Derek Jarman – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:10:34 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Le tristi storie delle morti dei re (V) https://www.carmillaonline.com/2024/10/15/le-tristi-storie-delle-morti-dei-re-v/ Tue, 15 Oct 2024 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84829 di Franco Pezzini

Il re non torna

(qui, qui, qui e qui le parti precedenti)

Gloucester, agosto. Fermiamo la macchina al parcheggio più vicino possibile alla Cattedrale. Il centro città dev’essere bello, ma non abbiamo il tempo di fermarci, e dunque ci avviamo subito alla meta. St Peter and the Holy and Indivisible Trinity, fondata attorno al 679 come minster votata a san Pietro, divenuta abbazia e poi assurta a cattedrale alla Dissoluzione dei monasteri, è un capolavoro del gotico perpendicolare. Vetrate stupende, una festa di pinnacoli e di volte ornatissime, coro e chiostro meravigliosi. E tra [...]]]> di Franco Pezzini

Il re non torna

(qui, qui, qui e qui le parti precedenti)

Gloucester, agosto. Fermiamo la macchina al parcheggio più vicino possibile alla Cattedrale. Il centro città dev’essere bello, ma non abbiamo il tempo di fermarci, e dunque ci avviamo subito alla meta. St Peter and the Holy and Indivisible Trinity, fondata attorno al 679 come minster votata a san Pietro, divenuta abbazia e poi assurta a cattedrale alla Dissoluzione dei monasteri, è un capolavoro del gotico perpendicolare. Vetrate stupende, una festa di pinnacoli e di volte ornatissime, coro e chiostro meravigliosi. E tra i monumenti, spiccano alcune tombe eccellenti: Osric del locale regno anglosassone di Hwicce (tardo VII secolo, qualcuno ha forse un po’ fantasiosamente connesso il nome con il vocabolo witch); Robert Curthose/“Cosciacorta” signore di Normandia (1052/1054-1134), figlio di Guglielmo in Conquistatore, ribelle e lungamente prigioniero; una serie di dame e gentiluomini di vario status e soprattutto, ai fini di questo nostro itinerario, la tomba di Edoardo II (1284-1327, re dal 1308).

Prima di riprendere il dramma di Marlowe, è tempo di riassumere brevemente la vita di questo re sfortunato secondo gli storici. Si tende a sintetizzare la parabola del suo regno in tre fasi: la prima (1307-1311), con la contesa tra Edoardo e i baroni – che chiedono maggior peso politico – in particolare a proposito del favorito Gaveston. Nella seconda (1311-1322) i baroni ottengono la proclamazione delle Ordinanze, con una serie di limitazioni parlamentari al potere del re, ed eliminano Gaveston. Edoardo non può consumare la vendetta perché ha bisogno del sostegno dei nobili per la guerra in Scozia, dove Robert Bruce si è nominato re contro gli occupanti inglesi, ma a Bannockburn il sostegno è abbastanza esiguo da determinare la rotta dell’esercito di Edoardo. Che sarà dunque costretto ad accettare umiliato l’indipendenza della Scozia; sul versante francese, invece, dopo alcune goffaggini che hanno irritato i cognati (la moglie Isabella è sorella di vari re di Francia di questo periodo), Edoardo riesce a ottenere una pace temporanea. La situazione è peggiorata dalla crisi globale della Grande carestia (1315-1317) che devasta l’Europa compromettendo non solo la sopravvivenza fisica ma la solidità delle istituzioni (scuotendo per esempio la credibilità della Chiesa) e dei tessuti sociali tra infanticidi, cannibalismo, criminalità. Non è strano che in patria la crisi precipiti in guerra civile: il maggior avversario di Edoardo, Thomas conte di Lancaster – il nobile più potente del regno – viene giustiziato e inizia la mattanza dei suoi alleati. Le Ordinanze vengono ritirate e il re rafforza il potere sul paese.

 

La terza fase (1322-1327) è però connotata dall’avidità e dallo strapotere dei favoriti Despenser, che lo sostengono anche economicamente ricevendo fin troppi benefici – a prescindere dal tipo di rapporti personali tra il re e il giovane Hugh, come già prima per Gaveston, tradizionalmente letti con la lente della sodomia. Il che porta a una reazione tra i nobili, con la saldatura di un’alleanza tra la regina Isabella e Roger Mortimer, che fuggito dalla torre diverrebbe l’amante di lei in Francia (dicembre 1325), dove la regina si trova in missione diplomatica per sanare una nuova crisi. Teniamo presente che, qualunque sia il momento di partenza della loro relazione, considerato il clima d’epoca Isabella e Mortimer corrono grossi rischi: l’infedeltà femminile è al tempo durissimamente sanzionata – come mostra la penosa sorte delle ex cognate francesi di Isabella, Margherita e Bianca, da lei stessa accusate e imprigionate a vita, mentre gli amanti sono orribilmente giustiziati (il cosiddetto scandalo della torre di Nesle, 1314). Alcuni storici ipotizzeranno una forte attrazione sessuale tra Isabella e Mortimer, o loro comuni passioni, al punto da leggervi una delle grandi storie d’amore del Medioevo; certo hanno nemici comuni di cui vendicarsi, e la favola bella del “noi due contro il mondo” c’è sempre stata. Comunque sia, Isabella torna in Inghilterra solo nel 1326 con Mortimer e le truppe del conte Guglielmo I di Hainault (l’appoggio verrà ricambiato con l’accordo di matrimonio – già peraltro vagheggiato da Edoardo II – tra il giovane principe inglese Edoardo e la figlia di Guglielmo, Filippa di Hainaut), facendo insorgere la popolazione contro i Despenser che vengono eliminati. Il re è deposto e sostituito dal figlio quattordicenne, Edoardo III: riesce a fuggire, è ripreso e (così si dice normalmente) muore nel castello di Berkeley. Ma nel 1330 Edoardo III si libera della reggenza di sua madre e Mortimer e li rovescia, facendo giustiziare l’ingombrante protettore e richiudendo a vita Isabella. Sarà ricordato come uno dei più grandi re inglesi, anche se dai suoi figli verranno le casate York e Lancaster destinate a sterminarsi nella Guerra delle Due Rose – evento che, di fatto, farà piazza pulita dell’ingombrante aristocrazia guerriera e porrà le basi dell’Inghilterra moderna.

Questo è il quadro delle cronache, non privo di punti oscuri: e stiamo vedendo come Marlowe, nel complesso fedele ai fatti, al di là di qualche adattamento per motivi drammatici e per avvicinare maggiormente Edoardo a una propria sensibilità, stia provvedendo a rinarrarla (invito alla lettura della bella sintesi di Rosanna Camerlingo nell’edizione Marsilio qui consultata, e del ricchissimo volume di Park Honan, Christopher Marlowe: Poet & Spy, Oxford University Press, 2005). Nato lo stesso anno di Shakespeare, 1564, Christopher – detto Kit – Marlowe è avvolto da una fama maledetta come in qualche misura il suo Edoardo: bestemmiatore, ateo, libertino, sodomita, dissoluto, uomo (a sentire il suo compagno di camera Thomas Kyd, drammaturgo come lui) dal “cuore crudele”, mezzo delinquente, spia… per questo, dopo gli strali dei puritani, lo riscopriranno i romantici ribelli e, nel Novecento, i lettori critici sulle agenzie di potere. Straordinario “cattivo esempio”, Marlowe con la Corona ha concretamente a che fare. È un agente dei Servizi, ha probabilmente una parte nella cosiddetta congiura di Babington funzionale all’eliminazione della figura-simbolo di Mary Stuart e viene eliminato proprio in un contesto legato a quell’attività e alle sue relazioni pericolose. L’operazione che vedremo in scena per coprire la morte di Edoardo rientra perfettamente in un certo ordine di pratiche e di progetti, in un quadro di doppie verità – per la massa e per i pochi –, mentre il teatro è per lui simile a quella religione che al tempo scatena sanguinosi conflitti (per Marlowe entrambi fictio di gran forza estetica, entrambi sostenuti da una sospensione dell’incredulità): ma in generale è un po’ tutto l’Edoardo II – paradossalmente, l’unica opera dell’autore a non subire tagli – a risentire dell’attualità. Mentre Shakespeare vara drammi storici permettendo al paese di riconoscervisi, Marlowe strappa alle antiche cronache una storia francamente imbarazzante. Non c’entrano solo le preferenze sessuali di Edoardo, plausibilmente le stesse di Marlowe (pur nella problematicità del ricorso per il medioevo alla categoria dell’omosessualità come poi maturata tra XIX e XXI secolo) ma un po’ tutto il contesto – poesia, teatro, musica – che anima l’amore di Edoardo e reca preferenza di peso politico nello stravolgimento delle gerarchie sociali. All’interno di un quadro che, si è osservato, manca del tutto di trascendenza, uomini contro uomini: a quel punto l’omosessualità (che non è sinonimo di debolezza, come dimostra anche la figura di Enrico III di Valois in un’altra opera di Marlowe, Il massacro di Parigi sulla notte di San Bartolomeo) diventa quasi uno schermo per coprire – con successo, visto l’assenza di censure – un contenuto politico sovversivo. La tragedia The troublesome raigne and lamentable death of Edward the second, King of England: with the tragicall fall of proud Mortimer – probabilmente presentata a corte, non sappiamo se piaccia alla regina – viene datata (1591-1592) in rapporto agli influssi di opere di Shakespeare come Enrico VI parti 2 e 3 e Riccardo III e probabilmente dell’Edoardo I di George Peele. La tragedia è registrata nel luglio 1593: la pugnalata all’occhio (più specificamente al sopracciglio destro) che poco prima, il 30 maggio, ha ucciso l’autore ventinovenne – in una lite che sembra coprire un delitto premeditato – finisce con l’evocare simbolicamente una volontà di impedirgli di vedere, di far vedere.

Nella cattedrale di Gloucester ecco dunque lo splendido mausoleo in alabastro (quasi tutto) e marmo di Purbeck (scuro, del basamento) voluto per il padre dal successore Edoardo III: aperto su tutti i lati, è posto sopra un alto parallelepipedo, ornato da un’elegante successione di archi su una seconda architettura di sfondo, sopra il quale sta la statua del re in gisant, coricata sul letto funebre. A sovrastare questa base sta l’articolato coronamento superiore, composto da tre archi traforati, a loro volta sormontati da tre baldacchini con guglie, pinnacoli e altri ornamenti. Il risultato è un’opera che colpisce chi guardi, e idealmente tesa a trasfigurare (affettuosamente, verrebbe da dire) un re dalla fama tanto discussa e dalla vita tanto tormentata.

Sostarvi davanti è anche meditare sui drammi della storia: su come un uomo di buon carattere, magnanimo, generoso ma poco accorto, esposto a un ruolo per cui non è adatto, in un’epoca brutale, possa inanellare clamorose goffaggini, passi falsi, errori e (a un certo punto) orrori destinati a ribaltarglisi addosso. La fama del sodomita o – diremmo oggi – dell’omosessuale osteggiato per le sue relazioni rileva soprattutto nelle trascrizioni drammatiche o nei giudizi moraleggianti dei cronisti: nei fatti il problema si lega piuttosto al suo appoggiarsi a piccoli o grandi arrampicatori senza prevedere le conseguenze delle proprie scelte. Come politico, Edoardo fallisce su quasi tutta la linea, anche se è forse eccessivo considerarlo – come nel titolo di un recente documentario su YouTube, England’s Worst King. Ma, considerate le energie della moglie che gli è toccata – per accordi politici, anche se sono entrambi di bell’aspetto e almeno all’inizio si saranno senz’altro piaciuti – è una tragedia che Edoardo non riesca a trovare in lei un’alleata, sicuramente di alto livello. Davanti a questo sepolcro, più ancora che la classica riflessione su ciò che resta dei potenti usciti di scena, ridotti a polvere e ombra, ci troviamo a considerare il numero di fallimenti a cui una persona in sé non priva di valore può andare incontro.

Ma riprendiamo il testo di Marlowe.

Atto quinto. Il conte di Leicester invita Edoardo a smettere di piangere e immaginare che il castello dov’è prigioniero, Killingworth (cioè Kenilworth), sia la sua corte e lui vi abbia fatto sosta per proprio piacere. Edoardo riconosce la gentilezza dell’aristocratico, ma “I dolori degli uomini comuni / si placano presto, non quelli dei re” (a questo punto esistono forse più re di quanto sospettiamo; magari noi stessi abbiamo una corona in testa e non ce ne siamo accorti). Il cervo ferito sa quale erba gli sia di medicamento, ma quando è il leone a sanguinare, piuttosto si apre maggiormente la ferita, ignorando lo spreco di sangue e muovendo alto. Così accade a lui, che Mortimer vorrebbe piegare e Isabella ha ingabbiato. Li accusa davanti al cielo: e quando si rende conto di essere un re – non è mai scontato mettere a fuoco il proprio ruolo in giorni tristi – pensa che dovrebbe vendicarsi dei torti subiti da Mortimer e Isabella. In realtà, se noi esaminiamo la storia di Edoardo II, a far precipitare tutto è proprio l’appello incontrollato alla vendetta: contro gli abusi di Gaveston, i baroni che hanno combattuto lui e poi i Despenser, la feroce repressione voluta dal re… teste che rotolano, gente sollevata a forza di braccia appesa a un cappio, guerre civili. Marlowe non sottolinea particolarmente questo aspetto, ma l’Edoardo II delle cronache appare intento più a vendicarsi che a gestire una giustizia – e poco rileva che i baroni non siano affatto migliori.

Tanto più che la piaga dei cortigiani non si è mai sanata nei secoli: ancor oggi li troviamo incistati a ridosso dei governi centrali o locali, nelle aziende, persino nelle realtà culturali – sussiegosi, arroganti, rampanti, impreparati ma pronti a gabellare ogni capacità, a trovare subordinati (complici, tirapiedi) persino più ottusi, a sfruttare la dabbenaggine chi sta sopra e la bonomia sconsigliata di chi si trovano accanto. L’ostilità verso Gaveston e il clan/lobby Despenser è insomma storicamente comprensibile: e se talune decisioni prese dai brutali, corrucciati baroni risultano senz’altro sopra le righe, il tentativo di Marlowe di conciliarci Edoardo II funziona fino a un certo punto proprio in grazia delle nostre penose esperienze personali con qualche tipo di cortigiani. Del resto, solidarizzando con Edoardo, a Marlowe non interessa tanto difendere gli amanti di lui: sia perché nella sua lettura crudamente realistica della realtà sa che solo sgomitando si può fare strada nel mondo, sia perché in fondo non sono Gaveston o Spencer i protagonisti: ma la loro fine strazia Edoardo. E in questa splendida scena, il lamento del re è offerto con toni di lirica, straziata autenticità: in quest’atto di passione e morte il personaggio raggiunge la sua umanità più dolorosa e autentica.

“Ma che cosa sono i re quando l’autorità è perduta / se non ombre perfette in un giorno di sole?”: persa l’autorità trascendente non resta che un corpo segnato dalla fragilità. Gli dica il gentile Leicester se lui dovrebbe consegnare la corona e permettere all’usurpatore Mortimer di porsela in testa… Il vescovo di Winchester puntualizza a quel punto che no, dovrebbe rinunciarvi – per il bene dell’Inghilterra – a favore del figlio, ma Edoardo non è convinto: suo figlio, come un agnello circondato da lupi, finirà eliminato. Però se Mortimer ardisse porsi la corona sul capo, possa essa trasformarsi in fuoco o cerchio di serpi: “Così la vigna d’Inghilterra non perirà / e il nome di Edoardo sopravviverà / anche se Edoardo muore”. Leicester lo esorta ad affrettare una risposta: abdicherà? Ma il re considera quanto sia difficile “sopportare di perdere la corona / e il regno senza ragione, per cedere / i miei diritti all’ambizioso Mortimer” che lo opprime. Tanto che la sua “mente viene assassinata”, ma deve obbedire ai cieli: dunque Leicester prenda la corona (se la toglie), e anche la sua vita. “Due re in Inghilterra non possono / regnare allo stesso tempo” (tratteniamo questa affermazione). Ma poi cambia idea, lo si lasci restare re fino a notte per contemplare ancora quel segno del suo diritto. E si fermino i pianeti, i tempi e le stagioni perché lui possa restare ancora… Creature spietate, perché stanno lì a godersi la scena? (Si rimette la corona.) Non temono la sua furia e lo menano per il naso: la sua mente è piena “di strani e disperati pensieri, / e i pensieri sono martoriati da infiniti tormenti” – cui è conforto solo la corona, dunque gliela lascino ancora un po’. Persa ogni dimensione sacra o trascendente, la corona funge da terapia (a una nevrosi?), esaurendo il suo peso simbolico nella sfera dello psicologico e del placebo.

Certo, se ripensiamo a quanto detto da Edoardo, alla sua difficoltà a “perdere la corona / e il regno senza ragione” (corsivo mio, without cause), coi nostri criteri moderni tendiamo a storcere il naso: non è “senza ragione” che perde la corona, visto che non è stato proprio un modello di buon governo e in particolare la repressione della rivolta contro i Despenser ha insanguinato il regno. Ma è ovvio che da un lato Marlowe offre giustamente la visione soggettiva del protagonista, dall’altro il tutto è complicato dall’idea (fictio, per Marlowe) di sacertà del re. Per cui quell’espressione “senza ragione” trova precisi, provocatori fondamenti.

A quel punto William Trussel, il portavoce del parlamento, gli mette fretta un po’ volgarmente, ed Edoardo si arrabbia: e finalmente è un’arrabbiatura senza ambiguità. Non abdicherà e sarà re finché vive: vadano a unirsi a Mortimer, eleggano, cospirino, elargiscano cariche, facciano come credono. Ma mentre il vescovo e Trussel stanno per andarsene, Leicester invita il re a richiamarli con cortesia, per evitare che ne venga un danno a suo figlio. Edoardo non ha più voglia di parlare, allora Leicester annuncia che il re è disposto ad abdicare. Con un tiramolla meravigliosamente offerto da Marlowe: cede la corona, poi si rifiuta di compiere con il suo corpo naturale “un crimine / così disgustoso” ai danni del suo corpo politico (è la dottrina dei due corpi del re), esorta a prendersela chi di loro verrà chiamato assassino di un re, di fronte alla loro perplessità invita a chiamare per quella parte odiosa Mortimer e Isabella, ma poi, piuttosto che vederli, depone la corona, pregando Dio di concedergli un trono in cielo e la morte che gli faccia almeno dimenticare se stesso. A loro chiede di evitare sia l’infido Mortimer a proteggere suo figlio, e manda il proprio fazzoletto a Isabella – è bagnato di lacrime, ma se non si commuove tornino a intingerlo nel suo sangue. Raccomandino a suo figlio di governare meglio di lui: “Eppure in che cosa ho sbagliato / se non per troppa clemenza?”. Le prossime notizie che dovranno portare riguarderanno la sua morte – e sarà benvenuta.

Però arriva sir Thomas di Berkeley – quello la cui tomba abbiamo visto nella chiesa di Berkeley – con un dispaccio per Leicester. Edoardo esorta a riferire il messaggio al suo petto nudo, attendendosi un colpo di spada, ma il nobile spiega che il contenuto non è affatto quello e di essere invece pronto a morire per lui. Come risulta dal dispaccio della regina, Berkeley subentra a Leicester nella custodia di Edoardo, che verrà dunque trasferito a Berkeley Castle. Il sovrano deposto prende la lettera, vede la firma di Mortimer e rabbioso la strappa: “Potessero le sue membra essere / strappate come questa carta!”.

I custodi, due gentiluomini, si danno ora il cambio con sollecitudine per il prigioniero: in effetti Leicester ha mostrato pietà – un sentimento di ostacolo ai progetti di Mortimer & Isabella – e dunque ora l’incarico passa a un altro, in teoria meno emotivamente coinvolto. Hanno fatto male i conti, Thomas di Berkeley è un’altra persona perbene. Nell’aprile del 1327 con il cognato Sir John Maltravers (che nel dramma apparirà più tardi), Berkeley viene nominato custode congiunto del re deposto: lo prendono in custodia al castello di Kenilworth, dove la prigionia è stata morbida, e lo trasferiscono al cupo Berkeley Castle. Dove una cella viene oggi mostrata ai visitatori come quella del re.

Nella seconda scena compaiono Mortimer e Isabella. Inizia lui: “Fair Isabel”, ormai hanno raggiunto i risultati: giustiziati i favoriti del “frivolo re”, tengono lui stesso prigioniero. Il passaggio è liquidato con una certa rapidità, ma storicamente l’eliminazione della lobby Despenser avviene in modo clamoroso. Hugh le Despenser il vecchio (1261-1326), catturato all’assedio di Bristol, nonostante l’intercessione di Isabella viene impiccato il giorno dopo con l’armatura addosso, poi decapitato, tagliato a pezzi e dato in pasto ai cani: la testa verrà esposta a Winchester, e il titolo Winchester di Despenser verrà ripristinato solo nel 1472. Nel periodo successivo fioccheranno perdoni a migliaia di persone accusate falsamente dal clan spadroneggiante. Edmund Fitzalan, conte di Arundel, un importante sostenitore di Edoardo, venne decapitato a novembre, pare con una spada smussata che richiede al boia ventidue colpi per staccare la testa al condannato.

Il giovane Despenser, catturato, immaginando cosa lo attenda si ingegna a morire di fame prima del processo. Non ci riesce e, processato a Hereford dalla stessa corte che ha giudicato il padre, assieme all’ex Lord Cancelliere Robert Baldock e a uno dei suoi vassalli, Simon de Reading (tutti coronati di ortiche per simboleggiare il loro indebito avvicinarsi al potere regale, le sopravvesti con gli stemmi capovolti a proclamare il loro status di traditori e Despenser con la scritta neotestamentaria aggiuntiva sulla tunica “’Perché ti vanti della malizia, tu che sei potente nell’iniquità?”), rischia di essere fatto a pezzi dalla folla a mani nude – che comunque li spoglia e scarabocchia sulla sua pelle versetti biblici contro la corruzione e l’arroganza. Il numero di accuse è sconfinato e la pena di morte sicura, dipende solo come e dove. Per i Lancaster dev’essere giustiziato in uno dei suoi castelli, come avvenuto a Thomas conte di Lancaster, la regina vorrebbe un’esecuzione a Londra per solennizzare maggiormente la pena, Mortimer mira a far soffrire a Despenser quel che aveva patito senza processo il nobile gallese Llywelyn Bren. Ovvio poi lo squartamento, per il reato di tradimento, perché ciascuna parte lesa possa mostrare un segno concreto ai propri seguaci.

Trascinato da quattro cavalli alle mura del proprio castello, per i propri latrocini Despenser viene impiccato a una forca di più di quindici metri, visibile a tutti; tre metri più in basso è appeso Simon de Reading, con l’accusa di aver insultato Isabella. Ma per Despenser è solo l’inizio: alla presenza di Mortimer, di Isabella (qualcuno dice che si conceda un merenda davanti alla scena) e dei loro seguaci, viene poi castrato (forse), lentamente eviscerato, quindi il cuore estratto viene gettato nel fuoco. Segue decapitazione e squartamento, testa esposta a Londra, braccia, torso e gambe spedite per essere appesi a Newcastle, York, Dover e Bristol. Alla vedova di Despenser sarà concesso di seppellire i resti nella tenuta di famiglia nel Gloucestershire, ma le arriveranno solo la testa, un femore e alcune vertebre: le parti restanti – pare – verranno scoperte solo nel 2008 nel villaggio di Abbey Hulton nello Staffordshire in terreni di un cognato di Hugh: le risultanze medico legali suggeriscono una vittima di squartamento, di età e condizioni compatibili. Solo un po’ meglio andrà a Baldock in quanto arcidiacono: rivendicando la giurisdizione ecclesiastica viene portato a Londra e picchiato quasi a morte dalla popolazione, poi finito dai detenuti della prigione di Newgate. Eliminati gli alti papaveri, i nobili minori vennero graziati e i funzionari nominati dai Despenser confermati in carica.

Quindi (torniamo a Marlowe) Mortimer continua:

 

Fatevi guidare da me, e governeremo il regno.

In ogni caso, tenete a bada le vostre paure

infantili, perché ora noi teniamo

un vecchio lupo per le orecchie,

e se scappa, ci ghermirà entrambi,

e ci azzannerà tanto più forte,

essendo egli stesso azzannato.

 

Dunque provvedano a mettere sul trono quanto prima il giovane principe Edoardo e a fare in modo che Mortimer sia il suo Protettore (anacronismo, la carica al tempo non esisteva ma il concetto è chiaro), perché avranno un vantaggio molto maggiore se a sottoscrivere i loro atti sarà un re. Un linguaggio un po’ di bulli & pupe: “Fatevi guidare da me”, l’uomo forte non manca mai, e lei tenga a bada le sue paure da piccola donna: il personaggio di Mortimer non ne esce bene, ma il profilo è congruo a quanto già era emerso. Per chi fosse interessato alla figura di questo corrucciato arrampicatore – in fondo un favorito anche lui – oggi esiste un’interessante biografia di un suo quasi omonimo, Ian Mortimer, The Greatest Traitor: The Life of Sir Roger Mortimer, Ruler of England 1327-1330 (Vintage, 2010). Mortimer qui non esce bene anche perché, a prescindere dai variegati giudizi storici che si è acquisita nel tempo la “lupa di Francia”, “Fair Isabel” non è certamente una figura da poco come lui sembra dire, e anzi il suo profilo affascina e colpisce ben più di quello del ganzo. Per come ce lo presenta Marlowe, una certa libido del potere sembra sovrastare in Mortimer quella carnale, e parlare d’innamoramento per la regina risulta davvero un po’ troppo candido.

Alla freddezza utilitaristica di lui, lei ribatte:

 

Dolce Mortimer, vita di Isabella,

convinciti che ti amo molto,

e perciò, purché sia al sicuro il principe mio figlio,

che mi è caro come i miei occhi,

agisci contro suo padre come vorrai,

e io volentieri avallerò.

 

Cioè, in sostanza: in primis, Mortimer non tema, il loro rapporto è stabile, sono soci di partito e di letto (sembrano rassicurazioni agli alleati di governo); in secundis, questo non lo autorizza a pensare di soppiantare suo figlio, il che fa sospettare che Isabella conosca il proprio pollo e le sue tentazioni; in tertiis, del marito non si cura, può anche essere eliminato.

Lui risponde che vorrebbe però sentire che è stato deposto. Per la Storia, il re viene in effetti deposto dal Parlamento, ma su basi giuridiche che al tempo lasciano interdetti parecchi esperti: da un momento all’altro i suoi partigiani potrebbero poi farlo evadere, ed Edoardo si è fatto la fama di sovrano vendicativo. Insomma, si può capire che Mortimer non sia tranquillo.

Ma arrivano un messaggero e il vescovo di Winchester: le notizie da Killingworth riportano che l’ex-re è in “salute, […] ma colmo di melanconia, e Isabella commenta “Ahimè, povera anima, vorrei / poter alleviare il suo dolore”. Ipocrisia? Così sembra in Marlowe, difficile dire per il prototipo storico. Poi, congedato il messaggero, il vescovo di Winchester spiega che Edoardo “ha consegnato la corona di sua volontà” e con Lord Berkeley – a sua volta da lui impietosito – ha abbandonato Killingworth (Domenica delle Palme 1327) per il nuovo luogo di custodia. Giunge però voce che l’irrequieto Edmund stia complottando per liberare il fratellastro… Isabella ordina allora di far custodire il coniuge da qualcun altro meno benevolo. Visto che il re ha abdicato, Mortimer si fa lasciare il sigillo reale, poi fa rimuovere anche il troppo pietoso Berkeley, e per sventare il complotto convoca Matrevis e Gurney – per la storia due gentiluomini, il barone Sir John Maltravers (1290?-1364) e Sir Thomas (Gurney) de Gournay II (1290-1333), qui sostanzialmente degradati a bruti carcerieri e sicari. Quanto all’ex-re, verrà “trasferito in un luogo / che nessuno dovrà conoscere tranne noi” (tratteniamo memoria anche di questa informazione).

Isabella vuole però capire quale sicurezza resti per loro e per il figlio fin quando il marito sarà vivo. Evidentemente non è il ragazzo a rischiare da parte di suo padre, dunque il riferimento sembra dettato da una mera decenza di comunicazione. Mortimer le domanda se voglia che il marito venga fatto fuori subito: sì, risponde lei, “ma non per mio tramite”. Lei è la mente, e se di norma impartisce ordini fingendo di volere l’opposto, nel privato con Mortimer può esporsi un poco di più.

Allora Mortimer incarica i due figuri convocati di scrivere una lettera a Lord Berkeley perché consegni Eduardo a loro; quindi, dopo aver raccomandato “di farlo languire, e mai una parola gentile / né uno sguardo benevolo” – la compassione fa sopravvivere – onde evitare che Edmund lo liberi, dà l’ordine di trascinarlo su e giù tra Berkeley e Killingworth, logorandolo e fiaccandolo tutto il possibile. E la viperina Isabella invia al marito un gioiello con la favoletta che invano ha “cercato di alleviare il suo dolore” quale pegno del suo amore… Così in Marlowe, ma nella realtà sappiamo che Isabella manda davvero doni al marito prigioniero. Non necessariamente in spirito di ipocrisia: la situazione è in effetti complessa.

Al processo tenutosi nel 1330 per ricostruire i fatti della morte di Edoardo, Thomas di Berkeley riferirà che gli era stato ordinato di cedere il controllo di Berkeley Castle a Maltravers e Gournay. Pur con pessimi sospetti, s’era dunque ritirato in un’altra sua proprietà, il maniero di Bradley, e il re morirà al castello di Berkeley durante la sua assenza. È possibile che questa sia la verità (le sue testimonianze, prima e dopo, non appaiono completamente allineate), ma Berkeley è genero di Mortimer e dunque un po’ sospetto. Assolto dalle accuse (benché biasimato per negligenza), passerà un decennio nell’ombra, prima di tornare al favore del re.

Usciti i due figuri, entrano il principe ed Edmund. Mortimer e Isabella si scambiano parole a bassa voce: brava, hai recitato bene; dì qualcosa di carino al ragazzo, e tratta Edmund amichevolmente come se fosse tutto a posto. Poi con Edmund simulano dispiacere per l’abdicazione del suo fratellastro, Mortimer propone che Edmund assurga a Protettore del ragazzo, lui declina l’offerta perché a proteggerlo sarà la regina. Il ragazzo interviene: si lasci sia suo padre a regnare; se davvero è volere di lui che la corona passi sul suo giovane capo, glielo facciano incontrare. Al “Sì, giusto” di Edmund, la coppia fatale tenta di screditarlo davanti al ragazzo – Edmund si era ribellato con loro, adesso fa il santerellino? – ma il principe mostra ostilità verso Mortimer che lo afferra per portarlo via. Edmund capisce che deve affrettarsi a liberare l’ex-re e vendicarsi dei due amanti.

Con la scena terza, ricompare il povero Edoardo, che i due inviati di Mortimer mostrano di tranquillizzare sugli sfibranti spostamenti a cui lo costringono. Il prigioniero si domanda quando il cuore di Mortimer “sarà sazio di sangue” ed esorta a prendere il suo cuore e darlo ai due amanti – gli contestano che no, la regina vuole la sua sicurezza, i suoi rovelli accrescono inutilmente la sofferenza… Al che lui ribatte che a far montare la sua infelicità è il trattamento riservatogli, tenuto com’è nel fetore, affamato, senza conforto… gli forniscano acqua almeno per bere e lavarsi dagli escrementi. Gli danno allora “dell’acqua di fogna, come ci è stato ordinato” e si apprestano a rasarlo – per non farlo riconoscere da chi tenti di liberarlo. Tra i lamenti straziati di Edoardo, questi ricorda gli antichi favoriti, morti per causa sua come per causa loro sta soffrendo. Si apprestano a entrare a Killingworth con il buio, quando arriva Edmund: Edoardo supplica di aiutarlo a liberarsi, ma i due figuri afferrano il fratellastro del re, “Legatelo e trascinatelo a corte” ordina Gurney. E Matrevis chiarisce “La corte è dove sta Mortimer”. I giochi sono ormai chiari.

Nella scena successiva, però, Mortimer sta considerando che per la propria sicurezza, “The king must die”. Il popolo ora si sta impietosendo, e d’altronde chi procura la morte di Edoardo dovrà certamente pagarla appena il figlio di lui sarà grande: dunque occorre muoversi con astuzia… Ha fatto ideare una lettera polisenso, che “contiene la sua morte, / e tuttavia ordina di salvargli la vita. […] / Edwardum occidere nolite timere, bonum est”. Cioè “Non temete di uccidere Edoardo, è bene che egli muoia”; ma spostando solo la virgola diventa “Edwardum occidere nolite, timere bonum est”, a significare non ammazzatelo, è bene temere il peggio… La manderà senza punteggiatura, in modo che, ritrovata dopo la sua morte, a pagare siano solo gli esecutori materiali e non i mandanti. Quanto al messaggero che porterà il dispaccio “ed eseguirà il resto”, tale Lightborn, verrà eliminato appena terminato il compito. Dunque Mortimer lo riceve, il sicario ha pensato come fare in modo che nessuno possa ricostruire la causa di morte. È, puntualizza, un esperto del mestiere, anche con una certa virtuosistica fantasia:

 

Ho imparato a Napoli ad avvelenare i fiori,

a strangolare con un filo di lino cacciato in gola,

a perforare il gozzo con la punta di un ago,

o, mentre uno dorme, a soffiare

con una piuma un po’ di polvere nelle orecchie;

o ad aprirgli la bocca e versargli dentro del mercurio.

Ma stavolta ho un metodo più plateale.

 

Ma, a Mortimer che s’informa, spiega che preferisce tenersi il suo segreto professionale. Poi riceve la lettera, il lasciapassare e apprende che troverà un cavallo ogni dieci miglia. La scena è storicamente problematica: non esiste prova che sia stato Mortimer a diramare l’ordine, anche se questa sarà la versione normalmente presentata.

Segue monologo di Mortimer, che ci toglie ogni dubbio sul profilo del personaggio (almeno come riletto da Marlowe):

 

Il principe lo governo, la regina la comando,

e con un inchino basso fino a terra,

il più orgoglioso dei pari mi saluta quando passo.

Sigillo, cancello, faccio quello che voglio.

Sono temuto piuttosto che amato.

Che mi temano, e quando sono in collera,

che tutta la corte impallidisca.

 

Al di là del richiamo nell’oderint dum metuant al Principe di Machiavelli, è abbastanza evidente che in forma più corrucciata Mortimer, favorito dalla regina, riproduca il meccanismo di abuso del potere dei favoriti del re: come a dire che dalla miseria di un potere prostituito gli esseri umani faticano a uscire. Continua proclamando con orgoglio la proprio durezza, la propria ipocrisia – che gli fa accettare quasi con resistenza quel ruolo di Protettore cui in realtà ambiva – e la certezza che ormai governerà indisturbato il regno assieme alla regina, perseguitando nemici e favorendo amici. Poi suonano le trombe dell’incoronazione del giovane Edoardo III, cui si augura lunga vita e di cui si proclama il buon diritto.

Fanno entrare Edmund di Kent, prigioniero, che protesta come abbiano costretto il principe a mettersi la corona. Mortimer ordina di decapitarlo, il nuovo re tenta di salvargli la pelle ma non è ancora abbastanza forte da imporsi, ed Edmund viene trascinato al patibolo. La figura di Edmund è estremamente interessante proprio nella sua ambiguità. Sappiamo dalle cronache che Edoardo I intendeva offrire a Edmund ampie concessioni di terre, ma all’improvvisa morte del re il suo successore ne aveva disatteso i propositi, preferendo arricchire Gaveston. Edmund rimase però leale al fratello, fu creato conte di Kent e svolse incarichi importanti e delicati. Edmund prese la via della ribellione quando la situazione coi Despenser era diventata inaccettabile, accettò di esiliarli, ma in seguito sostenne di averlo fatto sotto costrizione e partecipò al consiglio che annullava l’esilio. In compenso era nella giuria che condannava Lancaster, come – più avanti – Andrew Harclay, reo di aver firmato senza il consenso del re una pace con la Scozia (in un momento difficilissimo), e dunque impiccato e squartato. In seguito Edmund si trovò a cospirare contro il nuovo regime, tirandosi indietro appena in tempo, ma il suo consenso a corte andava calando e a un ulteriore complotto – convinto che Edoardo fosse ancora vivo, ma era un trucco di Mortimer per sgamarlo – finì incriminato per tradimento e giustiziato a ventotto anni. Sembra sia stato difficile trovare qualcuno disposto a giustiziare un membro della casa reale, finché non emerse un assassino condannato – pare lavorasse alla pulizia delle latrine – che in cambio della grazia portò a termine il compito (1330). L’uccisione di Edmund contribuirà probabilmente a spingere Edoardo III a ribellarsi a Mortimer, e più avanti il re cercherà di rimediare agli strascichi della vicenda. Ma al di là della lealtà a Edoardo II – scarsamente contraccambiata sul piano dei riconoscimenti – che muove Marlowe a spingere gli spettatori a un’empatia con le posizioni di Edmund, la sua limitata popolarità in vita, l’abitudine a requisire beni alla popolazione offrendo scarsi risarcimenti, i suoi frequenti cambi di casacca e la sua inaffidabile irrequietezza lo rendono un profilo confusamente ambiguo. Isabella cerca di rassicurare il figlio turbato.

Nella quinta scena, Matrevis e Gurney si chiedono perplessi come Edoardo non muoia, imprigionato com’è in una cripta con l’acqua delle fognature alle ginocchia e un odore che intossicherebbe chiunque. È robusto, dunque pensano di vessarlo ancora sul piano psicologico; ed è allora che arriva Lightborn (“portatore di luce”, come Lucifero). Porge la lettera, e i due compari intuiscono che è stata omessa apposta la punteggiatura; poi il sicario mostra anche il lasciapassare, e capiscono che dopo che avrà soppresso il re dovranno eliminarlo. Gli sporgono le chiavi, gli indicano dove il re sia prigioniero: faccia come Mortimer ha ordinato. Il sicario li allontana, ma restino nei paraggi. Si assicurino “che nella stanza accanto ci sia un fuoco”, gli procurino “un’asta, e che sia arroventata”, più una tavola e un cuscino di piume – gli porteranno tutto quando li chiama.

Aperto il sotterraneo, anche il sicario resta sconcertato dall’odore; finge di recare liete notizie, ma Edoardo ha capito che viene ad assassinarlo. Lightborn simula d’essere stato inviato dalla regina per controllare come sia trattato; l’ex-re gli spiega d’essere in piedi da dieci giorni in quella sentina (la dimensione scatologica della materia, per Lutero), oltretutto impossibilitato a dormire dal fatto che qualcuno suona di continuo il tamburo. “E dunque sul corpo del re sodomita cadono gli escrementi di chi, in nome della ‘patria’ e del ‘bene comune’, dichiara di disprezzare la carne, la natura, la terra” (Camerlingo, cit.). Il Cristo martoriato a cui Edoardo viene avvicinato non è quello della teologia della regalità ma quello delle eresie antitrinitarie (ariani, anabattisti, sociniani…), exemplum etico tutto umano ma considerato blasfemo. Nutrito a pane e acqua, col corpo intorpidito, Edoardo ormai delira: il nuovo venuto riferisca alla regina che lui non aveva quell’aspetto quando aveva giostrato per lei in Francia… Il riferimento ha un sapore straziante a un mondo perduto di feste e tornei, a un medioevo da leggenda contrapposto a quello di sterco e tradimenti in cui Edoardo è precipitato.

Poi viene portato il letto: invitato a stendervisi, Edoardo ravvisa la morte negli sguardi dell’altro, “Vedo la mia tragedia scritta sulla tua fronte”. Chiede solo un momento per raccogliersi in preghiera, prima che il colpo fatale lo raggiunga. Il sicario continua la commedia, finge di non avere cattive intenzioni, le sue mani non si macchieranno ora del sangue di un re, e il povero Edoardo si scusa per aver pensato male: gli regala l’ultimo gioiello rimastogli e Lightborn lo esorta a stendersi e riposare. In effetti le palpebre gli cadono, ma si riaprono di continuo per la paura. Immaginando che il tipo intenda assassinarlo, gli permette di restar lì seduto e si addormenta. Salvo ridestarsi angosciato un attimo dopo, in un’altalena di strazio, chiedendogli sempre di restare per un po’. Spiega:

 

Qualcosa mi ronza nelle orecchie

e mi dice che se dormo non mi sveglierò più.

È questa paura che mi fa tremare così;

e perciò dimmi, perché sei venuto?

 

“Per liberarti della vita” risponde a quel punto il sicario, chiamando Matrevis. Stremato, Edoardo si affida a Dio perché riceva la sua anima. Matrevis e Gurney arrivano con la tavola, il cuscino di piume e l’asta di ferro. Il re chiede d’essere risparmiato oppure ucciso in un attimo: gli premono sopra la tavola “ma non troppo, / per non lasciare segni sul suo corpo”, per trattenerlo, e intanto il sicario lo penetra con l’asta arroventata (un’anti-lancia di Longino, come il dungeon è un Golgota capovolto, idealmente a riscattare anche la parte bassa del sodomita). Il re grida, quasi un’allusione all’ultimo grido sulla croce, tanto forte che i due compari decidono di allontanarsi a cavallo dal villaggio che deve aver sentito: così si consuma l’ultimo atto di una passione e morte la cui sacertà è insieme simbolica (ma priva di trascendenza) e umana, troppo umana – e sulle modalità del delitto dovremo tornare. Poi, secondo gli ordini, Gurney pugnala Lightborn e poi si caricano il corpo del re per portarlo a Mortimer. In realtà il corpo venne imbalsamato a Berkeley Castle, un’operazione certamente non rapida (e che comportava una completa copertura di viso e corpo in panni cerati): ma il corpo mostrato fuggevolmente a testimoni sembra non apparisse imbalsamato. Probabilmente mal conservato, non è più riconoscibile al tempo del funerale, tre mesi dopo, quando si sarà costretti a mostrare per le strade un’effigie funebre in legno.

Dagli interrogatori dell’inchiesta risulterà che i responsabili diretti del crimine sarebbero stati tal William de Ockle (o Ockley), profilo sfuggente non citato da Marlowe, e Gurney: per quanto Maltravers non potesse ignorare cosa fosse accaduto a Berkeley Castle durante la notte tra 21 e 22 oppure tra 23 e 24 settembre, verrà accusato non dell’omicidio di Edoardo (come Berkeley, anche lui non si trovava lì), ma di aver progettato la morte di Edmund di Kent.

La scena sesta inizia appunto con Matrevis di fronte al mandante. Che gli impone l’alternativa di tacere o farsi ammazzare: ma Gurney è fuggito (storicamente in Spagna, poi a Napoli dove sarà arrestato, quindi a Bayonne dove morirà di malattia prima di essere tradotto in Inghilterra). Matrevis chiede il permesso di defilarsi a sua volta e Mortimer gli concede di fuggire “tra i selvaggi”, lontano dagli uomini. Per inciso, di Ockley si perdono le tracce, dai documenti non sappiamo se venga braccato come Gurney e oggi emergono nuove ipotesi sul suo ruolo; mentre Maltravers dopo anni nelle Fiandre e buoni servizi all’Inghilterra otterrà l’annullamento della messa al bando e la restituzione delle sue terre.

Ma – torniamo a Marlowe, che non parla del Trattato di pace di Northampton, concluso dalla coppia fatale con la Scozia e molto criticato, dello strappo con Enrico di Lancaster o del tenore di vita dispendioso condotto dalla coppia, peraltro ricchissima – Mortimer resiste come una quercia e gli altri restano semplici cespugli a suo paragone: non teme nessuno, vuol vedere chi osi accusarlo di quella morte. Peccato che irrompa Isabella, il figlio ha saputo della morte di Edoardo e che l’hanno ucciso loro. Mortimer non si preoccupa, “è ancora un bambino”, ma Isabella riferisce che, sconvolto e disperato, giura di vendicarsi di loro. È andato alla “camera del consiglio” per chiedere il soccorso dei pari. Anzi, sta arrivando: “Ora Mortimer, comincia la nostra tragedia”.

Marlowe schematizza la scena, che si svolse al castello di Nottingham dove Edoardo con un manipolo di fedeli colse di sorpresa e arrestò Mortimer (19 ottobre 1330). Nel dramma potremmo invece essere a Londra: sostenuto dai Lord, il giovane re affronta quel “farabutto” di Mortimer, non gli fa paura, il padre è morto per il suo tradimento e sul suo feretro sarà deposta la testa del fellone. Edoardo zittisce la madre che teme abbia cospirato con Mortimer; questi respinge con sprezzo l’accusa, ma il giovane re – che sente in sé la voce del padre – brandisce la lettera di Gurney scritta a commissionare il delitto. Mortimer protesta di fargli vedere l’uomo che avrebbe mandato, ma Edoardo ordina di impiccarlo e squartarlo, poi di riportargliene la testa. Isabella intercede per lui, Mortimer fa il duro (“Signora, non supplicate; preferisco morire / piuttosto che chiedere a un ragazzino / di risparmiarmi la vita”), poi riflette che è giunto fino al punto più alto concessogli dalla ruota della Fortuna – dunque non c’è altra possibilità che cadere. Si accomiata allora dalla “bella regina” esortandola a non piangere per lui, “che disdegna il mondo, e che, come un viaggiatore, / va alla scoperta di paesi ancora sconosciuti”. Viene trascinato via, e non ci mancherà. Probabilmente su preghiera di Isabella (e forse sollecitazione del papa), Edoardo alla fine gli eviterà lo squartamento, limitandosi a farlo impiccare a Tyburn il 29 novembre 1330 e penzolare due giorni e due notti.

Isabella tenta ancora di intercedere per Mortimer, ma il figlio – sorta di piccolo Amleto – vi vede solo una conferma della complicità nel delitto. Quando lei cerca di negare, uno dei Lord avalla le accuse. A quel punto il figlio la spedisce alla Torre in attesa di un’ulteriore inchiesta. Ma se risulterà colpevole, non pensi di trovarlo “fiacco o pietoso”. Lei tenta ancora di giocare la carta della madre sofferente, della vedova inconsolabile e della madre del re, ma viene portata via, augurandosi che la morte le sopraggiunga presto. Storicamente, al processo di Mortimer, Isabella appare come una mera comparsa e non viene fatto cenno alla loro relazione: va detto però che la regina sembra aver avuto un crollo nervoso alla caduta dell’amante.

La testa di Mortimer viene recata a Edoardo e lui la fa posare sul feretro del padre. Poi si fa portare gli abiti da lutto, insulta quella testa mozza a cui non ha potuto impedire un “mostruoso tradimento” ed esorta i presenti a piangere con lui. Quindi offre allo spettro assassinato del padre quella testa, con lacrime “testimoni del mio dolore e della mia innocenza”. Exeunt.

Così Marlowe; interessante, liberissima e provocatoria la chiusura del film di Jarman. Lì Edoardo, gettato in una segreta, viene impalato dall’attizzatoio rovente: ma la scena figura come un incubo da cui il re prigioniero si risveglia. Il boia, quando arriva, getta via l’arma e bacia l’uomo che era stato mandato a uccidere: l’attizzatoio svela dunque la sua natura simbolica di sostituzione dell’atto sessuale.

Intanto, Isabella e Mortimer si godono un breve trionfo. Il principe Edoardo, in precedenza sempre trascurato dai genitori e cosciente del loro dissidio, si è tinto le labbra con il rossetto della madre e ne ha indossato gioielli e scarpe: ascoltando musica classica sul suo walkman, ballonzola sopra la gabbia che trattiene prigionieri sua madre e Mortimer.

Con gli echi ora del dramma di Marlowe nelle orecchie, guardiamo il ritratto del re nella cattedrale di Gloucester – a sua volta vagamente spettrale, in grazia dell’alabastro, come a ricevere l’offerta del figlio. Descritto di bell’aspetto, qui appare forse idealizzato, tra dignità e sofferenza da martire, come sembrano confermare i due angeli che gli accarezzano i capelli. Vedendolo però nella cattedrale, il visitatore – che si trova in basso – coglie solo il profilo fine della figura, barba e capelli stilizzati con elegante perizia. Mentre esaminato in foto dall’alto, il ritratto risulta invece un po’ impressionante, cadaverico, quasi dopo la pressione dell’asse (o di un cuscino) che l’avrebbe premuto contro il letto. Questo ritratto fa parte integrante di un processo di culto del martire Edoardo II, incoraggiato dai monaci locali (si parlerà di miracoli) e in seguito sostenuto da Riccardo II che tenterà di far canonizzare l’antenato, tale da avere echi anche molto distanti dall’Inghilterra: ma il seguito della storia sarà anche più curioso.

Oggi infatti la versione più comunemente accettata è che il re deposto sia morto a Berkeley Castle non a causa del fatale attizzatoio arroventato (una probabile fantasia legata alla sua fama di sodomita), ma più plausibilmente soffocato appunto con un cuscino. Però anche il famoso ordine scritto senza virgola appartiene alla leggenda e in realtà non esiste alcuna prova concreta circa un ordine di ucciderlo o su chi l’avrebbe emesso: Edoardo può essere morto per cause naturali o accidentali – come in effetti fu detto – dopo gli strapazzi subiti o magari in un tentativo di fuga.

Tuttavia c’è un’altra possibilità: e torniamo a due espressioni di Marlowe che ci eravamo appuntati e che in via di suggestione potrebbero tradire voci a lui giunte, anche se non utilizzate in chiave drammatica per il senso stesso della sua tragedia. Il primo è “Due re in Inghilterra non possono / regnare allo stesso tempo”: può sembrare una banalità, ma esiste una lettura che vorrebbe Edoardo segretamente uscito vivo dal castello, spostato come un pacco postale da un luogo segreto a un altro (Corfe, l’Irlanda), proprio per permettere a Mortimer e Isabella di imporre il manipolabile figlio sul trono – così pensa lo storico (Ian) Mortimer, fautore dell’idea di una falsa fuga organizzata da (Roger) Mortimer. Il secondo passo riporta del resto che Edoardo dovesse essere “trasferito in un luogo / che nessuno dovrà conoscere tranne noi” – il che però non sembra attagliarsi perfettamente al caso dei castelli di Kenilworth e Berkeley. In alternativa il re deposto sarebbe fuggito con l’aiuto di William Ockley (in questo caso non sicario ma complice), e il corpo mostrato e sepolto a Gloucester sarebbe stato quello di un custode assassinato dai responsabili della prigionia per evitare di essere puniti, o un sosia del re o uno dei rapitori: così con sfumature diverse Paul Doherty e Alison Weir, sulla base della lettera – a volte considerata autentica, a volte liquidata come ingegnoso e fraudolento mezzo di ricatto – inviata a Edoardo III (circa 1337) da qualcuno che si presentava come il presbitero genovese Manuele Fieschi.

A detta di questo testo l’ex-re, liberato dopo la morte di Mortimer, in panni di pellegrino sarebbe giunto ad Avignone per incontrare il papa; poi si sarebbe ritirato a vita eremitica presso Cecima nella diocesi di Pavia (c’è una tradizione secondo cui un re d’Inghilterra sarebbe sepolto lì ed esiste una tomba medievale vuota considerata il luogo della sua sepoltura prima che il suo corpo venisse rimpatriato in Inghilterra dal figlio), plausibilmente all’abbazia di Sant’Alberto di Butrio, Ponte Nizza. Addirittura Edoardo III avrebbe incontrato un uomo chiamato Guglielmo il Gallese (William le Galeys) a Coblenza nel 1338, che sosteneva di essere Edoardo II e che verrà trattenuto a spese del re senza che nessuno protesti l’assurdità di simili pretese: un’ipotesi è che l’uomo fosse in realtà William Ockley, che si sarebbe finto l’ex-re per confondere le acque e proteggere Edoardo ormai ritirato a vita religiosa. In tutti questi casi sarebbe apparso conveniente considerare morto Edoardo – non solo a Isabella & Mortimer, ma al figlio stesso che li aveva soppiantati. A parte un’altra lettera, dell’arcivescovo di York al sindaco di Londra, per cui nel 1330 circolavano voci che il re fosse ancora vivo, l’annuncio ufficiale di un suo omicidio emerge la prima volta solo nelle accuse a Mortimer, una fonte non certamente neutrale.

Ora, se la possibilità che Edoardo II sia sopravvissuto alla prigionia non può essere scartata in toto, sembra però difficile pensare che la coppia fatale – dopo una consumata mattanza degli avversari – mostrasse la delicatezza di accettare un rischio del genere a proposito del più pericoloso. Ian Mortimer risolve la questione presentando un’Isabella ancora innamorata del marito (la damnatio memoriae di lei può essere in effetti frutto di una campagna scandalistica) e il suo partner d’avventura avviare una finzione, la morte di Edoardo, che sarà cavalcata anche più radicalmente dall’erede al trono. Salvata la situazione del regno dall’avventuriero Mortimer, dal padre pasticcione e dai baroni più o meno compromessi, la finta morte del predecessore avrebbe insomma permesso di resettare tutto, con la benedizione del papa.

La tesi di Ian Mortimer, presentata fin da un articolo del 2005 e ribadita nel peraltro ottimo studio The Perfect King. The Life of Edward III, Father of the English Nation (Jonathan Cape, 2006) e le altre sulla sopravvivenza di Edoardo II sono state comunque assoggettate a dure critiche. Del resto, è fenomeno non raro che millantatori si fingano re “scomparsi” (dal falso Smerdi in Persia ai tre falsi Dimitri in Russia ai falsi Delfini di Francia…) e non sono mancati falsi Elvis e altri campioncini da Storia universale dell’infamia: persino per l’identità di Elisabetta I si sarebbe parlato di un travestito Ragazzo di Bisley sulla cui disinvoltura sessuale divagherà Bram Stoker in Famous Impostors e forse giocherà liberamente Virginia Woolf per progettare Orlando.

A tener ferma la versione del regicidio, resta però difficile spiegare come Isabella (che dopo un iniziale internamento a Berkhamsted e poi a Windsor, potrà tornare al suo Castle Rising in Norfolk) riesca a mantenere un certo potere, un dispendiosissimo tenore di vita ed enormi ricchezze, anche se alla fine prenderà l’abito delle Clarisse e si farà tumulare con il mantello delle nozze e il cuore del discusso marito; e come Edoardo III mostri curiosa condiscendenza verso Berkeley e Maltravers – tutti coinvolti nella denunciata morte di suo padre. Liberalità di un re ormai saldo sul trono o coscienza di una finzione (abbastanza) ben architettata? Resta l’oggettiva difficoltà per la storiografia tradizionale di accogliere un simile approccio revisionista, fondato sull’esiguità delle prove di morte del re (esigue, va però detto, come in tante altre ricostruzioni storiche); ma anche l’oggettiva difficoltà di distaccarci dalla grande tragedia allestita da Marlowe, e dal dramma umanissimo del suo Edoardo. Potenza, in fondo, della letteratura.

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Le tristi storie delle morti dei re (IV) https://www.carmillaonline.com/2024/10/05/le-tristi-storie-delle-morti-dei-re-iv/ Sat, 05 Oct 2024 20:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84704 di Franco Pezzini

I re e la strega

(qui, qui e qui le parti precedenti)

Berkeley, Gloucestershire, 2010. Una cittadina di mercato, poche migliaia di abitanti: non particolarmente pittoresca quanto ad abitato, ma merita farci un giro. Passiamo davanti alla casa, ora museo, di  Edward Jenner (1749-1823), ma senza fermarci: siamo qui per cercare due costruzioni particolari.

La prima è la chiesa. Deve trattarsi di St Mary the Virgin, anche se l’attuale è del XVIII secolo: sorge sul sito di una chiesa medioevale – XII secolo, con aggiunte successive – preceduta pare da una sassone (le pietre riutilizzate [...]]]> di Franco Pezzini

I re e la strega

(qui, qui e qui le parti precedenti)

Berkeley, Gloucestershire, 2010. Una cittadina di mercato, poche migliaia di abitanti: non particolarmente pittoresca quanto ad abitato, ma merita farci un giro. Passiamo davanti alla casa, ora museo, di  Edward Jenner (1749-1823), ma senza fermarci: siamo qui per cercare due costruzioni particolari.

La prima è la chiesa. Deve trattarsi di St Mary the Virgin, anche se l’attuale è del XVIII secolo: sorge sul sito di una chiesa medioevale – XII secolo, con aggiunte successive – preceduta pare da una sassone (le pietre riutilizzate nella costruzione attuale presentano incisioni appunto sassoni). La storia consumata tra queste arcate – o meglio, quella della chiesa precedente – mi aveva inquietato da ragazzino, quando mi ero comprato il libretto di Peter Haining, Stregoneria e magia nera (I colibrì Mondadori 1972: l’originale inglese era dell’anno prima): lo strepitoso corpus d’illustrazioni di Jan Parker vi dedicava una tavola indimenticabile. Riguardava la storia della strega di Berkeley, una leggenda medievale inglese trasmessa da Guglielmo di Malmesbury (c. 1095 – c. 1143) nel suo Gesta Regum Anglorum dedicato alla regina Matilda (figlia di Malcolm III di Scozia, moglie di Enrico I d’Inghilterra): dove la storia dei re diventa il filo rosso, il collettore e la giustificazione di una colossale raccolta di informazioni da ricordare, storie tradizionali, leggende.

Giunta alla fine della vita dopo aver goduto ricchezza, lasciva bellezza e una pirotecnia di peccati grazie alla magia nera, la strega in questione – il nome è ignoto – aveva finito col confessare ai figli le fonti non proprio commendevoli del suo successo. Ora i demoni – sapeva bene – stavano venendo a prendersela con tutto il corpo, quindi era necessario che i rampolli la vegliassero tre notti in chiesa per seppellirla in sicurezza il quarto giorno. Diramava quindi una serie di istruzioni che dovettero apparire bislacche – cucire il corpo nella pelle di un cervo, legare la bara con tre enormi catene… –  e insomma che fai? la mamma ti chiede… per cui eccoli lì a seguire il rituale. Ma invano: in due notti di fila, i demoni sfondarono le porte della chiesa e spezzarono due delle catene. La terza notte, un diavolo “orrendo nell’aspetto” entrò con l’aria da bullo, spezzò la terza catena e trascinò via la donna: la caricò a cavallo e scomparve alla vista, lasciandosi dietro solo le strazianti grida di lei.

Presentata in contrappunto alla storia della morte di Gregorio VI (in carica 1045-1046), a opporre la sorte oltremondana di un uomo devoto e di una donna peccatrice – si noti il sesso dei due soggetti – la storia sarebbe frutto di testimonianza di un uomo che la vide accadere, dunque in apparenza poco precedente la data della trascrizione, ma il racconto è interessante per i dettagli. La strega, specializzata nell’interpretare i comportamenti degli uccelli, viene a sapere del suo prossimo fato dal verso di una taccola, e qui può emergere la cultura classica – le forme divinatorie dell’antica Roma – del dotto trascrittore; una storia simile è reperibile nei Dialoghi di Gregorio I, a proposito della triste sorte di un ecclesiastico milanese; la vicenda di un cadavere posseduto da un demone e cucito in una pelle animale si trova nel De miraculis sancti Eadmundi di “Ermanno l’Arcidiacono” (chi sia non è chiaro)… dove la cucitura di un corpo in una pelle di cervo o vitello a fini apotropaici sembra rimandare a un passato assai remoto, forse sciamanico, o a quel sottomondo esplorato da Carlo Ginzburg in Storia notturna. Posto che Robert Southey riprenderà la storia in The Old Woman of Berkeley. A Romantic Legend (1798), il tema rimanda a un passato remotissimo (neolitico?) sulla veglia al morto minacciata da creature sovrannaturali: se ne trovano tracce nel Satyricon, in Apuleio e poi, in contesti cristianizzati, molto dopo Guglielmo, con sfumature diverse ma sulla stessa base, ancora nel Vij di Gogol’.

A me ragazzino aveva molto colpito il clima alla Carpenter di quella chiesa assediata, con il brivido di un’inesorabilità sottesa, ma soprattutto la meravigliosa tavola di Parker al testo di Haining che riportava la storia: perduta ormai ogni avvenenza stregata, la fattucchiera, rigida nella camicia da notte, sembra una mummia dai tratti avvizziti. La sorregge con artigli e ali pipistrellesche, con l’aiuto di tre demoni minori, un diavolo enorme dal muso di capra e insieme vagamente equino (il cavallo del rapimento?) stagliato in un ambiente – pavimento a scacchi bianchi e neri, finestra dalla vetrata a rombi – che può evocare una chiesa. Con questo pregresso, entrare nel luogo del fattaccio era dunque un’emozione forte: vetrate lavorate, monumenti alle pareti, il sontuoso sepolcro dell’aristocratico locale Thomas III detto il Ricco, Lord Berkeley e della seconda moglie Lady Katherine, morti rispettivamente 1361 e 1385, con le effigi coricate sul coperchio, rappresentano un quadro che merita una visita a chi venga da queste parti.

Per inciso, Lord Thomas era stato imprigionato in seguito al fallimento di una delle rivolte baronali contro Edoardo II. Verrà liberato nel 1326 alla sconfitta del re, probabilmente su intervento di Roger Mortimer, “il giovane Mortimer” del dramma di Marlowe, di cui Thomas in prime nozze aveva sposato la figlia Margaret (avuta da Mortimer con la moglie Joan de Geneville, e morta 1337). Il che ci riporta a bomba all’Edoardo II. Riprendiamolo in mano.

Atto terzo. Il re sta considerando malinconico che non rivedrà più il suo Gaveston, “I baroni mi sopraffanno con la loro superbia”. Il giovane Spencer lo esorta a reagire, come avrebbe fatto il suo predecessore buonanima, e il re concorda di essere stato fin troppo mite: ma ora ha estratto la spada, e se non gli rimandano il suo Gaveston pareggerà le cime delle loro creste. Bravo, non è più uno scolaretto, commenta il cortigiano Baldock. Ma arriva il padre di Spencer (Hugh le Despenser il vecchio, 1261-1326), augurando lunga vita al re: accompagna una piccola truppa di uomini fedeli al sovrano, per gratitudine di aver accolto a corte suo figlio. Edoardo commosso nomina il giovane cortigiano conte del Wiltshire: poi gli affida l’incarico di acquistare alcune terre, per non farle acquisire ai baroni. Col risultato che presto si riprodurrà una situazione in qualche modo speculare a quella precedente con Gaveston, anche se il giovane Spencer/Despenser ne è la versione persino più estrema e spiacevole (e pagherà un pezzo persino più alto, come mostra una celebre tavola di Loyset Liédet da un manoscritto delle Cronache di Jean Froissart). Nel caso di Spencer non vediamo scene sentimentali col re come quelle – qualunque sia la realtà storica – relative al precedente favorito: la fama pubblica sarà nuovamente di una relazione sessuale foriera di indebiti onori (il giovane Despenser aveva anzi scalzato il favorito in carica dopo Gaveston, Roger d’Amory), ma Marlowe non insiste sul tema. Probabilmente la mancata enfasi sulle ribalderie di Spencer/Despenser è funzionale a conciliare maggiormente lo spettatore con il profilo del re.

Comunque, ecco arrivare la regina con il figlio Edoardo principe di Galles e il francese Levune: la notizia è che il re di Francia (in teoria, considerando la datazione, potrebbe essere Luigi X, detto l’Attaccabrighe, ma va identificato in un successore, Carlo IV il Bello – entrambi fratelli di Isabella), offeso dal re per alcuni mancati omaggi, si è impossessato della Normandia. Isabella appare opaca, svuotata. Preoccupato per Gaveston, il marito non si cura però dei problemi con la Francia, confida che verrà risolto tutto: andranno oltre Manica sua moglie e suo figlio, che pure mette le mani avanti sulla portata limitata del proprio intervento. Edoardo II si occuperà invece del conflitto interno, e Isabella commenta “Guerre innaturali, quelle in cui / i sudditi sfidano il re – Che Dio / le faccia finire una volta per tutte”, e poi si congeda. La solita ipocrita? Nei fatti, la presenza del figlio sembra depotenziare la lupa di Francia. Se nell’atto precedente tra lei e Mortimer era parso profilarsi qualcosa come un innamoramento genuino, al netto della crudeltà dei giochi (“[…] ma pensate a Mortimer, perché lo merita”, “Lo meriti tanto, dolce Mortimer, / che Isabella potrebbe vivere con te per sempre”), rientrata nel ruolo pubblico di madre, Isabella sembrerà dismettere l’amore cortese. L’opacità non è dunque solo una maschera per Edoardo, ma pare segno di fratture in lei – forse presa dall’ansia per l’amante nel campo dei ribelli, forse ricondotta al suo ruolo dalla presenza del figlio.

Viene da pensare a questi tormentosi viluppi di passioni, ambizioni e tragedie proprio a Berkeley dove ci troviamo. Perché il secondo edificio che, lato nostro, richiede assolutamente una visita è il Castello. Le sue origini affondano nell’XI secolo poco dopo la conquista normanna, con una ricostruzione il secolo dopo da parte della famiglia Berkeley e successive modifiche. Visto sotto un cielo grigio in un giorno di pochi turisti ha l’aria cupa, massiccio e coronato da alti camini, a dispetto dei giardini aperti di fronte. L’atmosfera debitamente gotica è accentuata dalla presenza della cella dove tradizionalmente Edoardo II (lo vedremo in prosieguo) passerà i suoi ultimi giorni di vita e forse verrà orribilmente assassinato. In epoche successive il castello verrà arricchito di quadri e arazzi, ma – anche senza lasciarsi prendere troppo dalla suggestione – un clima vagamente inquietante e doloroso regna ancora tra le sale. Leggere qui il dramma di Marlowe permette di coglierne più facilmente le dimensioni angosciose. Proseguiamone la lettura.

Isabella è appena uscita assieme al figlio quando compare Lord Arundel, solo: conferma ciò che il re teme, che cioè Gaveston è morto – Pembroke si era offerto di accompagnarlo dal re, ma poi il favorito è stato rapito da Warwick e rapidamente decapitato in un fossato (19 giugno 1312). Un ritratto emblematico del medesimo Warwick dai Rous Rolls (XV sec.) lo raffigura baldanzoso in piedi, una chiesa in una mano e una bandiera nell’altra, proprio sopra il corpo decollato di Gaveston. Quella fama dovette restargli associata come a Walter Audisio quella di aver ucciso Mussolini.

Spenser esorta allora Edoardo a vendicarsi degli assassini dell’amatissimo favorito. Il re, inginocchiatosi, giura di prendere “per lui vite e teste”: trascinerà corpi e tronchi senza testa dei traditori Warwick e Mortimer “in laghi di sangue / dove potrete sguazzare e ingozzarvi” e tingerà col loro sangue lo stendardo reale. E a quel punto nomina Spencer conte di Gloucester e Lord Ciambellano (1318) a dispetto dei nemici.

Ma arriva un messaggero dei baroni: augurano a lui lunga vita e felicità e gli chiedono di allontanare dalla corte il nuovo favorito, quello Spencer, “ramo putrescente / che uccide la vigna regale”, “pernicioso villano”. Si tenga cari i vecchi servitori e si liberi dei mendaci adulatori. Edoardo caccia però il messaggero imprecando contro i ribelli che “Vogliono decidere loro i giochi, i piaceri, la compagnia del loro sovrano”. Anzi, il messaggero guardi come allontana Spenser: lo abbraccia davanti a lui ed esorta ad avvisarli che li punirà. In effetti, attorno al 1320 la sfacciataggine dello Spencer storico, cioè Hugh le Despenser il Giovane, è ormai senza freni, e grazie alla protezione del re lo troviamo commettere abusi arroganti, violenze brutali, ingiustizie clamorose quanto in fondo stupide – che gli creano infiniti nemici nel regno.

Con inganno, violenze e manipolazioni si impossessa così contro ogni diritto di terre altrui, fa uccidere senza processo il nobile gallese Llywelyn Bren che si era ribellato… insomma, si può capire che con questo quadro (taciuto da Marlowe) il nuovo favorito venga detestato, che si tenti contro di lui un attacco con la magia nera e che, considerato lo scarso effetto della statuetta in cera coperta di spilli, i baroni si rivoltino. E ora alla testa dei soldati a lui fedeli, il re marcia contro di loro.

Qui il testo sembra sintetizzare in pochi passaggi una serie di vicende più complicate, legate alla cosiddetta Despenser War (1321-1322). Storicamente, i Despenser si trovano in breve costretti all’esilio (1321) e mentre Hugh padre ripara in Francia, Hugh figlio non trova di meglio che darsi alla pirateria sulla Manica. Davvero un cattivo soggetto.

I Despenser riescono però a tornare, ricominciano gli abusi e i baroni riprendono le armi.

La scena seconda vede le truppe del re inizialmente in ritirata, sfiancate dal caldo (non è chiaro se questa iniziale rotta del suo esercito adombri in chiave di stenografia di scene la cacciata dei Despenser). Comunque Edoardo si trova davanti i baroni incarogniti: consideri che i suoi adulatori stanno ritirandosi, chiarisce al re il giovane Mortimer. Ma lui, re indegno, preferisce “bagnare / la spada nel sangue dei (s)uoi sudditi / piuttosto che bandire quella compagnia perniciosa”… Entrambe le parti proclamano di avere san Giorgio dalla loro: ma ora la sorte sul campo, a Boroughbridge nello Yorkshire (1322, vi muore Humphrey de Bohun, quarto conte di Hereford, uno dei capi della rivolta) si rivela sfavorevole ai ribelli.

Kent, Warwick, Lancaster e Mortimer finiscono così col trovarsi prigionieri. Il re annuncia che vendicherà l’uccisione di Gaveston a lui tanto caro e Kent, fratellastro di Edoardo, gli ricorda che tutto è avvenuto a tutela di lui e della sua terra – ma viene allontanato. Il re annuncia che la testa di Warwick, assassino di Gaveston, sarà piazzata più in alto delle altre: poi fa trascinare via Warwick e Lancaster, impartendo al vecchio Spencer l’ordine di decapitarli, e fa chiudere Mortimer nella Torre. Per inciso, storicamente a morire a questo punto (1322) è il solo Lancaster, Tommaso Plantageneto: Guy de Beauchamp, X conte di Warwick, era morto nel 1315, avvelenato – si dice – per ordine di Edoardo.

Mentre Sua Maestà esce di scena soddisfatto (proclamando “Oggi Edoardo è di nuovo incoronato re”), Spencer affida ricchezze al francese Levune per comprare la pace ai nobili oltre Manica e negare soccorso a Isabella che conta di imporre il giovane figlio al posto del marito. Sembra peraltro che, più radicalmente, il giovane Despenser cerchi di corrompere i cortigiani in Francia perché assassinino Isabella. A questo punto possiamo forse capire meglio le ragioni di lei: ma Marlowe imprime al dramma una certa direzione e un certo significato, che non deve rispettare necessariamente la storia. Non che alla trama manchi una ricca base di letture storiche, tutt’altro: in particolare The Chronicles of England, Scotlande, and Irelande di Raphael Holinshed, 1577, come arricchite (forse da Abraham Fleming) nell’edizione 1587, dove si enfatizzava il carattere benevolo di Edoardo, la malvagità da dark lady di Isabella… Altre fonti del dramma sono plausibilmente le cronache di Richard Grafton, 1569, e quelle di John Stowe, 1580. Ma Marlowe ridisegna il tutto, attribuendo per esempio a Mortimer un ruolo dall’inizio, rendendolo amante di Isabella ben prima che nell’arrivo in Francia, tacendo una serie di aspetti spiacevoli dalla parte del re e del suo favorito Spencer/Despenser: gli interessa la costruzione di una storia dove cozzano idee diverse di potere, interessi diversi e del tutto umani, dolori e pathos attorno a una figura maledetta in cui in qualche modo si ritrova.

L’atto quarto inizia con Edmund del Kent diretto in Francia a incontrare la regina offesa: accoglie Mortimer in fuga dalla Torre (i Despenser non sono riusciti a convincere Edoardo a farlo giustiziare, storicamente il suo ruolo nella ribellione non era stato così importante – a morire nella Torre nel 1326 è invece lo zio, Mortimer il vecchio, forse di ferite) e procura anche a lui un passaggio oltre Manica. Nella scena successiva Isabella commenta delusa il fallimento dei propri tentativi e il figlio la esorta a tornare assieme in Inghilterra, contando sul proprio influsso sul padre; ma lei non nutre illusioni e alla fine accettano l’ospitalità del gentile Sir John di Hainault.

È allora che Edmund del Kent e Mortimer appaiono, inaspettatamente vivi, portando oltretutto notizie confortanti sull’esistenza di un partito avverso a Edoardo e Spencer. Ci si aspetterebbe che Isabella mostrasse entusiasmo nel ritrovare vivo Mortimer, ma non succede. Ormai indurita, si era forse rassegnata ad averlo perso e ora lo recupera frettolosamente: per cui non ci sarà più spazio per battiti sentimentali di ciglia, ma solo pragmatismo, cospirazioni da amanti semifreddi, un letto senza poesia. Eppure, sul piano della storia, è probabilmente ora che diventano amanti.

Torniamo alla corte inglese, dove Edoardo commenta con gli Spencer, Arundel e qualche cortigiano, le esecuzioni di ribelli in tutto il regno: l’elenco non è fornito da Marlowe forse per non criminalizzare il re, ma la quantità di nomi riportati nelle cronache –  fino a un mese prima “abbaiavano come cani arrabbiati” – aiuta a capire la gravità dello strappo. Se in fondo nella prima parte della tragedia entrambi gli schieramenti avrebbero la possibilità di tornare indietro, ormai qui si è consumata un’ostilità definitiva. Edoardo è comunque convinto che Mortimer sia ancora su suolo inglese, e che in Francia l’aristocrazia corrotta dall’oro inviato non offrirà alcun sostegno a Isabella. Arriva però un messo, e proprio dalla Francia, da quel Levune amico di Spencer: sì, la regina è scontenta per il mancato appoggio, ma ha trovato ospitalità nelle Fiandre presso Sir John di Hainault, e con lei sono Lord Edmund, Mortimer e altri fuoriusciti… per rientrare in armi in Inghilterra. Edoardo è stravolto dalla notizia, suo figlio è stato evidentemente coinvolto dai traditori: decide di raccogliere le proprie truppe a Bristol.

Isabella sbarca coi ribelli su suolo inglese (1326): dichiara la desolazione di essere costretta a una guerra civile, “Ma c’è altro rimedio? / Re mal consigliati sono la causa / di questa sciagura”… e sta proseguendo il discorso quando Mortimer la ferma, quasi infastidito. Chi combatte non si appassiona a grandi discorsi, proclama: sono lì a difendere i diritti del giovane Edoardo erede al trono, vendicarsi dei torti inflitti da suo padre, restituire la dignità alla regina e allontanare i parassiti. Dove certo, lo scambio un po’ brusco può essere funzionale a un teatrino delle parti davanti a tutti, ma potrebbe anche tradire quanto osservato in precedenza: al di là di un letto comune, ciascuno dei due gioca ormai spregiudicatamente per sé.

 

Comunque le truppe dei ribelli s’ingrossano, gli uomini del re vengono travolti: Spencer esorta alla fuga il re, che invece vorrebbe il proprio cavallo (possibile ammiccamento al Riccardo III di Shakespeare) per morire dignitosamente sul campo.

D’altra parte anche il campo dei ribelli conosce tensioni, crisi e ambiguità. Edmund del Kent constata di non essere riuscito a raggiungere il re e si augura che riesca a fuggire, impreca contro Mortimer che vuole la vita di Edoardo e contro se stesso per la propria ribellione. Ma poi ragiona di dover dissimulare la propria furia, a prezzo della vita, “perché Mortimer / e Isabella si baciano e intanto cospirano”. Eccoli, gli amanti fatali, ma non sono baci da romanzo cortese. Lei finge amore per Edoardo, ma “Vergogna su quell’amore che cova / morte e odio”: e meglio non farsi trovare da solo, considera Edmund, per non ingenerare sospetti.

Il clima tossico di questa situazione, efficacemente reso da Marlowe, è molto ben restituito nell’Edoardo II di Derek Jarman, 1991. Culmine ideale di una strana storia teatrale, che vede un notevole successo dalle prime messe in scena (tra il 1591 e il 1593) fino ai primi decenni del Seicento, e poi tre secoli di oblio fino al 1903. Pur con sforbiciature e imbarazzi, ricomparirà in patria varie volte, a Praga nel 1922 ispirando un rifacimento anche più spietato di Brecht poi proposto anche in Inghilterra. Ma anche l’originale di Marlowe torna in scena, per esempio per l’anniversario della nascita dell’autore (1964) in cinque luoghi diversi contemporaneamente, e dalla fine degli anni Sessanta cresce l’enfasi sugli elementi sessuali. Nel 1969 spicca la versione con Ian McKellen nel ruolo di Edoardo, e l’elemento erotico abbinato a quello politico. Altre versioni, più o meno crude, seguiranno e Jarman con la sua versione cinematografica – considerata esempio emblematico di New Queer Cinema – capitalizzerà questa eredità in un dramma durissimo, tra pantomime di scene sessuali e di torture. Le linee temporali vi impazziscono per la compresenza di abiti postmoderni, elementi medievali, la data 1991 su un proclama reale, l’esercito di Edoardo come manifestanti per i diritti omosessuali e la stessa apparizione inaspettata di Annie Lennox che canta struggente Ev’ry Time We Say Goodbye di Cole Porter. Isabella, che cerca di riconquistare il marito e soltanto dopo cede a Mortimer, è una straordinaria Tilda Swinton; Steven Waddington risulta un Edward molto carnale; Nigel Terry (l’Artù di Excalibur, poi Caravaggio per Jarman) è un Mortimer militarissimo e sadomasochista. E il finale, come vedremo, riserva qualche sorpresa.

Torniamo a Marlowe. La successiva entrata della regina la vede ringraziare il Cielo per la vittoria, nominare il figlio reggente del regno e affidare il re deposto alla saggezza dei baroni. Alla sollecitudine di Edmund su cosa sarà dell’ex-sovrano, Mortimer ribatte che deciderà il Parlamento – ma poi, a parte, esorta Isabella a non fidarsi dell’“umore pietoso” del conte di Kent. Compaiono a quel punto il gallese Rice ap Howell (più filologicamente Rhys ap Hywel) e il sindaco di Bristol portando prigioniero il vecchio Spencer, “il padre del licenzioso Spencer, / che, come il fuorilegge Catilina di Roma / ha sperperato la ricchezza e il tesoro d’Inghilterra”. Quest’ultimo, con il re, è fuggito verso l’Irlanda. Mentre Isabella affetta ancora – almeno pubblicamente – amarezza per la sorte del marito, Mortimer fa portar via il vecchio Spencer e incarica Rice ap Howell di braccare i fuggitivi: loro decideranno la sorte dei cortigiani catturati.

Intanto Edoardo e i compagni di fuga vengono accolti nell’abbazia di Neath, dove l’abate tranquillizza il re sulla sicurezza dell’ospitalità. Edoardo vagheggia la serenità di una vita contemplativa (“è un paradiso”), ma si rende conto che sono braccati e supplica i monaci di non tradirli. Però il giovane Spencer ha notato un “tipo torvo […] nel prato” che li ha scrutati a lungo, e gli pare sospetto. Il clima è concitato, Edoardo diviso tra agitazione e desiderio di lasciarsi andare, Baldock provato da una sonnolenza depressa… e all’improvviso, condotti da un falciatore – forse simbolico della morte, comunque è lui il “tipo torvo” – arrivano i soldati di Rice ap Howell e del conte di Leicester (Henry, fratello minore di Lancaster). Rice sollecita Leicester, non c’è tempo da perdere, “Un chiaro mandato garantirà la nostra azione”, e il conte commenta ironico tra sé “Il mandato della regina, sollecitato / da Mortimer! Che cosa non può il galante / Mortimer con la regina?”.

Personalmente il conte avrebbe compassione del re, ma poi si riscuote e arresta Spencer e Baldock – “con nessun’altra qualifica”, cioè non ne riconosce i titoli – per alto tradimento. Specifica di agire “in nome della regina Isabella” e domanda al re perché sia tanto abbattuto. Edoardo offre invano il proprio cuore come riscatto per i suoi amici, e si consuma la separazione dal “dolce Spencer” in nome non del cielo – specifica il re – ma dell’inferno. Nessuna trascendenza o volontà cosmica è in scena nell’Edoardo II, dramma di uomini e loro miserie. Alla lettiga che gli viene offerta esorta di metterlo piuttosto su un feretro: poi getta via il travestimento da monaco ed esce con Leicester. Spencer si abbandona a versi di desolazione (si squarci il cielo e il fuoco abbandoni la sua orbita, “andato è il mio sovrano”) e Baldock lo esorta a rassegnarsi a una vita ultraterrena: vengono però consigliati a conservare i discorsi per il patibolo. E mentre stanno per andare, l’abate si rivolge mellifluo a Rice ap Howell, “Spero che sua eccellenza si ricordi di me” – a suggerire ci fosse un accordo tra loro, alla faccia del diritto d’asilo del luogo sacro. Finisce così, amaramente, l’atto quarto. Preludendo – qui a Berkeley Caste lo tocchiamo con mano, a un’altra triste storia della morte d’un re.

[4-continua]

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Viaggio al termine della città per rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta https://www.carmillaonline.com/2024/06/25/viaggio-al-termine-della-citta-per-rilanciare-il-principio-speranza-di-unutopia-concreta/ Tue, 25 Jun 2024 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82782 di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e [...]]]> di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e urbanistico, insieme al frantumarsi delle speranze popolari postbelliche per un futuro, se non radioso, almeno decente, a distanza di pochi decenni sono stati gentrificati sulle macerie di una working class a cui è stata preclusa l’identità collettiva. Occorre riconoscere che l’Iron Lady dai capelli cotonati insediatasi al 10 di Downing Street non si è limitata a vaneggiare messianicamente della “fine della società” ma, per raggiungere lo scopo, non ha mancato di arrotolarsi le maniche dei suoi eleganti ed impettiti tailleur per smembrare a colpi di mannaia gli ultimi brandelli di un tessuto sociale ormai lacero.

Non poteva essere la scena punk londinese, condannata a venire velocemente recuperata e ridotta a patinato fenomeno di consumo per turisti, a scrivere la colonna sonora del funerale di quella civiltà urbana mostrata agonizzante dal film di Jarman; al requiem ha provveduto l’universo musicale post-punk delle vecchie città industriali del nord, come Manchester e Sheffield , città che hanno conosciuto la durezza e la violenza della rivoluzione industriale e che, in apertura degli anni Ottanta, ai figli della working class e della piccola borghesia hanno potuto offrire soltanto alienazione, inquietudine e smarrimento1.

L’associazione tra il concetto di postmoderno e la sensazione di una civiltà urbana al collasso suggerita da Jarman rappresenta una sintesi efficace di quel “viaggio al termine della città” condotto da Lippolis per indagare la crisi della metropoli e dell’immaginario di un’epoca in via di dissoluzione. Lo studioso delimita simbolicamente il crepuscolo di quella civiltà tra due crolli: la distruzione nel 1972, per volontà degli abitanti, del complesso residenziale razionalista di Pruitt-Igoe a Saint-Louis realizzato da Minoru Yamasaki, e l’abbattimento terroristico delle Twin Towers newyorkesi progettate dal medesimo architetto. È in questo lasso di tempo che, secondo lo studioso, è maturata «la sensibilità di un nuovo tramonto dell’Occidente, ben leggibile proprio attraverso la percezione della vita delle grandi metropoli occidentali» (p. 28).

Lippolis propone dunque una lettura della fine della civiltà urbana e delle sue utopie ricorrendo alle categorie della distopia e dell’eterotopia. Ad arginare il diffondersi, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, della improduttiva sensazione di no future, ha provveduto il mito Smart City con cui il capitalismo ha saputo abilmente rispolverare la categoria dell’utopia che si realizza, seppure per una esigua minoranza privilegiata imponendo ai più le banlieue, quando non le bidonville e gli slum.

Come la quarta rivoluzione industriale rivendica la propria filiazione dalle origini della civiltà delle macchine, cosi Smart City ripropone la stessa idea di vita e di felicità della città novecentesca, una macchina che deve aggiornare le risposte ai bisogni utilitaristici dell’uomo moderno: dalla città-fabbrica alla città-fabbrica digitale. In quanto prodotto dell’urbanizzazione capitalistica del mondo, la Smart City è programmata per continuare a distruggere i residui valori storici della vita urbana come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, a volte, democrazia diretta. Ciò che resta dell’agorà pubblica e della vita activa del cittadino inteso come animale politico si smaterializzerà sempre più nella solitudine interconnessa delle piazze virtuali e del distanziamento sociale, nella distrazione annoiata dei nuovi consumi gestiti dal capitalismo della sorveglianza (pp. 11-12).

Così come James G. Ballard ha mirabilmente messo in scena l’alienazione dello spazio urbano dell’ultimo scampolo di Novecento, Philip K. Dick ha saputo prefigurare le degenerazioni del capitalismo più avanzato che hanno condotto all’inospitalità e all’inabitabilità della Terra, alla disumanizzazione di una società ove la merce esercita un potere totalitario, narcotico e religioso, ai processi di ibridazione tra umani e macchine ed al ricorso all’intelligenza artificiale per controllare e sfruttare quel che resta del Pianeta e dell’umanità.

Le ambientazioni dei romanzi di Dick sono spesso città lugubri – mondi urbani terrestri intrisi di solitudine o tetre periferie di colonie extraterrestri –, luoghi in cui l’umanità, sottomessa a stati di polizia e regimi totalitari retti da grandi multinazionali, vive sonnambula e anestetizzata. In molti di questi ambienti urbani tutto e automatizzato e smart: veicoli volanti autopilotati che interagiscono con i passeggeri, case governate da sistemi di sensori e comandi vocali, elettrodomestici e computer comandati a gesti. Vere e proprie anticipazioni di Smart City che non riguardano solo l’hardware ma anche il suo software: la polizia predittiva, al centro del racconto Rapporto di minoranza da cui e tratto il film di Spielberg, è diventata realtà nei dipartimenti di polizia di mezzo mondo che, in attesa dei precog, per prevenire i reati si affidano all’intelligenza artificiale e ai big data.
Dick associa dunque la catastrofe ambientale, sociale e mentale dell’umanità tardocapitalista a un futuro urbano ipertecnologico, con un’insistenza che suggerisce un significativo nesso di causalità. Questa compensazione di una vita ridotta a sopravvivenza tramite illusioni sensoriali e protesi tecnologiche illumina Smart City come surrogato digitale della città novecentesca (pp. 14-15).

Attraverso sapienti riferimenti cinematografici, musicali e letterari, il viaggio di Lippolis tratteggia la città-fabbrica novecentesca, tetra ma conflittuale, e la luccicante, lobotomizzata Smart City, proponendo un percorso che attraversa la crisi della città come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, persino, di sperimentazioni di democrazia diretta, delineando un declino dell’immaginario urbano che sembra sancire la morte dell’agorà pubblica e il trionfo della “solitudine iperconnessa” delle odierne piazze virtuali, rivelatesi incapaci di offrire partecipazione reale ed agire politico trasformatore.

Mentre lo story telling dominante impone Smart City come “città radiosa” della quarta rivoluzione industriale, Viaggio al termine della città di Lippolis tenta di rilanciare un “principio speranza” che sappia opporsi tanto alla distopia del no future, quanto all’oblio digitalizzato.

In questo senso, se la fantascienza di Dick rimane una guida fondamentale per intuire la distopia che si proietta al di là degli schermi trasparenti di Smart City, dal punto di vista del pensiero politico occorre rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta di cui parlava Ernst Bloch alla fine degli anni Cinquanta, unico antidoto al sentimento angosciante di no future annunciato già alla fine degli anni Settanta e oggi apparentemente inscalfibile. Per fare questo diventa necessario riempire quel “deserto della critica” provocato da decenni di decostruzionismo, tornare alle origini del “vicolo cieco dell’economia” imboccato ormai troppo tempo fa e riannodare i fili di un pensiero che risulta tanto meno lontano quanto più coglieva la radice di quel mondo in cui siamo sempre più immersi: la natura catastrofica del cosiddetto progresso; la sempre più evidente antiquatezza dell’uomo rispetto alla civiltà delle macchine; la non neutralità della tecnologia nell’universo capitalistico e il dilagare pervasivo delle sue nocività; il senso della superfluità della vita umana rispetto al totalitarismo dell’homo economicus; la passività, l’isolamento e l’annientamento di ogni esperienza comunitaria indotti dalla mercificazione di ogni aspetto della vita; la distruzione avvilente della plurisecolare morale popolare di giustizia sociale, la common decency, a opera dell’ideologia e della neolingua progressiste (pp. 16-17).


  1. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici, in “Carmilla online”, 17 ottobre 2021; Gioacchino toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Immaginari ed eredità, in “Carmilla online”, 19 ottobre 2021. 

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