David Lapoujade – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 21 Jan 2025 21:20:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Diabolik – Ginko all’attacco!”: il corpo invisibile e sovversivo https://www.carmillaonline.com/2022/12/11/diabolik-ginko-allattacco-il-corpo-invisibile-e-sovversivo/ Sun, 11 Dec 2022 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75146 di Paolo Lago

Diabolik – Ginko all’attacco! (2022) dei Manetti Bros, secondo capitolo della trilogia dedicata dai registi al personaggio di Diabolik, inizia con un’incursione del ‘sovvertitore’ protagonista nella sala del museo nazionale di Ghenf per rubare la preziosissima corona di Armen. Dopo aver messo fuori uso i sistemi di sicurezza della stanza blindata, Diabolik riesce a penetrare all’interno di essa per impadronirsi del gioiello. Il museo del film, che nella realtà è il santuario mariano di Trieste, appare come un geometrico blocco di cemento che si erge al di sopra della città, [...]]]> di Paolo Lago

Diabolik – Ginko all’attacco! (2022) dei Manetti Bros, secondo capitolo della trilogia dedicata dai registi al personaggio di Diabolik, inizia con un’incursione del ‘sovvertitore’ protagonista nella sala del museo nazionale di Ghenf per rubare la preziosissima corona di Armen. Dopo aver messo fuori uso i sistemi di sicurezza della stanza blindata, Diabolik riesce a penetrare all’interno di essa per impadronirsi del gioiello. Il museo del film, che nella realtà è il santuario mariano di Trieste, appare come un geometrico blocco di cemento che si erge al di sopra della città, emblema di un potere granitico ed opprimente. Ma Diabolik riesce a penetrare all’interno del suo “sancta sanctorum” (trattandosi, nella realtà, di un santuario, l’espressione può risultare appropriata). Una volta che il sistema d’allarme si è messo in funzione, i guardiani, accorsi, si trovano paradossalmente chiusi al di fuori della stanza in cui è custodita la corona. Padrone dello spazio più intimo e segreto del potere, laddove esso custodisce i suoi tesori più preziosi, è adesso Diabolik. In un rovesciamento di situazioni, i guardiani sono chiusi fuori e dovranno usare la dinamite per sfondare la stanza nella quale si trova il misterioso ladro. Ma quest’ultimo appartiene inesorabilmente al ‘fuori’ e, non appena le guardie riescono a penetrare nella stanza, Diabolik sta già volteggiando col suo deltaplano sulla città notturna, lontano dalle rigide geometrie del palazzo che, nelle inquadrature notturne dei Manetti Bros finisce per assomigliare quasi ai palazzi della Los Angeles del futuro di Blade Runner (1982) di Ridley Scott.

Al potere rigido e granitico, simboleggiato dal geometrico edificio, Diabolik (ben interpretato da Giacomo Gianniotti, che subentra a Luca Marinelli) oppone il proprio corpo leggero ed etereo, nero ed oscuro, divenuto quasi invisibile nella notte. Rispetto al precedente film dei due registi, adesso, è il corpo del fuorilegge ad assumere peculiari valenze sovversive e non lo spazio (cfr. quanto ho scritto in Diabolik, un’estetica dello spazio sovversiva, su “Carmilla”). In questo secondo capitolo della progettata trilogia, ispirato all’albo n. 16 dell’aprile 1964, sceneggiato da Angela e Luciana Giussani e disegnato da Enzo Facciolo, l’ispettore Ginko (sempre un bravissimo Valerio Mastandrea che, come il personaggio dei fumetti, fuma la pipa e si sposta in Citroën DS), grazie ad un trucco, riesce a violare gli spazi segreti di Diabolik sottoponendo alle dinamiche del controllo tutti gli oggetti in essi presenti. Così, la stessa auto del fuorilegge, la famosa Jaguar, che in precedenza era sempre stata il mezzo imprendibile e misterioso delle sue fughe, finisce, intrappolata e bloccata, sotto lo sguardo dell’ispettore e degli agenti (così come anche tutti i suoi strumenti e i suoi trucchi) mentre la refurtiva accumulata in anni di rapine viene sottoposta ad un’opera di controllo e di catalogazione. Il misterioso tunnel mimetizzato nella montagna e i suoi cunicoli serpentini sono adesso solcati dalle strutture poliziesche del potere che prendono possesso di tutti quei luoghi che prima erano stati il cuore pulsante della sovversione. Ginko e i suoi uomini riescono a penetrare perfino nel luogo dove il fuorilegge costruisce le sue maschere, una vecchia fabbrica abbandonata alla periferia di Clerville. Quest’ultima è uno spazio del ‘fuori’ che lambisce i rigidi spazi cittadini, incapsulati nella geometricità dello stesso ordine borghese che domina anche le fattezze del museo di Ghenf nelle sequenze iniziali. La misteriosa fucina delle mascherature di Diabolik non si trova in lontane periferie ma si materializza appena girato l’angolo di una razionale e ordinata strada cittadina. È al di là dell’ordine ma lo lambisce continuamente, lo sfiora, gli vive accanto di nascosto.

Se i luoghi della sovversione di Diabolik, adesso, vengono occupati e presidiati dal potere, al fuorilegge non rimane perciò che cercare un altro spazio sovversivo nel suo stesso corpo. È quest’ultimo a trasformarsi nell’estremo rifugio resistente da opporre a un potere che lo sta braccando. Non è un caso, infatti, che sulla copertina dell’albo n. 16 al quale si ispira questo nuovo film dei Manetti Bros compaia in primo piano il corpo di Diabolik che cerca di liberarsi dalle catene con le quali è legato, mentre dietro di lui vediamo Eva Kant che sembra quasi guardargli le spalle. Quando le “eterotopie” sovversive del fuorilegge vengono scoperte e catalogate, geometrizzate, imprigionate nelle canalizzazioni controllate dal potere poliziesco, è allora il corpo che si trasforma in luogo, che si trasforma in spazio perché esso, come osserva Michel Foucault, è “il piccolo frammento di spazio col quale letteralmente faccio corpo”1. E se, apparentemente, il corpo, trasformatosi in luogo, potrebbe sembrare il contrario di un’utopia, esso, invece, è in tutto e per tutto “un corpo utopico”: “No, veramente non c’è bisogno né di magia né di fiaba, non c’è bisogno né di un’anima né di una morte perché io sia insieme opaco e trasparente, visibile, invisibile, vita e cosa: per essere utopia basta essere un corpo”2. Ed ecco che all’interno della finzione favolistica e fumettistica creata dai registi, il corpo di Diabolik diventa visibile e invisibile, contemporaneamente luogo e non luogo, utopia che si oppone al grigiore stanziale degli apparati di potere.

Privato dei suoi luoghi sovversivi, Diabolik percorre nella fuga spazi aperti nei boschi e sul ciglio di torrenti impetuosi, fra rocce e pietre: allora, il suo corpo utopico (l’utopia di chi mai vuole arrendersi al potere) sembra fondersi quasi con la natura ostile che lo circonda. Mentre lui ed Eva Kant (sempre interpretata dalla brava Miriam Leone) si muovono agili nelle impervie spazialità del ‘fuori’, l’ispettore Ginko e i suoi agenti sono irrigiditi e impediti. La stessa Eva Kant, per sfuggire alla cattura, si getta nel fiume impetuoso riuscendo quasi a fondersi invisibilmente con lo spazio naturale. I due fuorilegge, infatti, appartengono alla dimensione del ‘fuori’ opponendosi, in tal modo, alle strutture del potere che sopravvivono solamente nel ‘dentro’. Ginko e i suoi uomini – per utilizzare dei termini di Deleuze e Guattari – scovando e occupando i covi di Diabolik, hanno “riterritorializzato” gli spazi sovversivi. Come osserva David Lapoujade, infatti, i due studiosi, in Mille Piani, descrivono un processo secondo il quale “gli Stati imperiali si sedentarizzano su una Terra. Deterritorializzano i territori primitivi per formare l’unità di una terra”3. L’apparato di potere, come gli stati imperiali, si impadronisce del territorio nomadico trasformandolo in spazio sottoposto al controllo. Quest’ultimo, per utilizzare un’espressione dello stesso Lapoujade applicato alla società contemporanea, diviene “un mondo senza fuori4.

D’altra parte, il corpo di Diabolik è invisibile e sovversivo anche in virtù della sua abilissima capacità di mascherarsi, di assumere le più disparate identità. In questo secondo episodio della trilogia, il personaggio sembra prediligere il mascheramento da poliziotto che egli riesce ad attuare nonostante sia stato ‘occupato’ dalla stessa polizia il luogo segreto nel quale costruiva le sue maschere. La dimensione ‘fumettistica’ dell’irreale (e iperreale, si potrebbe aggiungere, nel suo ricalcare filologicamente l’Italia degli anni Settanta) mondo di Clerville crea un vero “paese di fiaba” “in cui si è visibili quando si vuole, invisibili quando lo si desidera”5. È assumendo le sembianze di un poliziotto che Diabolik riuscirà a sabotare il piano apparentemente perfetto dell’ispettore Ginko (ma sulla trama non vorremmo davvero rivelare di più). Il fuorilegge è perciò invisibile mentre è visibile il tutore di quella stessa legge, colui che ne è dentro quanto Diabolik ne è fuori. Come scrive Andrew Culp, uno studioso che rilegge ‘in nero’ il pensiero di Deleuze, citando una frase da Cinema 2. L’immagine tempo, “usciremo dalla logica produttivista dell’accumulazione solo quando si sarà giunti «infine alla scomparsa del corpo visibile».”6. Il “corpo visibile” del fuorilegge è scomparso; visibile è invece il corpo ‘fiabesco’ del tutore della legge, un simulacro che agisce contro quella stessa legge. Perché, in definitiva, sotto la mascheratura c’è sempre il corpo sovversivo di Diabolik che trama contro il potere per mandarlo in tilt, per sottrarre le sue ricchezze accumulate da una logica produttivista, basata su un lavoro incessante, e trasferirle nel suo covo, in uno spazio notturno dove quelle stesse ricchezze servono per soddisfare la logica dell’ozio e del piacere fine a sé stesso.

Il corpo invisibile di Diabolik era entrato in azione anche in precedenza, nella prima parte del film quando, sempre con una mascheratura da poliziotto, aveva attaccato l’elegante teatro, spazio dello spettacolo borghese per eccellenza. In esso, ad assistere al “Balletto smeraldo”, era riunita tutta la ‘società bene’, gli esponenti del potere, mummificati ed estasiati di fronte all’esposizione delle ricchezze accumulate da quello stesso potere che grava sulla ‘fiabesca’ Clerville come sulle grigie strutture dell’Italia degli anni Settanta (nonché di quella di oggi). Diabolik, invisibile e sovversivo, appare diretto verso il ‘fuori’, al di là della dimensione spettacolare, poliziesca, catalogante, geometrica ed inquadrata degli apparati di potere di una società basata sull’accumulo di merci. Al di là e contro qualsiasi inganno che quel potere può ordire contro di lui. Sfugge a controlli e catture, a trappole e inganni, perché il suo corpo possiede già in sé prima quelle stesse trappole e quegli stessi inganni; perché è un corpo invisibile e sovversivo.


  1. M. Foucault, Il corpo utopico, in Id., Utopie Eterotopie, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2011, p. 31. 

  2. Ivi, p. 38. 

  3. D. Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 224. 

  4. Ivi, p. 259 

  5. M. Foucault, Il corpo utopico, cit., p. 33. 

  6. A. Culp, Dark Deleuze, a cura di F. Di Maio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, p. 83. 

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I movimenti aberranti di Deleuze https://www.carmillaonline.com/2020/11/20/i-movimenti-aberranti-di-deleuze/ Fri, 20 Nov 2020 21:30:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63511 di Paolo Lago

David Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 335, € 24,00.

È uscita recentemente per Mimesis, nella collana “Le Dehors”, la traduzione italiana, realizzata da Claudio D’Aurizio, del volume di David Lapoujade (docente alla Sorbona e allievo di Giles Deleuze), Deleuze. I movimenti aberranti (pubblicato nel 2014 per i tipi di Minuit). Merita sicuramente soffermarsi sul nome della collana: “Le Dehors”, cioè “il Fuori”. Questo nome non è stato scelto a caso ma fa riferimento a un preciso contesto filosofico-culturale della Francia del [...]]]> di Paolo Lago

David Lapoujade, Deleuze. I movimenti aberranti, a cura di C. D’Aurizio, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 335, € 24,00.

È uscita recentemente per Mimesis, nella collana “Le Dehors”, la traduzione italiana, realizzata da Claudio D’Aurizio, del volume di David Lapoujade (docente alla Sorbona e allievo di Giles Deleuze), Deleuze. I movimenti aberranti (pubblicato nel 2014 per i tipi di Minuit). Merita sicuramente soffermarsi sul nome della collana: “Le Dehors”, cioè “il Fuori”. Questo nome non è stato scelto a caso ma fa riferimento a un preciso contesto filosofico-culturale della Francia del secondo Novecento: secondo quanto scrive Jean-Paul Sartre, “non è in un ipotetico rifugio che scopriamo noi stessi, ma per la strada, per la città, in mezzo alla folla, cosa tra le cose, uomo tra gli uomini” (e si possono ricordare anche gli elogi della strada attuati da Céline già nel 1932, nel suo Viaggio al termine della notte, quel “c’è solo la strada” ripreso da Gaber e Luporini in una nota canzone). Come nota Fabrizio Palombi nella prefazione, dehors diventa “la parola d’ordine di una comune missione teorica e vitale. La ritroviamo nelle pagine di Gaston Bachelard, negli scritti di Maurice Blanchot, nelle pieghe di Gilles Deleuze, nei testi di Jacques Derrida, nelle analisi di Maurice Merleau-Ponty e, soprattutto, nelle pagine di Michel Foucault”, autore, quest’ultimo, di un’opera intitolata Il pensiero del fuori. Ed è proprio attraverso gli strumenti offerti da quest’ultimo studioso che si presta ad essere analizzato il periodo che stiamo adesso vivendo, in cui il “Fuori” viene continuamente negato e interdetto. La pratica del lockdown, il mantra dello “state a casa”, le dinamiche di controllo armato rivolte a chi esce di casa ‘senza motivo’ sono semplicemente l’ipostatizzazione di un controllo diffuso già a partire dalla modernità, ampiamente analizzato da Foucault. Mettere in discussione tali pratiche, perciò, in questo periodo, non significa assolutamente negare la pericolosità del virus; si tratta, bensì, di una messa in discussione che investe alcuni meccanismi di controllo preesistenti alla diffusione del virus e che, grazie ad esso, emergono allo scoperto. Comunque, tornando a Deleuze, si può notare, con Palombi, che “il libro di Lapoujade c’invita ad affacciarci continuamente sul Fuori per respirare ancora una volta, proprio come Deleuze sosteneva a proposito di Sartre e di Foucault, una boccata d’aria fresca proveniente dal dehors”.

È bene mettere subito in chiaro che non si tratta di una lettura semplice. Come osserva D’Aurizio nella postfazione, “la difficile ascesa teorica alla sua cima ripaga il lettore con la possibilità di dominare, tramite uno sguardo teoretico d’ampio respiro, molti dei problemi centrali della filosofia di Deleuze. La lettura di questo libro, infatti, implica l’attraversamento delle spesse nebbie evenemenziali e delle fitte selve logiche che popolano il suo pensiero”. L’importanza maggiore del libro di Lapoujade sta nel fatto che esso non rappresenta una semplice “introduzione” a Deleuze; non si limita a ripeterne formule e concetti “ma ne dispiega diversamente il tessuto per comporre delle immagini nuove, contemporanee”. Come nota Lapoujade nell’introduzione, “la filosofia di Deleuze si presenta come una filosofia dei movimenti aberranti o dei movimenti forzati. Costituisce il tentativo più rigoroso, più smisurato, ma anche più sistematico, di catalogare i movimenti aberranti che attraversano la materia, la vita, il pensiero, la natura, la storia delle società”. Ricordiamo che “aberrante” (da “ab”, moto da luogo e “erro”) in senso etimologico, può significare sia “vagare senza una meta precisa” sia “sbagliare”. Perciò, la funzione dei movimenti aberranti, come scrive l’autore della postfazione, “è quella di condurci sino ai limiti del pensiero, dell’immaginazione, della memoria, della sensibilità, del linguaggio e di spingerci oltre, di farceli oltrepassare, conducendoci così all’impensabile, all’inimmaginabile, all’immemorabile, all’insensibile, all’indicibile che lavorano costantemente queste facoltà. I movimenti aberranti comunicano con l’aldilà del limite, con il rovescio della frontiera. In una parola: con il Fuori”.

Per Deleuze, “un movimento è tanto più logico quanto più sfugge a ogni razionalità. Più è irrazionale, più è aberrante, più è logico”. Uno fra i più significativi movimenti aberranti analizzati da Deleuze è ciò che egli chiama “deterritorializzazione” in Mille Piani (scritto insieme a Félix Guattari) e “sfondamento” in Differenza e ripetizione. Come scrive Lapoujade, “la deterritorializzazione è il movimento aberrante della terra. La deterritorializzazione della terra è il più grande, il più potente di tutti i movimenti aberranti, quello che, in un modo o nell’altro, alimenta tutti quanti gli altri. La deterritorializzazione sta alla terra come il senza-fondo sta al fondamento”. I nomadi sono coloro che seguono la terra nella sua deterritorializzazione, sono “i più liberi rispetto alla nozione di territorialità”. Sono anche coloro che deterritorializzano la terra. Se per l’Anti-Edipo, le formazioni sociali sono tre (Selvaggi, Barbari, Civilizzati), per Mille Piani sono almeno cinque: le società primitive di lignaggio, gli apparati di Stato, le società urbane, le società nomadi, le organizzazioni internazionali. I nomadi si servono della “macchina da guerra” nomade per distruggere gli Stati e per seguire la loro linea di deterritorializzazione mentre lo Stato, a sua volta, si appropria della stessa “macchina” per consolidare la propria potenza politica. Ma una “macchina da guerra” è anche quella attraverso la quale il capitalismo “instaura una guerra potenziale – lo status quo nucleare – come fondamento di una pace terrificante, di una politica securitaria postfascista e di una distruzione della terra abitabile senza precedenti”. C’è un combattimento costante che attraversa Mille Piani: nomadismo contro imperialismo. Se l’asservimento dispotico integrava le popolazioni umane in una “mega-macchina imperiale”, “le nuove tecnologie integrano le popolazioni umane in nuove macchine sotto forma di banche dati, di algoritmi, di flussi d’informazioni”. E allora, Lapoujade giunge alla conclusione che viviamo in un mondo-schermo, un mondo composto esclusivamente di immagini mentre non esiste più un mondo esteriore in cui agire. C’è solo uno schermo o “una tavola d’informazione con cui interagire”. Si tratta di un mondo esterno che manca di esteriorità, un “mondo senza fuori”. La distinzione interno/esterno non ha più senso perché tutto accade in uno “spazio di informazione” stracolmo di cliché.

Il concetto di “terra”, in Deleuze, è strettamente collegato a quello di “deserto”. Quest’ultimo è assai presente nelle opere del filosofo francese: in Differenza e ripetizione, ne L’anti-Edipo, in Mille Piani, in Cinema 2. L’immagine-tempo. La stessa filosofia – scrive Lapoujade – ha bisogno di un deserto. Il deserto non è “l’utopia di un altro mondo, ma una a-topia all’interno di questo mondo. È un luogo di giustizia; è in nome della giustizia del deserto che noi possiamo denunciare le ingiustizie di questo mondo”. È il deserto dei “cristalli di tempo” che ritroviamo nel cinema di Fellini, Antonioni, Pasolini. In quest’ultimo autore, il deserto è l’a-topia dove riecheggiano le grida di giustizia degli ultimi della terra contro l’ingiustizia sociale che in essa regna sovrana. È uno spazio-tempo separato da dove può forse partire l’attacco di una nuova macchina da guerra nomade per sovvertire le griglie degli apparati di stato. Perché Lapoujade fa suo e rinnova un importante grido filosofico di Deleuze: che si combatta, sempre e ovunque, la lotta a favore delle minoranze, di ciò che è intrinsecamente minore, “la guerra molecolare”. Vi sono tante “minoranze di fatto”, nel mondo, che intraprendono una “lotta molecolare assoluta”, come le lotte operaie, le battaglie femministe, la guerra dei Palestinesi, le Black Panthers, le lotte nel Terzo Mondo. Legata a queste lotte, nell’opera di Lapoujade, è la “necessità di pensare e di creare continuamente una nuova terra o molteplici nuove terre”.

Attraverso la questione della creazione di una nuova terra, I movimenti aberranti dialoga inoltre con uno dei filoni di ricerca contemporanei più rilevanti. La catastrofe ecologica (tema attualissimo, legato anche alla diffusione dei virus), la “fine” del nostro mondo e la costruzione di un mondo a venire sono problemi che Lapoujade discute in una prospettiva multidisciplinare che coinvolge la teoria politica, l’antropologia, la sociologia e la filosofia stessa. L’opera di Lapoujade analizza la logica della territorialità in Deleuze evidenziandone le potenzialità strategico-politiche. A tal proposito, particolarmente significativa – e più che mai attuale, si potrebbe aggiungere – appare una riflessione che Lapoujade squaderna concludendo il suo saggio: “La macchina da guerra ci distruggerà o distruggerà i limiti che ci assoggettano e ci asserviscono? Non si può saperlo in anticipo, è tutta una questione di sperimentazione”. E lo sperimentiamo sulla nostra pelle in un difficile presente: in questo caso, rovesciando il noto verso di Manzoni, non “ai posteri”, ma a noi “l’ardua sentenza”.

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