democrazia liberale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Crisi della democrazia liberale, separazione dei poteri e giustizia digitale https://www.carmillaonline.com/2023/12/15/crisi-della-democrazia-liberale-separazione-dei-poteri-e-giustizia-digitale/ Fri, 15 Dec 2023 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79972 di Gioacchino Toni

Strumenti (devices) digitali, in particolare lo smartphone multifunzione (multitasking), si sono prima impadroniti del nostro tempo libero, e hanno poi progressivamente occupato, presidiandoli sempre più attentamente, tutti i settori cruciali della nostra vita, politica e diritto compresi. Mauro Barberis

Terzo capitolo di una trilogia sul digitale iniziata con Come internet sta uccidendo la democrazia (Chiarelettere, 2020) – in cui viene indagato il ruolo di internet nella crisi della democrazia liberale – e proseguita con Ecologia della rete (Mimesis, 2021) [su Carmilla]– individuata come ambiente di Homo sapiens nel Terzo millennio –, con il nuovo volume [...]]]> di Gioacchino Toni

Strumenti (devices) digitali, in particolare lo smartphone multifunzione (multitasking), si sono prima impadroniti del nostro tempo libero, e hanno poi progressivamente occupato, presidiandoli sempre più attentamente, tutti i settori cruciali della nostra vita, politica e diritto compresi. Mauro Barberis

Terzo capitolo di una trilogia sul digitale iniziata con Come internet sta uccidendo la democrazia (Chiarelettere, 2020) – in cui viene indagato il ruolo di internet nella crisi della democrazia liberale – e proseguita con Ecologia della rete (Mimesis, 2021) [su Carmilla]– individuata come ambiente di Homo sapiens nel Terzo millennio –, con il nuovo volume Mauro Barberis, Separazione dei poteri e giustizia digitale (Mimesis, 2023), ragionando sul declino delle democrazie liberali occidentali e sulla natura della separazione dei poteri nelle sue diverse versioni – nel giro di tre secoli cambiata tre volte: alla “vecchia”, fondata sul legislativo, si è sovrapposta la “nuova”, basata sull’esecutivo, dunque la “nuovissima”, che punta su giudiziario e autorità indipendenti –, si concentra su come il processo di digitalizzazione – sia come oggetto che come strumento di controllo – abbia inciso e stia incidendo su tutto ciò focalizzandosi sull’ambito giudiziario.

Come oggetto, la nuovissima SP [acronimo di “separazione dei poteri”] estende la propria regolamentazione ai poteri digitali, cercando faticosamente di limitarli. Come strumento di controllo, la vecchia SP in senso stretto, come potere indipendente ma “nullo”, funzionale alla certezza del diritto e dei diritti, parrebbe aver trovato nella giustizia digitale la propria incarnazione ideale. Questa, infatti, devolve la decisione giudiziale, in parte o in tutto, a un giudice automatico, apparentemente più imparziale e prevedibile del giudice umano.

La giustizia digitale tende dunque a presentatisi come giudice “automatico” – derivando da un processo di machine learning di dati archiviati di precedenti decisioni giudiziali –, “imparziale” – ritenuta non soggetta ai pregiudizi umani – e “prevedibile”.

Una volta introdotte le principali problematiche sorte attorno alla diffusione dell’intelligenza artificiale, al massiccio ricorso agli algoritmi e alla giustizia predittiva o digitale, lo studioso problematizza l’introduzione di una “giustizia digitale sostitutiva” ragionando poi, nell’ultima parte del volume, sulla sua legittimità costituzionale.

Ricostruendo l’epopea di internet, Barberis sottolinea come questa si sia sviluppata in una sorta di Far West in balia dei poteri più forti, ossia delle maggiori multinazionali del digitale, società commerciali private spesso nate negli Stati Uniti e domiciliate in paradisi fiscali e operanti in regime di monopolio od oligopolio ponendo seri problemi di tutela dei diritti individuali a proposito di privacy, protezione del consumatore, libertà d’espressione e antitrust.

Barberis ragiona dunque su come arginare l’invadenza delle piattaforme digitali dal punto di vista giuridico, legislativo, giudiziale, amministrativo in alternativa al demandare ciò a una sorta di auto-regolazione. Dal punto di vista legislativo, a una prima fase apertamente neoliberista, soprattutto statunitense, volta a favorire l’industria digitale, ha fatto seguito l’avvento di una legislazione soprattutto europea, una sorta di “costituzionalismo digitale” in buona parte derivato dall’attivismo delle corti europee.

L’autore riporta l’esempio di Neuralink di Elon Musk che ha ottenuto l’autorizzazione a impiantare chip nel cervello umano facendo leva su promesse di ordine sanitario che di certo non eliminano la possibilità di finalità di altra natura che l’Unione Europea intende arginare attraverso l’AI Act vietando i dispositivi elettronici in grado di alterare gli stati emotivi. Sin qui – scrive Barberis – «siamo solo al liberalismo della regola; il liberalismo dei contropoteri c’insegna che anche l’IA Act dovrà poi essere attuato/applicato: e per questo sono decisive l’amministrazione (le agenzie indipendenti) e la giurisdizione (giudici ancor più indipendenti)».

A livello amministrativo le legislazioni sono facilmente eludibili: nel caso di Neuralink è bastato far leva sulle finalità di ordine sanitario per ottenere, dopo qualche tentativo, l’autorizzazione della Food and Drug Administration (Fda) statunitense. A differenza degli USA, in cui è ammessa l’influenza diretta da parte delle aziende (lobbying) sui legislatori, l’Unione Europea, almeno sulla carta, vanta maggiore indipendenza dalle piattaforme digitali.

In effetti, sinché le decisioni giudiziali saranno solo di principio, come nel caso delle Corti europee, o infliggeranno multe miliardarie ma pur sempre risibili, rispetto ai profitti di Big Tech, la via giudiziaria al controllo del digitale avrà gli stessi limiti della SP vecchia e nuova: tutelerà molto più i poteri forti e concentrati delle piattaforme digitali, e molto meno soggetti individuali come gli utenti. Più promettente, semmai, pare la strada delle Autorità indipendenti, già operanti nella nuova SP ma ancor più necessarie per la nuovissima, in particolare per la tutela dei consumatori globali. […] Il processo di digitalizzazione, peraltro, tende a investire lo stesso potere giudiziario: per ora, offrendo solo servizi ausiliari, ma minacciando, prima o poi, di sostituire la giustizia umana. Il giudice automatico, che si va progettando in giro per il mondo, è la nuova sfida interna alla SP di cui dobbiamo ora occuparci.

I motivi che hanno condotto alla crisi della democrazia liberale sono molteplici, da parte sua il volume di Barberis propone una riflessione sull’impatto dello sviluppo digitale su uno dei suoi elementi cardine, la separazione dei poteri, focalizzandosi sull’ambito giudiziario.

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Hard working men: alle radici del fascismo di Trump (e non solo) https://www.carmillaonline.com/2017/02/21/hard-working-men-alle-radici-del-fascismo-trump-non-solo/ Mon, 20 Feb 2017 23:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36493 di Sandro Moiso

Donald Trump A When I was a schoolboy/ Teachers said study as hard as you can/ It didn’t make no difference/ I’m just a hard workin’ driver man ( Hard Workin’ Man, Captain Beefheart 1977)

Nel recente editoriale di un quotidiano nazionale, a proposito dell’allarmismo sollevato dal successo di Donald Trump e dalla possibile affermazione di forze populiste e /o di destra e nazionaliste nelle prossime elezioni europee, è stato affermato che le élite, ancora stordite da un evento inesplicabile e traumatizzante, sperano “che una gaffe, un passo falso, una dichiarazione sbagliata, un incidente di percorso, un’inchiesta [...]]]> di Sandro Moiso

Donald Trump A When I was a schoolboy/ Teachers said study as hard as you can/ It didn’t make no difference/ I’m just a hard workin’ driver man ( Hard Workin’ Man, Captain Beefheart 1977)

Nel recente editoriale di un quotidiano nazionale, a proposito dell’allarmismo sollevato dal successo di Donald Trump e dalla possibile affermazione di forze populiste e /o di destra e nazionaliste nelle prossime elezioni europee, è stato affermato che le élite, ancora stordite da un evento inesplicabile e traumatizzante, sperano “che una gaffe, un passo falso, una dichiarazione sbagliata, un incidente di percorso, un’inchiesta giudiziaria, un’esagerazione smodata, un comportamento censurabile, un tweet deplorevole, uno strafalcione possano minare il consenso da loro accumulato […] E non riescono, proprio non riescono con tutta la buona volontà, a capire qual è il rapporto di identificazione emotiva tra questi alieni e il popolo che si entusiasma per loro”.1

E’ un tema che Alessandra Daniele ha già affrontato con ben altra verve qui su Carmilla, ma le parole dell’editorialista del quotidiano milanese possono servire da spunto per una riflessione sulle modalità con cui, a livello internazionale, la classe dirigente affronta il problema dello s/mascheramento dei suoi obiettivi. Donald Trump appare infatti fin troppo esplicito nelle sue affermazioni mentre il suo programma si riduce a pochi, fondamentali obiettivi: protezionismo e barriere non solo commerciali (con tutto il corollario di esclusioni anche razziali che da ciò derivano), guerra commerciale (prima) e guerreggiata (poi) ai principali competitori (Cina ed Europa germanica)2 anche se non è possibile escludere con sicurezza qualsiasi altra alternativa di carattere militare, salvaguardia dei posti di lavoro e in particolare dei manufatti americani. A farne le spese sono già stati intanto TTP e WTO,3 ovvero due capisaldi della cosiddetta globalizzazione, oltre che tutta la diplomazia americana degli ultimi quarant’anni.4

der spiegel trump 1 Nei punti qui sinteticamente esposti sembra infatti essere messa in evidenza una politica piuttosto aggressiva sia dal punto di vista economico che geopolitico e militare. Se, nella narrazione del nuovo inquilino della Casa Bianca, l’America di Obama e dei precedenti governi ha perso quella che già in altri interventi su Carmilla è stata definita Terza guerra mondiale per la ripartizione delle rovine lasciate dal crollo dell’Urss e delle risorse petrolifere mediorientali fin dalla prima guerra del Golfo, Trump ha l’obiettivo di vincere, e per tale motivo impostarne regole ed indirizzi, la Quarta. Che non sarà più combattuta per interposte persone o alleanze e in cui the Land of the Free non dovrà più fingere di combattere per la libertà altrui o per ipotetici diritti umani. Questa volta gli Stati Uniti combatteranno dichiaratamente per se stessi e per i propri interessi. Senza quell’ingombrante bagaglio ideologico che alla fine sembre essersi ingarbugliato troppo nelle mani di Obama e della consorteria clintoniana liberal/democratica.

Però resta la domanda iniziale, ovvero cosa ci sia di così affascinante nel progetto, fin qui grossolanamente delineato, tanto da attirare il voto di milioni di cittadini americani. La risposta a tale domanda potrebbe essere efficacemente sintetizzata da un’intervista ad un gruppo di operai bianchi, andata in onda in un telegiornale RAI il giorno successivo alla vittoria di Trump, sulle ragioni del loro voto e su quale fosse l’aspetto che piacesse loro di più del neoeletto presidente, ed essa è stata ferma, sintetica, chiara e inequivocabile: “Hard work!”.

Probabilmente altri milioni di operai, farmers ed ex-occupati della rust belt e delle aree industriali ed agricole provate e provati da anni di crisi economica, decrescita industriale e perdita di garanzie e privilegi legati al ruolo di aristocrazia operaia e classe media WASP che sembrava per decenni aver garantito quella stessa classe sociale, avrebbero risposto allo stesso modo. Il duro lavoro scambiato per condizione esistenziale naturale, lo scambio tra forza lavoro e salario in cambio della produzione di plusvalore, la fatica stakanovista del minatore e dell’operaio che si sente orgoglioso del proprio ruolo nel processo di valorizzazione del capitale e nella crescita economica della propria nazione: ecco cosa li ha affascinati nel discorso del più becero degli speculatori trasformatosi in capo popolo nazionalista. E fascista, senza ombra di dubbio alcuna.

der spiegel trump 2 Perché è proprio nel concetto di lavoro inteso come partecipazione alla creazione della ricchezza della Nazione che si nasconde la grande fascinazione esercitata dal fascismo su una parte significativa della classe operaia. Nazionalismo, razzismo, esclusione e prevaricazione di genere, bellicismo non sono altro che i corollari, a livello ideologico, di un concetto che è penetrato in profondità nella mentalità di coloro che collegavano e collegano ancora il benessere proprio alla fatica e allo sfruttamento produttivo.

Tutti elementi che permettevano a Jack London, già nel 1907 nel suo Tallone di ferro, di ipotizzare una società autoritaria e tirannica in cui “al di sopra delle masse dei diseredati s’innalzano le caste dell’aristocrazia operaia, dell’armata pretoriana, dell’apparato poliziesco onnipresente e dell’oligarchia finanziaria[…]Leggendo queste righe non si cree ai propri occhi; è un quadro del fascismo, della sua economia, della sua tecnica di governo e della sua psicologia“.5

Da questa classe operaia, anche qui da noi in Italia e in Europa, è stata sradicata l’idea del rifiuto del lavoro inteso come sfruttamento, è stata spazzata via l’idea che la vita umana si realizzi pienamente soltanto all’interno di una comunità di intenti antagonista all’esistente, in cui il lavoro torni ad essere una forza creativa collettiva non solamente destinata a produrre ricchezza monetaria e merci. Ed è, occorre dirlo, un’umanità triste e impoverita oltre che impaurita. Un’umanità in cui ogni desiderio è reificabile sotto forma di merci e prodotti oltretutto di qualità sempre più scadente e il cui immaginario è stato interamente colonizzato dal Capitale e dallo Stato.

Il barbecue famigliare e buy american cui il nuovo presidente invita i suoi elettori è fatto di cibo spazzatura e di illusioni di grandezza, di violenza e odio nei confronti degli immigrati e di qualsiasi nemico. Esterno o interno che sia. Oggi il jihadista, domani il tedesco e il cinese e più in là magari anche il giapponese o qualsiasi altro europeo. Ma tutto questo era già presente, soltanto in maniera più mascherata e nascosta, in tutto il discorso della presidenza o delle presidenze precedenti. Non solo per le capacità mimetiche dei singoli individui che si sono succeduti alla Casa Bianca, ma perché intrinseco a tutte le scelte fatte dall’espansionismo imperiale statunitense. Liberali o liberiste che fossero.

der spiegel trump 3 La responsabilità di Trump agli occhi dell’establishment è così, principalmente, quella di aver reso esplicito ciò che per il bon ton liberal-democratico deve rimanere accantonato: l’intima connessione tra interesse privato e nazionale che è il fondamento dei rapporti di produzione basati sull’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta. Da cui deriva l’intrinseca e inscindibile connessione che corre tra le politiche liberali e il loro rovescio apparente: il fascismo.

Non due entità separate e nemiche, l’una in concorrenza con l’altra, come la vulgata esposta negli ultimi settant’anni ha potuto affermare dopo che le controrivoluzioni totalitarie e stataliste avevano spazzato via qualsiasi discorso sull’autonomia di classe mentre la seconda guerra mondiale era riuscita a piegare le esigenze di liberazione dalla schiavitù capitalistica agli interessi degli imperialismi in lotta. Soprattutto dopo che l’intervento dello Stato nell’economia, sia in chiave fascista, stalinista o keynesiana, aveva contribuito a sviluppare una sorta di statolatria nel seno di quelle stesse masse che lo Stato avrebbero dovuto percepire come nemico in quanto unico garante degli interessi della classe sfruttatrice.

Non si scandalizzi dunque chi ancora oggi è convinto che le politiche keynesiane siano un prodotto dell’azione delle lotte e dei sindacati sull’operato dello Stato a favore dei ceti meno abbienti. La teorizzazione di Keynes è infatti racchiusa nella sua opera più celebre, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicata nel 1936, ma già prima della sua pubblicazione sia Roosvelt con il New Deal che Hitler e Mussolini stavano operando nel senso di un intervento statale dedito al rilancio delle economie e delle industrie nazionali, anche a tappe forzate.6

In ordine cronologico, però, era stato proprio il fascismo italiano ad inaugurare un piano di azione centralizzata senza precedenti nella storia del capitalismo moderno per la costruzione di più di cento nuove città,7 tra gli anni Venti e l’entrata in guerra del 1940, e allo stesso tempo ad inaugurare una nuova stagione di provvedimenti statali “a favore dei lavoratori”: nel 1933 la CNAS (Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali) aveva assunto la denominazione di Istituto nazionale fascista della previdenza sociale che, dal 1943, divenne definitivamente Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS). Nel 1939 erano state istituite le assicurazioni contro la disoccupazione, la tubercolosi e per gli assegni familiari. Ed erano state, altresì, introdotte le integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o ad orario ridotto. Il limite di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia ridotto a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne e istituita la pensione di reversibilità a favore dei superstiti dell’assicurato e del pensionato.8

Mentre “l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro – Inail – nasce nel marzo 1933, dall’unificazione della Cassa nazionale infortuni e delle Casse private di assicurazione. Il nuovo Istituto è destinato a crescere in dimensione e importanza nei decenni successivi, con l’estensione della platea degli eventi assicurati e l’assorbimento di enti minori, che gestiscono l’assicurazione infortuni per particolari categorie di lavoratori. È del 1935 l’introduzione dei principi cardine che determinano il carattere pubblicistico dell’assicurazione infortuni e malattie professionali: la «costituzione automatica del rapporto assicurativo, l’automaticità delle prestazioni, l’erogazione di prestazioni sanitarie, la revisione delle rendite e una nuova disciplina nell’assistenza ai grandi invalidi»”.9

Sempre nell’italietta, però fascista originale, il tutto era stato preceduto, nell’aprile del 1927, dalla Carta del lavoro in cui si esprimevano i principi sociali, la dottrina del corporativismo, l’etica del sindacalismo fascista e la politica economica fascista. Portava le firme del capo del governo, dei ministri, dei sottosegretari, dei dirigenti del partito, dei presidenti delle confederazioni professionali fasciste dei datori di lavoro e dei lavoratori e dichiarava che “il lavoro è un dovere sociale e che il suo fine è assicurare, assai più che la giustizia, la potenza della Nazione“.

Giovanni Gentile, nel commentarla sulla rivista mensile “Educazione fascista”, avrebbe così avuto modo di affermare: “Nessun documento ufficiale ha mai affermato così chiaramente questa natura etica dello Stato in generale ed in specie rispetto all’attività economica, come la Carta del Lavoro nelle sue premesse fondamentali e in tutto lo spirito che la governa. La Nazione è una unità morale, politica ed economica […]. Noi crediamo di poter liberamente commentare aggiungendo: Unità politica ed economica, in quanto unità morale” (…). Così si integra e si illumina il concetto dello Stato…; così pure si integra e si illumina la figura del cittadino… che non è più una entità statica e uniforme…, ma agisce.. e nel lavoro trova la sua concreta funzione e il suo posto nella vita, l’uomo è cittadino: al cospetto di quello stesso valore morale in cui consiste la sua unità10

Si dimostra così come uno dei cardini del fascismo consista proprio nell’integrazione dell’ideologia lavorista con il nazionalismo e che ciò costituisce un aspetto fondamentale di quell’esigenza di superamento del concetto di lotta di classe che sia il fascismo che il liberalismo “democratico” hanno in comune. Con la differenza che, mentre nell’ideologia e nella pratica fascista lo Stato aspira ad essere percepito come supremo regolatore di una “serena convivenza” degli interessi, nel liberalismo/liberismo questi sono lasciati fluttuare sulla base degli interessi del capitale finanziario. In entrambi i casi, comunque, il tutto funziona soltanto a seguito di una totale rimozione o repressione delle espressioni autonome della classe o delle classi antagoniste al capitale.

Secondo il Casini, su Gerarchia del 1927, i punti fondamentali e più innovativi della Carta del Lavoro erano tre. Innanzitutto il riconoscimento delle Corporazioni, della proprietà privata e il contratto collettivo di lavoro reso obbligatorio. Mentre per Giuseppe Bottai la conquista delle ferie pagate e delle indennità in caso di morte o di licenziamento erano da considerare come: “pratici benefici che i lavoratori non erano mai riusciti a raggiungere attraverso i cartelloni demagogici della democrazia e che invece allora essi realizzavano, nella perfetta soddisfazione dei datori di lavoro”.11

der spiegel trump 4 Formalmente la differenza non era poca, ma in entrambi i casi non si usciva (e si continua a non uscire) da una logica che metteva, e mette tutt’ora, il profitto privato e nazionale innanzi a tutto. Una logica che ha costretto così la lotta antifascista di carattere democratico, e non rivoluzionaria, a parteggiare per una delle due parti in lotta a discapito dell’interesse della maggioranza dell’umanità che sarebbe stato, e rimane, quello di uscire dalle spire di un modo di produzione iniquo, devastante, soffocante, inquinante qualsiasi sia la forma che tende ad assumere nella sua rappresentazione. Soprattutto oggi, in un mondo in cui lo slogan “Siamo il 99%” si avvicina sempre di più a rappresentare efficacemente una realtà socio-economica in cui i primi otto miliardari del pianeta posseggono esattamente la stessa quantità di ricchezza degli ultimi tre miliardi e mezzo di donne e uomini. Mentre anche solo qui in Italia i primi sette hanno una ricchezza corrispondente a quella del 30% della popolazione.12

In questo senso dunque il diffuso cordoglio e la grande agitazione anti-Trump che manifestano i media liberal dalla Repubblica all’Huffington Post, passando per L’Unità e la CNN, solo per citarne alcuni, oppure il mondo incanaglito di Hollywood e la stampa europea alla Der Spiegel ,13 altro non fanno che chiamare a una lotta patinata, in cui ogni espressione di Melania Trump sembra valere più di qualsiasi considerazione di carattere socio-economico, un pubblico che spesso non li ascolta o li ignora, per una battaglia che in quei termini proprio non gli appartiene. Mentre lo scontro vero tra due fazioni capitalistiche altrettanto assassine e assetate di sfruttamento procede intanto a livello di intelligence e Federal Bureau of Investigation.14

Con buona pace di chi si è lasciato troppo irretire dalle sirene dei diritti (di genere, civili, di cittadinanza) senza capire che, quando il discorso che li riguarda resta separato da una critica più generale del modo di produzione capitalistico ed ancorato ad una visione esclusivamente legalitaria e statalista, tale battaglia finisce spesso con il dividere, indebolire e creare nuove contrapposizioni più che contribuire ad un reale progresso.15

Born in the usa Creando talvolta autentici cortocircuiti e paradossi culturali; come nel caso di Bruce Springsteen che con tutto il suo strillare contro Trump sembra voler ignorare che una delle sue canzoni più famose, Born In The USA, potrebbe costituire davvero un inno dell’America di Donal Trump e dei suoi elettori, con il suo rimpianto per il lavoro perso e la chiusura delle fabbriche nelle centinaia di small town di cui parla spesso nei suoi versi, tanto quanto il lamento sugli stessi argomenti contenuto nel disco Endagered Species, con la sua copertina di rovine industriali, dei pur repubblicanissimi Lynyrd Skynyrd.16

Skynyrd_species Ma se l’esempio discografico/musicale appena riportato potrebbe apparire ad alcuni come frivolo e insignificante, ben altra rilevanza dovrebbe avere il fatto che tutte le politiche laburiste della Sinistra istituzionale europea, dal secondo dopoguerra in poi, abbiano di fatto insistito sull’intima connessione esistente tra lavoro salariato e benessere nazionale, trasformando così le contraddizioni di classe in un semplice accidente del e per il PIL. A guardarle bene, però, ci si accorge che tale discorso non è stato portato avanti e difeso soltanto da chi un tempo era definito come socialdemocratico, ma anche da quelli che fino a qualche decennio fa si definivano ancora come partiti comunisti.

La malattia, se così si può definire, ebbe infatti origine, oltre che nell’Italia fascista, nella Russia della controrivoluzione staliniana dove non solo i dirigenti fascisti andarono ad apprendere le forme di organizzazione del lavoro e a contrattare l’apertura di nuovi stabilimenti,17 ma in cui l’operaio produttore divenne oggetto di culto con lo stakanovismo.18 Non c’è da stupirsi quindi se, anche negli Stati Uniti dell’ultima campagna elettorale, l’unico avversario di Trump che avrebbe potuto attingere allo stesso bacino elettorale è stato Bernie Sanders, il cui programma economico e protezionistico aveva molti punti in comune con quello del vincitore.19

Marx ed Engels affermavano che la classe operaia o lotta o non è e che nel negare il capitalismo avrebbe dovuto dialetticamente negare se stessa (Negazione della negazione). Discorsi lontani anni luce oramai da una concezione operaista e lavorista che, nel fondare la propria protesta soltanto sulla richiesta di lavoro (e non sulla sua negazione o almeno riduzione in termini di tempo) e di interventi dello Stato in sua difesa, altro non fa che rafforzare l’idea della collaborazione tra capitale e lavoro e il sempre più evidente fascino esercitato dalle destre su ampi strati di lavoratori. Ben al di là delle convinzioni religiose e del tradizionalismo cui spesso questo effetto viene spesso principalmente imputato.

Come se questo non bastasse gran parte delle “lotte” attuali, estremamente settorializzate, rischiano di corporativizzare le dinamiche dello scontro sociale, allontanandosi le une dalle altre e troppo spesso dai bisogni più generali dei lavoratori, occupati o meno che siano; attenendosi ad un discorso liberal/liberista soltanto apparentemente inclusivo ma che, in realtà, persegue implacabilmente una sempre maggiore proletarizzazione della società. Il fatto di non cogliere ciò può soltanto portare ad un aumento, invece di una riduzione, dell’influenza di una mentalità intrinsecamente fascista nelle lotte per il lavoro.

( 1 – continua)


  1. Pierluigi Battista, Il consenso dei leader alieni, Corriere della sera, 11 febbraio 2017  

  2. Si veda in proposito, come possibile esempio tra i tanti che si potrebbero fare, l’articolo di Mario Platero, Nel mirino i grandi competitor economici, Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2017, dove si cita un’intervista a Donald Trump in cui egli afferma: “«L’Europa unita è stata formata per battere l’America sul piano commerciale» […] Poi aggiunge che l’Europa è stata formata in modo germanocentrico per favorire commercialmente la Germania”  

  3. Si veda https://it.businessinsider.com/dazi-e-addio-al-wto-trump-va-alla-guerra-commerciale-globale/  

  4. Si vedano, per esempio, le affermazioni di Trump sulle responsabilità americane e russe nelle ultime guerre: “«Vladimir Putin non è un killer?», chiede Bill O’Reilly, il conduttore più famoso della tv conservatrice Fox News. Sono le 16 di domenica: gli americani si preparano a vivere il Super Bowl, la partita di football e lo show di contorno più seguiti dell’anno. L’intervista a Donald Trump fa parte della grande attesa. Questa la risposta del presidente degli Stati Uniti: «Pensi che l’America sia così innocente? Anche da noi ci sono molti assassini». «Sì, ma qui stiamo parlando di un leader», replica il giornalista. Trump non arretra: «Anche noi abbiamo fatto tanti errori. Pensa solo alla guerra dell’Iraq. Quanta gente è morta». Ecco fatto: in due minuti Trump ha messo insieme un’equazione esplosiva. Le responsabilità di Putin sono, di fatto, accostabili a quelle di George W. Bush, il presidente che ordinò l’invasione dell’Iraq.” in http://www.corriere.it/esteri/17_febbraio_05/trump-attacca-giudici-difende-putin-anche-noi-usa-siamo-assassini-706c90da-ebed-11e6-91eb-31433eb4de41.shtml  

  5. Lev Trochij in una lettera a Joan London, figlia dello scrittore, dell’ottobre del 1937  

  6. Si veda, in tal senso, Wolfgang Schivelbusch, Tre New Deal. Parallelismi fra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler. 1933-1939, Marco Tropea Editore2008  

  7. 147 per la precisione. Si veda Antonio Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del duce, Laterza 2008  

  8. fonte https://www.inps.it/portale/default.aspx?iMenu=11  

  9. fonte https://www.inail.it/cs/internet/istituto/chi-siamo/la-storia.html  

  10. fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Carta_del_Lavoro  

  11. idem  

  12. fonte Rapporto annuale 2016 Oxfam, una delle più antiche società di beneficenza con sede a Londra citato in Barbara Ardù, Disuguaglianze in aumento, otto super Paperoni hanno la stessa ricchezza di metà dell’umanità, 16 gennaio 2017  

  13. Le cui copertine rendono efficacemente l’idea di quale sia ormai il livello di tensione raggiunto tra Stati Uniti e Germania. Trump viene definito gentilmente come “La fine del mondo” in una , come terrorista anti-liberale in un’altra e come “una completa follia” in un’altra ancora: Wahnsinn  

  14. Impossibile non notare la profondità dello scontro a cui il novello presidente è arrivato con l’FBI e le rivelazioni fatte da settori dell’intelligence americana e dello stesso Partito Repubblicano sull’affaire Putin al fine di indebolire l’attuale compagine governativa  

  15. Si veda in proposito https://www.carmillaonline.com/2016/12/14/cosa-resta-dei-diritti-umani/  

  16. Si veda John C. Hulsman, Gli eroi di Bruce Springsteen si vendicano. Addio pax americana, in Limes n° 11/2016, L’agenda di Trump, pp. 111-116  

  17. Si veda in proposito il sempre utile Pier Luigi Bassignana, Fascisti nel paese dei soviet, Bollati Boringhieri 2000  

  18. Che poi l’autonomia operaia si manifestasse colà con l’impiccagione degli operai stakanovisti alle travi delle fabbriche è una storia che si può leggere in Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia 1919-1970, Milano 2016  

  19. Si veda https://www.carmillaonline.com/2016/06/24/outsiders-vs-establishment/  

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