro attenzione e capiscano i loro problemi, occorre però prendere atto, sostiene Ronzano, che buona parte delle loro sofferenze, dei loro problemi, è di natura sociale e spesso ha a che fare con ristrettezze economiche, con la perdita del lavoro e di conseguenza del reddito, con delusioni affettive, con la solitudine e con l’assenza di cure per gli anziani.

Anche se buona parte di chi ricorre ai day hospital psichiatrici manifesta forme di disagio che non sono di natura psichiatrica, e spesso nemmeno psichica, le diagnosi più frequenti con cui vengono etichettati dagli operatori hanno a che fare con “depressione”, “ansia” e “disturbi della personalità”. Così facendo l’operatore, evitando di affrontare la complessità del caso specifico che si trova di fronte, adempie al suo ruolo di “applicatore di patologie”, con relativa prescrizione farmacologica. Così facendo si riduce la complessità dell’individuo a quella classificazione stereotipata imposta dal manuale diagnostico americano con tutto ciò che ne consegue in termini di negazione della personalità, di controllo e redditività spesso ottenuta attraverso la dipendenza chimica.

Nonostante lo scollamento «tra le arbitrarie classificazioni della psichiatria e ogni essere umano nella sua singola, peculiarissima storia» (p. 26), Ronzano segnala come nella sua esperienza sul campo si sia spesso imbattuta in persone che dai centri di assistenza psichiatrica pretendono una diagnosi sentendosi, in qualche modo, confortate dal poter “far parte” di una condizione sottoposta a vigilanza dalla scienza medica. «Può sembrare paradossale, ma spesso “essere depresso” piuttosto che “soffrire d’ansia” viene percepita come una condizione rassicurante, perché permette di circoscrivere la sofferenza a un preciso ambito, a una causa specifica. Avere la possibilità di individuare in un deficit psichico l’origine del proprio dolore, può alleviare in qualche modo la percezione di sentirsi responsabile della propria infelicità» (p. 27). Inoltre, continua Ronzano, la diagnosi sembra poter donare all’individuo un’identità, cosa che nell’attuale società sembra essere indispensabile. Appartenere alla categoria dei “depressi”, ad esempio, aiuta l’individuo a “sentirsi qualcuno” e piuttosto che trovarsi a corto d’identità è auspicabile vedersi riconosciuto un disturbo mentale. Insomma, meglio essere malati che niente.

Di fronte a pazienti che giungono nei day hospital psichiatrici e che palesano di non avere problemi psichiatrici o psichici, se solo si avesse la pazienza di ascoltare le loro storie evitando di applicare meccanicamente diagnosi dettate dal Manuale e prescrivere medicinali in quantità, sarebbe più onesto da parte degli operatori, scrive Ronzano, ammettere «di non avere il potere né la possibilità di aiutare qualcuno, al limite consigliarlo di rivolgersi altrove […] Se un servizio psichiatrico (o meglio di salute mentale) fosse un reparto seriamente responsabile, ogni giorno dovrebbero essere compilate, oltre alle inevitabili cartelle cliniche, anche “cartelle sociali”, per così dire, in cui stilare un piano di intervento e di collaborazione con le strutture socio-assistenziali presenti sul territorio, per aiutare il paziente a risolvere problemi alla cui origine, evidentemente, concorrono motivazioni ben diverse da quelle personali e patologiche. Sarebbe auspicabile che la psichiatria si trasformasse in un centro di analisi e smistamento dei casi» (pp. 28-29). Esistono in Italia alcuni dipartimenti di salute mentale, come a Trieste, che operano in tal senso. Nulla di impossibile, dunque. Basterebbe volerlo fare.

Ronzano si sofferma anche sull’uso che il potere fa delle parole passando in rassegna alcuni termini a cui ricorre la psichiatria contemporanea al fine di affibbiare le diagnosi più comuni. Ad esempio, il termine “depresso” – che letteralmente significa qualcosa/qualcuno che è stato schiacciato, abbassato, abbattuto – secondo i parametri psichiatrici identifica «una persona che per un periodo di tempo abbastanza lungo “vive di episodi di umore depresso accompagnati principalmente da una bassa autostima e perdita di interesse o piacere nelle attività normalmente piacevoli”. La presunta diagnosi non connota la persona in base a una serie di sintomi inequivocabilmente invalidanti, ma in base alla sua collocazione (la condizione di essere “al di sotto”, richiamata espressamente dai termini di umore “depresso”, “bassa” autostima, “perdita” di interesse e piacere) rispetto a una linea di demarcazione, ovvero rispetto alla soglia della cosiddetta e non altrimenti specificata “normalità”» (pp. 33-34).

Una diagnosi così emessa si preoccupa soltanto sulle «derive del vissuto del paziente, sulla sua iperattività neuronale, sul suo essere schiacciato al di sotto del limite “normale”» (p. 34) e non dice nulla sul vissuto, sullo stato di salute e sull’aspetto umano dell’individuo. Pertanto, la “depressione”, scrive Ronzano, non è in realtà una diagnosi e nemmeno una definizione; si tratta di «un abborracciato giro di parole per imporre categoricamente uno stato di cose, e cioè che esiste una soglia umorale e comportamentale normalmente ritenuta accettabile e valida, al di sotto della quale si diventerebbe automaticamente dei “depressi”. Pura tautologia» (p. 34).

Se è vero che tante persone, pur di affrontare il disagio provato, si rassegnano a “fare i malati”, scrive l’autrice, «è altrettanto vero che i medici, accettando di “curarle” in qualità di casi patologici, hanno la loro buona parte di responsabilità nell’aggravare questo uso improprio della psichiatria. Se di certo si può parlare di concorso di colpa, non c’è dubbio che le equipe psichiatriche, rappresentando l’autorità medico-scientifica, dovrebbero per prime disporre in altra maniera. Nel momento in cui uno psichiatra fornisce una diagnosi e una cura farmacologica è come se statuisse che le origini dei problemi della persona sono: 1. di natura personale, cioè da ricercarsi e imputarsi all’individuo in questione. 2. Di natura chimico-neurale, cioè risiedono in un qualche non meglio specificato disturbo neurotrasmettitoriale» (p. 83).

In questo modo, sostiene Ronzano, la psichiatria riduce un problema che tocca l’intera compagine socio-cultuale al cervello di una singola persona. «L’ambito in cui i problemi andrebbero ricercati e risolti (la società, un’intera cultura) è stato gravemente ristretto non soltanto dal corpo sociale al corpo individuale, ma anche dal corpo individuale al singolo organo. In questa operazione riduzionista, la psichiatria non è per nulla ecologica dal momento che – pur ammettendo, in teoria, che i problemi si formano in ambiente collettivo – nella pratica interviene soltanto sul cervello dei singoli individui» (pp. 83-84).

Attraverso tale pratica riduzionista l’autoritarismo medico-scientifico ottiene un doppio obiettivo. «Ignorando la componente socio-economica nell’origine dei problemi del singolo […] mira a stornare l’attenzione critica dai problemi socio-politici, concorrendo al mantenimento dello status quo per nulla vantaggioso per la maggior parte dei cittadini» (p. 84). Inoltre tende a a decolpevolizzare i singoli «individuando l’origine dei loro problemi non in scelte e comportamenti sbagliati, bensì in un loro presunto malfunzionamento neuronale, in qualche scompenso chimico. La decolpevolizzazione va di pari passo con l’irresponsabilizzazione, attuata attraverso il conferimento di una diagnosi. Infatti una diagnosi è sempre, in prima battuta, l’istituzionalizzazione di un deficit» (p. 85).

Ed il “consulente filosofico”? Cosa accidenti fa il “consulente filosofico” quando si trova di fronte i pazienti al reparto psichiatrico? Dialoga con consultanti, per dirla con Pier Aldo Rovatti. La filosofia rifiuta la cultura terapeutica, ne svela la dimensione autoritaria e coercitiva e cerca altre vie per essere d’aiuto a chi si presenta sofferente. L’invito, a questo punto, è di leggersi il libro di Lorenza Ronzano, una che ha imparato ad ascoltare la gente che si sfoga senza sfogliare il manuale americano, emettere diagnosi e compilare ricette. Non è poco.

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Lo specialista pericoloso https://www.carmillaonline.com/2017/01/01/35416/ Sat, 31 Dec 2016 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35416 di Piero Cipriano

ctrlaltdeleteUno psichiatra pensa di essere, ed è, quando va bene, uno specialista del pericolo.

Ci sono ragioni storiche (di cui gli psichiatri contemporanei, per lo più, nemmeno sono a conoscenza) che fanno sì che essi siano specialisti del pericolo.

In due casi, soprattutto, si trovano a dover esercitare al meglio questa specializzazione.

Il primo caso è quello in cui una persona compie un reato, e però il reato non ha un fine, o una ragione, o una spiegazione, è incomprensibile, inspiegabile. Allora il giudice non sa che farci e gli [...]]]> di Piero Cipriano

ctrlaltdeleteUno psichiatra pensa di essere, ed è, quando va bene, uno specialista del pericolo.

Ci sono ragioni storiche (di cui gli psichiatri contemporanei, per lo più, nemmeno sono a conoscenza) che fanno sì che essi siano specialisti del pericolo.

In due casi, soprattutto, si trovano a dover esercitare al meglio questa specializzazione.

Il primo caso è quello in cui una persona compie un reato, e però il reato non ha un fine, o una ragione, o una spiegazione, è incomprensibile, inspiegabile. Allora il giudice non sa che farci e gli chiede: signor psichiatra, è lei in grado di dirmi se questa persona era capace di intendere e di volere quando ha compiuto il fatto reato? Lo psichiatra si ripassa il codice diagnostico, trova la diagnosi, e dice: no signor giudice, egli era schizofrenico, e la schizofrenia non guarisce, dunque non poteva essere in grado di comprendere ciò che ha fatto, ma non lo è neppure di difendersi, inutile pertanto processarlo. Dunque, rincalza il giudice, sta bene, non lo processeremo, non lo condanneremo, non si può condannare uno stolto, e però mi dica, lei, che è psichiatra e sa indovinare il futuro dei senza ragione: potrebbe essere pericoloso ancora? Lo psichiatra non è stato fabbricato, nei suoi anni di apprendistato universitario, per essere sincero, quindi piuttosto che svelarsi nella sua nudità epistemologica, nel suo immenso vuoto di sapere, rilancia: ma certo, signor giudice, io prevedo che lui, data la sua diagnosi che come le dicevo si configura come incurabile, non potrà non delinquere ancora, non potrà pertanto esimersi dall’essere pericoloso. Dunque: interniamolo. Nei manicomi del crimine. Oppure nelle nuove residenze, le REMS.

Il secondo caso in cui lo psichiatra si trova a intervenire nella gestione del pericolo che può derivare dalla persona folle, è quando un disturbato psichico ha una crisi. Seppure non ha commesso reati, lo psichiatra ha un dovere, posizione di garanzia la chiamano, ed è responsabile di ciò che, se lui non provvedesse, potrebbe accadere. Dunque cosa fa, lo psichiatra esperto del pericolo. Stavolta senza che glielo chieda il giudice. Però il giudice è sempre presente, nella testa dello psichiatra, se lo sogna pure di notte, è il suo convitato di pietra. Adopera tre mezzi. Primo: il trattamento sanitario obbligatorio. Secondo: il ricovero in un luogo chiuso. Blindato. Un carcere camuffato da ospedale. Lo chiamano SPDC. Terzo: le fasce con cui, all’occorrenza, lega questa persona al letto, perché non nuoccia.

Il caso di Mastrogiovanni, il maestro anarchico ucciso nel reparto SPDC di Vallo della Lucania nel 2009 è paradigmatico di come un certo tipo di psichiatria e di psichiatri interpretino la propria missione, e si rendano protagonisti di veri e propri omicidi. Molti dei quali impuniti. Perché non vi sono le telecamere, nella maggior parte dei reparti psichiatrici d’Italia a documentare i metodi di certe psichiatrie. A documentare le morti, e i motivi di molte morti che restano misteriose.

Il caso Mastrogiovanni è emblematico di come, certi psichiatri, si siano persuasi d’essere non terapeuti (psichè iatreia, ricordiamolo, significa essere artisti nella cura dell’anima, che è una cosa megalomane, non dico no, ma molto lontana dall’essere specialisti della repressione), ma specialisti del pericolo che all’occorrenza diventano specialisti pericolosi, pericolosi essi stessi per i poveri psichiatrizzati che mal capitano sotto la loro giurisdizione.

Se mai si addivenisse a una legge Mastrogiovanni che quasi quarant’anni dopo aggiusti le involontarie approssimazioni della legge Basaglia (una legge quadro, fu per forza vaga), questa dovrà regolare tre cose.

Uno: il TSO, per far sì che non sia più poliziesco, ma torni a essere l’extrema ratio che la legge 180 prevedeva, e perché ciò accada serve istituire (purtroppo) una quinta figura (dopo i due medici, il sindaco e un giudice) (dico purtroppo perché se gli psichiatri avessero saputo essere democratici e rispettosi, sarebbero stati sufficienti loro a garantire una persona con un disturbo psichico acuto), che sarà un garante, una persona magari esperta di psichiatria o di giurisprudenza che intervenga in corso di TSO, e non permetta abusi..

Due: i SPDC, non più reparti chiusi, non più bunker, che finalmente diventino come gli altri reparti d’ospedale, non i luoghi blindati dove c’è scritto hic sunt leones.

Tre: le fasce, che siano messe al bando, fuori legge, di modo che i luoghi della cura, tutti, si mostrino disarmati, non si trasformino in tante celle, carceri ospedalieri, con letti di tortura: ricacciamo fuori la manicomialità dagli ospedali.

Ma non siamo nati ieri, sappiamo che ciò non basterà, che le navi manicomio continuamente ritornano all’orizzonte, soprattutto, sappiamo quanto l’aforisma di Basaglia sia attuale. «Quando il malato è internato il medico si sente libero, però quando il malato è libero è il medico a sentirsi internato».

Per cui: ce n’est qu’un début.


[Su Carmilla:Conversazione con Piero Cipriano, psichiatra riluttante” – P. Cipriano, “Le psichiatrie al lavoro” – P. Cipriano, “Il manicomio che non vuole morire” – Recensione dei volumi: P. Cipriano, La società dei devianti (2016) – P. Cipriano, Il manicomio chimico (2015). Presto verrà pubblicata la recensione di P. Cipriano, La fabbrica della cura mentale (2013) – ght]

 

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Macchina diagnostica, agenzie della salute sovranazionali e campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione https://www.carmillaonline.com/2016/10/04/macchina-diagnostica-agenzie-della-salute-sovranazionali-campagna-labolizione-delle-fasce-contenzione/ Tue, 04 Oct 2016 21:30:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33600 di Gioacchino Toni

Conversazione con Piero Cipriano, “psichiatra riluttante”

pillola[ght] Dopo aver raccontato il manicomio fisico con La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), con Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] hai ricostruito come si è giunti all’era della psichiatria chimica in cui il manicomio è somministrato al paziente attraverso gli psicofarmaci. Nell’ultimo libro, La società dei devianti (Elèuthera, 2016) [su Carmilla], ti soffermi soprattutto sull’aspetto diagnostico indicandolo come macchina in grado di conferire identità e destino all’individuo.

Leggendo la tua ricostruzione della storia del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders fino al DSM-5, manuale [...]]]> di Gioacchino Toni

Conversazione con Piero Cipriano, “psichiatra riluttante”

pillola[ght] Dopo aver raccontato il manicomio fisico con La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), con Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] hai ricostruito come si è giunti all’era della psichiatria chimica in cui il manicomio è somministrato al paziente attraverso gli psicofarmaci. Nell’ultimo libro, La società dei devianti (Elèuthera, 2016) [su Carmilla], ti soffermi soprattutto sull’aspetto diagnostico indicandolo come macchina in grado di conferire identità e destino all’individuo.

Leggendo la tua ricostruzione della storia del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders fino al DSM-5, manuale diagnostico sostanziale accettato e applicato acriticamente a livello mondiale, si ha la netta impressione di avere a che fare con l’ennesimo pacchetto normativo che si impone sull’umanità dettato da agenzie internazionali (come la World Health Organization) o da lobby che finiscono, di fatto, per dettar legge a livello internazionale (come l’American Psychiatric Association). Si tratta di agenzie che impongono a livello globale una precisa visione del mondo, in questo caso inerente alla salute/malattia degli individui, in strettissimi rapporti con un altro potentato sovranazionale: la lobby dell’industria farmaceutica.

Insomma, al lungo elenco di agenzie economiche e politiche internazionali che determinano la nostra vita – International Monetary Fund, World Bank, Goldman Sachs, European Union, United Nations, European Central Bank ecc. -, possiamo aggiungere anche agenzie ed associazioni come la World Health Organization e l’American Psychiatric Association con la loro bibbia diagnostica… Cosa ne pensi?

[pc] Sì, direi che è così. Una serie di etichette, da quelle mediche a quelle psichiatriche a quelle giudiziarie a quelle sociologiche, determinano una sequenza di percorsi terapeutici, rieducativi, riabilitativi, punitivi, espulsivi, a cui è sempre più difficile sottrarsi. Una società nosografica, che per forza di cose poi diventa società terapeutica: siamo anormali, dobbiamo curarci. Come? Coi farmaci, per lo più. Eccoci dunque in questa era della farmacocrazia.

[ght] Nel tuo La società dei devianti si parla dell’urgenza di intraprendere una campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione. Tale campagna, oltre che a fare pressione sui politici affinché si arrivi all’abolizione di tale pratica, deve necessariamente raggiungere l’opinione pubblica mettendola al corrente della pratica della contenzione e di quanto sia ancora diffuso il ricorso ad essa. Informare l’opinione pubblica comporta un’estensione della responsabilità; un’opinione pubblica sensibilizzata a proposito del ricorso a tale pratica costrittiva dovrebbe sentirsi in dovere di farsi carico della questione. La difficoltà maggiore mi sembra quella di individuare le modalità con cui raggiungere la gente comune in una realtà che vede i media interessati a tutto ciò che riguarda il disagio mentale solo quando ad esso è possibile imputare qualche forma di violenza particolarmente cruenta. Non di rado nel trattare tali episodi i media danno voce a una sempre meno celata “nostalgia di manicomio”. Sicuramente scriverne è importante e da questo punto di vista la tua “Trilogia della riluttanza” può essere considerata un ottimo contributo alla denuncia ed all’informazione così come tutte le iniziative di presentazione dei libri può essere utile a sensibilizzare l’opinione pubblica. Cos’altro si può fare di concreto, a tuo avviso, per supportare la campagna contro la contenzione?

[pc] Bella domanda. Che mi fai proprio in un momento in cui questa campagna, per slegare i cristi in croce legati nei luoghi non solo della psichiatria ma dell’intera medicina, un po’ langue, boccheggia, stenta. Perché stenta? Perché lo sapevamo che era un’iniziativa difficile, lunga, piena d’insidie, e che chi, come me, si esponeva (sono uno psichiatra che è contrario alle fasce e ne chiede l’abolizione, che tuttavia continua a lavorare in un reparto dove vengono, anche se sempre di meno, ancora adoperate), rischiava molto. Perché le fasce sono economiche. Sono comode. Sono facili, semplici. Non comportano il difficile esercizio del pensiero (per dirla con Hannah Arendt). Non comportano mettersi più di tanto in discussione. Basta un po’ di rimozione, o l’abitudine, abituarsi alla pratica, anche a torturare il torturatore in fondo si abitua (leggersi Notturno cileno o Stella distante, di Bolaño, per esempio), dopo essere stato opportunamente inziato. Difficile è sbarazzarsi delle fasce e domandarsi: e ora?, come faccio a relazionarmi con quest’uomo, o questa donna, o questo adolescente, o questo vecchio, o questo cocainomane, o questo ubriaco, che si agita, che mi aggredisce? Lì è la sfida. Invece ci addestrano a fare i legatori. Leghiamo l’umanità! E dopo averla legata (e torno alla tua domanda di prima) con le etichette diagnostiche che t’incanalano per sempre in percorsi obbligati, dopo averla legata con molecole che ti gessano i pensieri, te li paralizzano, o viceversa ti esaltano innaturalmente le emozioni, dopo averla legata con contenitori e luoghi d’ogni sorta, se tutto ciò non basta, per i più indomiti recalcitranti riluttanti, ecco il legamento più primitivo, e però più sicuro: le fasce.

Le fasce, come gli altri legamenti che le precedono, sono entrate ormai nel nostro immaginario, nelle prassi, in ospedale, tra gli addetti ai lavori, medici infermieri ausiliari psicologi ma anche tra i famigliari, ne troverai pochi che si scandalizzino. Lo scandalo, al contrario, lo procuriamo noi che proponiamo l’abolizione delle fasce. Siamo noi, i medici infermieri psicologi che contestano i legamenti a essere scandalosi, e dunque pericolosi, con questa nostra iniziativa velleitaria. La follia è pericolosa, il matto è da legare, e anche solo proporre l’eliminazione di questo millenario strumento per gestire la follia è scandaloso, ed è pericoloso.
Per questo la campagna per abolire la contenzione si profila come un modo per continuare a contestare la manicomialità. Mettendo in discussione, stavolta, non solo il manicomio civile o quello giudiziario, ma proprio l’ospedale generale, l’intera medicina dunque. Per cui, cosa si può fare?, mi domandi.

87oreRicominciamo con varie iniziative, a ottobre, per esempio, un convegno a Castiglione delle Stiviere, per andare a stanare questa pratica proprio nell’OPG perfetto (anche se ora si è trasformato in una mega REMS), talmente perfetto che si legano agevolmente gli internati, anzi, vi è internata una donna che da una decina d’anni è costantemente legata, di giorno in carrozzina e di notte al letto. Coinvolgere persone che possano raccontare questa battaglia fuori dallo specifico degli addetti ai lavori. Persone della società dello spettacolo, per dirla alla Debord, per esempio Pierpaolo Capovilla, del Teatro degli Orrori, che si sta spendendo molto su questo tema, e ne canta nei suoi dischi, o Paolo Virzì, che nel suo ultimo film descrive bene cosa succede a chi entra nella morsa del circuito psichiatrico, e ci mostra Michaela Ramazzotti legata al letto. Ma servirebbero altri, come loro. Che realizzino altre opere esplicite, film come 87 ore, per esempio, dove viene mostrata la lenta agonia del maestro Mastrogiovanni legato a un letto per quattro giorni fino a morire, ecco, questo è un documento che bisognerebbe proiettare nelle scuole. Cose così, insomma.

[ght] Questa campagna contro le fasce di contenzione deve fare i conti con una società sempre più cinica e propensa a delegare la soluzione di tutto ciò che individua come “problema” a comodi “specialisti” di turno. Cogliere i devianti come problema comporta facilmente la concessione di una sorta di “delega in bianco” in favore di ogni pratica volta a toglierli dalla vita sociale. Da questo punto di vista, evitata ad arte una terminologia troppo esplicita, la segregazione in luoghi separati e il ricorso a forme di contenzione tutto sommato possono anche non essere viste con ostilità dall’attuale opinione pubblica. Una volta etichettati come devianti, saranno gli “esperti”, i “tecnici”, a farsi carico del “problema-devianti”. Farmaco o non farmaco, cinghia o non cinghia, l’importante è lavarsene le mani una volta che il problema viene rimosso dalla vita pubblica. Ripensando alla battaglia di Franco Basaglia e Franca Ongaro viene da pensare che se da un certo punto di vista la società degli anni ’60 e ’70 non era poi tanto più “aperta” mentalmente rispetto all’attuale, è anche vero che proprio in quel periodo si stavano aprendo “brecce di libertà” all’interno della cultura e della società italiana che oggi onestamente è difficile individuare. Cosa ne pensi?

[pc] Sottoscrivo ciò che dici. Ci siamo tutti rassegnati e consegnati al potere/sapere degli psichiatri, che nell’arte della manomissione delle parole, per dirla con Carofiglio, sono dei veri talenti. Hanno suddiviso il grande contenitore della follia in più di trecento partizioni, come a dire che oggi nessuno più è folle, ma nessuno più può dirsi del tutto normale, tutti noi abbiamo almeno due tre diagnosi possibili, ormai. Diagnosi che accettiamo passivamente, supinamente. Anzi, siamo a tal punto acritici che talvolta ci presentiamo e ci raccontiamo con quella diagnosi, io sono un borderline, io sono un bipolare, poco ci manca che le mettiamo perfino nel nostro biglietto da visita: Mario Rossi, depresso. Le diagnosi psichiatriche ristrutturano la nostra identità, un po’ come accade per i segni zodiacali, con la differenza che i segni zodiacali lasciano il beneficio del dubbio (non è roba scientifica, per quanto suggestiva), le diagnosi psichiatriche invece non lasciano dubbi, perché sono opera di scienziati della mente (è scienza, insomma).

contenzioneMa pure rispetto ai loro luoghi, gli psichiatri hanno messo in gioco il meglio della loro semantica: i manicomi non esistono? Perfetto. Vuol dire che la manicomialità la distribuiremo in altri contenitori più piccoli, meno appariscenti, che chiameremo soprattutto con acronimi: SPDC, CSM, CT, OPG, REMS, eccetera. I ricoveri ad infinitum non sono più possibili? Non c’è problema. Esiste un gioco dell’oca della cronicità per cui realizzo l’internamento circolare: dieci giorni in SPDC, un mese in Casa di Cura che ora si chiama STIPT, sei mesi in CT. Compi un reato ma sei deviante? Un anno in REMS, e poi ricominci il giro, magari ripassando dal SPDC.

[ght] Nel tuo La società dei devianti ragioni sui comportamenti che possono adottare gli operatori psichiatrici nella pratica quotidiana al fine di evitare trattamenti disumani nei confronti dei devianti. Inviti, ad esempio, a praticare un colloquio continuo con i pazienti, a portarli fuori dai luoghi di ricovero, a revocare i TSO, a sciogliere i legati ed a ridurre i farmaci. Attraverso tali comportamenti, sostieni, sarebbe più facile convincere i giovani operatori del settore, i pazienti e i loro famigliari che esistono altri modi per affrontare i disturbi mentali. Naturalmente gli operatori, così come le famiglie dei pazienti, si trovano a vivere in un mondo in cui l’aspetto produttivo, con i suoi ritmi sempre più infernali e dilatati nel tempo e nello spazio, sottrae buona parte del tempo e delle energie che possono essere dedicate a chi è in difficoltà. La stanchezza psicofisica degli operatori e dei familiari di certo si riversa negativamente su chi è in difficoltà. Non credi che nel mondo degli operatori psichiatrici una campagna finalizzata a un trattamento “più umano” dei pazienti debba intrecciarsi a rivendicazioni di tipo sindacale volte a rendere il lavoro meno sfiancante? Mi riferisco al numero di operatori impiegati in rapporto ai pazienti, ai turni di lavoro ecc.

[pc] Assolutamente sì. Lavoro in un reparto dove ci sono minimo dodici persone ricoverate. Tre infermieri non bastano, non possono bastare. Però il numero fa la differenza, ovviamente. Se già con tre-infermieri-che-non-vogliono-legare è possibile non legare le persone, per mia esperienza, figuriamoci con sei (se quei sei vogliono non legare). E’ ovvio che se invece ti trovi con infermieri-che-vogliono-legare, anche con dodici (potendoti dunque permettere un rapporto uno a uno) leghi le persone, non si sfugge. Discorso a parte per i medici. I medici sono coloro che, in fin dei conti, decidono se legare o non legare. I medici, per mia esperienza, più sono e meno decidono. O meglio, più sono e meno sono coraggiosi, e più si nascondono dietro le fasce. E più legano. Ma perché legano? Non lo so. A me pare che la maggior parte dei medici abbiano più dimestichezza con i libri, con le diagnosi, con i farmaci, con le molecole, che con le persone in carne e ossa. Sarà per la lunga formazione a cui sono stati sottoposti, formazione medica che invece di avvicinarli alle persone li allontana, che in qualche modo li disumanizza, apprendistato che gli fa perdere di vista la persona, che li addestra quasi esclusivamente allo studio del caso (clinico), caso (clinico) che diventa cosa. Oggetto. E qui torna attuale Franca Ongaro Basaglia quando ci ricorda che la medicina si forma sul corpo morto, e il medico impara a conoscere l’uomo vivo (malato) studiando il cadavere nelle aule di anatomia patologica, e memore di questo debito tende, il medico, sempre, a ricondurre l’uomo vivo (malato), a corpo morto, disteso sul letto d’ospedale, allettato, clinico, esanime, o coi farmaci o con le fasce.

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