democrazia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Non bisogna mai tornare indietro, nemmeno per prendere la rincorsa https://www.carmillaonline.com/2024/04/10/mai-tornare-indietro-nemmeno-per-prendere-la-rincorsa/ Wed, 10 Apr 2024 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81795 di Sandro Moiso

City Lights e Collettivo Adespota (a cura di), Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 400, 25 euro

Per battere Franco, occorreva prima battere Companys e Caballero. Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio che sorgesse dai comitati di base dei lavoratori […]. L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia. (Manifesto dell’Union Communiste, Barcellona, giugno 1937)

Il titolo di questa [...]]]> di Sandro Moiso

City Lights e Collettivo Adespota (a cura di), Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 400, 25 euro

Per battere Franco, occorreva prima battere Companys e Caballero.
Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio che sorgesse dai comitati di base dei lavoratori […]. L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia. (Manifesto dell’Union Communiste, Barcellona, giugno 1937)

Il titolo di questa recensione, ripreso da Andrea Pazienza, serve a rendere bene l’idea del contenuto del testo appena pubblicato dalle Edizioni Colibrì e della necessaria e irrinunciabile radicalità dell’opposizione di classe al capitalismo, alle sue guerre e ai suoi sgherri fascisti, in divisa o meno che questi siano. Ma anche a ricordare, a un mese dalla sua scomparsa, Stefano Milanesi, militante NoTav e rivoluzionario, al quale questo libro sarebbe probabilmente piaciuto.

In un’epoca di ritornante e ammorbante dibattito politico e mediatico sul pericolo rappresentato dal fascismo per l’ordine democratico e il buon vivere civile, in entrambi i casi “borghesi”, la lettura dei testi contenuti nella raccolta curata dalla Calusca City Lights e dal Collettivo Adespota si rivela assolutamente necessaria, se non indispensabile ed essenziale.

Accompagnati da un lungo saggio, interessante quanto appassionato, di Gilles Dauvé (alias Jean Barrot), i diciassette testi che compongono l’appendice documentaria del volume spaziano dalle posizioni espresse da Amadeo Bordiga e dal Partito Comunista d’Italia a quelle di Errico Malatesta, dalla rivista «Bilan» a Otto Rühle, dalla critica radicale italiana ai militanti della Sinistra Comunista, in un mosaico di bilanci e riflessioni che vertono tutte su quanto sia dannoso per i movimenti di classe e il proletariato riporre qualsiasi fiducia nell’illusione di una possibile scelta tra democrazia borghese e autoritarismo fascista.

Soprattutto oggi, mentre si è lontani da una reale ripresa di lotte di classe allargate sia in Italia che in Occidente, ma è ancora dato il tempo per riflettere ed evitare il ripetersi di tanti errori passati, questi testi, niente affatto superati o inadeguati alla presente stagione, possono contribuire, soprattutto nel caso delle generazioni più giovani, a smascherare le trappole e a rivelare le menzogne con cui una sinistra “borghese”, ed oggi “liberale”, ha contribuito alla vittoria dei regimi più autoritari in nome della controrivoluzione e della difesa dell’ordine capitalistico nelle sue forme apparentemente “democratiche” e parlamentari”.

Se l’affermazione di Amadeo Bordiga che «l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo», pur rivelandosi ancora un ottimo punto di partenza, è, forse, fin troppo nota, abusata e, sicuramente, mai del tutto compresa fino in fondo da coloro che l’hanno usata o denunciata, altre considerazioni e ricostruzioni contenute nel testo possono davvero rivelarsi sorprendenti, illuminanti e utili non soltanto per comprendere dinamiche risvolti di avvenimenti, battaglia e insurrezioni vecchie di un secolo, ma anche per tracciare una linea di confine invalicabile tra ciò che le lotte a venire potranno considerare come utile o dannoso per le tattiche e le strategie che dovranno, comunque, sforzarsi ancora di elaborare.

Per aprire, per così dire, le danze, è bene iniziare dal saggio di Gilles Dauvé1 che delimita immediatamente la cornice in cui inscrivere l’essenza del problema affrontato:

È un luogo comune quello di vedere nel fascismo lo scatenamento della repressione statale al servizio delle classi dominanti. Secondo la formula resa celebre da Daniel Guérin a partire dagli anni Trenta, fascismo = grande capitale. Logicamente, la sola maniera di sbarazzarsene è di mettere fine al capitale.
Fin qui, nulla da ridire. Ahimè, nel 99% dei casi, la logica porta immediatamente fuori strada: se il fascismo incarna il peggio prodotto dal capitalismo, bisogna evitare questo peggio, cioè si dovrebbe fare di tutto per favorire un capitalismo non fascista. Poiché il fascismo è reazione, cerchiamo allora di promuovere il capitalismo sotto forme non reazionarie, non autoritarie, non xenofobe, non militariste, non razziste, in altre parole un capitalismo più moderno, più… capitalista.
Pur ripetendo che il fascismo serve gli interessi del «grande capitale», l’antifascismo si affretta a precisare che, malgrado tutto, nel 1922 o nel 1933, la soluzione fascista avrebbe potuto essere evitata, se solo il movimento operaio e/o i democratici avessero esercitato una pressione tale da impedire ai fascisti di prendere il potere. Se, nel 1921, il Partito Socialista Italiano e il giovane Partito Comunista d’Italia si fossero alleati coi repubblicani per sbarrare la strada a Mussolini; se, all’inizio degli anni Trenta, la KPD non avesse ingaggiato con la SPD una lotta fratricida…l’Europa si sarebbe risparmiata una delle dittature più feroci della storia, la Seconda Guerra mondiale, il dominio nazista su pressoché tutto il continente, i campi di concentramento e lo sterminio degli ebrei.
Al di là delle giuste considerazioni sulle classi, lo Stato e il legame tra fascismo e grande industria, questa visione ignora che il fascismo s’inscrive nel quadro di un duplice fallimento: quello dei rivoluzionari, schiacciati dalla socialdemocrazia e dalla democrazia parlamentare, all’indomani della Prima Guerra mondiale; e, nel corso degli anni Venti, quello della gestione del capitale da parte dei partiti democratici e socialdemocratici. L’ascesa del fascismo – come ancor più la sua natura – risulta incomprensibile se viene isolata dal periodo che l’ha preceduta, dalle lotte di classe che hanno caratterizzato tale periodo e dai loro limiti […] Cosa c’è alla base del fascismo, se non la tendenza all’unificazione economica e politica del capitale, generalizzatasi dopo la guerra del ’14-1817? Il fascismo non fu che un modo particolare di realizzarla, peculiare di quei Paesi (Italia e Germania) in cui, benché la rivoluzione fosse stata soffocata, lo Stato era incapace d’imporre il proprio ordine, perfino in seno alla stessa borghesia.2.

Un protagonista delle lotte e dei partiti rivoluzionari e di classe dell’epoca, Amadeo Bordiga, avrebbe rafforzato queste ipotesi ancora in un’ultima intervista rilasciata nel 19703 contenuta nella presente antologia:

Il fascismo venne da noi considerato come soltanto una delle forme nelle quali lo Stato capitalistico borghese attua il suo dominio, alternandolo, secondo le convenienze delle classi dominanti, con la forma della democrazia liberale, ossia con le forme parlamentari, anche più idonee in date situazioni storiche ad investirsi degli interessi dei ceti privilegiati. L’adozione della maniera forte e degli eccessi polizieschi e repressivi ha offerto proprio in Italia eloquenti esempi: gli episodi legati ai nomi di Crispi, di Pelloux, e tanti altri in cui convenne allo Stato borghese calpestare i vantati diritti statutari alla libertà di propaganda e di organizzazione. I precedenti storici, anche sanguinari, di questo metodo sopraffattore delle classi inferiori provano dunque che la ricetta non fu inventata e lanciata dai fascisti o dal loro capo, Mussolini, ma era ben più antica.
[…]Divergendo dalle teorie elaborate da Gramsci e dai centristi del Partito italiano, noi contestammo che il fascismo potesse spiegarsi come una contesa tra la borghesia agraria, terriera e redditiera dei possessi immobiliari, contro la più moderna borghesia industriale e commerciale.
Indubbiamente, la borghesia agraria si può considerare legata a movimenti italiani di destra, come lo erano i cattolici o clerico-moderati, mentre la borghesia industriale si può considerare più prossima ai partiti della sinistra politica che si era usi chiamare laica. Il movimento fascista non era certo orientato contro uno di quei due poli, ma si prefiggeva d’impedire la riscossa del proletariato rivoluzionario lottando per la conservazione di tutte le forme sociali dell’economia privata. Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nel – l’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che [il] fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici4.

Certo, il proletariato italiano, tedesco e spagnolo aveva combattuto, armi alla mano e senza esitazione, contro la reazione borghese e i suoi cani da guardia. In Italia e in Germani i soldati si erano rivoltati durante il primo conflitto mondiale e, nel secondo caso, avevano nettamente contribuito a fermarlo. Ad esitare erano stati i partiti socialisti e socialdemocratici che pur di scongiurare il conflitto di classe che, come aveva scritto in una lettera Filippo Turati ad Anna Kuliscioff, se si fosse radicalizzato avrebbe travolto anche loro, avevano scelto di sostenere il conflitto mondiale nel caso tedesco oppure avevano optato, nel caso italiano, per un «né aderire né sabotare» che, nei fatti, aveva tradito le aspettative di un proletariato decisamente contrario alla guerra e, successivamente, di sostenere la Patria nell’ora del bisogno dopo Caporetto.

La difesa dell’ordine liberal-borghese aveva così finito col giustificare la repressione dei soldati in rivolta o, addirittura, di sporcarsi le amni cola sangue dei rivoltosi con la repressione dei moti berlinesi del 1919 e l’uccisione di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Ma ancor peggio sarebbe stato in Spagna dove a sconfiggere i moti rivoluzionari sarebbe stato il doppio apporto degli anarchici entrati nel governo repubblicano e l’opera di eliminazione delle frange intransigentemente rivoluzionarie portata avanti dai rappresentanti di Mosca e di Stalin in seno allo schieramento anti-franchista.

In Italia, in Germania e in Spagna l’avvento dei regimi fascisti non era dunque avvenuto soltanto a seguito di una sconfitta di uno schieramento rivoluzionario e proletario diviso al suo interno dall’azione delle formazioni più radicali quanto piuttosto dal freno che alla rivoluzione fu posto proprio dal non aver abbandonato del tutto le posizioni e le formazioni di carattere democratico e socialdemocratico in tempo utile.

Non a caso, però, i testi raccolti nell’antologia, mettono anche a fuoco il ruolo svolto dall’autoritarismo bolscevico-staliniano negli anni successivi alla rivoluzione d’ottobre e, anche, al ruolo che in tutto ciò giocarono anche certe posizioni di Trotsky sulla militarizzazione del lavoro in patria e del gioco delle alleanze sui fronti internazionali e, forse soprattutto, in Spagna.

Riassumere qui, in poche righe e in poche pagine, le battaglie di allora e i dibattiti teorico-politici che le accompagnarono e ne discussero le sconfitte e le successive conseguenze è quasi impossibile, ma può ancora essere utile trarre qualche elemento dai testi contenuti in Quando muoiono le insurrezioni. Ad esempio un testo prodotto dai militanti della Frazione italiana della Sinistra Comunista e pubblicato sul periodico internazionalista «Bilan»5, in occasione della repressione dei rivoluzionari nelle strade di Barcellona nel maggio del 1937.

Il 19 luglio6 i proletari di Barcellona, a mani nude, schiacciarono l’attacco dei battaglioni di Franco, armati fino ai denti.
Il 4 maggio 1937, questi stessi proletari, muniti di armi, lasciano sul selciato molti più morti che non a luglio, quando dovettero respingere Franco. Oggi a scatenare la marmaglia delle forze repressive contro gli operai è il governo antifascista, che include gli anarchici e gode dell’indiretto sostegno da parte del POUM.
Il 19 luglio, i proletari di Barcellona sono una forza invincibile. La loro lotta di classe, sciolta dai legami con lo Stato borghese, si ripercuote all’interno dei reggimenti di Franco, li disgrega e risveglia l’istinto di classe dei soldati: è lo sciopero a bloccare i fucili e i cannoni di Franco, spezzandone l’offensiva.
[…] La milizia operaia del 19 luglio è un organismo proletario. La «milizia proletaria» della settimana seguente è un organismo capitalista appropriato alla situazione del momento. Per realizzare il suo piano controrivoluzionario, la Borghesia può fare appello ai Centristi, ai Socialisti, alla CNT, alla FAI, al POUM che, tutti, fanno credere agli operai che lo Stato cambi natura quando i suoi funzionari mutano di colore. Dissimulato fra le pieghe della bandiera rossa, il Capitalismo affila pazientemente la spada per la repressione del 4 maggio [1937], preparata da tutte le forze che, il 19 luglio, avevano spezzato la spina dorsale classista del proletariato.
Il figlio di Noske e della Costituzione di Weimar è Hitler; il figlio di Giolitti e del «controllo della produzione» è Mussolini; il figlio del fronte antifascista spagnolo, delle «socializzazioni», delle «milizie proletarie» è il massacro di Barcellona del 4 maggio 1937.
[…] È al riparo di un governo di Frente Popular che Franco ha potuto preparare il suo attacco. È sulla via della conciliazione che Barrio ha provato, il 19 luglio, a formare un ministero unico che fosse in grado di realizzare l’insieme del programma del Capitalismo spagnolo, sia sotto la direzione di Franco sia sotto la direzione mista della destra e della sinistra fraternamente unite. Ma la rivolta operaia di Barcellona, di Madrid e delle Asturie obbliga il Capitalismo a sdoppiare il suo ministero, a ripartirne le funzioni tra l’agente repubblicano e l’agente militare, legati da un’indissolubile solidarietà di classe.
Laddove Franco non è riuscito a vincere subito, il Capitalismo chiama a sé gli operai per «sconfiggere il fascismo». Sanguinoso tranello pagato con migliaia di cadaveri di operai per aver creduto di potere, sotto la direzione del governo repubblicano, annientare il figlio legittimo del Capitalismo: il fascismo. E sono partiti per le colline di Aragona, per la Sierra de Guadarrama, per le montagne delle Asturie, per la vittoria della guerra antifascista.
Ancora una volta, come nel 1914, è con l’ecatombe del proletariato che la Storia sottolinea sanguinosamente l’irriducibile contrapposizione tra Borghesia e Proletariato.
I fronti militari: una necessità imposta dalla situazione? No! Una necessità del Capitalismo per accerchiare gli operai e annientarli! Il 4 maggio 1937 dimostra chiaramente che dopo il 19 luglio il proletariato avrebbe dovuto combattere tanto contro Companys e Giral quanto contro Franco. I fronti militari non potevano che scavare la fossa agli operai perché rappresentavano il fronte della guerra del Capitalismo contro il Proletariato. A questa guerra i proletari spagnoli – sull’esempio
dei loro fratelli russi del 1917 – potevano rispondere solo sviluppando il disfattismo rivoluzionario in entrambi i campi della Borghesia – sia repubblicano che «fascista» – e trasformando la guerra capitalista in guerra civile per la totale distruzione dello Stato borghese7.

Ora non potendo citare tutta l’enorme mole di documenti riportati nell’Appendice, vale la pena di citare ancora un testo prodotto negli anni Settanta su «Puzz» nel 19758.

Con l’enorme slancio produttivo ricevuto dalla Prima Guerra mondiale, la società capitalistica si avviava a sostituire in maniera definitiva i propri presupposti (verso la realizzazione del dominio reale del capitale): passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo; trasformazione della legge del valore nella legge dei prezzi di produzione; concentrazione e centralizzazione dei capitali delle aziende; sviluppo del capitale monetario e fittizio, e generalizzazione del sistema del credito; predominio del lavoro morto sul lavoro vivo in tutti gli aspetti della vita associata e all’interno dell’individuo stesso; antropomorfosi del capitale; mistificazione del proletariato nelle classi medie; distruzione delle antiche classi medie e produzione delle nuove; evoluzione dello Stato da semplice «comitato d’affari della classe dominante» a impresa capitalistica
[…] A questo punto, la prima forma di democrazia rappresentativa, modo specifico di gestione nel periodo di dominio formale, e la sua politica, che mediava il conflitto costitutivo della società borghese tra interessi individuali e interessi generali, diventano inadeguate. Ora è il capitale stesso che direttamente unifica gli uomini per sottoporli al suo dominio; la politica, da suo strumento per affermarsi contro il modo di produzione precedente (e proprio in questa lotta, era ancora possibile, nel quadro della democrazia, un qualche intervento autonomo della classe oppressa), diviene suo prodotto immediato per la mistificazione e l’oppressione diretta. La comunità popolare nazi-fascista, orrendo sostituto della Gemeinwesen, realizzò, attraverso il corporativismo e l’apologia del lavoro, in quanto accessorio del capitale (unità armonica capitale-lavoro), la mistificazione democratica (democrazia = potere del popolo). Se nel fascismo il principio democratico sembra annullarsi, è perché in realtà esso si invera.
[…] Il potere al fascismo implicava però l’assorbimento totalitario di tutte le rappresentazioni politiche nello specchio deformante del capitale, ed escluse quindi i politicanti borghesi, liberali, cattolici e socialdemocratici. Dopo il conflitto del ’39-45, l’araba fenice della «nuova democrazia» saprà a sua volta far proprie le tecniche dell’organizzazione, propaganda e pubblicità fasciste, dello spettacolo sociale e politico, ma alla fragile rigidità dell’unico specchio (o con me o contro di me), riuscirà a sostituire un «libero» sistema labirintico di identificazioni prestabilite (o con me o «contro di me», ma sempre con me)9.

E questo è solo un assaggio di un testo antologico ricco, stimolante e, davvero, imperdibile per chiunque voglia iniziare a riorientarsi in mezzo alle chimere mediatiche e politiche che oggi tentano ancora, purtroppo riuscendoci troppo spesso, di irretire le coscienze e il desiderio di lotta e ribellione che anima le giovani generazioni e i lavoratori e le lavoratrici disorientati davanti ad un modo di produzione spietato, il cui unico destino non è quello di esser migliorato e, allo stesso tempo, salvaguardato nelle sue forme più moderne, ma soltanto quello di essere distrutto dall’insurrezione proletaria che non farà sconti a nessuno dei suoi funzionari e portavoce.
Né di destra né, tanto meno, di sinistra.


  1. Titolo originale: Quand meurent les insurrections (1999), La Petite Bibliothèque PDF de la Matérielle, ADEL c/o Échanges, BP 2475866 Paris Cedex 18, 2005. Si tratta di una versione interamente riveduta della “Présentation” a «Bilan». Contre-révolution en Espagne. 1936-1939, UGE 10/18, Paris, 1979.  

  2. G. Dauvé, Quando muoiono le insurrezioni, ora in Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 13-14.  

  3. Una intervista ad Amadeo Bordiga, Raccolta da Edek Osser, giugno 1970, in «Rivista di storia contemporanea», n. 3, settembre 1973.  

  4. Un intervista ad Amadeo Bordiga (1970) ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 112-113.  

  5. Plomb, Mitraille, Prison: Ainsi répond le Front Populaire aux ouvriers de Barcelone osant résister à l’attaque capitaliste, in «Bilan», Bulletin théorique mensuel de la Fraction italienne de la Gauche communiste, Paris, n. 41, maggio-giugno 1937, pp. 1333-1337.  

  6. Si tratta del luglio 1936, data di inizio del golpe franchista e della massiccia e inequivocabile risposta allo stesso da parte del proletariato barcellonese.  

  7. Piombo, mitraglia, prigione: così risponde il Fronte Popolare agli operai di Barcellona che osano resistere all’attacco capitalista, ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 213-215.  

  8. Francesco Santini – Joe Fallisi, La controrivoluzione «antifascista»…, in «Puzz», n. 19 – «Gatti selvaggi», n. 3, Edizione speciale, aprile-maggio 1975, pp. 17-20.  

  9. F. Santini – J. Fallisi, La controrivoluzione «antifascista», ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 335- 339.  

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Per un rilancio del ruolo dei partiti politici https://www.carmillaonline.com/2024/02/13/per-un-rilancio-del-ruolo-dei-partiti-politici/ Tue, 13 Feb 2024 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81037 di Pietro Garbarino

Partiti politici. Chi sono costoro? Hanno ancora una nomea e dignità difendibili? Sono entità gradite al popolo italiano? Pare proprio di no.

Sono stati aboliti, con referendum popolare, i finanziamenti pubblici; è stato ridimensionato l’organismo rappresentativo costituzionale più importante del nostro sistema costituzionale, e cioè il Parlamento, che è il luogo dove i partiti politici svolgono al più alto livello la loro attività; gli stessi “nuovi” partiti politici tendono a presentarsi come movimenti e rifuggono dalla denominazione di “partito”.

Insomma, si tratta di organizzazioni che ormai da lungo tempo non godono buona fama, perché ritenuti inconcludenti, portatori [...]]]> di Pietro Garbarino

Partiti politici. Chi sono costoro? Hanno ancora una nomea e dignità difendibili? Sono entità gradite al popolo italiano? Pare proprio di no.

Sono stati aboliti, con referendum popolare, i finanziamenti pubblici; è stato ridimensionato l’organismo rappresentativo costituzionale più importante del nostro sistema costituzionale, e cioè il Parlamento, che è il luogo dove i partiti politici svolgono al più alto livello la loro attività; gli stessi “nuovi” partiti politici tendono a presentarsi come movimenti e rifuggono dalla denominazione di “partito”.

Insomma, si tratta di organizzazioni che ormai da lungo tempo non godono buona fama, perché ritenuti inconcludenti, portatori di privilegi, centri di corruzione, e anche di mal’affare ai danni dei cittadini.

Però l’art. 49 della Costituzione repubblicana dichiara il diritto dei cittadini ad associarsi in partiti politici per concorrere con metodo democratico alla vita politica del paese. Ma purtroppo, e non si può certo addebitarlo ai Padri costituenti, l’individuazione dello strumento partitico come protagonista della vita democratica del paese, si è scontrato con diversi fattori, tra i quali le diverse leggi elettorali succedutesi negli ultimi trent’anni, con alcune discutibili prassi istituzionali che hanno condizionato i rapporti tra Parlamento e governo, come l’abuso del ricorso ai decreti-legge, e con l’evoluzione economica e sociale del paese, che ha visto profonde modificazioni della società e della vita pubblica, rispetto a 74 anni fa.

Uno dei fattori che ha modificato la situazione, è rappresentato dall’abbandono delle forme ideologiche da parte dei maggiori partiti, i quali si sono trasformati sempre più in comitati elettorali e sodalizi di opinione, più legati ai sondaggi elettorali che alle strategie politiche.

Uno scossone devastante è arrivato dalla vicenda “mani pulite” che, anziché essere gestita dalla sinistra come un effetto dell’economia liberistica o di mercato, che nel nostro paese si connota come prevalentemente parassitaria verso il denaro pubblico e tendente al rapporto clientelare e mafioso, è stata interpretata in termini moralistici e comportamentali, assecondando così l’introduzione, nell’opinione pubblica, del germe dell’ “antipolitica”. Cioè, anziché dire che la corruzione era figlia di un’economia debole e drogata dal clientelismo, dalle più diverse parti politiche si sono presi di mira proprio i partiti, le istituzioni pubbliche e la politica, in nome di un liberismo sempre più sfrenato, della denigrazione della cosa pubblica e dell’individualismo imprenditoriale. In questo clima ha preso sempre più quota il tema della “governabilità”, e cioè della rivalutazione del ruolo preminente del governo e della valorizzazione del punto di vista dei governanti, visti quasi come capitani d’industria e sempre più in modo personalizzato. Silvio Berlusconi è stato l’interprete emblematico di questa tendenza, che non ha trovato nella sinistra un adeguato baluardo, perché l’opposizione all’uomo di Mediaset fu sempre incentrata sulla individualità personale dell’uomo e non sulle scelte economiche e sociali, tutte tese verso un liberismo di tipo americano, e un modello di stato tendente a far prevalere il governo sugli altri poteri dello Stato. In questo contesto il Parlamento, visto come pletorica assemblea di partiti e come continuo impedimento al dirigismo del Capo, venne fatto oggetto di continui attacchi, e fatto passare nell’opinione pubblica, come mero ostacolo alle decisioni governative, anche con la servile collaborazione di certa stampa.

Tutto ciò non poté non avere influenza sulle leggi elettorali. La neonata logica dell’alternanza bipolare tra destra e sinistra fece sì che quasi ogni governo, a seconda del proprio orientamento politico, inaugurasse la pessima prassi di farsi una propria legge elettorale, ma anche di voler modificare la Costituzione a proprio uso e consumo, secondo le convenienze politiche del momento. Perciò negli anni 2000 abbiamo assistito a ben quattro referendum costituzionali e ad almeno a quattro leggi elettorali diverse, alcune delle quali dichiarate incostituzionali dalla Consulta. Il risultato di questa devastante e sconcertante sequela di modifiche legislative, peraltro quasi tutte abortite o superate, è stato quello di delegittimare la funzione dei partiti politici e di avere un Parlamento non più formato da rappresentanti espressi dalla società civile, bensì da candidati, spesso alle prime armi, preselezionati dalle segreterie dei partiti, in quanto nelle leggi elettorali proposte da entrambi i maggiori schieramenti, le candidature in vari collegi vengono effettuate centralmente dalle forze politiche e non dalle istanze locali sul territorio o dagli iscritti-elettori. Ma come si spiega questa “evoluzione” e quale appare adesso il ruolo di tali partiti? Il falso e fuorviante concetto di “governabilità” introdotto suggestivamente dai vari cultori del sistema costituzionale presidenziale (il nostro è invece un sistema parlamentare) ha portato con sé l’introduzione nella legge elettorale di elementi del cosiddetto sistema maggioritario, con collegi uninominali e premio di maggioranza. Tutto ciò ha indotto i partiti politici, già indeboliti dall’abbandono delle ideologie (ovvero delle autonome strategie di lungo periodo) a puntare essenzialmente sull’obbiettivo del governo a qualsiasi livello, nazionale, regionale e locale. Dunque a causa di tutte quelle circostanze e vicissitudini è stata di fatto abbandonata la funzione civica pensata dai costituenti, i quali hanno invece indicato i partiti come propagatori di un modello di società e convivenza (e cioè, della forma di Stato) da perseguire.

Si è invece puntato esclusivamente alla conquista del potere, trasformandoli in meri comitati elettorali, nonché in strumenti di puro sostegno del governo nazionale o locale. In questo modo i partiti, anziché promuovere modelli politici e sociali proiettati verso il futuro, e verso lo sviluppo della democrazia secondo i principi costituzionali, si sono limitati a puntare al mantenimento del proprio potere, adottando strategie “a vista” e non disdegnando neppure le proposte dei concorrenti politici, ove ritenute convenienti. Chiarissimo esempio è la riforma costituzionale del titolo V della Costituzione del 2001, adottata da uno schieramento di centrosinistra, per invadere il campo politico della – allora- Lega Nord, che in quel momento proponeva un’evoluzione dello Stato verso il federalismo. Ma a ciò si aggiunse la designazione centralizzata dei candidati mediante l’istituzione delle liste bloccate. Cioè di liste assai ristrette e selezionate, indicando persone gradite alla dirigenza del partito. Quel sistema non sarebbe più stato abbandonato neppure con i cambi di maggioranza, tanto è vero che tutt’ora, con l’attuale “rosatellum”, esso permane.

Dunque, complici tutte le circostanze sopra indicate, abbiamo partiti politici senza più idealità di fondo che indichino la visione sociale e politica di questa o di quella forza; programmi politici sono legati alle contingenze o servono solo sotto elezioni; le forze politiche di governo (si veda quelle attuali) vivono alla giornata a seconda degli umori dell’opinione pubblica, dove ovviamente prevale chi ha i mezzi economici per fare la voce grossa, come, ad esempio, le organizzazioni degli imprenditori.

Ma quello che maggiormente pesa sulla funzione e attività dei partiti è la qualità degli esponenti politici, non più scelti sulla base delle loro capacità e competenze, ma per la fedeltà alla segreteria di partito. Anzi, in tempo di populismo, si può anche dire di fedeltà al leader di partito, atteso che sempre più abbiamo avuto, da Berlusconi in poi, partiti personalizzati, (si pensi a Grillo per il M5S, come a Salvini per la Lega o a Meloni per FdI).

Possiamo dunque oggi parlare di partiti politici nel medesimo senso inteso dall’art.49 della Costituzione? No di certo.

Infatti i partiti immaginati dal Costituente erano dei protagonisti della vita reale con i quali gli elettori si confrontavano su come pervenire alla realizzazione del disegno politico ideale in cui ciascuno credeva o confidava. I partiti inoltre operavano sia come forze culturali interne, sia verso i propri militanti e aderenti, ma anche verso l’esterno per dare all’opinione pubblica la propria visione dei problemi e le relative proposte di soluzione. Oggi l’adesione ad un partito avviene per lo più a seconda delle convenienze individuali con la linea attuale (che però può rapidamente cambiare) di quella parte. Non a caso oggi si assiste a rilevanti cambi di orizzonte, così come a repentine e continue trasmigrazioni da un partito all’altro. Le decisioni politiche dipendono dai sondaggi e dalla pressione di gruppi sociali organizzati sugli esponenti politici di turno. La preoccupazione fondamentale è l’autoconservazione del proprio seggio e dei connessi privilegi.

Il risultato finale è che la coerenza e la moralità della vita politica sono ridotti a livelli prossimi allo zero, là dove si riteneva che, indebolendo i partiti, si sarebbe abolito il malcostume.

Che fare allora? Come modificare questo desolante quadro? Bisogna ritornare al concetto di partito come portatore di un disegno ideale di società, di economia e di stato, che deve costituire il programma stabile e distintivo di quella forza politica. Ben venga, anche se vogliamo chiamarla ideologia, quell’elemento, come garanzia di coerenza e moralità di azione. Bisogna ritornare ad un concetto di partito, interno alla società, che pone i problemi dei cittadini, li affronta e lotta, fuori e dentro le istituzioni, per risolverli. Partiti che alimentano la cultura civica e non la riducono a slogan vasti e ritriti, nel pieno rispetto, anzi nella progressiva attuazione di quella gran parte della nostra Costituzione ancora da realizzare, e nei fatti per larga parte dimenticata. Partiti che abbiano anche, all’occorrenza, il coraggio di porsi in alternativa ai luoghi comuni che spesso circolano a livello popolare, anche per demerito di una stampa acritica e ossequiente, ormai concentrata in poche e potenti mani, o dei mezzi di comunicazione informativa, spesso inadeguati e incontrollabili. Ma per fare ciò occorre che si formi un movimento, non solo culturale e di opinione, che prema affinché politica e partiti abbiano una loro carta di indirizzi e linee guida che, lasciando libertà di pensiero sulle proposte politiche strategiche (escluso ovviamente il fascismo e le forme politiche analoghe), individui quei punti cardine di funzionamento, come ad esempio il principio di responsabilità politica e le candidature condivise dei capaci e competenti, al fine di avere la garanzia che quell’indispensabile strumento di intermediazione politica tra il cittadino e le istituzioni funzioni secondo i principi democratici di eguaglianza anche dei loro militanti, di consultazione metodica degli iscritti, di apertura alle proposte di discussione, di allargamento degli organismi dirigenti e della loro rotazione, affinché il cittadino torni ad avere rispetto ed interesse per la politica e si recuperi un rapporto di stima tra chi si adopera per rappresentare e i rappresentati. In sostanza occorre uno “Statuto dei partiti”, condiviso tra le forze che vogliono permanere in un sistema democratico, al fine di recuperare l’enorme distanza e sfiducia oggi esistente tra cittadini e politica, e ripristinare l’indispensabile ruolo, di rilevanza costituzionale, dei partiti politici.

In definitiva, a differenza dell’opinione prevalente, purtroppo assai diffusa anche nel mondo della politica, il ruolo dei partiti politici è invece fondamentale nel nostro sistema democratico, proprio per il suo carattere di democrazia rappresentativa.

In altri termini, il partito politico è l’elemento intermedio tra istituzioni pubbliche e cittadini che coagula parte dei medesimi, li rappresenta e interpreta le istanze che tali soggetti condividono.

Senza la mediazione partitica il rapporto del cittadino con le istituzioni non può che divenire o clientelare o del tutto conflittuale.

Nell’uno e nell’altro caso non sarebbe un rapporto foriero di vantaggi per l’elettore e di garanzia per un corretto e comportamento dell’eletto.

E ciò anche alla luce dell’art. 2 della Costituzione, che valorizza l’azione solidale dei cittadini per una migliore attuazione dei principali obiettivi costituzionali, anche all’interno di formazioni sociali e collettive.

Dunque la strada della rigenerazione della sostanziale democrazia nel nostro paese non può prescindere dall’esistenza di partiti politici, perché gli stessi concorrano alla vita dello stesso, con metodo effettivamente democratico, tenendo presente che le istituzioni non sono di esclusiva titolarità di chi ha vinto le ultime elezioni, ma devono operare per il bene di tutti i cittadini, oppositori compresi.

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Studiare le radici delle guerre (per tagliarle) https://www.carmillaonline.com/2022/12/21/studiare-le-radici-delle-guerre-per-tagliarle/ Wed, 21 Dec 2022 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75027 di Sandro Moiso

Ernest Mandel, Il significato della seconda guerra mondiale, Associazione Punto Critico, Sacrofano (RM) dicembre 2021, pp. 316, euro 15,00

Il saggio sul secondo conflitto mondiale, le sue origini, i suoi sviluppi e conseguenze, appena pubblicato in Italia da Punto Critico era uscito in lingua originale già nel 1986; eppure, visto il momento storico che il mondo sta attraversando, si rivela ancora di estrema attualità. Ciò è dovuto al fatto che lo studio di Ernest Mandel, condotto sulla base delle categorie marxiste e di una militanza rivoluzionaria e anti-stalinista, supera [...]]]> di Sandro Moiso

Ernest Mandel, Il significato della seconda guerra mondiale, Associazione Punto Critico, Sacrofano (RM) dicembre 2021, pp. 316, euro 15,00

Il saggio sul secondo conflitto mondiale, le sue origini, i suoi sviluppi e conseguenze, appena pubblicato in Italia da Punto Critico era uscito in lingua originale già nel 1986; eppure, visto il momento storico che il mondo sta attraversando, si rivela ancora di estrema attualità. Ciò è dovuto al fatto che lo studio di Ernest Mandel, condotto sulla base delle categorie marxiste e di una militanza rivoluzionaria e anti-stalinista, supera di gran lunga tante analisi precedentemente condotte sullo stesso argomento, anche se «raccolti tutti insieme, i libri dedicati alla Seconda guerra mondiale occuperebbero centinaia di metri sugli scaffali di una biblioteca».

L’autore evita infatti di dipingere il quadro in bianco e nero, semplice e rassicurante, ma allo stesso tempo reticente e falso, con cui quel conflitto è stato troppo spesso ridotto, a fini propagandistici, a una titanica lotta tra il “bene” e il “male” ovvero tra la democrazia e la barbarie e il totalitarismo nazifascista. Modello storiografico cui si è, invece, abituati fin dalle frequentazioni scolastiche, utile a rappresentare l’attuale come il solo e il “migliore” dei mondi possibili, da difender “ad ogni costo” contro qualsiasi minaccia o attacco proveniente dall’esterno (o dall’interno).

Ottica adattissima a fomentare nuove guerre in difesa delle “libertà occidentali”, tacciando di barbarie criminale qualsiasi potenziale avversario. In modo da tracciare a priori linee di differenziazione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra chi è amico e chi nemico e costruire un comune immaginario su cui costruire un’identità adatta a supportare le esigenze del capitale occidentale e a giustificarne le conseguenze. In parole povere: la situazione di oggi a livello propagandistico e narrativo dei media mainstream e dei guru politici europei ed americani.

Ernest Mandel, nato in Germania nel 1923, da genitori appartenenti alla Lega di Spartaco di Karl Liebneckt e Rosa Luxemburg, e morto a Bruxelles nel 1995, ha dedicato la sua vita, fin dalla più giovane età, alla militanza politica rivoluzionaria. Svolta fin dal 1938 nelle file della IV Internazionale ispirata da Lev Trotsky, seguendone tutte le vicissitudini ideologiche ed organizzative successive, come mette ben in luce Pietro Acquilino nella sua introduzione al testo.

Mandel, per una parte del pubblico italiano meno giovane, è noto soprattutto per alcuni testi editi durante il ciclo di lotte operaie e studentesche a cavallo tra anni ’60 e ’70, che servirono ai più come primo avvicinamento al marxismo: Trattato di economia marxista (Samonà e Savelli 1967)1, La formazione del pensiero economico di Karl Marx (Laterza 1968) e Neocapitalismo e crisi del dollaro (Laterza 1973), solo per citarne alcuni.

L’opera qui presentata, però, si rivela, almeno in gran parte, come una delle sue più efficaci e interessanti, soprattutto, si scusi la ripetizione, se vista alla luce dell’attualità odierna. Poiché, come si afferma nell’introduzione al testo: «Porre il problema della guerra oggi non è un mero esercizio storiografico». E studiare i motivi reali e lo svolgimento del secondo macello imperialista planetario non significa soltanto, anche se sarebbe già importante di per sé, superare d’un balzo tutte le narrazioni banalizzanti e di comodo che su quel conflitto si sono accumulate sugli scaffali delle biblioteche e nell’immaginario collettivo, ma anche studiare, comprendere e affrontare il conflitto che, dopo decenni di guerre neo-coloniali mascherate da operazioni di polizia internazionale, più si avvicina, per condizioni generali di partenza, pericolosità e possibile estensione su scala planetaria, a quello attualmente in corso sulle frontiere orientali d’Europa. Come si afferma ancora nell’introduzione:

Occorre quindi studiare le guerre del passato, soprattutto prossimo, non perché convinti ingenuamente che gli avvenimenti di allora possano ripetersi negli stessi termini, ma perché le loro cause profonde, che possono condensarsi nelle lotte per i mercati insite nel modo di produzione capitalistico, sono tuttora operanti e potranno portare a nuovi conflitti. Perciò la guerra non sarà solo un problema che le prossime generazioni dovranno affrontare, sarà il problema che coinvolgerà tutti gli aspetti del vivere umano, da quello sociale e a quello ecologico, dissolvendo le ultime vestigia di quel confine tra militare e civile che i grandi conflitti mondiali del ‘900 hanno già fortemente intaccato2.

Soprattutto in un contesto in cui, come hanno rilevato due esperti di strategia del’esercito cinese, in un testo del 1999: «Con il nuovo secolo i soldati devono chiedersi: che cosa siamo? Se Bin Laden e Soros sono soldati, allora chi no lo è? Se Powell, Schwarzkopf, Dayan sono politici, allora chi è un politico? Questo è il quesito fondamentale del globalismo e dellaguerra nell’era della globalizzazione.»3. Affermazione che, tra le altre cose, non fa che confermare l’osservazione già fatta da Michel Foucault, nel 1976, che «il potere è la guerra continuata con altri mezzi. Così facendo si ha il rovesciamento della tesi di Clausewitz e si afferma che la politica è la guerra continuata con altri mezzi»4.
Il motivo di tali trasformazioni della politica e della guerra può essere facilmente individuato in ciò che scrive Mandel fin dall’inizio del suo studio:

Il capitalismo implica la concorrenza. Con la nascita delle grandi corporations e dei cartelli – cioè con l’avvento del capitalismo monopolistico – la concorrenza assunse una nuova portata. In termini quantitativi divenne più economico-politica e, dunque, economico-militare. […] In gioco c’erano colossi industriali e finanziari i cui interessi si misuravano in decine o centinaia di milioni (oggi miliardi, spesso migliaia – NdR). Gli Stati e i loro eserciti, perciò, si impegnarono sempre più direttamente in questa gara, presto diventata competizione imperialistica alla ricerca di nuovi sbocchi per gli investimenti e l’accesso a materie prime a basso prezzo o rare. Il carattere distruttivo di questo antagonismo si accentuò sempre più, in una crescente tendenza alla militarizzazione e al suo riflesso ideologico: la giustificazione e la glorificazione delle guerra. Al contempo la crescita della manifattura, l’aumento della capacità produttiva delle imprese tecnologicamente più avanzate, la produzione complessiva delle principali potenze industriali e, in particolare, l’espansione del capitale finanziario e della capacità di investimento, si riversarono ben oltre le frontiere degli Stati-nazione, persino dei più grandi5.

Questi però vanno considerati ancora come i prodromi ottocenteschi dei grandi macelli imperialistici del ‘900 e del loro prolungamento nel XXI secolo. Se, infatti, non sorprende che il primo tentativo di mettere in discussione lo status quo ottocentesco, favorevole al colonialismo e al controllo dei mercati di stampo inglese e francese, fosse intrapreso, all’alba del Primo conflitto mondiale, dalla Germania «che aveva raggiunto la supremazia industriale in Europa ed era nella condizione di sfidare con la forza delle armi la suddivisione delle colonie favorevole alla Francia e all’Inghilterra»6 oltre che quella del mercato mondiale, non c’è nemmeno da stupirsi che il motore del secondo conflitto mondiale, più che nel Trattato di Versailles e affini, fosse ancor auna volta determinato dalla «necessità dei principali Stati capitalisti di controllare l’economia di interi continenti attraverso gli investimenti di capitale, gli accordi commerciali privilegiati, le regole monetarie e l’egemonia politica. L’obiettivo della guerra fu sottomettere alle priorità dell’accumulazione di capitale di una singola potenza egemonica, non solo i paesi sottosviluppati, ma anche gli altri Stati industrializzati, sia nemici che alleati»7.

Ora cambiati, almeno in parte, gli interpreti del dramma destinato a andare nuovamente in scena, è possibile verificare non solo che tale prospettiva è ancora quella in atto, ma che le stesse motivazioni stanno da anni spingendo al conflitto in ogni area del mondo. Dall’Africa al Medio Oriente, dal Mar della Cina all’Ucraina passando per i processi mai riusciti completamente di centralizzazione del capitale europeo intorno a suo “cuore tedesco” e i vari tentativi di quello statunitense di sabotarne la realizzazione. Mentre nuovi soggetti politici e progetti imperiali scalpitano per sostituire il dominio occidentale e del dollaro sulle risorse, le ricchezze e i mercati globali del pianeta.

Non esiste la benché minima prova che il Giappone, la Germania e gli Stati Uniti, i veri sfidanti dello status quo nella Seconda guerra mondiale, ponessero limiti ai loro obiettivi bellici. […] si stabiliva fin dall’inizio che per l’esercito giapponese l’occupazione della Cina era soltanto il trampolino verso la conquista del dominio mondiale, che sarebbe stato raggiunto dopo aver soffocato la resistenza degli Stati Uniti. L’alleanza giapponese con la Germania in effetti non fu che momentanea e rimase fragile e inefficace durante tutta la guerra, perché era considerata come una tregua provvisoria con un futuro nemico. Per Hitler la comprensione della guerra in arrivo era altrettanto chiara: «La lotta per l’egemonia mondiale in Europa sarà decisa dal possesso dello spazio russo. Qualsiasi idea di politica mondiale sarà ridicola [per la Germania] fintanto che non dominerà il continente (…) Se saremo i padroni dell’Europa, allora occuperemo una posizione dominante nel mondo. Se l’Impero britannico dovesse crollare adesso grazie alle nostre armi, non ne saremmo noi gli eredi, perché la Russia si prenderebbe l’India, il Giappone l’Asia orientale e l’America il Canada8. Anche l’imperialismo americano era cosciente del suo “destino” di leader nel mondo. […] Per gli Stati Uniti la guerra dveva essere la leva con cui aprire allo sfruttamento americano l’intero mercato e le risorse mondiali9. […] Se dunque il significato della Seconda guerra mondiale, come di quelle precedenti, si può comprendere solo nel contesto della contesa mondiale per il domino imperialista, la sua importanza sta nel fatto che si trattò della decisiva verifica dei reciproci rapporti di forza per gli Stati imperialisti in competizione. Il suo esito ha determinato per un lungo periodo la forma specifica dell’accumulazione mondiale del capitale. Nel mondo organizzato dal capitale, fondato sugli Stati-nazione, la guerra è lo strumento per la risoluzione definitiva delle divergenze10.

Si lascia naturalmente qui, ai lettori più attenti e interessati, la comprensione di quali siano oggi i propositi e i protagonisti principali del conflitto apertosi in Ucraina, sottolineando, però, come ancora una volta l’ideologia liberal-democratica costruirà, e stia già costruendo, un proprio modello di paesi e comportamenti “amici” per individuare il fronte dei “cattivi nemici”. Operazione che, ormai ben rodata da anni di sbandieramento democratico e discorsi politically correct, viene portata avanti quotidianamente sui media mainstream occidentali. Mentre sul fronte opposto, ancora una volta profondamente diviso nella sostanza, l’unico discorso unificante pare ancora esser quello “anticoloniale” arbitrariamente sventolato da nazioni altrettanto imperialiste negli intenti ultimi. Motivo per cui, forse, era più sincero Goebbels quando, con il suo solito stile diretto e cinico, descriveva così gi obiettivi dell’imperialismo: «Obiettivamente il senso di giustizia e il sentimentalismo sarebbero soltanto un ostacolo per i tedeschi nella loro missione mondiale. Questa missione non consiste nell’estendere la cultura e l’educazione nel mondo, ma nel sottrarre grano e petrolio»11.

Per ragioni di lunghezza occorre chiudere qui la recensione di un libro la cui lettura, in quasi tutti gli aspetti, esclusi forse quelli relativi al controverso ruolo dell’URSS nel conflitto 1939-1945 e ai movimenti di Resistenza antifascista e antinazista inquadrati dagli interessi delle borghesie nazionali e del capitale imperialista occidentale, può rivelarsi particolarmente utile ancora oggi. Specie per tutti quei militanti che dal loro campo di interessi e di azione hanno precedentemente escluso la storia militare ed economica dell’imperialismo mondiale.

Avvertenza

Poiché il testo non è di facile reperibilità, si indica qui di seguito l’indirizzo e-mail da contattare per richiederlo o ordinarlo: assopuntocritico@gmail.com


  1. Ora disponibile qui  

  2. P. Acquilino, Introduzione a E. Mandel, Il significato della Seconda guerra mondiale, Punto Critico, 2022, p.10  

  3. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001  

  4. M. Foucault, Corso al Collège de Franc del 7 gennaio 1976 ora in M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 2009 (prima edizione 1998), p. 22  

  5. E, Mandel, op. cit., p. 21  

  6. Ibidem, p.22  

  7. Ibid, pp. 25-26  

  8. Discorsi nel Quartier generale del Führer 1941-1944, Heine, Monaco 1986, p. 110 – NdA  

  9. All’inizio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1941 in Life Magazine, Henry Luce ha scritto: «Roosvelt è riuscito dove Wilson aveva fallito (…) Per la prima volta nella storia il nostro mondo di due miliardi di abitanti formerà un’unità indissolubile. Perché questo mondo sia sano e forte il XX secolo deve diventare il più possibile il Secolo americano» – NdA  

  10. E. Mandel, op. cit., pp. 26-29  

  11. Cit. in Mandel, p. 28, n. 15  

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I comunisti della capitale… (seconda parte) https://www.carmillaonline.com/2022/11/09/i-comunisti-della-capitale-seconda-parte/ Wed, 09 Nov 2022 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74526 di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Per quanto possano esserci stati attriti tattici di secondaria importanza, la svolta a cui si opposero come poterono nuclei organizzati di comunisti come quello di Roma, veniva dalla direzione stalinista del movimento comunista internazionale. Questo dato essenziale, oggi convalidato da qualsiasi ricerca storica degna del nome, i “comunisti dissidenti” di Bandiera rossa non riuscirono né a capirlo né a crederlo, restando così prigionieri delle proprie illusioni e votati alla sconfitta. La loro convinzione che [...]]]> di Pietro Basso

David Broder, The Rebirth of Italian Communism, 1943-44. Dissidents in German-Occupied Rome, Palgrave Macmillan, 2021

Per quanto possano esserci stati attriti tattici di secondaria importanza, la svolta a cui si opposero come poterono nuclei organizzati di comunisti come quello di Roma, veniva dalla direzione stalinista del movimento comunista internazionale. Questo dato essenziale, oggi convalidato da qualsiasi ricerca storica degna del nome, i “comunisti dissidenti” di Bandiera rossa non riuscirono né a capirlo né a crederlo, restando così prigionieri delle proprie illusioni e votati alla sconfitta. La loro convinzione che fossero mature le condizioni per un nuovo assalto al cielo era infondata per il loro errato giudizio sullo stalinismo e sull’Urss. E lo era anche, a un livello ancora più profondo, per ciò che riguarda i rapporti di forza su scala internazionale tra classe capitalistica e movimento proletario. Vediamo il primo aspetto, torneremo in seguito sul secondo.

Il 26 novembre 1943, nel suo discorso da Mosca “L’Italia in guerra contro la Germania hitleriana”, Togliatti afferma in modo inequivocabile sull’Italia post-fascista quanto segue:

Sarebbe assurdo pensare al governo di un solo partito o al dominio di una sola classe. L’unità e la collaborazione di tutte le forze democratiche e popolari dovranno essere l’asse della politica italiana, la base su cui verrà costruito un vero regime democratico, che distrugga le radici del fascismo e dia alla nazione delle garanzie serie contro ogni possibile ripetizione della tragica avventura ch’è costata all’Italia il suo benessere, la sua libertà, la sua indipendenza, il suo onore. Ma questo non vuol dire che nella vita del paese non debbano essere operate profonde riforme… la nuova democrazia italiana… con un ragionevole intervento dello stato dovrà impedire che dei gruppi di plutocrati avidi ed egoisti [gli Agnelli ad esempio? – n.] sfruttino il monopolio delle risorse del paese per asservire il popolo intero e gettare il paese nell’abisso di criminali avventure di guerra.

Questa linea di condotta era perfettamente coerente con l’obiettivo strategico perseguito da Stalin, che non era più la rivoluzione proletaria internazionale, cui lo stalinismo aveva rinunciato da tempo, bensì la costruzione in Russia di un industrialismo di stato capace di ridurre il gap economico-tecnologico rispetto alle grandi potenze occidentali. In tale prospettiva strategica di coesistenza e di concorrenza pacifica tra il campo occidentale e quello del “socialismo reale”, rientrava la pace con gli imperialisti d’Occidente, la divisione del mondo in sfere di influenza, nonché la spartizione dell’Europa che prevedeva l’assegnazione dell’Italia al dominio delle democrazie anglo-sassoni. Contro questo muro si infranse l’attività politica del Mcd’I che pagò dazio alla fine della guerra con la sua rapida disgregazione e scomparsa. Una fine amara perché la battaglia politica del Mcd’I per la rinascita di un movimento comunista rivoluzionario in Italia non si era certo limitata ai giornali e alla propaganda delle proprie idee, ma aveva visto la sua partecipazione alla resistenza armata anti-nazista e anti-fascista, svolta da posizioni autonome. Broder ricostruisce con estrema puntualità il peculiare modo di partecipare alla resistenza di questo insieme di militanti. Parlo di insieme perché il Mcd’I non fu mai un organismo centralizzato, a differenza del PCI-partito nuovo, restando piuttosto, dall’inizio alla fine, una federazione di vari gruppi di comunisti attraversati da influenze ideologiche molteplici (incluso l’anarchismo). Nella biblioteca di sezione del Mcd’I la “Storia della rivoluzione russa” di Trotsky, e scritti di Bordiga, Bucharin o Malatesta potevano stare accanto alle opere di Marx Engels e Lenin senza provocare guerre di religione. L’aspirazione di questi compagni ad essere dei militanti ben attrezzati si materializza nella scuola di formazione di Grotta Rossa. Già negli “anni della cospirazione” la loro priorità non era l’azione militare, bensì la ricostituzione dell’organizzazione comunista. Questa impostazione consentirà a Bandiera rossa di essere uno dei pochissimi esempi di “leadership politica comunista” nell’azione militare nel corso di tutta la resistenza italiana. Quando su Roma, dal settembre 1943, si stringe la morsa sanguinaria delle truppe naziste ed inizia l’attività militare dell’Armata rossa (così il Mcd’I denominò i suoi nuclei d’azione armata), la priorità di questa area di compagni rimane non lo scontro frontale con i nazisti, ma la preparazione delle forze e delle strutture per quando le truppe naziste avrebbero lasciato la città. Il loro sforzo principale – riuscito solo in piccola parte – resta il radicamento sociale negli strati proletari e popolari più schiacciati, ridotti alla fame nera. Tuttavia la Wehrmacht e la polizia fascista, mettendo in atto la coscrizione obbligatoria e la deportazione, obbligano chi intenda resistere a questa duplice violenza ad organizzarsi in gruppi armati. Il Mcd’I non si tira indietro. La consistenza delle sue milizie sarà sempre piuttosto limitata, ma il movimento arriva ad avere 27 unità locali, 8 gruppi speciali, e collegamenti con 39 bande “esterne”, alcune delle quali estranee ai suoi orientamenti politici. Pagherà un pesante tributo di sangue nei 9 mesi di occupazione nazista della città, designata capitale della Repubblica sociale italiana.

Seguendo un tracciato del tutto differente, i Gap del PCI operanti per lo più nel centro di Roma, furono dediti esclusivamente ad un’attività militare finalizzata a provocare rappresaglie naziste come strumento per stimolare la popolazione a sollevarsi contro lo straniero nell’ottica di un “nuovo risorgimento” dell’Italia – nelle parole di Rosario Bentivegna, uno dei gappisti più noti, a “scuotere la popolazione, eccitarla in modo che si sollevasse contro i tedeschi”, una tattica fallimentare perché a Roma non ci fu alcuna insurrezione. Ci fu, invece, una catena di sanguinose repressioni nazi-fasciste: tra le più brutali quelle compiute al Trionfale, al Quadraro e l’eccidio delle Fosse ardeatine dopo l’attentato di via Rasella, organizzato dai GAP il 23 marzo 1944 contro una compagnia di riservisti alto-atesini senza ruoli di combattimento. In tutti e tre i casi gli appartenenti al Mcd’I e all’Armata rossa pagarono il prezzo più alto tra le diverse componenti della resistenza romana: 68 dei 335 prigionieri (e passanti) fucilati alle Fosse ardeatine erano militanti del Mcd’I che – con ottime ragioni, a mio avviso – criticò i metodi terroristici dei Gap e si espresse a favore di un approccio “difensivo” alla lotta contro le forze nazifasciste in ritirata.

Nonostante queste difficilissime prove, il prestigio e il seguito del Mcd’I continuano a crescere fino alla fine del 1944, quando i membri del movimento oltrepassano le 13.000 unità (ma il PCI, con una progressione fulminea, aveva già oltrepassato i 50.000). Il momento di massima euforia è nei giorni successivi all’entrata delle truppe alleate in Roma avvenuta il 4 giugno 1944. Scrive Corvisieri:

I nove terribili mesi dell’occupazione e del terrore nazifascista erano finiti. Per i militanti più vecchi come De Luca (uscito da Regina Coeli alla testa di un corteo di detenuti politici), Poce, Volpini e tanti altri l’attesa era stata molto più lunga: da venti anni aspettavano quelle radiose giornate. La fame e la miseria generale, che tuttavia restavano, non frenarono le manifestazioni popolari di entusiasmo per la ritrovata libertà. La fine di un incubo. I militanti più attivi del Mcd’I si erano impossessati delle sedi necessarie alla loro attività e s’impegnarono a fondo nel reclutare giovani per l’Armata Rossa. Poce, a conferma dell’autorità di cui godeva, fu affiancato al vice-questore.
Furono giorni di vertigine per chi aveva tanto sofferto e anelato alla sconfitta del fascismo come nella necessaria premessa per la rivoluzione socialista. Il sogno di allestire un esercito popolare di liberazione, una Armata Rossa, apparve per qualche tempo di possibile realizzazione. Durante la occupazione di Roma, Armata Rossa era stata una piccola ma agguerrita formazione che raggruppava alcune centinaia di combattenti del Mcd’I e del PCI (sbandati o dissidenti dal partito); ora si trattava di sviluppare questo nucleo fino ad avere una forza armata popolare che conducesse autonomamente la guerra contro i tedeschi e i fascisti, affiancandosi agli Alleati e stabilendo un contatto non solo ideale con i partigiani del nord.

In pochi giorni la campagna di reclutamento dei volontari vede l’adesione di 40-50 mila giovani. E immediatamente scatta l’altolà degli Alleati “liberatori”, che “preoccupati dal movimento dei volontari che sarebbe stato difficile da controllare, emisero un decreto che ordinava la sospensione degli arruolamenti e ogni altra iniziativa non autorizzata. Poce, avendo insistito il Mcd’I nella sua azione, passò da vice-questore al carcere. Tornò in quella Regina Coeli che aveva conosciuto a più riprese durante il fascismo e ci restò per un paio di mesi.”

Fatto altamente simbolico dell’avvio della democrazia post-fascista (non però anti-fascista, come usa dire). L’esperienza romana è uno dei pochi casi in cui, pur essendoci rapporti con i comandi anglo-americani, viene mantenuta sia l’autonomia dell’organizzazione comunista che quella dei gruppi armati, perché “i proletari combattono per sé stessi”, e non per la borghesia. Poce si scontra con questi comandi quando pretendono di imporre al Mcd’I che a Roma non ci debba essere una insurrezione, e rinuncia al suo proposito solo quando sa che PCI, Psi e azionisti hanno accettato il diktat. Alla vigilia dell’occupazione di Roma da parte delle truppe alleate si rifiuta di mettere le proprie milizie sotto il controllo dei commissariati romani di pubblica sicurezza. Sennonché è proprio questa autonomia che i nuovi padroni, alleati e protettori dei vecchi padroni, non intendono in alcun modo accettare, tant’è che oltre Poce, anche altri militanti del Mcd’I vengono arrestati dalle forze della repressione democratica. Del resto, il 19 luglio 1943 i bombardamenti alleati su Roma erano cominciati, guarda caso, dal quartiere rosso di San Lorenzo con una strage di 1.600 persone. Nello scontro inter-imperialistico tra truppe nazifasciste e truppe a guida anglo-americana appariva sempre più chiaro, ormai, che la Resistenza avrebbe dovuto avere più un ruolo subalterno. Come ebbe poi a riconoscere senza mezzi termini Ferruccio Parri: Rifiutiamo per noi le penne del pavone. Sono gli Alleati che hanno sconfitto il nazismo e la sua triste appendice.

Un giudizio storico-politico che, contro ogni bolsa retorica resistenziale di “estrema sinistra”, oggi appare indiscutibile. Per dirla con Paul Ginsborg: “la Resistenza non fu mai servile nei confronti degli Alleati, ma non può esservi alcun dubbio sulla sua essenziale subordinazione” ai comandi Alleati. I “comunisti dissidenti” di Roma cercarono invano di sottrarsi a questo amaro destino di donatori di sangue per la vittoria degli Alleati (imperialisti). Decimati dai nazi-fascisti; controllati, intimiditi e colpiti dalle autorità alleate; calunniati, minacciati, attaccati politicamente dal PCI; grazie alla loro speciale dedizione alla causa, erano riusciti a crescere fino alla fine del 1944, ma non ebbero la forza di tenere il campo dopo il crollo del nazifascismo e la fine della guerra. Si divisero prima tra favorevoli e contrari all’ingresso nel PCI; si dispersero poi in più direzioni, per dissolversi completamente nell’estate del 1947. Il PCI accettò nelle sue fila la gran parte dei militanti di base, respingendo invece i capi.

La vittoria del PCI sul Mcd’I è, in realtà, parte di un processo assai più ampio e profondo di nuova stabilizzazione del capitalismo globale dopo il trentennio di devastanti sconvolgimenti che va dal 1914 al 1945 passando per due guerre mondiali e la Grande Depressione. L’impressionante salasso di capitale fisso e di esseri umani avvenuto in questo frangente; il totale tracollo delle tre potenze dell’Asse; l’emergere sulle loro rovine e sul disfacimento dell’impero coloniale britannico di un nuovo, potentissimo guardiano dell’ordine capitalistico mondiale dotato di armi di sterminio di massa e in possesso di ingenti quantità di capitali da anticipare ai paesi europei vinti, gli Stati Uniti d’America; aprono una fase di forte ripresa dell’economia. E per i paesi europei, un periodo di pace nel quale i proletari in massa vengono risucchiati in una macchina produttiva democratica (fuori dai luoghi di lavoro) che pare promettergli un futuro differente dall’incubo vissuto da due generazioni di lavoratori. Non erano stati solo i dissidenti romani, erano stati in centinaia di migliaia, se non milioni di proletari italiani, jugoslavi, greci, albanesi e così via a sognare la ripresa e la conclusione vittoriosa del ciclo rivoluzionario degli anni 1917-1927. Che non si trattasse di sparuti gruppi settari e infantili, lo hanno riconosciuto in seguito gli stessi massimi pedagoghi della “via italiana al socialismo”. Ha scritto ad esempio Giorgio Amendola: “Vi era nel partito un profondo contrasto tra una grande parte degli aderenti che vedeva l’insurrezione [del 25 aprile ‘45] in maniera ingenua come già l’inizio del socialismo, e il gruppo dirigente che aveva coscienza dei limiti di classe della situazione italiana e cercava di correggere questo orientamento massimalista”. E lo stesso Togliatti, ha confessato ripetutamente che fu dura far comprendere alla massa dei militanti che la scelta di Salerno e dell’unità nazionale con la borghesia italiana in quanto tale non era una furba tattica doppiogiochista per fregare gli avversari borghesi, bensì la definitiva rinuncia alla prospettiva della rivoluzione sociale.

Con la mano ferma dello studioso che sa bene quello che dice, con ammirevole sobrietà nello stile, David Broder ci conduce a vedere e a vivere il progressivo impatto devastante che questo nuovo corso del capitalismo mondiale e del “movimento comunista internazionale” ebbe sui “dissidenti comunisti” di Roma. Davvero un libro da leggere. Che si chiude con queste parole:

i militanti del Mcd’I erano guidati più dalla fede in ciò per cui stavano combattendo che da una chiara idea su come raggiungere il proprio scopo. Questi proletari romani sognavano il sol dell’avvenire e una vittoria che non era soltanto degna della lotta per conseguirla, ma anche inevitabile, assicurata dal movimento della storia. Questa fede permise una coesione che altrimenti sarebbe mancata alla loro organizzazione piuttosto traballante, una teleologia capace di dare senso ai loro terribili sacrifici. Ma quando l’obiettivo finale scomparve dal loro orizzonte, non gli rimase alcuna tradizione da difendere. Alcuni di loro modificarono il proprio modo di vedere per abbracciare lo spirito dei tempi; i più rivolsero semplicemente le loro speranze al di fuori della politica. Non ci fu alcun lieto fine, né alcuna redenzione, e neppure un articolo di giornale che spiegasse perché gli ultimi seguaci avevano staccato la spina. Non potettero avanzare alcuna giustificazione, né indicare una svolta sbagliata. La loro storia non è stata altro che una storia di fede nel futuro, e della sua sconfitta.

Eppure: se un domani ci sarà una Roma senza Quirinale, senza Vaticano, senza i pescecani e senza la sterminata burocrazia che oggi l’appestano. Se sui sette colli nuove generazioni di proletari dovessero fondare la Comune romana sognata nel 1943-’45 da questi sconfitti esploratori del futuro. Allora la loro vicenda, i loro nomi sconosciuti grandeggeranno sulle forze nazionali e internazionali e sui “celebri personaggi” che li dispersero.

Fine

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Il nuovo disordine mondiale /3: i discorsi della guerra https://www.carmillaonline.com/2022/03/02/il-nuovo-disordine-mondiale-3-i-discorsi-della-guerra/ Wed, 02 Mar 2022 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70714 di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse [...]]]> di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse che hanno premiato le industrie produttrici di armi o collegate al settore degli armamenti e, infine, sulle ritorsioni di carattere economico adottate dall’Occidente nei confronti della Russia putiniana e delle loro possibili conseguenze sul piano interno russo e su quello militare, guerra nucleare compresa. Compreso, last but not least, un sintetico commento sul linguaggio di guerra dei media di ogni parte coinvolta e di quelli occidentali in particolare.

Linguaggio, propaganda e guerra sono assolutamente indivisibili poiché mentre le esigenze dell’ultima rimodulano obbligatoriamente i primi due elementi, questi, a loro volta, foraggiano e rivitalizzano in continuazione la stessa. In un girotondo in cui i termini tecnici perdono il loro reale significato, distorto a scopo propagandistico, e l’emozionalità sostituisce la razionalità di qualsiasi discorso inerente ai fatti reali. In cui la costante denigrazione e demonizzazione del “nemico” avviene in un contesto in cui, come già affermava Hannah Arendt ai tempi della guerra in Vietnam e dei Pentagon Papers, la “politica della menzogna” è destinata principalmente, se non esclusivamente, ad uso interno e alla propaganda nazionale1.

Iniziamo, quindi, da ciò che con sempre maggior frequenza viene presentato come uno degli elementi certi del fallimento di Putin in Ucraina: la guerra lampo. Dopo sei giorni di guerra infatti, al di là della girandola di cifre, spesso iperboliche, sulle perdite e i danni subiti dai russi, ma molto più “contenute” per quanto riguarda quelle subite dalle forze ucraine, si sentono e si leggono sempre più spesso, ma lo si sentiva già dopo due o tre giorni, affermazioni riguardanti il fallimento militare russo nell’ambito della guerra lampo. Bene, cotali esperti e cronisti dimenticano due o tre cosucce riguardanti la stessa, sia sul piano storico che tecnico.

L’esempio classico di Blitzkrieg è sicuramente quello dell’occupazione tedesca della Francia nella primavera del 1940. Quell’operazione, che costituì l’esemplare applicazione dei metodi appresi dagli ufficiali tedeschi, durante la collaborazione tra Germania nazista e Russia staliniana dopo il patto Ribbentrop-Molotov del 1939, alla scuola di guerra sovietica e da generali innovativi come Michail Nikolaevič Tuchačevskij (poi eliminato durante le grandi purghe staliniste del 1937), iniziò il 10 maggio 1940 e raggiunse il proprio risultato, occupazione del territorio francese a seguito della capitolazione del governo e delle armate schierate sullo stesso, il 22 giugno dello stesso anno.

All’incirca 45 giorni di quella che fu definita la guerra strana, balorda se non addirittura “buffa” (drôle in francese) per assumere il pieno controllo di un territorio appena un po’ più grande di quello ucraino attuale2. Durante la quale le colonne corazzate e meccanizzate tedesche si rifornivano direttamente ai distributori di carburante incontrati e sequestrati sul loro cammino, mentre le truppe britanniche venivano costrette ad evacuare rapidamente e disordinatamente le spiagge di Dunkerque tra il 27 maggio e il 2 giugno.

Vanno sottolineati questi aspetti perché alcune fonti di informazione mainstream hanno sottolineato come i mezzi russi abbiano “razziato” i distributori di carburante ucraini, scandalizzandosene. Mentre il vero scandalo, per l’occhio attento di chi un po’ di storia militare l’ha studiata, è dato dal diffondere l’idea che una guerra lampo possa durare 48 o 72 oppure 150 ore. Fatto ancora più scandaloso se si considera che le stesse fonti hanno appoggiato incondizionatamente guerre come quelle in Iraq e in Afghanistan dover gli occidentali e la Nato sono rimasti impantanati per vent’anni senza ottenere alcun risultato se non la distruzione di economie, Stati e di un numero esorbitante di vite umane, soprattutto civili.

Diffondere, dunque, l’idea di un fallimento della guerra lampo russa a nemmeno due settimane dall’inizio costituisce per questo motivo soltanto un elemento propagandistico ad uso degli spettatori e lettori occidentali per tranquillizzarli sulle possibili conseguenze e i possibili sviluppi di una guerra appena iniziata. Così come l’insistere sulle difficoltà dell’avanzata russa significa nascondere il fatto che, dal punto di vista della dottrina militare russa, un avanzamento di 30-35 chilometri al giorno costituisce di per sé un fattore di successo, mentre nei primi giorni del conflitto le truppe russe hanno, in diversi casi, ampiamente superato le distanze effettivamente percorse. Senza dimenticare, infine, che l’intensificazione dei bombardamenti sulle reti di comunicazione e gli obiettivi sensibili distribuiti sul territorio ucraino potrebbero indicare che la “vera guerra” è iniziata solo ora.

Sullo scandaloso fatto, inoltre, che le operazioni militari russe continuino durante le trattative intavolate tra le due parti a partire del 28 febbraio, occorre semplicemente osservare che, storicamente, è proprio durante le trattative che le operazioni militari vengono intensificate dai contendenti, proprio per portare al tavolo delle stesse risultati destinati a porre i negoziatori su un piano di maggior forza. Naturalmente ignorando sempre il punto di vista della maggioranza dei civili, per cui la soluzione migliore è sempre rappresentata dalla cessazione delle ostilità o, come sta avvenendo anche oggi, dalla fuga per cercare rifugio in aree non ancora coinvolte dagli scontri e dalla guerra, alla faccia della retorica che vorrebbe tutti gli ucraini intenti a fabbricare molotov e ad arruolarsi nelle milizie volontarie. Tutto il resto è chiacchiera e, per giunta, nemmeno così tanto umanitaria come si vorrebbe invece dare a intendere.

Il solito rivoluzionario dagli occhi da tartaro affermava che «la verità è sempre rivoluzionaria» e per una volta tanto non aveva affatto torto. Perciò le righe che precedono e quelle che seguiranno avranno infatti questa intenzione, quella di disvelare, ancora una volta poiché ce n’è purtroppo bisogno, il cumulo di menzogne e falsità che coprono l’attuale conflitto e le sue possibili conseguenze future, mentre non hanno affatto quella di giustificare le imprese militari di Putin oppure enfatizzare le scelte del suo avversario Zelensky.

Se le fotografie dei danni apportati a numerosi mezzi russi attestano un uso massiccio di droni e armi tecnologicamente avanzate impiegate sul terreno dalle forze ucraine, fino ad ora probabilmente fornite dagli americani in precedenza (insieme ai droni turchi forniti da un’azienda specializzata in tale settore tra le più grandi del mondo, di cui proprio il genero di Erdogan è a capo ), è anche vero che la possibilità per i russi di creare colonne di mezzi lunghe decine di chilometri sulle strade ucraine attesta l’inagibilità dello spazio aereo per l’aviazione ucraina, così come dichiarato dalle fonti russe e come attestato dal fatto che alcuni aerei militari ucraina abbiano trovato rifugio in Romania.

Grande è il disordine quindi sul terreno dell’informazione e della propaganda, ma anche su quello delle alleanze, considerato che lo stesso Erdogan, che ha rifornito gli ucraini di droni, ha permesso un abbondante traffico di mezzi navali militari russi nello stretto del Bosforo che attraversa la stessa Istanbul, dividendola in parte europea ed asiatica. Il cui governo, nonostante le dichiarazioni di Zelensky che aveva dato per scontata l’idea di una Turchia vicina all’Ucraina, deve ancora accertare sul piano giuridico se quella in Ucraina sia davvero una guerra, mentre ha già affermato di non voler applicare sanzioni contro la Russia. Questione non del tutto indifferente se si considera che, non soltanto in teoria, la Turchia costituisce la seconda forza militare della Nato.

Rimanendo ancora sul terreno del linguaggio della propaganda e della necessità di creare consenso intorno alla guerra va notato come per Putin stesso le attuali operazioni militari non costituiscano un’aggressione militare, ma un’operazione “speciale” di ordine pubblico e disarmo internazionale, così come già tante guerre dichiarate dalla Nato e dall’Occidente hanno nel recente passato assunto la denominazione di “missioni di pace” oppure di “polizia internazionale”. Cambiano quindi i promotori, ma non il linguaggio utilizzato, cosa che dovrebbe sempre far drizzare le orecchie di chi ascolta tali fandonie, qualsiasi sia la fonte da cui sono espresse.

Il secondo elemento, che è stato prima anticipato, è quello del riarmo europeo, indice sia della frenesia di guerra che è sotteso sia al discorso sulla “pace” che della necessità di trovare uno sbocco produttivo sicuro per settori importanti dell’industria pesante, ma non solo, europea cui evidentemente la promessa del rinnovo del mercato dell’auto attraverso versioni ibride o elettriche della stessa non da ancora sufficienti garanzie di sviluppo dei profitti, mentre, soprattutto in Germania, fa già prevedere un’enorme riduzione di posti di lavoro nel settore, anticamera di possibili conflitti sociali che vanno sopiti ancor prima di un loro possibile inizio.

Da qui discende un passo che non bisogna esitare a definire “storico”: il riarmo tedesco annunciato dal cancelliere federale Olaf Scholz, con una previsione iniziale di spesa di cento miliardi di euro.
Una decisione che non può essere stata presa a sorpresa e soltanto a causa della situazione venutasi a creare sulle frontiere orientali, ma che deve covare da tempo nel governo e nella direzione economica del capitale tedesco. Decisione che prelude non solo alla necessità della “difesa” degli interessi tedeschi ad Est, ma inevitabilmente ad una ripresa, in chiave forse più aggressiva e marcata, della politica di potenza germanica, condotta fino ad ora soltanto con strumenti di ordine finanziario e legislativo oggi forse ritenuti non più sufficienti.

Considerazioni che non possono, oltre tutto, essere slegate dalla lentezza e dalle difficoltà che hanno invece caratterizzato qualsiasi provvedimento economico europeo nei confronti della pandemia e delle spesso drammatiche esigenze sanitarie, sociali ed economiche che ne sono derivate. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’andamento delle borse in questi giorni dove, solo in Italia sia Leonardo che Fincantieri, aziende coinvolte nel settore degli armamenti e della cantieristica militare, hanno visto crescere i loro titoli di più del 15% in un solo giorno.

Ancora più significativi appaiono, poi, i provvedimenti di ordine economico e militare presi da numerosi stati europei della Nato, italietta nostalgica in testa. Un autentico gettarsi a capofitto nella fornace della guerra, che richiama una somiglianza con l’affermazione marinettiana «guerra sola igiene del mondo!», che perde però la carica provocatoria del primo manifesto futurista e sembra assumere una carica messianica di risoluzione e cancellazione dei problemi politici ed economici, oltre che potenzialmente sociali, che attanagliano i governi, e in particolare e su tutti i fronti quello italiano.

Governo che, PD in testa, dopo aver posto ogni possibile e irragionevole fiducia nell’azione di un deus ex-machina come Mario Draghi, l’ha prima affondato nelle elezioni presidenziali e l’ha visto poi sparire dall’orizzonte internazionale, nonostante le trionfalistiche dichiarazioni a favore del suo operato diplomatico venute da un “genio politico” quale Romano Prodi; unico tra i maggiori leader politici europei a non essersi recato a Kiev e Mosca, per lasciare il posto ad un tizio di nome Luigi Di Maio, inadeguato anche soltanto a preparare un caffè. Atto caratterizzato dalla tipica furbizia gesuitica ed italica che, nella sostanza, avvicina l’operato dell’attuale presidente del consiglio a un servilismo atlantico mai neppure lontanamente immaginato o voluto dalla DC di Giulio Andreotti più che a quello di un grande statista, come egli stesso si vorrebbe invece rappresentare.

Cosa che non gli ha impedito di rivendicare la necessità della riapertura delle centrali a carbone, e forse anche ad oli combusti, e la decisa affermazione della necessità di inviare altri soldati e mezzi ai confini orientali d’Europa e rifornire di armi il regime di Kiev, aggirando la legge 185 approvata nel 1990. Cose che, a parte le finte svenevolezze cattolicheggianti di Salvini sulla questione delle armi letali (ne esistono forse di non letali, a partire da scarponi e manganelli considerate le esperienze della Diaz e d ei detenuti massacrati troppo spesso tra le mura delle carceri italiane?) ha trovato tutti i rappresentanti della democrazia parlamentare uniti e saldi nell’urlare armiamoci e partite!3. Opposizione compresa, anzi più scalpitante che mai nel volersi rappresentare come degna erede del fascismo. E che proprio per questo, messa da parte la stagione della protesta contro il green pass, non si scandalizza certo più per l’ulteriore prolungamento dello stato di emergenza fino alla fine di settembre per motivi legati alla difesa della sicurezza nazionale.

Andiamo in guerra ma non lo diciamo; spingiamo in quella direzione ma lo facciamo in nome della pace e della democrazia ci dicono i governanti europei ed in primis quelli nostrani. Sventolando un umanitarismo peloso che ricorda troppo le fake news che precedettero l’entrata nel primo conflitto mondiale, quando si raccontava sui giornali italiani che i soldati tedeschi, in Belgio, tagliavano le mani ai bimbi per poi inchiodarle sulle porte delle case. Oppure durante l’azione mercenaria in Congo, contro Lumumba e l’indipendenza africana, nel 1960, quando invece si raccontò che gli aviatori italiani uccisi a Kindu trasportavano giocattoli per bambini invece che armi per i ribelli secessionisti e filo-occidentali del Katanga che già si erano macchiati le mani con il sangue di Patrice Lumumba. Oppure, ancora oggi quando sulle pagine dei nostri quotidiani, appaiono le notizie di giocattoli esplosivi donati dagli “infernali” russi ai bambini ucraini. Benvenuti nel mondo della stampa democratica e liberale. Non soltanto italiana, se questo può consolare il lettore.

Liberale e democratica come l’Ucraina dove immigrati africani, asiatici e sudamericani devono lasciare il posto ai bianchi sui mezzi che possono portarli lontani dalla guerra (qui) oppure come i commenti sulla guerra in Europa, apparsi sui media occidentali, infestati di razzismo esplicito.

BBC: «E’ per me molto commovente vedere gente europea dagli occhi azzurri e dai capelli biondi venire uccisa» ( David Sakvarelidze – Ukraine’s Deputy Chief Prosecutor,).

CBS News: «Qui non siamo in Iraq o in Afghanista, qui siano in una relativamente civilizzata città europea» (Charlie D’Agata – corrispondente estero)

BFM TV (Francia): «Siamo nel 21° secolo, siamo in una città europea e abbiamo missili da crociera che ci piovono addosso come se fossimo in Iraq o in Afghanista. Riuscite ad immaginarlo?»

NBC TV: «Per dirla schiettamente, questi non sono rifugiati siriani, questi provengono dall’Ucraina… Sono Cristiani, sono bianchi, sono molto simili a noi» (Kelly Cobiella – corrispondente di NBC News dalla Polonia)4.

Benvenuti sotto le bandiere della democrazia e della libertà!
Benvenuti sotto le bandiere dell’umanitarismo e della pace!
Benvenuti sotto le bandiere di un leader, Zelensky, che in nome della patria chiama, di fatto, il parlamento europeo a scatenare un intervento contro la Russia.
Benvenuti sotto le bandiere del reggimento Azov, formato da volontari neo-nazisti e asserragliato a Mariupol.
Benvenuti nella prossima guerra mondiale, che la retorica odierna, da una parte e dall’altra non fa che preparare.
Benvenuti, quindi, all’inferno!
Motivo per cui non vi è modo di sistemarsi a fianco di una delle due parti in lotta, come tanto antagonismo confuso trova spesso così semplice fare, approfittando di discorsi e movimenti già apparecchiati da altri (ma con ben diversi fini).

Detto questo è utile sottolineare come tutte le sanzioni e tutti i provvedimenti presi o previsti fino ad ora dai paesi europei e della Nato, da quelle economiche alle forniture di arsenali militari, dallo schieramento di nuove forze militari ad Est al permesso per il transito di volontari per le milizie ucraine son tutti passibili di essere interpretati come azioni “belliche” di fatto. E la vergogna maggiore è data dal fatto che la stampa nostrana si sia permessa di tracciare paralleli tra l’odierno volontariato nazionalista e mercenario5, di stampo in gran parte fascista, destinato ad essere integrato nelle milizie ucraine e i volontari internazionalisti che accorsero in Spagna non solo in difesa della repubblica, ma anche con la speranza, poi tradita e distrutta dall’azione di Stalin e dei suoi accoliti italiani (Togliatti e Vidali), di portare la rivoluzione in Europa. Dimenticando, inoltre, il trattamento riservato ai volontari italiani tornati dal Rojava, quasi tutti indagati e di fatto trattenuti ai domiciliari per lunghi periodi.

In questo caso lo schieramento è conservativo, non perché si opponga all’autocrate Putin, ma perché intende rafforzare e ristabilire l’ordine europeo ed occidentale del capitale imperialistico. In ogni modo e in ogni caso. Non c’è attualmente alternativa sul campo. Chiunque vinca, marciando sui cadaveri delle vittime civili e degli illusi di ogni tendenza, lo farà in nome di interessi finanziari, militari, geopolitici, economici e militari che rappresentano la negazione di qualsiasi cambiamento radicale degli assetti politico-sociali presenti.

Tutto ciò, compreso l’esplicito tentativo di rovesciare Putin “dall’interno”, costituisce il vero pericolo futuro, ovvero quello di un conflitto allagato a partire da provvedimenti che, minando la stabilità economica ed interna della Russia, potrebbero portare il leader russo a giocarsi il tutto per tutto in una battaglia a tutto campo. Motivo per cui la messa in allarme del sistema di deterrenza nucleare russo, della flotta del Pacifico e dei bombardieri strategici russi, non costituisce soltanto un’ipotetica minaccia come ai tempi dell’affare dei missili di Cuba nel 1962. Allora, infatti, si avevano margini di trattativa e spazi ancora da conquistare che oggi non ci sono più, per nessuna delle due parti in causa.

Tutto si svolge infatti sotto gli occhi di due potenze nucleari ed economiche, Cina e India, che per ora si astengono in attesa di approfittare degli errori dei due contendenti. Non vi sono alleanze sicure date, anche perché il grande blocco asiatico è costretto comunque a fare i conti con la necessaria continuità di presenza sul mercato mondiale. Di modo che se i paesi dell’heartland (Eurasia e Asia continentale) sono oggi interessati a non perdere i vantaggi di una possibile intesa che vada dai confini europei della Russia alla Corea del Nord e dalla Cina all’Oceano Indiano, passando magari per l’Afghanistan, allo stesso tempo, soprattutto la Cina, devono anche tenere d’occhio i loro interessi finanziari e produttivi globali.
Nello stesso tempo, i paesi del rimland (terre che limitano ad Ovest il grande continente euroasiatico e che cercano di limitarlo attraverso il controllo dei mari e degli oceani circondandolo) e della talassocrazia6 hanno ormai troppi punti di frizione da tener sotto controllo. Non ultimi proprio quella Crimea e quella Taiwan di cui tanto si parla quando si parla di guerra.

L’attuale frenesia di guerra da parte europea, ancor più che atlantica, dimostra la debolezza che sta alle basi di tali scelte. Così mentre si parla ad ogni piè sospinto della debolezza e dell’isolamento di Putin, a livello interno ed internazionale, il capitale europeo, schiacciato tra Stati Uniti e Cina, esigenze energetiche e difficoltà di rinnovamento, rivela tutta la sua fragilità7 lanciandosi, quasi inconsapevolmente, in un’avventura che potrebbe deragliare in una catastrofe senza precedenti. Ad accorgersene sembrano essere soltanto alcuni esperti di geo-politica e affari militari, mentre certi filosofi della politica incitano alla creazione di un autonomo arsenale nucleare europeo basato su quello francese, tra gli applausi dei giornalisti embedded dei media nazionali8.

Per noi, a cent’anni dalle mobilitazioni contro la prima guerra mondiale, rimane un’unica certezza ovvero la necessità non di chiedere pace, democrazia e libertà, parole vuote di significato reale se non accompagnate da una reale eguaglianza sociale ed economica, ma di anteporre a tutte le menzogne che la preparano quella spontanea opposizione alla guerra imperialista che mosse i pochi e coraggiosi rivoluzionari anti-militaristi che si incontrarono a Zimmerwal e Kiental, nella neutrale Svizzera, nel 1915 e nel 1916. In tutto 42 delegati nel primo caso e 43 nel secondo, una più che esigua minoranza anche per allora. Ricordando sempre che il primo nemico è comunque e sempre in casa nostra, ma con l’unica e significativa differenza che, oggi, anche la Svizzera non può più essere considerata neutrale dopo i provvedimenti approvati nei confronti della Russia e delle sue banche.

(3 – continua)


  1. Si veda qui  

  2. 675.000 km quadrati per la Francia contro i circa 604.000 dell’Ucraina odierna  

  3. Si veda qui, sulla frenesia europea e italica, un interessante articolo del magazine on line AD Analisi Difesa  

  4. Per altre “perle” del genere si veda qui  

  5. Si veda il tariffario delle ricompense in denaro promesse da Vladislav Atroshenko, sindaco di Chernihiv nell’Ucraina settentrionale: per ogni blindato da trasporto distrutto la ricompensa sarà di circa 4.400 euro, per ogni carro armato il premio sarà di circa 6.000 euro, per una cisterna mobile circa 7.500 euro. Mentre per ogni soldato russo “ucciso o catturato” il primo cittadino promette 300 euro (Fonte: https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/ucraina-soldi-a-chi-infligge-perdite-all-esercito-russo-il-tariffario-della-resistenza/ar-AAUsEjw?ocid=msedgntp)  

  6. Si veda qui  

  7. Tipico il caso di Boris Johnson che non esita ad indossare la mimetica da combattimento per far dimenticare ai suoi elettori lo scandalo dei covid party  

  8. Anche se oggi, 2 marzo, sia Olaf Scholz che il ministro della difesa britannico, Ben Wallace, sembrerebbero iniziare a frenare su un più ampio coinvolgimento della Nato in Ucraina poiché, secondo lo stesso Wallace, una scelta del genere porterebbe direttamente alla Terza guerra mondiale. Mentre il ministro degli esteri russo, Lavrov, avrebbe avvertito l’Occidente che una terza guerra mondiale non potrebbe essere che nucleare.  

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Dare a Cesare quel che è di Cesare (e ai sindacati confederali quel che spetta loro) https://www.carmillaonline.com/2021/10/21/dare-a-cesare-quel-che-e-di-cesare-e-ai-sindacati-confederali-cio-che-spetta-loro/ Thu, 21 Oct 2021 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68768 di Sandro Moiso

Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.

Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, [...]]]> di Sandro Moiso

Poiché siamo abituati a dare a Cesare ciò che è di Cesare e al cielo ciò che gli appartiene, va detto che un merito, per ora forse l’unico, che il movimento No Green Pass può vantare è quello di aver contribuito indirettamente a far sì che, non certo per la prima volta ma in maniera più consistente, i sindacati confederali risplendessero alla luce del servilismo e del collaborazionismo che da sempre ne contraddistingue azione e funzione politica.

Contro la marmaglia ribelle, nei giorni precedenti il 15 ottobre, i media, il PD e il governo stesso si sono sperticati gola e mani nell’esaltazione dell’opera di pacificazione sociale portata avanti da CGIL, CISL e UIL e in particolare dalla figura, ormai prossima alla beatificazione, di Luciano Lama in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita.

Mentre si sorrideva, giustamente, della richiesta di Salvini a Draghi affinché il presidente del consiglio contribuisse a riportare la pace sociale in vista delle elezioni amministrative e dei successivi ballottaggi, molti, quasi sempre offuscati da qualsiasi superficiale richiamo alla mistica dell’antifascismo istituzionale, ignoravano o sembravano soprassedere sull’autentica e definitiva dichiarazione d’intenti manifestata dai leader sindacali, “unitari” nel sostenere la necessità di evitare qualsiasi tipo di conflittualità sociale al fine di permettere la ripresa economica promessa dal PNRR.

Certo non è la prima volta che i sindacati della concertazione, uscita pari pari dalla Carta del Lavoro di mussoliniana memoria, chiedono sacrifici e compartecipazione dei lavoratori in nome del supremo interesse nazionale. La storia degli ultimi cinquant’anni ne è piena, ma tale funzione di collaborazione spesso è apparsa più sfumata rispetto alle dichiarazioni attuali.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con le sue “opportunità”, o spacciate come tali ai giovani e alle donne soprattutto, appare come una sorta di novello Piano Marshall, cui è stato paragonato più volte. Un’occasione da non perdere sia per gli imprenditori che per i lavoratori e le lavoratrici e i disoccupati. Discorso che, basandosi sulla promessa della crescita del PIL, dovrebbe annullare qualsiasi altra reazione alle sue reali e differenti conseguenze per i primi e per i secondi.

Come ha scritto l’economista, saggista ed editorialista di Limes, Geminello Alvi: «La percezione del mondo in forma di Pil serve non alla conoscenza, ma alla retorica degli stati. […] Il Pil e i suoi abusi sono il più perfetto esempio […] di omologare chiunque, equalizzandolo alle proprie manie di benessere e di potenza […] Il Pil è un indice della potenza statale, e di una qualche vera efficienza solo in tempo di guerra.»1

Per questo motivo l’idea di reddito netto, che era nata nel Seicento proprio per misurare ed accrescere tale potenza, «evolvette a prodotto o reddito nazionale moderno durante la seconda guerra mondiale, per opera di mediocri burocrati ai quali neppure Keynes credeva[…] E cosa si propone oggi nel tanto dissertare sul Pil? Di renderlo ancora più comprensivo, della felicità e di indici ecologici alla moda. Quando si dovrebbe invece lavorare per restringerlo, indi per limitare l’economicizzazione omologante.»2

Il riferimento a Keynes non è casuale poiché proprio il teorico dell’intervento dello Stato nell’economia finì con l’essere il vero, anche se spesso indiretto, ispiratore delle politiche che finirono col caratterizzare le scelte delle maggiori economie uscite devastate dagli effetti della Grande Crisi o Grande Depressione.
Nella competizione allora in corso per uscire da quegli effetti e per la ridistribuzione di quote importanti del mercato e della ricchezza mondiale, sempre secondo Alvi, sulla base degli studi di Costantino Bresciani Turroni3:

il keynesismo hitleriano funzionò pure meglio del New Deal. Nel 1938 gli Stati Uniti producevano un reddito nazionale del 23% inferiore a quello del 1929, e la Germania hitleriana già nel 1938 aveva raggiunto un reddito superiore del 5% a quello del 1929. La svolta tedesca era certo dipesa dal riarmo che provocò inflazione ma anche da spese pubbliche non troppo diverse da quelle dei borgomastri che negli anni venti indebitarono la Germania: autostrade e stadi. Per non dire degli aumenti salariali4.

Il fatto che la ripresa definitiva dalla Grande Depressione fosse poi giunta soltanto con la guerra (mondiale) non può costituire altro che un corollario delle scelte basate su un incremento gigantesco delle spese statali destinate a “grandi opere” (tra le quali occorre inserire il “riarmo” delle maggiori potenze dell’epoca), maggiori consumi (e quindi maggior produzione di merci) e controllo e uso indiscriminato di risorse umane, naturali ed energetiche.

Lo spesso declamato, ancor oggi da certa sinistra, keynesismo necessita di governi autoritari, oppure per usare un eufemismo “fortemente centralizzati”, spesso imposti attraverso la forza, il ricatto o l’inganno (e spesso da tutti e tre questi elementi insieme), in un contesto in cui: «Fare della statistica il criterio della verità è l’ipocrisia indispensabile di qualunque democrazia, la quale favorisce l’omologazione capitalistica.»5
E se qualcuno si stupisse del sentire parlare di democrazia in un contesto in cui si è parlato anche di nazismo, è sempre utile ricordare il fatto che Hitler andò al potere come cancelliere, nel gennaio del 1933, dopo aver vinto le elezioni del 6 novembre 1932 con il 33,1% dei voti (pur perdendo circa il 4% dei voti rispetto a quelli ottenuti nel luglio dello stesso anno) ed essersi alleato in parlamento col Partito Popolare Nazionale Tedesco (8,5% dei voti e 52 seggi).

In democrazia vincono i numeri delle maggioranze, vere o artefatte che siano, e da lì sembra derivare anche l’alto valore assegnato alle scienze statistiche come strumenti di “verità assolute” (Pil, numero dei vaccinati sulla popolazione, etc. solo per fare degli esempi). Pertanto oggi, anche se spesso il tema è rimosso ed ignorato, a farla ancora da padrone è lo schema keynesiano dell’intervento pubblico in economia, che si tratti di TAV, ponti sullo stretto, riarmo dell’esercito, dell’aviazione o della marina militare, reddito di cittadinanza a 5 (o meno) stelle o altro ancora.

Subissati di cifre e da una girandola di informazioni sulla ripresa o meno dei consumi, sull’aumento o diminuzione dei posti di lavoro, tutte basate su dati spuri e nudi che non tengono conto della qualità dei beni necessari ed effettivamente consumati o dei lavori riproposti a salario ribassato e orario inalterato, precipitiamo in un mondo indifferenziato di cittadini consumatori e utenti di servizi (sempre più spesso privati, ma finanziati col pubblico denaro come accade soprattutto per la sanità) in cui il problema delle “tasse” sembra sopravanzare quelli della “classe”6.

La democrazia rappresentativa, ovvero quella che ci ostiniamo a chiamare “borghese”, si nutre innanzitutto di cifre e se i numeri non ci sono, all’occorrenza, come nel caso dell’attuale governo o di quello Monti, si trovano. Gli utili idioti dei partiti, di ogni cifra e colore, disposti a tutto pur di restare a galla sugli scranni parlamentari, nonostante la presenza di quasi un 60% di cittadini non votanti, delusi, scazzati e arrabbiati, si troveranno sempre.
Talmente idioti da non rendersi conto di come questa ripetuta, ormai, tradizione di presidenti del consiglio non eletti, ma nominati, tutto sommato risalente in Italia fino al primo governo Mussolini, non contribuisce ad altro che a privarli ulteriormente di qualsiasi autorità e funzione reale.

Così, mentre si urla al lupo fascista e si convocano grandi manifestazioni di pensionati antifascisti (Che è…sarà mica che poi vengono quelli e ce decurtano la pensione e i diritti acquisiti. Daje, non pensamoce, cantamo n’altra volta “Bella ciao”…), il settore sindacale che conta ormai il più alto numero di iscritti ma di peso specifico politico ed economico pari a zero, l’autoritarismo si rafforza all’ombra della vulgata democratica e delle coperture finanziarie europee o straniere. Perché, lo si dica con chiarezza almeno per una volta, Draghi sembra ripetere i fasti di un altro “grande statista italiano”: Alcide De Gasperi.

Quello eletto con l’appoggio del Vaticano e del Piano Marshall, cui guarda caso oggi spesso si paragona il Recovery Fund europeo, l’attuale con alle spalle i voti delle burocrazie finanziarie europee e i fondi da distribuire con il PNRR. Entrambi autorizzati ad esercitare la loro autorità e portare a termine un disegno politico in nome di interessi altri da quelli della maggioranza dei lavoratori e dei cittadini meno abbienti. Evviva la ricostruzione! Evviva tutte le ricostruzioni post-belliche e post-pandemiche, sempre a vantaggio di pochi ma ripagate dal sudore, dal sangue (che diciamo a proposito del vertiginoso e vergognoso aumento dei morti sul lavoro?) e dai sacrifici di tutti gli altri, soprattutto se proletari, giovani disoccupati e donne.

Pil docet et impera. Tanto che anche il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, appena celebrato dai media nazionali con lo stesso clamore riservato ai vincitori di medaglie d’oro nelle competizioni olimpiche o paralimpiche, è stato bruscamente messo da parte e dimenticato appena ha osato affermare, criticando in parlamento questa misura delle prestazioni economiche di un paese, che incremento del Pil e lotta contro le cause del cambiamento climatico non possono essere compatibili7. Evidentemente per i soloni della politica e dell’informazione un fisico non può vantare competenze nel campo di scienze economiche sempre più attente al paranormale finanziario che alla quotidianità della vita della specie.

Il sindacato invece può farlo, eccome: basta che dica sempre sì e sia più realista del re nel promuovere la partecipazione dei lavoratori agli interessi dell’incremento del Pil e del capitale privato (spacciato per “nazionale”). Soprattutto se nel farlo invoca, come a Trieste ed ovunque vi sia anche soltanto il fantasma di una lotta, l’intervento delle forze dell’ordine contro i facinorosi, quasi sempre dipinti a prescindere come violenti e fascisti.

Per quanto riguarda la generazione cui appartiene chi scrive, si può tranquillamente affermare che diede una sonora ed inequivocabile risposta a tale scelta, sia a Roma in occasione della cacciata di Luciano Lama, gran promotore delle politiche dei sacrifici e della pace sociale insieme al suo sindacato, dall’Università che sulle scale delle Facoltà umanistiche di Torino, pochi giorni dopo i fatti romani. Era il 1977 e tanto basti per restare dell’idea che proprio ciò è quanto compete ai sindacati confederali, adusi a sedersi al tavolo delle trattative ancor prima di dichiarare scioperi o manifestazioni, per definire in partenza con i funzionari del capitale e dello Stato ciò che sia lecito richiedere ed attendersi.

Atteggiamento sindacal-confederale che, insieme all’opportunismo e alla vaghezza delle proposte politiche della sinistra istituzionale e limitrofa, ha finito col determinare la sconfitta del movimento operaio italiano. Nella riclassificazione del Pil italiano in profitti, rendite e salari, tentata da Geminello Alvi, lo stesso ha scritto:

Nel 2003 ai lavoratori toccava il 48,9% del reddito nazionale netto; nel 1972 era il 62,9%. La quota dei redditi da lavoro dipendente è regredita, ora è circa la stessa del ’51. dell’Italia prima del boom. Il che vuol dire, esagerando in furia del dettaglio, non troppo distante da quel 46,6% che era la povera quota del 1881. Siamo regrediti, e intanto però mi arresterei dal dire altro. Perché so che al nostro lettore verrebbe da eccepire: “ Bella forza, ma di quanto nel 2004bpartite Iva e indipendenti sono più numerosi di trentacinque anni fa? “. Lecita obiezione, che ha tuttavia pronta replica statistica: nel 1971 c’erano 2,13 lavoratori dipendenti per ogni indipendente, nel 2004 sono 2,15. Il che significa che i dipendenti sono addirittura cresciuti in proporzione rispetto a ventiquattro anni prima. Si può dire: la quota dei lavoratori dipendenti è regredita alle cifre di un’Italia della memoria, quella prima del boom8.

Dall’epoca dei dati appena ora citati molta acqua sporca e alluvionale è corsa sotto i ponti: crisi del 2008, ristrutturazioni aziendali, tagli alla spesa pubblica, riduzione dei lavoratori dipendenti o garantiti, trasferimento delle imprese all’estero o in mani straniere, crescita dei settori maggiormente caratterizzati dal lavoro precario e non garantito, automazione sempre più diffusa anche nel settore dei servizi, aumento della povertà assoluta, concentrazione della ricchezza in un numero sempre più ristretto di mani. Eppure, come al solito, eppure…

Quei dati ci servono, forse ancora di più adesso, per mostrare come il taglio del personale nei settori produttivi, la riduzione dei salari e, per converso, una falsa redistribuzione delle ricchezze basata su “redditi di cittadinanza” ridicoli, se non offensivi per chi ne avesse realmente bisogno, fanno parte di quello stesso processo e stanno alla base delle attuali promesse di ripresa legate al PNRR.

Piano che, nonostante le sonore sberle pur affibbiate al ceto medio e ai lavoratori autonomi, continuerà a poggiare principalmente sull’incremento dello sfruttamento dei lavoratori produttivi e/o a basso reddito. La legge dell’estrazione del plusvalore non è cambiata mai, nonostante tutti gli artifici messi in campo per negarla o giustificarla, in nome dell’interesse nazionale, agli occhi di chi la subisce quotidianamente.

Nonostante le fasulle promesse del segretario della UIL di portare a “zero” le morti sul lavoro e la solita, retorica, citazione delle stesse ad opera di Landini durante la manifestazione romana oppure del presidente Mattarella e del presidente del consiglio Draghi, è inevitabile che gli omicidi sul posti di lavoro siano destinati ad aumentare. Motivo per cui, lasciatelo dire per una volta a chi scrive, sia la richiesta del Green Pass per accedere al posto di lavoro che la “fiera” opposizione alla stessa, in termini di vite dei lavoratori e di qualità del lavoro, non cambieranno nulla. Assolutamente nulla, anche quando si parla della difesa di “posti di lavoro”, in un senso o nell’altro.
La lotta di classe per la liberazione della specie dal giogo capitalistico si giocherà su altri fronti e in altre forme, al di fuori delle logiche confederali, dell’antifascismo istituzionale e delle logiche liberali e individualistiche.
Speriamo, prima o poi, di ritrovarle e, soprattutto, di saperle riconoscere.

Dixi et salvavi animam meam.


  1. Geminello Alvi, Il capitalsimo. Verso l’ideale cinese, Marsilio Editori, Venezia 2011, pp. 31-32  

  2. G. Alvi, op. cit., pp. 32- 40  

  3. Costantino Bresciani Turroni, Osservazioni sulla teoria del moltiplicatore, «Rivista bancaria», 1939, 8, pp. 693-714  

  4. G. Alvi, op. cit., p. 93  

  5. Ivi, pp. 70-71  

  6. Si vedano qui un interessante articolo uscito su Codice Rosso, oltre all’intervento pubblicato su Carmilla sabato 16 ottobre da Jack Orlando  

  7. Si veda qui  

  8. Geminello Alvi, Una Repubblica fondata sulle rendite, Mondadori, Milano 2006, p. 9  

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Il battito profondo dell’epoca https://www.carmillaonline.com/2020/02/10/il-battito-profondo-dellepoca/ Mon, 10 Feb 2020 22:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57599 di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen, La contro rivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019, pp.152, 14,00 euro

È possibile definire fascisti personaggi, quali Trump e Salvini, che tengono banco nell’opinione pubblica con un repertorio di aberrazioni xenofobe e volgari e bufale spacciate per dati certi? E se davvero sono fascisti, siamo di fronte ad un “ritorno” del fascismo? Ancora più a fondo, che cos’è oggi fascismo? Sono temi resi ormai noiosi da un dibattito mainstream assurdamente sterile e pedante, nonché da una sinistra pronta a dare del fascista [...]]]> di Jack Orlando

Mikkel Bolt Rasmussen, La contro rivoluzione di Trump. Fascismo e democrazia, Agenzia X, Milano 2019, pp.152, 14,00 euro

È possibile definire fascisti personaggi, quali Trump e Salvini, che tengono banco nell’opinione pubblica con un repertorio di aberrazioni xenofobe e volgari e bufale spacciate per dati certi? E se davvero sono fascisti, siamo di fronte ad un “ritorno” del fascismo? Ancora più a fondo, che cos’è oggi fascismo?
Sono temi resi ormai noiosi da un dibattito mainstream assurdamente sterile e pedante, nonché da una sinistra pronta a dare del fascista a chiunque, salvo poi scendere a patti con le peggiori figure del tempo, salvo agire dispositivi legali degni di una zelante camicia bruna. Eppure all’alba di questi tesi anni Venti è d’obbligo una riflessione seria e fuori da schemi stantii, non solo su quali siano le forme del fascismo contemporaneo, ma anche sulle traiettorie che esso disegna nella grande politica grazie all’azione di personaggi politici che, evidentemente, deviano dal solito registro a cui è abituata l’assise delle democrazie rappresentative. Un’assise che oggi, come non mai, rivela tutta la sua ipocrisia e fragilità.

L’analisi che Rasmussen, docente di Arte e studi culturali presso l’Università di Copenaghen e autore anche di Hegel after Occupy (2018), fa del fenomeno Trump cade allora nel momento opportuno, fornendo un’agile quanto complessa prospettiva sul nemico di oggi, quello che sta generando le nuove forme dello Stato e della politica.
Attorno al grottesco presidente degli Stati Uniti, si condensano alcuni dei nodi che si possono cogliere, mutatis mutandis, in tutti gli esponenti e i movimenti del cosiddetto sovranismo contemporaneo di ogni latitudine.
Trump non è Mussolini, né Hitler, non è un fascista classico con la divisa che saluta marzialmente le truppe armate del suo partito, eppure è un fascista; un protofascista, o un fascista Pop, se vogliamo. Le forme e i contesti sono cambiati radicalmente dagli ultimi anni Venti, ma alcuni elementi cardine permangono nella loro invariabile sostanza.

Anzitutto siamo davanti alla contestazione della contestazione, ovvero la messa in forma di quel bisogno securitario che innerva la vita della classe media in decadimento e che, incapace di vedere il suo carnefice nel capitalismo, che stesso l’ha generata, si rivolge rabbiosamente verso chi quel capitalismo lo ha attaccato, ad esempio con l’imponente ondata di proteste del biennio 2010-2011: i contestatori dell’ordine, al pari delle minoranze, dei devianti, sono la minaccia da cui difendersi, i nemici della Nazione, esattamente come lo sono le banche e i politici corrotti. È una visione paradossale e contraddittoria questa della middle class al collasso, preda di una crisi della presenza che solo un grande taumaturgo è in grado di curare. Ed è qui che emerge, dal fondo delle narrazioni democratiche, l’uomo forte, il salvatore, il riparatore dei torti.

Così si è presentato Trump al popolo: come il vincente, l’uomo di successo in grado di fare soldi a palate e tenere in riga dipendenti e famiglia, l’inviato della provvidenza giunto a fare pulizia dentro casa, giunto da fuori delle stanze dell’enstablishment e quindi pulito, non ancora corrotto dalle meschinità di palazzo.
Tra le macerie della crisi e gli appelli alla calma e all’interesse generale, che poi non fa mai bene a nessuno, si è piazzato al centro del palcoscenico, gambe larghe e petto in fuori, per dire che lui non è il presidente di tutti, che è il presidente solo degli americani buoni, lavoratori, onesti (e bianchi, etero e cristiani ovviamente) e andassero a quel paese i neri, i messicani, gli arabi, le lesbiche, i comunisti! Poche parole chiare, in mezzo a fiumi di delirio, che disegnano una linea invalicabile tra sé e l’altro, l’invariabile nemico, quello da abbattere per ritornare ai fasti d’un tempo. Per rendere l’America great again. Come lo era negli anni ‘50, con le fabbriche in città, gli operai disciplinati, le mogli ubbidienti, i comunisti spezzati e i neri bastonati nelle loro catapecchie. Con la macchina pulita, il mutuo della casa, la TV in salotto, le cimici dell’FBI nel telefono e le guerre sporche in Sud America.

È stato rimesso in gioco l’immaginario rassicurante di una società che o è andata perduta del tutto o, più probabilmente, non è mai esistita se non nelle soap opera. E attorno a quel rassicurante e depresso focolare domestico si è ricostruito il mito fondativo di una società ideale, di un popolo eletto, si sono mobilitate le pulsioni affettive, irrazionali (se proprio vogliamo definire irrazionale la voglia di un cantuccio caldo e comodo) e le si sono elevate a programma politico. Trump, ma non solo lui, ha compreso che un sogno forte è un’arma ben più potente di qualsiasi pacato e complesso programma elettorale.

Attorno al sogno, al mito, ha saputo ricreare la sua comunità nazionale, la cosiddetta comunità di destino, quella che trascende la popolazione anagraficamente data ed i territori stabiliti di diritto. Una comunità che si pone sul piano epico e metastorico: non gli Stati Uniti delle istituzioni, ma l’America dei grandi racconti, la terra del latte e del miele, la potenza che incute terrore ai suoi nemici; non gli statunitensi stretti nella morsa della crisi sistemica, ma gli americani delle réclame della Coca Cola, i Padri Pellegrini, John Wayne e Humphrey Bogart.
Terra, Popolo, Nazione, Comunità, Destino, questi sono gli ingredienti della ricetta di Trump, quella per essere grandi, per dominare il mondo, per schiacciare i nemici. E non servono tanti a argomenti razionali a confutare o sostenere il piano; d’altronde è talmente evidente! Talmente forte! Chi, se non un nemico malvagio e perverso, può essere contro la Nazione e il suo destino di tornare essere grande?

Non c’è dubbio, siamo di fronte ad una operazione politica di primissimo ordine, gli elementi chiave del fascismo poi ci sono tutti: l’uomo forte, la comunità (il trittico terra/popolo/nazione), il nemico da abbattere e l’antico ordine da restaurare. Eppure c’è un problema: abituati, come si è, a pensare il fascismo nelle sue forme solenni, storiche ed inquietanti, si perde la misura della sostanza e si finisce per guardare con una miope e ottusa sufficienza soltanto alle forme di questo nuovo fascismo in salsa pop.

Perché anziché sgorgare dalle caserme, dalla guerra, dai proclami solenni, questo nuovo fascismo è giustamente figlio del suo tempo, sgorga dalla realtà che lo circonda (come potrebbe essere altrimenti, d’altronde?) e assume le forme della televisione trash, dei talk show imbarazzanti, dei tweet, dei post fb, dei meme e della merda delirante, contraddittoria e no sense che ci inonda dagli schermi a ogni ora del giorno e della notte. È molto più facile e al passo coi tempi blaterare in continuazione sui social network piuttosto che arringare una folla inquadrata, dire che gli arabi sono ladri violenti e vengono da “paesi di merda” è più attuale che parlare del complotto giudaico. Eppure il senso ultimo rimane lo stesso, gli effetti i medesimi.

That’s the show now! E che vi aspettavate voi, i plotoni di SS che fanno il passo dell’oca in centro città? Un’idea un po’ poco originale, diciamocelo.
Sia quel che sia, ma ciò che è certo è che Trump (o qualunque altro sovranista al suo posto, ricordiamolo) con la sua ricetta di etnonazionalismo xenofobo, securitarismo violento, protezionismo economico e deregulation ha trovato la sua soluzione alla crisi. Le formule ci sono, la narrazione pure, i simboli e i registri funzionano e vengono urlati a piena voce in un teatro che ha perso qualsiasi altra attrattiva, dove le voci degli altri attori sono fioche, sbiadite e noiose repliche di uno spettacolo già fallito.

Questo è il volto della nuova politica, l’unica che appare vincente d’altronde, cosa vogliamo fare per abbattere questo nemico allora? Chiamare alla difesa della democrazia? Diffondere la cultura della tolleranza? Cantare inni per la pace o firmare petizioni on-line per approvare misure contro l’odio?1 Ottimo. Tanto quanto spararsi nelle ginocchia prima di competere alla maratona di New York.
Svegliamoci da quest’illusione della democrazia buona minacciata dal fascista cattivo!
È questa democrazia che produce i suoi mostri. O, per caso, questi sovranisti vincono le elezioni a forza di colpi di stato?

La democrazia rappresentativa, i suoi registri, le sue funzioni, di fronte all’incedere del mercato onnipotente, si fanno sempre più obsoleti, serve un Leviatano adesso, un sovrano che sappia tenere ordine col pugno di ferro nel guanto di velluto. La cultura della tolleranza e dei diritti umani non è stata, per due decenni, l’ipocrita scusa della socialdemocrazia per legittimare quella globalizzazione mortifera di cui oggi vediamo gli effetti? Non è possibile prendere un vecchio e liso canovaccio e pensare di utilizzarlo come bandiera solo perché il nemico ne usa uno diametralmente opposto. E si può chiedere allo Stato di approntare dispositivi verso il nostro nemico pretendendo che essi non colpiscano, di riflesso, pure noi? Se proprio si vuole demandare il conflitto, allora ci si ricordi della lezione del vecchio Hobbes: a parità di diritto vince la forza.

Tagliamo la questione senza ulteriori tentennamenti. Fascismo e democrazia non sono che forme politiche, contingenti e mutevoli, volte al medesimo scopo: la conservazione dell’esistente, la garanzia del soggetto dominante di continuare il suo processo di accumulazione, sfruttamento e dominio senza tanti intoppi. Il contrario di fascismo non è democrazia, ma Rivoluzione.
E se c’è da imparare qualcosa, oltre che le forme del nemico ovviamente, è che se si vuole vincere non basta l’analisi fine, il calcolo millesimale delle possibilità della fase e certo non serve la grande piazza, né la grande alleanza. È l’universo simbolico che dobbiamo interrogare, dobbiamo scomodare il mito affinché ci assista nel produrre la narrazione soggettivante che crea il popolo, quello degli oppressi sul piede di guerra, che taglia il mondo in due tra chi è amico e chi no. Non possiamo limitarci alla pura estetica del conflitto ma nemmeno accontentarci di una fredda scienza che parla solo agli addetti ai lavori e che, per di più, spesso nemmeno conosciamo. È nei simboli e nel linguaggio che un grande progetto può fiorire, replicarsi e generare la forza comune che permette di muovere l’assalto.
Offrire un mondo a chi ha perso ogni certezza, costruire soggettività dove ora vi è il deserto. Elaborare un piano e trovare le forme più deflagranti con cui farlo salire sul palco della storia. Questo è il battito profondo dell’epoca, per chi sa ascoltare.


  1. Magari attraverso la proposta, degna della peggior censura totalitaria, di un’identità digitale obbligatoria per chi frequenta social e web e relativo provvedimento di espulsione (DASPO) “per chi non rispetta le regole della convivenza civile in rete” come proposto dal leader della nuova maggioranza silenziosa Mattia Sartori. https://www.repubblica.it/politica/2020/01/18/news/sardine_daspo_social_polemiche-246080730/?ref=search  

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L’impero colpisce ancora https://www.carmillaonline.com/2020/01/12/limpero-colpisce-ancora/ Sun, 12 Jan 2020 21:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57389 di Alessandra Daniele

C’è qualcosa di nuovo, anzi di antico nella guerra che viene: la lenta e sanguinosa agonia dell’imperialismo USA ha risvegliato gli spiriti degli imperi passati, da quello Ottomano della Turchia, a quello Persiano dell’Iran, alla Grande Madre Russia dello zar Vlad, e oltre l’orizzonte, fino al Celeste Impero cinese. Sempre più vecchia e impotente, l’Europa della democrazia liberale sembra destinata ad un penoso e umiliante declino, per essere sepolta come un esperimento fallito. Dove abbiamo sbagliato? Ci credevamo il Futuro. Abbiamo l’Erasmus, la par condicio, la [...]]]> di Alessandra Daniele

C’è qualcosa di nuovo, anzi di antico nella guerra che viene: la lenta e sanguinosa agonia dell’imperialismo USA ha risvegliato gli spiriti degli imperi passati, da quello Ottomano della Turchia, a quello Persiano dell’Iran, alla Grande Madre Russia dello zar Vlad, e oltre l’orizzonte, fino al Celeste Impero cinese.
Sempre più vecchia e impotente, l’Europa della democrazia liberale sembra destinata ad un penoso e umiliante declino, per essere sepolta come un esperimento fallito.
Dove abbiamo sbagliato?
Ci credevamo il Futuro.
Abbiamo l’Erasmus, la par condicio, la concertazione sindacale, l’alta velocità, il pareggio di bilancio, le quote rosa, la raccolta differenziata.
Siamo così civilizzati.
Che cosa della natura umana non abbiamo capito, o abbiamo sottovalutato?
Perché questi barbari ingrati e oscurantisti hanno deciso di spartirsi con le armi il nostro pianeta, a dispetto di tutti i nostri appelli alla pace e alla ragionevolezza?
Perché non sono rimasti buoni a farlo – e a farsi – dissanguare da noi, in paziente attesa d’avere in dono il modello da esportazione della nostra meravigliosa democrazia liberale?
Dove abbiamo sbagliato, come possiamo recuperare? – Si chiedono le cancellerie europee, ed è già troppo tardi.
La pacchia è finita.
Come quelli delle sere d’inverno, questo crepuscolo sarà più rapido di quanto lo vorremmo.
È già fra noi la generazione che vedrà il tramonto del nostro mondo.
Non è troppo tardi però per l’alba del prossimo. Non tutte le notizie che vengono dall’Europa questa settimana parlano di fallimento: l’imponente ondata di manifestazioni, scioperi e proteste dei lavoratori francesi ha piegato il governo Philippe, costringendolo a rimangiarsi il nocciolo della controriforma pensionistica.
Per decidere il colore dell’alba che verrà, bisognerà ricordarsi che non è la Repubblica che può battere l’Impero, ma la Ribellione.

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Cazzaromachia https://www.carmillaonline.com/2019/06/09/cazzaromachia/ Sun, 09 Jun 2019 21:10:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52960 di Alessandra Daniele

Borghi contro Draghi, Vampiri contro Lycan, Salvini contro lo Spread, Alien contro Predator. Strutturalmente incompatibile con una vera democrazia, il regime capitalista ha soltanto due modalità: fascismo “presentabile“, e fascismo impresentabile. Il primo è rappresentato oggi in Europa dai cosiddetti Europeisti, responsabili fra l’altro dell’austerity, che ha causato l’aumento della mortalità infantile in Grecia, e della dottrina Minniti che finanzia i lager libici. Il fascismo impresentabile è invece rappresentato dai cosiddetti Sovranisti, che condiscono quella stessa dottrina con truci slogan razzisti da stadio, e tentano di forzare un [...]]]> di Alessandra Daniele

Borghi contro Draghi, Vampiri contro Lycan, Salvini contro lo Spread, Alien contro Predator.
Strutturalmente incompatibile con una vera democrazia, il regime capitalista ha soltanto due modalità: fascismo “presentabile“, e fascismo impresentabile.
Il primo è rappresentato oggi in Europa dai cosiddetti Europeisti, responsabili fra l’altro dell’austerity, che ha causato l’aumento della mortalità infantile in Grecia, e della dottrina Minniti che finanzia i lager libici.
Il fascismo impresentabile è invece rappresentato dai cosiddetti Sovranisti, che condiscono quella stessa dottrina con truci slogan razzisti da stadio, e tentano di forzare un po’ i vincoli dell’austerity soltanto per foraggiare gli intrallazzi dei loro sponsor.
E pagare i debiti della pubblica amministrazione con le banconote di Paperopoli.
Dalla stessa parte della barricata c’è il Movimento 5 Stelle, che però non è sovranista, è survivalista, cioè disposto a tutto pur di sopravvivere e salvare le poltrone.
Principale caratteristica comune di tutti gli schieramenti è l’essere un branco di cazzari.
Persino i loro nomi sono una menzogna: Macron, il frontman degli Europeisti, è in realtà più nazionalista e protezionista di Trump, mentre i presunti patrioti Sovranisti della Lega sono gli stessi che incitavano a pulirsi il culo con la bandiera tricolore.
Se le alternative sono queste, perché in tanti si ostinano ancora a votare? Ecco alcune ipotesi:

Per scaramanzia
Un rituale ossessivo compulsivo, perlopiù innescato dallo stress, come certe piccole superstizioni quotidiane. Questo spiegherebbe perché d’estate l’affluenza alle urne cali in modo significativo: la luce solare svolge notoriamente un’azione antidepressiva, contrastando le sindromi OCD.

Per sfregio
Per ripicca, per vendetta. Cercare di punire i partiti e/o i leader che ti hanno fregato la volta precedente, votando i loro peggiori nemici dichiarati. Coi quali però di solito dopo le elezioni andranno insieme al governo.

Per il LOL
Il candidato del PD più votato alle europee è stato Carlo Calenda. Questa è la prova che parte dell’elettorato considera il voto un’occasione per compiere una burla collettiva, uno scherzo, una beffa nello stile delle teste di pietra attribuite a Modigliani. La testa di Calenda però non è di pietra. E neanche di Modigliani.

Per sbaglio
È ipotizzabile che una rilevante percentuale degli elettori si ritrovi nella cabina elettorale avendola scambiata per un bagno pubblico. Questo spiegherebbe l’abbondante risultato della Lega.

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Fratture https://www.carmillaonline.com/2019/05/24/fratture/ Thu, 23 May 2019 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52682 di Jack Orlando

Piedi che scalciano e calpestano furiosamente pane, bocche rabbiose che riversano insulti su di una madre, proclami al vetriolo contro i nemici dell’Italia, le lacrime di un’attempata maestra allontanata dal posto di lavoro. Le immagini producono sensazione, pathos, immedesimazione, danno il sapore alla storia e alla realtà che circondano l’osservatore ben più di qualsiasi analisi sociopolitica. È per questo che se ne nutrono i media e sempre di più gli anchormen della reality-politik all’italiana: prendere immagini, modellarle come cera, utilizzarle a proprio piacimento, confezionare narrazioni belle e pronte all’uso [...]]]> di Jack Orlando

Piedi che scalciano e calpestano furiosamente pane, bocche rabbiose che riversano insulti su di una madre, proclami al vetriolo contro i nemici dell’Italia, le lacrime di un’attempata maestra allontanata dal posto di lavoro.
Le immagini producono sensazione, pathos, immedesimazione, danno il sapore alla storia e alla realtà che circondano l’osservatore ben più di qualsiasi analisi sociopolitica. È per questo che se ne nutrono i media e sempre di più gli anchormen della reality-politik all’italiana: prendere immagini, modellarle come cera, utilizzarle a proprio piacimento, confezionare narrazioni belle e pronte all’uso da gettare all’opinione pubblica per agitare fantasmi e babau che poi rientrino nel cappello del prestigiatore così come ne sono usciti.
Ma può accadere che i fantasmi escano dallo schermo, si riproducano in un proliferare incontrollato di immagini stereotipate che finiscano poi per narrarsi da sole, per creare da sé la loro realtà fuori dalle mani degli apprendisti stregoni.
Hanno evocato lo spettro della guerra tra poveri, quello del neofascismo, quello dei nazionalismi che schiumano livore ed ora che gli spettri sono stati evocati e vagano tra i vivi, non si sa più come gestirli. Lo specchio della realtà a forza di essere attraversato da immagini frenetiche ha finito per non reggere e inizia a mostrare le sue crepe. Fratture che vanno allargandosi e al cui interno già si scorge il futuro oltre lo specchio.

Le grottesche scene di Casal Bruciato, a Roma, con una dozzina di neonazisti e qualche accolito del luogo che per due giorni tengono ostaggio una famiglia rom intimandogli di abbandonare la casa, hanno campeggiato sui giornali e sulle bocche da talk show per un paio di settimane buone, ma per lo più ci si è limitati a scandalizzarsi davanti ad un subumano che minaccia di stupro una madre di famiglia con una bimba in braccio.
Niente di così speciale, tra l’altro, visto che sono le parole di neofascista: un uomo che, non solo appartiene ad un partito non nuovo alla violenza sessuale, ma che difende le antiche tradizioni del popolo italico, non da ultima quella dello stupro e della dominazione maschile che ha sempre rappresentato uno dei capisaldi della vita sociale del Bel Paese.

Cos’è invece che si è mosso attorno a questo banalissimo coglione? CasaPound, i neofascisti in generale, non sono nuovi ad avventure simili da dare in pasto ai media, specialmente sotto elezioni; è una tattica assodata ed ormai anche un po’ scontata. Osare, fare scandalo e spingere l’asticella del discorso sempre un po’ più a destra; fare notizia per campeggiare sui quotidiani nazionali e dipingersi come grande forza politica, bucare lo schermo per raggiungere nuovi affiliati con le stesse tristi passioni, provocare scompiglio per tastare il polso della situazione e sondare i margini di manovra e soprattutto, apparire, ergersi al centro delle cronache per narrare la propria verità, per dimostrare la propria esistenza e calamitare tutto l’odio e il rancore che albergano nelle metropoli. Creare un precedente che renda tangibile, concreto, ripetibile il messaggio dei figli del nero.

Per quasi 72 ore i camerati hanno stazionato sotto le case popolari minacciando di sfrattare, se non di bruciarla viva, un’intera famiglia di etnia rom, rea di aver ottenuto l’assegnazione di una casa popolare. Persone accusate banalmente di usufruire di un lecito diritto hanno subito una pressione psicologica dura da gestire e dolorosa da metabolizzare nel tempo.
Di primo acchito verrebbe spontaneo domandarsi: ma se non vanno bene nei campi, non vanno bene nelle case, allora bisognerebbe rispolverare le vecchie soluzioni di hitleriana memoria per gli zingari? Ancora non lo si dice apertamente, ma di questo passo, a spingere sempre più a destra la percezione politica e culturale del paese non è lontano il tempo in cui si potrà dire senza timore e con fare guascone che la soluzione sarebbe alloggiare i rom nelle vasche di un saponificio.

Per 72 ore questo teatrino squallido è andato avanti con una nutrita scorta di polizia: un cordone di celere che isolava le tartarughe frecciate dal più folto presidio antifascista e si rendeva spudoratamente connivente di una serie di reati che spaziano dall’istigazione all’odio razziale alla violenza privata, dalle minacce allo stalking. A lasciare perplessi non è tanto la gestione politica della piazza quanto, proprio, quella giuridica.
Ora, non che ci interessi di fare i legalitari, ma è bene osservare e prendere atto delle forme che sta assumendo il rapporto tra il neofascismo ed il potere politico che le forze dell’ordine rappresentano.
Un connubio sempre più stretto ed esplicito in virtù della retorica ben più spinta del sovranismo rispetto al vedo-non-vedo della socialdemocrazia.

Lo si è visto, in maniera più sottile, anche alla Sapienza di Roma dove Roberto Fiore e il suo partito in ansia da competizione hanno voluto far sapere al mondo che esistono ancora, dichiarando platealmente che avrebbero marciato sull’ateneo per impedire un dibattito con quel Nemico d’Italia che è Mimmo Lucano.
Lasciando da parte la magra figura della marcetta dei trenta lombrosiani figuri su di uno spartitraffico a parlare ad un pubblico di camionette, bisogna notare anche qui il sostanziale silenzio accondiscendente a questa manifestazione da buona parte del mondo politico ed accademico, infine trascinato per le orecchie dalla mobilitazione di studenti e professori e costretto a mettersi di traverso fino a far vietare il corteo fascista che, comunque, ha bonariamente sfilato un po’ nascosto e a disagio.
Mesi fa, nella tragica occasione della morte di una ragazza, sempre Forza Nuova aveva indetto un corteo per entrare nel quartiere San Lorenzo a sventolare i tricolori dove prima c’era lo straccio rosso. Una provocazione pesante rilanciata, stavolta, sul terreno di una università dal passato marcatamente antifascista. Provocazione che, come al solito, trova nella polizia il garante (poco garantista però) di quel democraticissimo diritto di consentire a chiunque di manifestare il suo pensiero.
Il vento soffia in loro favore, è il momento buono per osare, per lanciarsi nella mischia, per imprimere a fuoco le loro parole d’ordine ed allargare la loro egemonia.

È da notare, oltre gli equilibri di potere del fronte reazionario, la risposta a queste sortite che è stata prodotta dai movimenti: la reattività alle mobilitazioni neofasciste indica che il livello d’attenzione si è finalmente alzato ed è in grado di produrre controffensive sui territori che coinvolgono soggettività militanti assai diverse e altrimenti inconciliabili.
Certo è che nei quartieri di periferia l’iniziativa e la centralità dell’azione è stata in mano a quelle strutture che del radicamento e dell’azione quotidiana sui territori basano la loro strategia; senza di queste il terreno sarebbe stato sgombro o per lo meno assai scivoloso. L’internità costante ai soggetti di riferimento è uno dei nodi essenziali ma anche, ci si conceda, scontati.
La mobilitazione della Sapienza ha invece mostrato aspetti più interessanti: due migliaia di persone hanno dato vita ad un corteo che in quell’ateneo non si vedeva ormai da anni e che presentava al suo interno una composizione estremamente eterogenea: al corpo militante e dell’associazionismo si è affiancato un numero considerevole di docenti e soprattutto studenti.

È stridente la differenza tra questa partecipazione, probabilmente facilitata dalla figura di Lucano, e la diserzione generale dei momenti di lotta o di socialità autonoma entro lo spazio universitario, ma non solo. Come stridente era anche la differenza di postura tra chi, ormai professionalizzato al rituale della piazza, attraversa il corteo con un fare distaccato e quasi indolente, conscio dell’obbiettivo di impedire la piazza fascista, e la maggior parte degli studenti che vive invece la dimensione di una manifestazione allegra, pacifica, colorata e un po’ ingenua di chi difende la cultura dall’ignoranza, la democrazia dal fascismo.
È evidente allora tanto lo spazio vuoto che il milieu antagonista ha lasciato tra sé e i suoi referenti negli ultimi tempi, quanto il fatto che questa terra di nessuno può essere occupata oggi proprio grazie all’antifascismo.

A sondare le piazze che si sono prodotte in questo uggioso maggio c’è da notare come, senza ombra di dubbio, la marea nera, vuoi reale o pompata dai media, così come le imprese del ministro degli interni, abbiano prodotto una frattura nel tessuto sociale, dividendo tra chi è ormai pronto allo scontro di civiltà (o di barbarie) e chi è legato alle sue tradizioni democratiche (si fa per dire). Ma dal nostro lato della barricata c’è ancora, evidentemente, più materiale di quanto ci si aspettasse.
Se i camerati si sentono forti è in virtù anche della posizione che ricoprono nella strategia salviniana. Ma quest’ultima, finora sembrata uno schiacciasassi in grado di passare agilmente sopra qualsiasi impasse, ha mostrato in questa campagna elettorale il suo essere una tigre di carta.
Salvini è una figurina da social network, poco più che un meme, ed è in quella dimensione che funziona e sa far lievitare i consensi; sul terreno materiale la realtà è invece assai diversa.

Ce lo dicono il comizio sul balcone di Forlì sommerso di fischi e insulti, i pochi contestatori che lo mandano nel pallone a Settimo Torinese, le sue piazze dall’uditorio micragnoso surclassate clamorosamente dalle controinziative antifasciste, la battaglia degli striscioni che infuria sui balconi di mezza Italia, quella dei selfie combattuta a sfottò e baci saffici, Firenze e Napoli che provano a entrare a spinta nella piazza.
È evidente che, uscita dal modo fatato dei social, la punta di diamante del revanscismo italiano ha fatto male i suoi calcoli e si è trovata di fronte più contestatori che followers (d’altronde un follower mette i like ai post, mica scende in piazza).
Ed in mezzo a quelle contestazioni, sempre noi, i cattivi, gli antagonisti, gli autonomi dei centri sociali che tutto l’arco politico vorrebbe vedere estinti una volta per tutte.
Eppure ancora qui, ancora in grado di stare in piazza a seminare zizzania nonostante le ripetute sconfitte, ancora in grado di alzare, almeno un po’, il livello di conflitto.

Tuttavia, nonostante sia questa l’anima dietro le mobilitazioni, il risultato rischia di essere incassato da quella che un tempo sarebbe stata definita, fin troppo benevolmente, socialdemocrazia e dalla sua battaglia di consensi. Ad esclusione di un abbronzato Fassina, di qualche rappresentante dei partigiani e forse di qualche altra anima bella, nessun parlamentare, consigliere, militante di base o altro del PD o della Sinistra si è mai visto in piazza, pena l’esserne cacciato in malo modo; ma è sempre loro l’ultima parola al termine della giornata. Fanno eccezione, notare, le giornate in cui sono volate torce, transenne e manganelli.

Ed è proprio su quest’egemonia del discorso che si apre l’altra frattura, quella essenziale. La socialdemocrazia, anche una volta dismessi i panni del comunismo togliattiano e berlingueriano e indossati quelli delle riforme neo-liberiste, è una vecchia volpe che spinge l’elettore dritto dritto nella sua tana mostrandogli le fauci del lupo sovranista.
Senza stare a rivangare tutti i cadaveri che si porta appresso questa meschina creatura basti, ad esempio, guardare come si strappano le vesti per la maestra sospesa dal scuola per aver paragonato il Decreto Sicurezza alle Leggi Razziali, mentre solo due anni fa invocavano giustizia esemplare per quell’altra maestra che, a Torino, aveva insultato i poliziotti che proteggevano CasaPound caricando selvaggiamente e a più riprese il corteo antifascista, maestra che ha poi perso definitivamente la sua professione per il sollazzo dei salotti bene.
O magari si può parlare di tutti gli striscioni sequestrati, degli appartamenti perquisiti e delle botte gratuite nelle piazze quando parlava Renzi.
Ripetiamolo ancora, qualora non bastasse, fascismo e democrazia sono le due facce della stessa civiltà del dominio, le due teste della medesima Idra.

Allora non ci basta cacciare il PD dalle piazze per toglierci questo vampiro di dosso, che mina qualsiasi possibilità di allargare le fratture della società e vuole far passare l’idea che l’opposizione attiva si faccia a colpi di selfie e umorismo e pace sociale.
È necessario adesso imporre un nuovo ordine del discorso, una differente drammaturgia della piazza.
Bisogna uscire dal campo della democrazia, delle libertà civili e attraversare quello della radicalità rivoluzionaria. Se la mobilitazione antifascista oggi è in grado di rivitalizzare piazze dormienti allora si sia antifa fino in fondo!
Se alla Sapienza gli studenti mostravano una postura simile a quella dei primi licei durante l’onda, vuol dire che si è di fronte ad una tabula rasa, un foglio bianco su cui è possibile disegnare il volto della nuova militanza, quella militanza che viene, figlia del secondo millennio dei nazionalismi e della crisi permanente, della democrazia autoritaria e dell’Occidente che muore.
Tocca tracciare il profilo della nuova resistenza a questo presente iniziando a sfruttare ogni momento in cui è dato a quest’entità di mostrarsi.

Sottrarre l’antifascismo alla “sinistra” e scagliarlo nella direzione del conflitto sociale e della lotta di classe ci impone, ora che i riflettori sono puntati su queste piazze, di attraversarle e dare in pasto alle telecamere qualcosa di indigesto e potente che non possano ignorare.
La narrazione mainstream antifascista è affamata, per ora, di studenti che cantino sorridenti Bella Ciao, diamo loro gli studenti, ma che cantano con un fazzoletto rosso a coprire il volto, che camminano tra il fumo delle torce che fa rabbrividire la buona borghesia pensando agli ultras, che impattano, laddove possibile, sugli scudi dei tutori dell’ordine.

Devono parlare di noi per continuare a esistere, allora che ne parlino, ma le parole le stabiliamo noi!
Muoversi in una piazza con calcolata radicalità e lucida forza per inquinare la narrazione nemica ed iniziare, anche da qui, ad imporre un immaginario irriducibile a questa democrazia.
Tastare palmo a palmo, ogni volta, fin dove può spingersi il nostro agire e quanto sia possibile acutizzare le coscienze. Non bisogna pensare di risolvere il tutto in una nuova estetica del conflitto in cui ci si mette, a favore di telecamera, a rappresentarsi come cavalieri dell’apocalisse quando dietro, assieme al fumo dei lacrimogeni, c’è solo la fumosità del movimento. La telecamera è uno strumento del nemico e non ci si può regalare alle sue fauci ma si deve torcere quest’arma a nostro vantaggio. La nostra è una tradizione partigiana e i partigiani combattono sempre con le armi prese al nemico.

Questa drammaturgia della piazza è un’arte da affinare non perché è in piazza che si vince, ma perché è ciò che ci consente, nel deserto che attraversiamo, di imprimere una percezione del reale nelle menti di chi osserva o attraversa dati momenti, testimoniare una presenza che è altra e forte a dispetto di quanto si dica; inoculare un dato immaginario che faccia presa e sappia plasmare una potenziale soggettività militante. Questo è però solo un piccolo tassello, la reale posta in gioco si trova sul livello dell’organizzazione, della capacità di produrre conflitto e autonomia, dell’inchiesta militante; su quel livello, insomma, che è il lavoro grigio e quotidiano della rivoluzione e che deve oggi ritrovare slancio, passione, attrattiva.
Ogni passo che viene mosso deve contenere in sé la prassi, la teoria, la strategia, la propaganda, l’avanzamento della coscienza, la ridefinizione dei rapporti di forza.
Non dobbiamo combattere una guerra delle immagini, ma dobbiamo sapere che l’immagine produce percezione e cultura. Ed è sul terreno della percezione che si combatte la battaglia preliminare, quella che sottende al grande scontro.
Non c’è politica rivoluzionaria senza cultura della rivoluzione e non c’è cultura rivoluzionaria che non provenga dal livore delle strade.

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