Debra Winger – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 23:38:11 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 68 https://www.carmillaonline.com/2015/03/05/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-68/ Thu, 05 Mar 2015 21:57:34 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21084 di Dziga Cacace

I see you shiver with antici…PASSION! (Frank N.Further) 

ddv6801755 – L’imperialismo sensuale e sudaticcio di An Officer and a Gentleman di Taylor Hackford, USA 1981 Ufficiale e gentiluomo: croce e delizia della mia adolescenza, film inevitabile quando passava in tivù, visto e rivisto almeno una decina di volte, compiaciuto prima e man mano imbarazzato poi, eppure impossibilitato a mollarlo, con tutti i centri nervosi disattivati, godendone con malcelata vergogna e suprema voluttà. La prima volta è stata coi miei genitori, credo all’Odeon di Genova nel 1983 e per i miei [...]]]> di Dziga Cacace

I see you shiver with antici…PASSION! (Frank N.Further) 

ddv6801755 – L’imperialismo sensuale e sudaticcio di An Officer and a Gentleman di Taylor Hackford, USA 1981
Ufficiale e gentiluomo: croce e delizia della mia adolescenza, film inevitabile quando passava in tivù, visto e rivisto almeno una decina di volte, compiaciuto prima e man mano imbarazzato poi, eppure impossibilitato a mollarlo, con tutti i centri nervosi disattivati, godendone con malcelata vergogna e suprema voluttà. La prima volta è stata coi miei genitori, credo all’Odeon di Genova nel 1983 e per i miei 13 anni questa era una storia edificante di maturazione. Poi – come detto – il revisionismo dell’adolescenza e della maturità. E oggi, decrepito? Mi concedo la versione in originale, curioso di capire come sia cambiata la mia percezione. E non posso che ammettere: sono di fronte a un sublime capolavoro kitsch, intossicante e ineludibile, con un’anima blue collar (un po’ come il primo Rambo) che giustifica lo sbandamento intellettuale, anche a fronte di un militarismo esibito senza ritegno: alla nazione bruciava ancora il culo dopo la sconfitta in Vietnam (come ricordava bene Un pesce di nome Wanda non avete pareggiato, avete perso, ah ah!) e il film ottenne un successo clamoroso, con corsa all’arruolamento di tanti babbei. Richard Gere ebbe invece – dopo American Gigolo – la definitiva affermazione: qui entra in scena in canottiera, bacino leggermente in avanti, braccia penzoloni, scocciato. Vi assicuro, ho visto cani con lo sguardo molto più intelligente. Orfano di mamma, con babbo marinaretto puttaniere e ubriacone, Zack Mayo ha alle spalle un’infanzia difficile nelle Filippine, traumatizzato da donne zoccole e uomini ladri scimmieschi (tutto grazie a scene esemplificative che ci danno subito la razzista chiave giustificativa per comprendere come mai Zack sia un po’ fragilino). Il ciondolone decide di dare una svolta alla sua vita e uno schiaffo morale al padre e per dimostrare qualcosa si iscrive al corso ufficiali dell’aviazione. Nel campo d’addestramento affacciato sul Puget Sound, stato di Washington, lo attende il sergente Foley, Lou Gossett jr. (che per l’interpretazione vincerà il premio Oscar), che allena le matricole facendogli cantare canzoni giulive contro i vietcong, da abbrustolire col napalm, donne e bambini compresi, cosa che nella versione italiana era prudenzialmente censurata. Servono 6 anni per uscire dall’accademia come piloti: questo è solo l’inizio ma è la scrematura più dura. Intorno alla base bazzicano ragazze in cerca di marito, per scappare da questa zona della costa pacifica francamente deprimente (ambientino che ti ha creato un Kurt Cobain, per dire). Due di loro vengono adocchiate alla prima occasione da Zack e dal commilitone Sid: sono Paula Pokrifky e l’amica Lynette, operaie in una cartiera. Paula, con un cognome che sembra una divinità malvagia di un racconto di Lovecraft, è Debra Winger, attrice che ho amato, amo e amerò sempre, uno splendore assoluto, con gli occhi come due fanali, non bella secondo i canoni classici, ma adorabile. Okay, asciugo la bavetta e proseguo: lei mezza polacca, Zack italo-irlandese (direi con i difetti delle due nazionalità), si trovano alla perfezione, con ansia di riscatto sociale ed esistenziale. Nasce un amore che ai miei 13 anni aveva creato qualche spaesamento sessuale: i due scambiano baci sbocconcellati il cui rumore è quello di un cane che lappa dalla scodella uno spezzatino sugoso, masticando i boli a bocca aperta e sbatacchiando le fauci. E vabbeh. Si arriva al primo accoppiamento dopo che lui ha sbroccato per questioni di possesso della merce: al suono di Tush degli ZZ Top c’è stato il virile confronto con quei bovari locali che si vedono fottere dai militari il bestiame femminile. Mayo ha spaccato il naso a un poverino che obiettava alla razzia, poi – siccome è sensibile – si è pentito e Paula: “Non hai avuto scelta” (e non è vero!). Zack: “Un uomo ha sempre una scelta”, e cominciamo ad addentrarci nei territori del Mito. Segue sceneggiata degna di Merola con lui che non ne vuole sapere, lei invoca attenzione, lui la offende e la scaccia, lei piange, lui la raggiunge, le soffia in un orecchio, una carezza, un bacio e voilà, e dopo la prima chiavata cowboy style lei è subito geisha e gli cucina le uova col bacon (e lui mangia come un cafone, con la testa nel piatto, la forchetta tenuta come un pugnale e pure i gomiti sul tavolo. Bah). Ahia, qui c’è già puzza di famiglia. Intanto l’addestramento punteggia la narrazione evidenziando le caratteristiche dei compagni di corso, tra cui Casey Seeger, la ragazza che non riesce a superare il percorso di guerra. Alla truppa viene insegnata la disciplina e lo spirito di corpo e Foley prova a far fuori Zack che commerciava in scarpe e fibbie lucidate, il mascalzoncello. Non ottiene le sue dimissioni dopo un’altra scena madre (“Don’t you eyeball me, boy!”) e da lì in poi il corso è una passeggiata di piacere. Però viene fuori che Paula è figlia di un aspirante ufficiale che poi ha mollato lì la madre. Allora lui scappa, il cazzo non vuole pensieri, eh. Sulle note dell’assolo di Tunnel of Love dei Dire Straits si riavvicinano, lui si fa sotto, è lei a sfancularlo e gli fa capire un po’ di cose. Intanto siamo a fine addestramento, diversi aspiranti piloti hanno rinunciato, e arriva una scena MONUMENTALE, quando Mayo rinuncia a fare il record sul percorso di ddv6801bguerra perché va in soccorso di Seeger. Perché non vince nessuno se non si vince tutti, te capì? E subito, dietro l’angolo c’è il DRAMMA. L’amico di lui, Sid Worley, un burino rifatto del Midwest che deve dimostrare al padre che ha le palle per far dimenticare un fratello morto in Vietnam, scopre che Lynette è forse incinta… detto fatto: dimissioni e anello di fidanzamento. Ma la sgallettata vuole girare il mondo al seguito del suo ufficiale e confessa che no, non c’è nessun bimbo in arrivo. Sconforto. Zack cerca uno sfogo con Foley: si randellano in un confronto edipico, battere il maestro per diventare adulti. Non ci riesce per un pelo e piglia un calcio nei coglioni che dovrebbe farlo cantare come Farinelli per il resto dei suoi giorni. Ha perso ma è come se avesse vinto. Siamo all’EPICA PURA: Sid si suicida e Mayo piange calde lagrime. Ormai è un uomo. Il finale è APOTEOSI GALATTICA: lui, graduato, va a prendere in fabbrica Paula, se la piglia in braccio e la libera dalle sue catene proletarie tra gli applausi delle altre operaie, compresa Lynette che piagnucola “È così che si fa” (e non si capisce se intenda che gli uomini vadano infinocchiati in questa maniera o cosa, boh). Finale da Cenerentola con Joe Cocker e Jennifer Warnes che cantano Up Where We Belong. Beh, cosa posso dire ancora? Eh, che siamo davanti a un capolavoro ricattatorio, perfetto esempio di cinema popolare, capace di abbattere ogni preclusione ideologica o resistenza alla melassa. E io son stato fatto prigioniero, tutto sommato felicemente, lo ammetto. E ora: “Fuori dalle palle, Mayo!”. (Dvd, dicembre ’09)

LIFE ON MARS756 – Un’altra vita? Life on Mars di Aa.Vv., Gran Bretagna 2006
Cosa farei io se capitassi nell’Inghilterra del 1973? Ah, beh: avrei una lista di concerti lunga così a cui andare. Invece Sam non sa ben come comportarsi, perché lui nel 1973 ci capita dopo esser stato investito da un’auto nel 2006, rimanendo vagamente stordito. Che ci fa, lì? Come mai ha fatto un salto nel tempo? Il dubbio è la vera linea tesa nel racconto, che procede per casi polizieschi, giacché il protagonista finisce a lavorare come sbirro nella stessa Manchester dal cui futuro proviene. Da un certo punto in poi il protagonista sente le voci come Giovanna d’Arco, senza particolari colpi di scena, e vive la sua esperienza parallela come se fosse in coma profondo, un po’ come in A Matter of Life and Death (Scala per il paradiso di Powell e Pressburger: citare in originale fa molto Ghezzi). Là c’erano più IPM (invenzioni per minuto), va detto, ma paragonare un film a una serie è sciocco e siccome ci vuole niente per farmi su, mi affeziono a Sam e al suo superiore, il clamoroso ispettore capo DCI Gene Hunt, omofobo, fisico, violento, tutto istinto animale, ignorante come una campana, ma dotato di un innegabile fiuto. Perché i casi all’epoca si risolvevano così: a botte date e a botte d’intuito avute. Giocando molto la serie sugli anacronismi, fa un po’ ridere pensare che adesso abbiamo i profili psicologici, il luminol, le impronte e le analisi scientifiche, perché poi, oggi come allora, c’è chi è segnato e pagherà e chi invece la farà sempre franca. Bella è la ricostruzione della Gran Bretagna dell’epoca, dominata da uno squallore bestiale: tutti morti di fame, dai poliziotti ai malviventi, e le rapine in banca erano faccende improvvisate, come le indagini che seguivano. Ci si divertiva con birra e freccette e la televisione era ammorbante. Forse per reazione, usciva musica di una bellezza unica, che colorava il grigiore di quella società: la soundtrack è eccezionale, con almeno due grandi hit a puntata (Bowie, Deep Purple, Pink Floyd, Wings, Slade, Sweet, Free etc.) e un generale gusto per la riscoperta di alcune chicche musicali coeve (che mi vanto di riconoscere tutte dopo due note). Il finale della serie è così cosà: rimanda la soluzione dell’inghippo e ci lascia nel limbo in cui si trova anche il povero Sam. Vedremo. (Dvd; dicembre 2009)

ddv6803757 – Le semplificazioni di Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti, Italia/Francia 2006
Quando vedi un film ogni due mesi, poi rischi che ti sembrino tutti dei capolavori. Non è questo il caso, ma il film si fa vedere, soprattutto per il buon cast. Antonio Pennacchi, autore del romanzo Il fasciocomunista da cui il film è tratto, ha protestato molto per il trattamento. Diciamo che Pennacchi s’incazza e fa caciara a prescindere, ma qui ha ragione da vendere. Il fatto è che Il fasciocomunista faceva dell’ambiguità, del dubbio e dell’incazzatura verso il mondo, la sua cifra. Luchetti assieme agli ubiqui Rulli e Petraglia ha invece optato per una più comprensibile e manichea suddivisione dei personaggi: i buoni e i cattivi, il bene e il male. E se il libro rimaneva inconcluso – in qualche maniera – era proprio perché la rabbia del personaggio era irriducibile; qui invece ti tocca pure il lieto fine che ci manca che suonino le trombe e gli angeli cantino in coro. Semplificando, si son tenuti i caratteri dominanti dei personaggi (tutti bellissimi, ricchi, sfaccettati, nel romanzo; qui più monodimensionali) e s’è dato un ordine lineare alla trama. Come se avessero squadrato il romanzo, lo avessero razionalizzato, mentre là era bello proprio quel disordine, specchio di una personalità e di una società. Accio Benassi è l’ultimogenito di una famiglia di Latina e non ci sta, mai. Contesta, protesta e mena (botte che sono sempre abbracci, ricerche di contatto fisico, richieste d’amore e di calore), non gli vanno la religione e i ruoli familiari e, da fascistello contestatore, diventa presto comunista (conversione che nel romanzo è, per forza di cose, dosata meglio), seguendo le orme del fratello Manrico e della brava sorella maggiore. Subplot che fa da colonna dorsale del film è la mancanza di una casa, invenzione da manuale di narrativa dei due sceneggiatori onnipresenti, che porterà a un canonico finale liberatorio, catartico, con riscatto e ricompensa. La prima parte del film vive bene, poi la narrazione s’impantana un po’ e funziona solo grazie alle interpretazioni: il porcino Riccardo Scamarcio, il nervoso Elio Germano che sembra un Mastandrea sotto eccitanti, la splendida Diane Fleri e Alba Rohrwacher, brava e intrigante, con la sua faccia da strega di Salem. Buon film medio per il pubblico borghese quale ormai rappresento degnamente con i miei 94 chili di ciccia. Consueto sonoro italico pessimo, accettabile la ricostruzione storica e almeno una gran bella scena: quella dell’occupazione del conservatorio, dove si sente il piacere della fratellanza nella condivisione politica, della provocazione, del gioco, dell’emozione. (Dvd; 23/12/09)

ddv6804759 – Poca roba, 24: Redemption di Jon Cassar, USA 2008
Lotsa spoilers, here, folks! Ma detto tra noi, non vi perdete niente: il film è frutto dell’annata storta della fiction USA, conseguente allo sciopero degli sceneggiatori. Si è arronzato un film, ma anche lavorando, direi che gli sceneggiatori hanno continuato a manifestare (tra l’altro, magari lo facessero in Italia uno sciopero, gli sceneggiatori, che ci risparmieremmo i Cesaroni…), perché questo Redemption è una mezza schifezza, praticamente un Bud Spencer-movie con le pistolettate al posto dei ceffoni. Jack Bauer è in Africa, a espiare, nel misconosciuto stato del Sangala, paese che ogni volta che veniva citato mi faceva pensare a Bracardi che urla “Fangala! Pippe Baute, fangala!”. Non si sa bene di cosa sia ricco, il Sangala, ma i bianchi tramano con l’aiuto di milizie e soldataglia violenta e tonta (ovvio, sono neri). Jack resiste assieme al volontario Robert Carlyle, corrugato come un olivo saraceno. Gli tostano un’orecchia e lui reagisce tentando di salvare tanti bambini innocenti. I ribelli hanno ovviamente bandiere rosse; gli uomini delle Nazioni Unite sono traditori e vigliacchi. Botte, fughe, inseguimenti, ma siamo abituati a 24 ore croccanti, noi, non a 100 minuti raffermi. Nelle ultime scene vanno in parallelo il discorso d’insediamento della nuova presidentessa d’America (dopo il nero, la donna: chissà mai che non ci azzecchino anche stavolta) e la fuga in elicottero dall’ambasciata di Sangala (molto Saigon-style). E mentre si parla di libertà e ricerca della felicità vengono mostrati i volti di chi vende armi e trama sottobanco. Tornerà tutto nella prossima serie? (Dvd; 27/12/09)

ddv6805760 – Scopano come cani in Caos calmo di Antonello Grimaldi, Italia 2008
Premetto: anni fa, sulla scorta del successo (…) di Fame chimica, Paolo Vari, regista, e io, indegno suo giullare, abbiamo letto ancora in bozze Caos Calmo, di Sandro Veronesi. Siccome abbiamo fiuto da vendere e volevamo dimostrare ai cinematografari romani che non eravamo gente che si comprava con un best seller, avevamo storto il naso: ci pareva ‘na strunzata, insomma. E invece il film che ne è venuto fuori sta in piedi nonostante richieda una bella sospensione d’incredulità di fronte alle vicende raccontate, peraltro intrise di realismo spicciolo, in una curiosa contraddizione che però funziona. Comunque: è la sera prima di capodanno e festeggiamo la fine di questi insipidi anni Zero soli soletti a casa di mia sorella, a Genova, sapendo che ci sveglieremo dopo la mezzanotte a causa di Elena e non dei botti. Regista è quell’Antonello Grimaldi, già “direction consultant” di Radiofreccia di Luciano Ligabue, cioè, secondo la maldicenza di alcuni del settore, il vero regista. Qua se la cava benissimo, pur rifugiandosi talvolta in un mimetismo morettiano che – a seconda dei gusti – può irritare o compiacere: la vertigine della lista, le manie, i tic, le idiosincrasie di Nanni si attagliano alla sofferenza di un protagonista che vuol fare ordine nel passato per trovare chiarezza nel presente. La storia non ve la racconto perché esistono apposta centinaia di enciclopedie in Rete e su carta. Noto solo che già nella prima scena appare il capezzolone di Isabella Ferrari, quasi un monito per ciò che capiterà dopo. E cioè una scena di sesso dove l’austero Nanni perde ogni inibizione e titilla le mammelle della biondona come se fossero il joystick della Playstation e, dopo tanto desiderare, la tromba, la bomba e la pistona, sfasciandola più di quanto non sia già sfasciata di suo, con la faccia di lei che sembra un mascherone da tragedia greca. Beh, se ripenso al Sapore di mare vanziniano, mai avrei pensato a un incontro di questo tipo, Moretti vs. Isabellina. Va anche detto che la sequenza che tutti ha fatto parlare ha un suo perché. È grottesca ma anche vera, imbarazzante perché non patinata, realistica nella goffaggine, nelle smorfie, nei grugniti, nella mancanza di eleganza (mani che ciancicano, leccate bavose, pelle)… e non è sotto la lenzuola come fanno quei falsoni degli americani, anzi: mentre tampona la Ferrari da tergo, Nanni mostra il culone e una frazione di secondo di pendaglio moscio. Vabbeh. Detto della sequenza cult, noto che Gassman è sempre più bravo, la Golino è come la Gorgona (cioè con la testa mozzata appoggiata al collo) e Kasja Smutniak ha un sorriso che illumina lo schermo. Lo sapevo – modestamente – anche dal vivo, ma non lo ricordavo più. Buon anno. (Dvd; 31/12/09)

ddv6806761 – L’assiderante Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino, Italia 2004
Film stralunato, freddissimo, quasi ibernato, improntato a un’estetica minimale che può anche irritare. Toni Servillo oscilla tra la perfezione e la gigioneria: il confine è labilissimo ed è solo con la ritrovata umanità della seconda parte che viene fuori la bravura dell’attore che si scongela grazie al sentimento. Comprimaria una nipote della Magnani, dall’occhio inceneritore finché non apre bocca e infatti mai più sentita né vista, anche se negli extra del Dvd straparla come se avesse vinto un Oscar e pure un Nobel. Comunque mica male ‘sto Sorrentino, sai? (Dvd; 7/1/10)

ddv6807762 – La salutare distopia di Battle Royal di Kinji Fukasaku, Giappone 2000
Non ricordo bene come ci sono arrivato, ma in una botta di esotica spericolatezza, mi procuro il cofanetto del film in un’edizione con un non meglio specificato “alternate ending” e ricca di bonus. Lo vedo con la cugina Alessandra una sera che Barbara è via, e il film ci prende, inutile negarlo. Giappone di un prossimo futuro, con la gioventù ormai allo sbando. Per dare una qualche scossa ai ragazzi se ne portano un tot su un’isola e li si costringe a combattere per sopravvivere: ne devono rimanere due, vivi, e ogni colpo proibito è ammesso. La competizione mortale viene ripresa e trasmessa come un reality estremo dalla funzione altamente educativa. Le grafiche rendono conto di ogni eliminazione e molte le vediamo – con gusto cinico – mentre accadono, col privilegio di entrare anche nella narrazione, non solo assistendo al programma tivù dentro al film. Però è come se – rispetto al testo ricchissimo di suggestioni – ci fosse una messa in scena qualche volta non all’altezza. Intendo dire non così inventiva. Però sono io un rompipalle, il film ha già dieci anni e il regista Fukasaku ne aveva pur 71 e mica poteva fare il tarantinato a ogni momento. Bellissime le sequenze dei sogni, l’uso della musica classica (il violento Dies Irae di Verdi che è autentico Heavy Metal ottocentesco, ma di quello cattivo) e il tema della sessualità adolescenziale. Invece alla teatralità degli attori (penso alle scene di gruppo iniziali) bisogna farci un po’ l’abitudine. Immenso Takeshi Kitano, che ha la parte del cattivo maestro (raramente m’è capitato di pensarla diversamente su di lui). Film da vedere eccome, comunque. (Dvd; 9/1/10)

ddv6808763 – Lo splendido The Shield – Prima Stagione di Shawn Ryan, USA, 2002
Un’altra serie. Che è una bomba, ma della quale non m’innamoro subitissimo. Perché non voglio. È che il mio cuore è già su E.R., inarrivabile, e anche un po’ su 24, da cui sto provando a disintossicarmi. E poi ho finalmente recuperato Prigionieri delle pietre, uno sceneggiato (si chiamavano così) inglese degli anni Settanta per ragazzi di cui attendo da più di trent’anni di sapere come vada a finire. Ragazzi: le serie tv esigono la visione compulsiva ed esclusiva, sono droghe, le vedi alterato dalla scimmia on yo back: ho un migliaio di Dvd da vedere e devo tornare a cibi sani, a fare sport, dormire bene. Devo tornare a vivere, cioè vedere film. Ovviamente dopo la fine di Lost, la morte di Green in E.R. e qualunque cosa accada in 24, Boris e pure quei Soprano che mi aspettano da un anno in cofanetto ancora cellofanato. Poi smetto, giuro. Però The Shield è grande, maledizione, grandissimo: distretto di polizia losangelino dove bene e male sono indistricabilmente allacciati, dove l’etica si scontra ogni giorno col pragmatismo o l’interesse, dove ti affezioni a gente moralmente schifosa ma che fa quello che fa perché qualcuno deve pur farlo. Sai che non è giusto, ma ci caschi e l’equilibrio del dubbio è la scommessa vinta da questi sceneggiatori eccezionali. The Shield è acido, imbarazzante, ambiguo, sporco. È inaccettabile ed è la vita, come non vorremmo che fosse messa in scena perché già la viviamo, ma è questo coraggio insopportabile a renderla una serie unica. Scritto come se fosse Ellroy e girato come un Dogma senza pretese, ma vivo e ansiogeno, vedremo come va avanti, se riesce a non sbracare. Ah: non merita una recensione perché l’ho visto a pezzi, ma Il gobbo di Notre Dame non è niente male. E vogliamo parlare della zingara Esmeralda? Beh, se le donne rom fossero tutte così, credo che gli italiani diventerebbero il popolo più ospitale della terra, a partire dal Presidente del consiglio. Esmeralda sembra una pornostar anni Ottanta, di quelle tettute, con gli occhioni verdi da cerbiatta e i capelli vaporosi. Senza dubbio la miglior CILF (Cartoon I’d Like to Fuck, vedi qui e qui) di sempre. Animazioni belle, architetture gotiche sublimi e messaggi inconsueti per l’universo Disney. Il Potere ne esce malissimo al grido dei disperati: “Diritto d’asilooooo!”. Fa più propaganda questo Disney che 10 anni di Partito Democratico, senza esagerare. (Dvd; gennaio e febbraio 2010)

ddv6809764 – L’esistenziale Boris 2 di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, Italia 2008
Boris riparte abbastanza bene, poi ha una flessione (verso la quinta e sesta puntata) e poi piazza lo scatto con un rush finale da antologia, clamoroso, con rimandi mistici (“Senti la Forza, René!”) e all’attualità (sempre attuali: l’Italia è il paese del disastroso eterno presente). Immenso Corrado Guzzanti in una parte di attore sciroccato che sostiene di aver parlato con Gesù Cristo sulla Roma-L’Aquila e invece scarico in un ruolo di contorno da ecclesiastico sui generis. Nella serie sono più chiare alcune linee narrative e diventa un motivo dominante la storia d’amore tra l’assistente Arianna e lo stagista Alessandro, mentre crescono i personaggi dello stagista muto, Lorenzo, e dell’elettricista esaurito Biascica. Non male neanche la nuova divetta, cagnissima, e lo zoccolone di contorno, la vivace Karin. I personaggi principali si alternano, ma René rimane il cardine centrale, lui e il suo dubbio esistenziale/professionale. Capolavoro in crescendo, con una sfumatura poetica sempre più accentuata, pur nella descrizione quotidiana dell’aberrante professionalità televisiva. Ed è tutto vero, vi assicuro. (Dvd; febbraio 2010)

ddv6810766 – Muovi il culo e pensa: WattStax di Mel Stuart, USA 1973
Un concertone per celebrare la dignità del popolo afroamericano nel settimo anniversario della rivolta di Watts, un sobborgo nero di Los Angeles. Lo organizzò la Stax ed è passato alla storia come la Woodstock black, anche se la similitudine tra le due manifestazione finisce nell’assonanza e nel fatto che ne sia stato tratto un film. Là il caos, qui un’organizzazione ferrea, uno spettacolo superbo e un’affermazione politica che ha fatto epoca e purtroppo non ha avuto seguito, come se fosse stata la pietra tombale sul movimento di emancipazione nero, da lì in poi represso sempre più violentemente, annientato con le armi, la droga o i consumi. La musica stessa è al top del suo fulgore, molto bella e sentita, con testi che dicono sempre qualcosa, in maniera sofferta, com’è tradizione, ma con frequenti apertura alla gioia del canto e alla bellezza della danza prima della deriva puramente edonistica che seguirà nei tardi anni Settanta (musica sempre divertentissima, intendiamoci, ma un po’ senza cervello). Si cantano ancora l’orgoglio, il desiderio di libertà, la frustrazione del blues. Poi saranno solo smancerie, come in qualche caso qui già anticipato. Il documentario fa vedere ed ascoltare i diversi partecipanti, su cui spiccano – nel mio personale score – il Rance Allen Group (gospel rock potentissimo con un cantante che stazza come Giuliano Ferrara e canta come Ian Gillan con i coglioni in una morsa) e i Bar-Kays, conciati come comparse di Jesus Christ Superstar ma senza ritenersi in costume. Il pubblico è partecipe in maniera straordinaria e si fa sentire fin dal sermone rap del reverendo Jackson (con un testone afro da paura) che fa recitare a tutto il Coliseum il mantra I AM SOMEBODY: povero, ignorante, senza lavoro, senza capacità, ma IO sono qualcuno, con una dignità da rispettare. Il massimo si raggiunge quando molti spettatori abbandonano le gradinate per invadere il campo e… ballare. Non gliene frega niente di andare sotto il palco ad esagitarsi, non importa essere vicini all’artista: interessa avere spazio per muoversi, esprimersi, e una volta finita l’esibizione di Rufus Thomas, al suo cortese invito tornano tutti ai loro posti. Semplicemente incredibile. La regia intervalla le performance con interviste alla gente del quartiere e, con un montaggio agile, sappiamo come la pensavano su sesso, religione, politica, lavoro e non solo. Perché è estremamente politico parlare anche della propria capigliatura, del gospel e del blues, dell’espressione corporea che si comunica col ballo, dei rapporti tra uomini e donne (o meglio tra brothas ‘n sistas), dell’eredità culturale africana, del perché – in definitiva – nero sia bello. E molto: gli intervistati sono splendidi, scelti benissimo, saggi, scaltri, con la lingua velocissima (e seguire il film in originale è veramente difficoltoso). Ma stupiscono l’eleganza, la fierezza e l’austera bellezza della razza, sinuosa e muscolare, sensuale e fisica. A stemperare un clima che comunque è sereno e piacevolissimo, l’ulteriore bonus dello stand up comedian Richard Pryor che è un’esplosione di macchiette godibili. Questo film è un capolavoro che fa muovere il culo e il cervello. Ne ricordo pochi, recentemente. (Dvd; 27/2/10)

(Continua – 68)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

]]>
Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 52 https://www.carmillaonline.com/2013/09/06/ddv52/ Thu, 05 Sep 2013 22:01:39 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8887 di Dziga Cacace

Vi sbagliate TUTTI (Werner Herzog)

ddv5201512 – Lo facevo più alto Escape From New York di John Carpenter, USA 1981 La stoffa della leggenda, alé. La storia la sappiamo ed è chiaro che si tratti di uno spaghetti western ambientato nell’allora futuro (1997). Kurt Russell è il classico cinico pistolero, laconico ed efficace, che tutti credevano già morto. Alla sarcastica domanda di Lee Van Cleef (lo spaghetti western in persona!) “Non dovevi uccidermi?”, Snake Plissken risponde “Sono troppo stanco. Più tardi”. Film essenziale nella regia e nel montaggio e lineare nella narrazione, di fronte agli odierni [...]]]> di Dziga Cacace

Vi sbagliate TUTTI (Werner Herzog)

ddv5201512 – Lo facevo più alto Escape From New York di John Carpenter, USA 1981
La stoffa della leggenda, alé. La storia la sappiamo ed è chiaro che si tratti di uno spaghetti western ambientato nell’allora futuro (1997). Kurt Russell è il classico cinico pistolero, laconico ed efficace, che tutti credevano già morto. Alla sarcastica domanda di Lee Van Cleef (lo spaghetti western in persona!) “Non dovevi uccidermi?”, Snake Plissken risponde “Sono troppo stanco. Più tardi”. Film essenziale nella regia e nel montaggio e lineare nella narrazione, di fronte agli odierni imperanti modelli produttivi risulta felicemente povero di mezzi ma ricco di idee, come quella beffarda e geniale della Manhattan ridotta a un carcere. E l’aereo dirottato che ci finisce schiantato è… beh, diciamo un’intuizione criminale azzeccata, anche se dubito che Osama Bin sia un appassionato di Carpenter, regista anarchico, mai banalmente qualunquista, sempre attento a ricordarci che il Potere è marcio, corrotto, violento e senza alcuna pietà nei confronti dei misfits che lo combattono. L’edizione in Dvd regala un veloce ma interessante documentario che ripercorre le tappe produttive del piccolo gioiello, nato da una sceneggiatura dei tempi dell’università, pensata – guarda il caso – per Clint Eastwood. Cast spettacolare che include anche Ernest Borgnine, Harry Dean Stanton e Isaac Hayes (e subito sentiamo tutti il chugga chugga del wah wah di Shaft). Rivisto durante gli anni del liceo (sicuramente in seconda, probabilmente anche più avanti e mai più dal 1995 in poi), lo vidi la prima volta all’Instabile di Genova nell’estate del 1982, con la mia amica Roberta. M’era piaciuto moltissimo: avevo già ragione. Carpenter promise che MAI avrebbe realizzato un sequel. Mentiva. (Dvd; 23/1/05)

ddv5202513 – La febbre del sabato sera sedata da Pasazerka di Andrzej Munk, Polonia 1963
Il mio sabato ideale: a casa, con un capolavoro polacco, in lingua originale. Barbara recalcitra e m’impongo poco democraticamente, tirando fuori anche la Giornata della memoria e il dovere civile di vedere un film in tema. Cede e ci vediamo l’incompiuto La passeggera del regista Munk, morto in un incidente d’auto prima di aver ultimato il montaggio. Dopoguerra pacificato. Lisa, che è stata guardia ad Auschwitz, è in crociera e le sembra che una delle passeggere sia Marta, una ragazza ebrea con cui aveva instaurato un tremendo rapporto di potere durante la prigionia. Racconta al marito, edulcorando la vicenda e mascherando la sua meschinità con la compassione. Un film eccezionale, forse anche aiutato dalla sua incompletezza che rende scarni ed essenziali i momenti ambientati al presente (narrati da una voce fuori campo su foto delle scene). Il lager come universo concentrazionario dove è annullata ogni umanità e un biglietto, uno sguardo, una carezza, diventano gesti per cui vale la pena di rischiare la vita. L’orrore della dignità calpestata continuamente, l’illusione degli aguzzini di essere assolti dalla loro cattiveria concedendo avarissimi scampoli di carità, sottomessi sempre all’opportunismo. Munk sceglia una strada difficile: l’incerto tormento personale di Lisa, l’indifferenza di fronte all’immane tragedia e la ricerca di una complicità con una prigioniera per sentirsi meno colpevole. Splendido. In nottata, tra l’altro, Fuori Orario l’ha riproposto, facendolo precedere dal toccante Notte e nebbia di Alain Resnais, visto anni fa e rivisto, impietrito e insonne, non appena ci son capitato su, scanalando. Agghiacciante e dolorosamente necessario. (Vhs da RaiTre; 29/1/05)

ddv5203514 – L’horror de paura Ju-On The Grudge di Shimizu Takashi, Giappone 2003
Nipponata orrorifica dove l’oggettiva impossibilità di distinguere i personaggi rende trama e comprensione oltremodo difficoltosi. Ma non c’è molto da girarci attorno: una casa infestata da bimbo, madre e gatto nero, vittime in passato di un capofamiglia sanguinario. Chi frequenta la casa ha le visioni e prima o poi viene risucchiato in soffitta. Perché The Grudge è piaciuto, tanto da diventare un cult e autorizzarne un rifacimento hollywoodiano? Boh! Direi perché ormai qualunque cosa presenti qualche vago motivo d’interesse diventa allora un’opera d’arte da elevare sopra lo squallore generale. E The Grudge un vago motivo d’interesse lo ha nel fare una paura del diavolo, al di là della farraginosità assolutamente non necessaria e nonostante la staticità narrativa, poco aiutata dall’espressività da bassorilievo di alcuni attori. La scommessa, in questi horror metafisici e metà stronzate, è trovare un modo per farci accapponare la pelle e se da ogni angolo spunta e poi scompare il pallidissimo bimbo Toshyo, beh, lo spaghetto viene eccome. Peggio ancora quando ti appare la madre che rantola come un radiatore rotto e ha capelli degni di Tina Turner metà anni Ottanta. Nella totale indifferenza della trama, mi son goduto un’oretta e mezza di fifa blu. Per cui ve lo consiglio? Mah! Vi lascio nel dubbio: non vi devo niente, io. Dvd affittato dal Blockbuster di Papiniano: sfornito, con commessi da freakshow che non sanno che lavoro fanno e ti mettono in coda per ore. Ah, domenica Prodi è stato intervistato dalla Dandini: per la gioia del Nano, sotto una funerea luce da confessionale il Professore ha risposto disastrosamente alle domande della dentona. Ci meritiamo tutto. (Dvd; 3/2/05)

ddv5204515 – La puzzonata The Peacemaker di Mimi Leder, USA 1997
Il classico film fracassone e ottuso del venerdì sera di Italia1: un richiamo troppo perverso per rinunciarvi. Stavolta tocca a The Peacemaker, film d’azione molto stereotipato, povero di psicologie e, più in generale, di idee che lo distinguano all’interno del genere. Mentre la guerra in Bosnia va concludendosi portando seco un pericoloso carico di vendetta, un’esplosione atomica (!) insospettisce il fisico nucleare Julia Kelly (Kidman), ingenuotta primina della classe. Le affiancano il gaglioffo e non cristallino Thomas Devoe (Clooney), che, da tenente colonnello dei servizi segreti, sa bene come funzionano le cose nel disintegrando ex impero sovietico. La strana coppia è litigarella, ma finirà coll’amarsi (la cosa è intuibile fin dal manifesto del film), ma la regia mette da parte ogni smanceria e va dritta al sodo, con inseguimenti, botti e decisioni fatali dei soldati americani, pronti a sacrificarsi per il bene mondiale. In questa messa in scena muscolare di una regista che vuol far vedere che ha due coglioni di titanio, si salva solo una battuta profetica: di fronte al pakistano cattivo che ha studiato ad Harvard, Clooney chiosa: “Eh già, li abbiamo istruiti quasi tutti noi, i terroristi!”. Se c’è un motivo d’interesse in The Peacemaker è nella compresenza di due attori che da lì a breve sarebbero diventati star a tempo pieno. Nicole Kidman, non ancora sfigurata dalla chirurgia estetica tanto da sembrare oggi la gemella di Eva Grimaldi, pare una ragazzina, con occhi azzurrissimi e capelli rossicci. È di ieri la dichiarazione dello stilista Karl Lagerfeld che ha definito il suo corpo “bizzarro” (è una dichiarazione ripresa da tutte le agenzie di stampa e probabilmente propagata da quello dell’attrice stessa). In effetti ha gambe da fenicottero, sederone e tronco magrissimo e quando corre sembra una papera. Clooney, invecchiando, ha invece guadagnato charme e qui è ancora tutto adrenalina, anche se lo sguardo da giuggiolone promette già quella simpatia sorniona che lo fa amare da donne e uomini. Film molto lungo, non particolarmente ispirato, ma infettivo: visto il primo quarto d’ora, diventa difficile mollarlo. (Diretta tv su Italia1; 4/2/05)

ddv5205516 – Un piccolo capolavoro, Mad Max 2 di George Miller, Australia 1981
Prima di interpretare un poliziotto isterico e spericolato (i vari Arma letale) e prima di dirigere un horror con protagonista Gesù Cristo, il reazionario Mel Gibson è stato un ribelle ricoperto di cuoio che sfrecciava sulla terra devastata dai conflitti nucleari. Unico obbiettivo, procurarsi la prossima tanica di benzina. Era l’ossessione degli anni Settanta (dopo la crisi petrolifera) e oggi ce ne siamo dimenticati: per risolvere facciamo ogni tanto una guerra a chi possiede il petrolio e si rimanda la soluzione al futuro, quando arriverà Mad Max sul serio. Per adesso godiamoci questo splendido memento cinematografico, arrivato in Italia col titolo Interceptor – Il guerriero della strada. Come aveva previsto Einstein, si combatte con le pietre, all’arma bianca e solo Mad Max ha un fucile a canne mozze, ma i proiettili sono rari e spesso difettosi. Abbondano balestre, coltelli e boomerang affilatissimi e vige la legge del più forte. Nella fattispecie i selvaggi che abitano il wasteland agli ordini del temibile e orrendo Humungus. Mad Max, da vero eroe anarchico e cinico, sceglie i buoni per interesse, perché gli possono assicurare un po’ di carburante, cioè vita, strada. La vicenda è divertente, senza cali di ritmo, equilibrata nella costruzione e azzeccata nello svolgimento, con un’introduzione e un finale suggestivi. Da un punto di vista figurativo, il film ha pesantemente influenzato tutto l’immaginario degli anni Ottanta, popolando la videomusica e la fantascienza cinematografica di punk mohicani, abbigliati come moderni gladiatori. Cinemascope oceanico per paesaggi (australiani) di selvaggia bellezza. Azzeccato score classicheggiante di Brian May, solo omonimo del chitarrista dei Queen. Gran film, visto con la cugina Alessandra. (Dvd; 5/2/05)

ddv5206517 – L’ambiguo (?) Rambo di Ted Kotcheff, USA 1982
Anche questo venerdì cado nell’agguato di Italia1: il film (visto anche recentemente) è perfetto per staccare i lobi cerebrali e identificarsi ottusamente nel protagonista, John J. Rambo, reduce dal Vietnam leggermente confuso e abbandonato a se stesso sulla fredda costa del Pacifico. Alla ricerca di un commilitone, ultimo superstite del suo battaglione, scopre che è morto di cancro dovuto al tremendo defoliante, l’agente arancione. Il commilitone, peraltro, era pure nero e – sicuro – i due assieme avranno fumato e si saranno calati più d’un acido. Fai due più due e ti viene un atroce sospetto: ma questo è mica un film di sinistra?! Possibile che abbiamo preso un simile abbaglio per tutti questi anni? Bisogna rivederlo tutto, Rambo, perché qui è in agguato una rivalutazione ideologica non da poco! Dunque: Rambo arriva a Hope, pacifica cittadina dove lo sceriffo Teasle (Brian Dennehy) è frustrato dalla monotonia e non vede l’ora di avere qualche problema per poter menare le mani. Un girovago è l’ideale e Rambo viene portato in cella per vagabondaggio. Siccome puzza da far schifo lo strigliano ben bene e minacciano di tagliargli i capelli perché sembra uno hippie; infine provano a fargli la barba, a secco (sai che roba: e tirargli un pizzicotto, no?). Alla vista del rasoio, Rambo ripensa alla sua prigionia in Vietnam e, come un cane di Pavlov, sbarella e sbava: mena tutti e scappa su pei monti (cane di Pavlov come recitazione, non come reazione, eh?). Teasle non ci pensa due volte e scatta la caccia all’uomo: finalmente un po’ d’azione! Ma c’è un problema, hanno sbagliato indirizzo: Rambo è un ex berretto verde decorato, sopravvissuto alla giungla vietnamita, e sceriffi e guardia nazionale (formata da ciccioni parolai) gli fanno un baffo. Lo riporterà alla ragione solo il colonnello Trautman (Richard Crenna), suo comandante in guerra, uomo talmente coraggioso da sopportare con infinita pazienza anche la frignata finale in cui Rambo tira via la maschera e dice, testuale, che la guerra era già vinta, ma qualcuno a casa, non ha voluto che finisse così. E i dubbi su una possibile riabilitazione rambistica svaniscono d’un colpo. Avevamo ragione da vendere, cazzo. Rambo il film è confuso quanto Rambo il personaggio, anche se come mero prodotto d’azione il film si fa vedere, lo ammetto. Sempliciotto, virile, girato economicamente, abbastanza ritmato, ben fotografato (Laszlo), recitato così cosà, con Stallone capace di due espressioni: o assente o piagnucolante. Sbattuto in carcere, di Rambo se ne rivaluteranno le qualità belliche e i capitoli successivi lo vedranno protagonista in Vietnam e nell’Afghanistan sovietico. Si parla di un quarto episodio: Iran? Corea del Nord? Tra le scene passate alla storia sicuramente il rammendo del protagonista che si ricuce una ferita sul braccio. In un’estate dei primi anni Novanta mia sorella calpestò in casa un ago lasciato per errore per terra. Gli entrò nel tallone e dovetti portarla al pronto soccorso dove un geniale infermiere – saputo l’accaduto – chiamò così il medico di guardia: “Megu, mia! U l’è arrivou u sciu Rambo!”. (Diretta tv su Italia1; 11/2/05)

ddv5207518 – Giochiamo a fare la guerra con The Warriors di Walter Hill, USA 1979
Il Bronx, un improbabile raduno notturno, con tutte le bande della città in tregua, perché Cyrus, il carismatico capo dei Riffs, ha da fare un discorsetto: se ci uniamo, non c’è polizia che tenga e New York sarà nostra. Ma il leader schizzato dei Rogues gli pianta una pallottola in corpo: Cyrus muore. Il caos, coi Warriors accusati dell’assassinio: casa è lontana una cinquantina di miglia e tutti vogliono fargli la pelle. Per tornare alla fetida Coney Island affrontano gli skinhead Turnbull A.C.’s, gli sfigatissimi Orphans, le assatanate lesbiche Lizzies, i Baseball Furies truccati da Kiss e infine i temibili Punks, col leader sui pattini. Botte da orbi e dei nove componenti la delegazione, due onorevoli perdite: il carismatico Cleon, subito fatto fuori dai Gramercy Riffs, e Fox, quello perbene, gettato da un agente sotto un vagone della metrò. L’esuberante Ajax (James Remar) viene invece arrestato perché ci prova con una poliziotta nel parco. Gli altri, capitanati dal sosia magro di Jim Morrison, Swan, raggiungeranno le livide spiagge dell’Atlantico e si chiederanno se sia valsa la pena di questa impresa. Grande western metropolitano, con una New York mitica e irriconoscibile, stilizzatissima grazie alla luccicante fotografia di Andrew Laszlo. La storia non è altro che l’attualizzazione dell’Anabasi di Senofonte (che sbulaccone, eh? Eddài, lasciatemela passare, su) e il vero valore di Warriors risiede nella messa in scena, all’epoca considerata d’insopportabile violenza (oggi fa ridere: poco sangue, niente droghe, nessuna arma da fuoco, volano solo pugni e qualche coltellata). Irrealistica la definizione delle bande giovanili, improponibile – perlomeno oggi – la mescolanza razziale, inesistente il realismo, ma il cinema americano ha sempre inseguito la leggenda. Coloratissimo, amaro, epico: non perfetto, ma comunque imprescindibile, perlomeno per la mia generazione. E a un certo punto, per pochi frame, c’è il mio amore Debra Winger, paffutella e tenerissima. (Dvd; 12/02/05)

ddv5208519 – The Untouchables di un ludico Brian De Palma, USA 1987
Per combattere Al Capone bisogna usare le maniere forti e mettere in conto che non ci saranno più amici sicuri, famiglia tranquilla e orari di lavoro da ufficio. Kevin Costner è lo specchiato federale che va a Chicago a scontrarsi con la polizia locale corrotta. Mette su una banda pronta a tutto (gli Intoccabili, appunto) e reagisce colpo su colpo al mefistofelico boss mafioso, passando pure al contrattacco e infine incastrandolo. Messa in scena sontuosa, attori in parte, pochi indugi autoriali, qualche esibizionistico pezzo di bravura (la scena della carrozzella, che omaggia Ejzenstejn), una più generale voglia di abbracciare il grande pubblico: è il cinema italo-americano nella sua variante più spettacolare, con un Morricone particolarmente fracassone e sintetico, un De Niro mattatore e i ricchi costumi di Armani. Divertente. Perso all’epoca, riguadagnato in versione originale e chilometrico cinemascope. Questa ottusa recensione si accompagna alla ferale notizia che ho smesso di comprare Film Tv. Avevo cominciato a leggerlo anni fa su consiglio di Marco Polese, compagno di straordinarie visioni al cineclub Lumière. Dopo gli ultimi mesi in cui non lo guardavo neanche, questa settimana mi sono semplicemente dimenticato di chiederlo in edicola. La rivista è forse diventata un po’ noiosa, ma soprattutto sono io a essere sicuramente diventato mortale: non c’è film che desideri vedere e – di conseguenza – non c’è articolo o recensione che voglia leggere. E poi, l’odierna critica cinematografica mi sembra un esercizio di dissezione di cadaveri. Qualche nome che mi piace? Beh, sì: il vivace Filippo Mazzarella, che leggo qui e là. Oppure Alessio Guzzano, libero pensatore dotato d’ironia e di creatività linguistica, che costruisce miniature finissime e ha gusto (e idiosincrasie, ma dichiarate). Ma altro non saprei. È colpa mia? È colpa mia, probabilmente. (Dvd; 13/02/05)

ddv5209520 – Lo spaventevole Zeder di Pupi Avati, Italia 1983
Beh, questa è storia. Scrivo esclusivamente pensando a Pier che un giorno leggerà queste righe e ricorderà anche lui quel fine agosto a Champoluc. Sarà stato il 1983, direi. Pier Paolo, alquanto precocemente, ha già “la ragazza”, Tiziana, e io sono il terzo incomodo. Fatto sta che in una serata ancora calda, finiamo lì, a casa di Tiziana per vedere questo horror, in prima serata sulla Rai. La casa verde era sul curvone per andare ad Antagnod ed era famosa perché si diceva che lì avesse soggiornato Bettega quando aveva dovuto curare i polmoni deboli. Chissà: io riferisco, ma non ho mai verificato tutta la vicenda, anche perché l’interesse è oggettivamente prossimo allo Zero Assoluto. Ricordo perfettamente che il film ci aveva fatto abbastanza cagare addosso e nell’intervallo avevamo riso come matti per una pubblicità micidiale di prodotti in gomma il cui slogan era “il chiodo fisso”: il nome dell’azienda era letteralmente martellato in fronte a un tipo. Altri tempi, altre strategie di marketing: darei una cifra per rivederla. La vicenda di Zeder vi ricorderà quella di altri più fortunati horror: esistono terreni speciali, detti terreni K, dove i cadaveri possono riprendere vita. Più o meno come nel cimitero indiano di Pet Semetary o come sul palco dell’Ariston a Sanremo. A proposito: lessi il libro di Stephen King durante l’Interrail europeo del 1989, quando conobbi Barbara. Faceva paura (il libro, non Barbara). Poi qualche anno dopo, con Ferro, abbiamo visto anche il film e faceva paura anche quello, ma per lo schifo. Tornando a Zeder: ancora bello inquietante, nonostante durante la visione Barbara e Alessandra abbiano anticipato mirabilmente tutti i colpi di scena perché lo ricordavano meglio di me. Sceneggiato da Pupi Avati assieme a Maurizio Costanzo che – dopo essersi occupato anche de La casa dalle finestre che ridono – da allora ha deciso di dedicarsi ad altre forme di orrore, tipo Buona Domenica. (Vhs da RaiUno; 15/02/05)

ddv5210521 – Il primo clamoroso episodio di Io tigro, tu tigri, egli tigra di Renato Pozzetto, Italia 1978
Questo episodio (di una trentina di minuti) è un po’ il Graal di certa commedia italiana anni Settanta, perlomeno per me e la mia famiglia. Mi sto addentrando nei meandri della salute mentale dei miei genitori e di mia sorella, ma da sempre, quando tra di noi uno dice “bestiale”, subito gli viene risposto con marcato accento lumbard “ha stabilito il record del letame!”, citando uno dei momenti stracult dell’episodio in questione. Protagonista è Pozzetto, ingenuo abitante di una casupola prefabbricata. Si guadagna da vivere consegnando merda di vacca col suo Ape Piaggio spoilerato e tirato da corsa, ma il frustrato Ponzoni lo assolda come cameriere col preciso piano di far secca la moglie ricca. Finirà tutto in un colossale sputtanamento, come canta strascicato Jannacci. Mezz’ora di surrealtà purissima, umorismo geniale e freddo come un ghiacciolo nel culo. Tra battutacce da declamare tra amici, nonsense e qualche ingenuità di regia, viene fuori una perla di follia, ma è di questa materia che sono fatti i sogni e i film che più amiamo, cari amici. Tra i tanti che appaiono c’è Giorgio Porcaro (con le mani “come due badiletti”) e soprattutto Massimo Boldi, fantastico cameriere ribelle con la Porsche che fa rivendicazioni proletarie agitando coltelli. Rivedendo Io tigro, tu tigri, egli tigra, ho goduto come sempre, notando però più i difetti che i pregi. Barbara era abbastanza attonita, ma certe cose o le vedi a tredici anni oppure non ne coglierai mai più la sublime poesia. (Vhs da RaiUno; 16/02/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 52)

]]>