David Harvey – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:09:09 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 I Grundrisse secondo David Harvey, tra totalità e doppia coscienza (seconda parte) https://www.carmillaonline.com/2024/07/16/i-grundrisse-secondo-david-harvey-tra-totalita-e-doppia-coscienza-seconda-parte/ Tue, 16 Jul 2024 04:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83180 di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

Totalità è la parola chiave per interpretare i Grundrisse secondo Harvey. Si tratta di un concetto di chiara provenienza hegeliana che Marx rielabora in profondità, utilizzandolo all’interno di un approccio teorico di natura storico-materialistica. Quella del rivoluzionario tedesco è infatti una totalità fluida, contraddittoria, in continua espansione e governata da astrazioni. Ne abbiamo parlato nella prima parte di questo articolo. Ora ci rivolgiamo alle considerazioni di natura politica che sono espresse dal marxista britannico nel suo commentario a [...]]]> di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

Totalità è la parola chiave per interpretare i Grundrisse secondo Harvey. Si tratta di un concetto di chiara provenienza hegeliana che Marx rielabora in profondità, utilizzandolo all’interno di un approccio teorico di natura storico-materialistica. Quella del rivoluzionario tedesco è infatti una totalità fluida, contraddittoria, in continua espansione e governata da astrazioni. Ne abbiamo parlato nella prima parte di questo articolo. Ora ci rivolgiamo alle considerazioni di natura politica che sono espresse dal marxista britannico nel suo commentario a partire da questo approccio. La prima cosa da notare è che il concetto di totalità viene spesso respinto perché appare come una costrizione insuperabile per qualsiasi prassi liberatoria.  Il riferimento critico di Harvey a Foucault e al post-strutturalismo, che abbiamo richiamato nella prima parte della recensione, nasce da questo tipo di considerazioni. A prima vista l’anatema nei confronti della totalità non appare infondato. È lo stesso Harvey, infatti, a dirci che i processi capitalistici possono dare luogo a una sorta di cristallizzazione sclerotica tale da produrre l’impressione che

l’umanità abbia ingabbiato sé stessa nella sua rete di rapporti sociali (di classe), di strutture istituzionali (ovvero giuridiche), di interazioni sociali. Di continuo si ritrova irretita nel tentativo di rompere i vincoli e le barriere che lei stessa ha creato. Ecco la contraddizione fondamentale implicita nel modo di produzione capitalistico.1

Non è un caso che Antonio Negri, nel suo Marx oltre Marx, testo del 1979 che reca come sottotitolo Quaderno di lavoro sui Grundrisse, sostenga con lo stile militante e non alieno alle forzature interpretative che contraddistingue questa opera: “L’orizzonte metodico marxiano non è mai investito dal concetto di totalità; piuttosto che dalla totalità esso è caratterizzato dalla discontinuità materialistica dei processi reali”.2 Questo approccio porta Negri a prediligere i Grundrisse rispetto al Capitale perché il primo scritto sarebbe focalizzato sul rapporto tra crisi ed emergenza della soggettività rivoluzionaria, mentre nel secondo il sistema marxiano sembra chiudersi in una sorta di totalità autosufficiente. Per dirla in altro modo i Grundrisse sarebbero un testo eminentemente politico mentre Il capitale sarebbe fondamentalmente un’opera economica, suscettibile di essere interpretata in senso oggettivistico e deterministico proprio per il suo spirito di sistema.

Dopo aver precisato che Negri non viene menzionato da Harvey, in generale avaro di citazioni riguardanti la letteratura secondaria sui Grundrisse, arriviamo al punto che ci interessa in questa sede: l’utilizzo del concetto di totalità in chiave politica da parte del marxista britannico che va in senso opposto a quello dello studioso italiano.

È come se Marx volesse invitare i lavoratori a unirsi a lui nel dissezionare il corpo del loro scontento. Il metodo storico-materialista e anti-idealista stabilito nella cosiddetta «Introduzione di Marx» suggerisce come i lavoratori debbano rivolgere il proprio sguardo alla totalità della loro esperienza di vita, della loro cultura, e appropriarsene in quanto soggetti politici nel processo di trasformazione in esseri dotati di coscienza di classe.3

Secondo Harvey, il luogo paradigmatico per la formazione di una coscienza di classe è costituito dalla sfera della produzione dove si esplicano con maggiore chiarezza i rapporti di dominio e sfruttamento. Ma ogni lavoratore è soggetto a esperienze materiali radicalmente differenti: oltre a partecipare al processo produttivo, vende la sua capacità lavorativa, ha un potere discrezionale legato al potere monetario del suo salario, compra merci sul mercato, è immerso in molteplici forme di riproduzione sociale nella quotidianità della famiglia o nel contesto di un quartiere. Esperienze diverse che tendono a generare differenti soggettività politiche. L’identità di lavoratore viene “cancellata”, ci dice Marx, quando si presenta sul mercato per comprare le merci diventando un consumatore come tutti gli altri. Come sostenere allora una coscienza di classe trasversale a tutti questi momenti?

Ogni soggettività politica, legata com’è al suo specifico momento, non fa che nascondere il carattere complessivamente classista del modo capitalistico di produzione. Ebbene è soltanto dalla prospettiva della totalità che questo carattere può venire totalmente alla luce.4

In questo modo, secondo Harvey, Marx vuole offrire un quadro di riferimento in cui i lavoratori possano fare i conti con tutte quelle forze capaci di condannarli a condizioni di lavoro e di vita tanto oppressive e inadeguate da evocare una prospettiva di rivolta proprio perché esse non sono frutto del caso o dell’arbitrio ma sono condizioni del tutto adeguate dal punto di vista del capitale e della sua incessante brama di profitto e dunque di sfruttamento dei lavoratori.
Secondo Harvey, insomma, Marx con il suo apporto teorico sembra puntare a rafforzare quelle dinamiche che portano lo sviluppo capitalistico a favorire l’avvento di un nuovo tipo di forza lavoro educata, flessibile, adattabile e potenzialmente rivoluzionaria. Siamo di fronte al “lavoratore emancipato”, espressione che Marx utilizza una sola volta ma che, secondo Harvey, sembra spesso affiorare come una sorta di commentatore interno al testo, in particolare quando il rivoluzionario tedesco si chiede come andrebbero le cose se i lavoratori associati assumessero il controllo delle tecnologie disponibili per alleggerire i loro fardello materiale al minimo e liberare così il proprio tempo.

A proposito del “lavoratore emancipato”, si può introdurre una questione che ha a che fare con quella che Harvey definisce la “doppia coscienza” di Marx il quale, da una parte, sottolinea la grande “influenza civilizzatrice” del capitale e, dall’altra, ne denuncia la forza distruttiva e alienate, direi addirittura annichilente. Nel primo caso, lo sviluppo delle forze produttive, che porta con sé la possibilità di sviluppo universale dell’individuo, pone le premesse per il passaggio a una forma sociale superiore. Siamo insomma di fronte a una concezione sostanzialmente ottimistica che “non vede alcun ostacolo immediato per un compimento finale salvo le contraddizioni interne del capitale”.5
Quello che vorrei suggerire è l’ipotesi che il “lavoratore emancipato” sia il protagonista adatto a questa prima coscienza di Marx, mentre se ci rivolgiamo al secondo tipo di coscienza la troviamo “piena di punti interrogativi” e le cose si fanno maledettamente più complicate. Harvey parla addirittura di una legge cui Marx accenna sebbene appaia riluttante a nominarla esplicitamente: “la legge della crescente perdita di potere da parte del lavoratore”.6 Una legge legata all’enorme sviluppo del capitale fisso (i macchinari) che rende irrilevante le capacità del singolo lavoratore riducendolo a impotenza. Una condizione che “ha rappresentato a lungo un arduo ostacolo contro l’organizzazione della lotta e della coscienza di classe”.7 Dal punto di vista della seconda coscienza di Marx, sembra che la violenta distruzione dei sistemi precapitalistici ci abbia precipitato in una “situazione di totale svuotamento” facendoci perdere irrimediabilmente qualcosa di importante, al punto che “le contraddizioni interne del capitale finiranno per vanificare la piena realizzazione dei suoi migliori obiettivi”.8
In ogni caso, sostiene Harvey, queste due concezioni “non si escludono l’un l’altra, più semplicemente rappresentano due lati della natura profondamente contraddittoria dell’umanità come progetto”9 e potrebbero dirci “qualcosa di importante sulle molte ambivalenze che inevitabilmente colorano ogni progetto socialista, aiutarci a comprendere come e perché così tanti progetti onesti abbiano finito per imbarbarirsi sulla via della loro realizzazione”.10 Come quelli delle sinistre ecuadoriane e boliviane, l’esempio è di Harvey, che facendo affidamento sul ruolo progressivo del capitale hanno portato avanti politiche sviluppiste ed estrattiviste, finendo per entrare in aperto e talvolta violento contrasto con la loro base indigena uscendo da questo scontro fatalmente indebolite.

La risposta non sta nell’abbandono dello sviluppismo di sinistra come prima pietra sulla via del socialismo, ma nel creare spazi e opportunità nelle rigidezze dello sviluppismo affinché ci sia concesso cercare un significato, una socialità e una fisicità non alienata, immergerci nel rapporto metabolico con la natura, aprire conflitti per la “completa estrinsecazione dell’interiorità umana”.11

Qui, verrebbe da commentare, la seconda coscienza di Marx viene sussunta (nel classico significato di conservata e superata) dalla prima. E, per tornare a quanto già accennato, l’agente principale di questa operazione sembra essere il “lavoratore emancipato”. Ma a partire dalle stesse considerazioni di Harvey potremmo anche ipotizzare il processo inverso e questo ci porterebbe sulla soglia di una dinamica storica che procede attraverso catastrofi, siano esse di natura sociale, ambientale o bellica.
Quando Negri nel 1979 proponeva la sua lettura dei Grundrisse pensava si fosse “in una fase di rifondazione del movimento rivoluzionario, ed in forma non minoritaria”.12 Benché questa lettura della fase fosse alquanto ottimistica, bisogna comunque ammettere che la congiuntura storica attuale è assai diversa e questo ha un peso sull’approccio al testo marxiano. Anche Harvey propone una lettura dei Grundrisse che ha un obiettivo politico. Ma alla politica ci si arriva per gradi, verrebbe da dire alla fine del processo di dispiegamento della totalità. E questo perché ad essere venuta meno è proprio la certezza del nesso immediato tra crisi ed emergenza della soggettività rivoluzionaria.

In conclusione, la lettura dei Grundrisse di Harvey mi pare nasca da una disposizione d’animo più vicina all’atteggiamento di Marx che, dopo la sconfitta dei moti rivoluzionari del 1948, si prepara ad una battaglia di lunga lena riprendendo i suoi studi di economia politica. Il problema è che noi, rispetto a Marx, sembra proprio che di tempo a disposizione ne abbiamo molto meno. Le dinamiche distruttive del capitale appaiono oramai sopravanzare di gran lunga la sua “influenza civilizzatrice” conducendoci verso il baratro della disgregazione sociale, del disastro ambientale, dell’olocausto bellico.  Per non parlare di quella vera e propria catastrofe dell’umano rappresentata dal fatto che ci stiamo assuefacendo a un genocidio trasmesso, per la prima volta nella storia, in diretta TV e social.
Certamente appaiono pure delle controtendenze come la mobilitazione studentesca contro lo sterminio di massa di Gaza. Ma è altrettanto certo che avremmo bisogno come il pane di quella soggettività evocata da Marx attraverso la figura del “lavoratore emancipato” che, con la sua capacità di allargare il proprio sguardo sulla totalità dei rapporti di sfruttamento e dominio del capitale, sia in grado di contrastare quel simulacro di classe operaia nazionalizzata e razzializzata risvegliato dai populismi fascistoidi.  Temo però che questo non sia sufficiente e che emerga l’esigenza di uno scarto significativo rispetto ai soggetti collettivi che si sono affacciati fin qui sul proscenio della storia, ancora troppo legati al proprio ruolo nell’ambito della produzione e riproduzione capitalistica, quasi che il comunismo potesse essere concepito una prosecuzione sufficientemente lineare della missione civilizzatrice del capitale. Temo che occorra una soggettività all’altezza della seconda coscienza di Marx, quella che si presenta con tratti che si fa fatica a non definire apocalittici.

La prima parte è stata pubblicata venerdì 12 luglio.


  1. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, Edizioni Alegre, Roma 2024 (p. 19. 

  2. A. Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano 1979, p. 55. 

  3. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 495. 

  4. Ivi, p.493. 

  5. Ivi, p.285. 

  6. Ivi, p. 512. 

  7. Ivi, p. 389. 

  8. Ivi, p. 284. 

  9. Ivi, p. 287. 

  10. Ivi, p.285. 

  11. Ivi, p. 292. 

  12. A. Negri, Marx oltre Marx, cit. p. 29. 

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I Grundrisse secondo David Harvey, tra totalità e doppia coscienza (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2024/07/12/i-grundrisse-secondo-david-harvey-tra-totalita-e-doppia-coscienza-pima-parte/ Fri, 12 Jul 2024 04:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83172 di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica di Karl Marx, conosciuti anche come i Grundrisse, sono un testo “eccitante, frustrante, ingegnoso, ma anche ripetitivo ed estenuante”, sostiene David Harvey, eminente marxista britannico che ha scritto nel 2023 un commentario a questa opera, tradotta da poco in italiano per le Edizioni Alegre con il titolo Leggere i Grundrisse.  Quando leggiamo questo scritto dobbiamo considerare che si tratta di appunti di lavoro non destinati alla pubblicazione in cui Marx parla [...]]]> di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica di Karl Marx, conosciuti anche come i Grundrisse, sono un testo “eccitante, frustrante, ingegnoso, ma anche ripetitivo ed estenuante”, sostiene David Harvey, eminente marxista britannico che ha scritto nel 2023 un commentario a questa opera, tradotta da poco in italiano per le Edizioni Alegre con il titolo Leggere i Grundrisse.  Quando leggiamo questo scritto dobbiamo considerare che si tratta di appunti di lavoro non destinati alla pubblicazione in cui Marx parla fondamentalmente a sé stesso “attraverso qualsiasi strumento o idea a portata di pensiero, pronto a scatenare un flusso di coscienza in grado di proiettare su carta possibilità e interrelazioni che potevano o non potevano rilevarsi importanti per i suoi studi più ragionati”. In questo testo, scritto tra il 1857 e il 1858, troviamo dei “passaggi in cui Marx getta alle ortiche ogni cautela” dando spazio a “intuizioni geniali, drammatiche e spesso sbalorditive per le possibili implicazioni”.1
Insomma, i Grundrisse possono certamente letti come un testo preparatorio al Capitale, che vedrà la luce un decennio dopo, ma ci offrono anche di più. Perché si spingono oltre le conclusioni del Capitale, opera in cui Marx costringe sé stesso a un rigore metodologico che gli impedisce di anticipare qualsiasi risultato fino a che lo svolgimento del ragionamento non abbia ancora posto tutti gli elementi necessari per trattare l’argomento. Rigore senz’altro condivisibile. Peccato che Marx abbia realizzato solo una piccola parte del suo immane progetto di lavoro e questo ci privi di molte delle conclusioni cui voleva arrivare.

Per quanto spesso dispersivi, i Grundrisse hanno comunque un focus ben definito e cioè “l’elaborazione esatta del concetto di capitale” che risulta necessaria poiché, ci dice Marx,

questo è il concetto fondamentale dell’economia moderna, così come il capitale stesso […] è il fondamento della società borghese. Dalla comprensione rigorosa del presupposto fondamentale del rapporto devono risultare tutte le contraddizioni della produzione borghese, come pure il limite raggiunto il quale il rapporto tende ad andare oltre sé stesso.2

È attorno a questa problematica che Harvey concentra la sua lettura del testo. Una problematica che ci porta subito a un’altra questione fondamentale.

Marx intende indagare la formazione e il funzionamento del capitale in quanto “totalità”. Si tratta di un aspetto dell’approccio marxiano ampiamente ignorato nei commentari contemporanei. Ho il sospetto che su questo punto siano in parte da biasimare Foucault e il post-strutturalismo, nel loro ridurre ad anatema ogni discorso totalizzante e, di conseguenza, ogni evocazione del concetto stesso di totalità.3

Harvey sostiene che “’Totalità’ è la parola chiave. Leggere e costruire una teoria economico-politica interpretando il capitale alla stregua di una totalità in evoluzione è qualcosa di enormemente proficuo”.4 Marx riprende questo concetto da Hegel ma lo rielabora in profondità. La totalità del capitale, infatti, non è né prestabilita né predefinita, non è né fissa né determinata quanto a estensione nello spazio e nel tempo. È una rete di prassi sociali storicamente determinate e di rapporti costruiti e sviluppati nel tempo attraverso l’attività umana, costantemente assorta in un processo di crescita e trasformazione, in continuo “divenire”. La totalità del capitale è caratterizzata fondamentale dalla fluidità.
Questa fluidità di significato nello spazio e nel tempo spinge Harvey a chiedersi come poter leggere le categorie di base marxiane nel contesto del nostro presente. Dal momento che la totalità viene trasformata, anche l’apparato concettuale che usiamo per rappresentarla dovrà in qualche modo mutare. È il genere questioni che vengono al pettine quando si parla, per esempio, di finanziarizzazione dell’economia. Prendiamo, insieme a Harvey, il caso della Cina degli ultimi due decenni. Il suo rapidissimo processo di urbanizzazione ha richiesto la costruzione di un sistema finanziario che fosse adeguato al capitale fisso e alla formazione del fondo di consumo. Esattamente come ci si poteva aspettare a partire dalle categorie marxiane. Queste, però, prevedono anche un ruolo subordinato del capitale creditizio rispetto alle esigenze quello propriamente industriale. E qui emerge, secondo Harvey l’esigenza di un aggiornamento concettuale perché bisogna riconoscere che il sistema finanziario dagli anni Ottanta in avanti è emerso come il vero padrone della circolazione e dell’accumulazione del capitale, come il sistema nervoso centrale adeguato ai bisogni della circolazione e dell’accumulazione tipici della totalità costituita dal capitale contemporaneo.
Il punto di vista della totalità, secondo Harvey, ci aiuta a evitare alcuni schematismi che hanno talvolta caratterizzato la riflessione del marxismo. Qui basterà accennare, senza avere la possibilità di svilupparle, due questioni. In primo luogo, se è vero che la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è ritenuta da Marx “la legge più importante della moderna economia politica”5 è altrettanto importante sottolineare che essa ha a che fare con il connesso aumento della massa del valore. “Dalla prospettiva della totalità Marx evidenzia come sia la crescita assoluta del capitale (cioè la massa del valore) a definirne l’essenza”,6 commenta Harvey. In secondo luogo, “L’unità contraddittoria di produzione e realizzazione all’interno della totalità concepita in termini marxiani è una caratteristica centrale e fondamentale nella teoria del capitale”.7 Non si tratta di negare la centralità della produzione, perché questa è la sfera dove si genera il plusvalore. Ma, prosegue Harvey, valore e plusvalore esistono solo in potenza finché non vengono realizzati attraverso la vendita delle merci sul mercato.

Torniamo, dunque, al concetto di totalità che, per quanto riguarda il capitale, può essere considerata come un ecosistema isolato in funzione del suo studio, ma immerso in un ambiente più ampio, quello della formazione sociale borghese di cui costituisce il motore fondamentale, la forza trainante. Un’altra utile analogia, suggerita dallo stesso Marx, è quella con il corpo umano, costituito da diversi processi di circolazione autonomi e indipendenti, eppure compresi nella logica organica di un unico sistema. Applicare una struttura gerarchica a questi processi, sostiene Harvey, non ha senso perché il collasso di ognuno di loro minaccerebbe l’intera totalità. Allo stesso modo il capitale è costituito da differenti e interrelati processi di circolazione che riguardano lo scambio delle merci, il denaro in quanto tale, la capacità lavorativa, il denaro in quanto capitale, il capitale fisso e il capitale produttivo di interesse.

Il capitale è definito valore in movimento, ed è attraverso quest’ultimo che ogni singolo momento è collegato all’altro. Nessuno dei momenti all’interno della totalità del capitale può essere quindi compreso, nella visione marxiana, indipendentemente dai rapporti prevalenti fra loro.8

Il capitale è, per dirla direttamente con le parole dei Grundrisse, un “sistema organico” il cui “sviluppo a totalità consiste appunto nel subordinarsi tutti gli elementi della società, o nel crearsi a partire da essa gli organi che ancora gli mancano”.9 Ma nel pensiero di Marx questo tipo di considerazione non mette capo ad una concezione organicistica della società, se con essa intendiamo una visione che si basa sulla interrelazione armoniosa tra le parti, tipica del pensiero politicamente conservatore. Al contrario, continuando a utilizzare le parole dei Grundrisse, il capitale è “contraddizione in processo”, “contraddizione vivente” perché pone da sé stesso i suoi specifici limiti e al tempo stesso tende a superare ogni limite. L’esempio forse più significativo in questo senso è la dinamica che lo porta a ridurre il tempo di lavoro ad un minimo (attraverso la meccanizzazione del processo produttivo e la conseguente diminuzione di manodopera a parità di investimento) mentre pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza.

La totalità del capitale non si limita a riprodurre sé stessa. Bisogna infatti considerare, come ripetutamente sottolineato da Harvey, che la circolazione del capitale non è un semplice circolo, ma, utilizzando direttamente le parole dei Grundirisse, “una spirale, una curva che si amplia”.10 Tornando a Harvey,

se il capitale è denaro usato per fare altro denaro, e alla fine del giorno dovrà risultare più capitale monetario che all’inizio, è evidente che la totalità, per sopravvivere, dovrà mantenersi in uno stato ininterrotto di espansione infinita.11

Per Marx è chiaro che “quanto più alto è lo sviluppo del capitale, tanto più esso appare come ostacolo alla produzione”. Ma il capitale non si può fermare di fronte a nessun tipo di crisi dovendo “ricominciare da capo il suo tentativo, a partire da un grado superiore di sviluppo delle forze produttive ecc., con la prospettiva di un collasso sempre più grave in quanto capitale”.12 Il capitale ovviamente produce soluzioni alle sue crisi, ma anche esse si rivelano contraddittorie. Senza alcuna pretesa di sistematicità, se ne possono citate alcune di cui Harvey parla prendendo spunto dalle pagine dei Grundrisse per trattare di temi di attualità (come gli capita spesso in questo testo): l’enorme espansione del capitale finanziario, l’espansione geografica del capitale (quello che Harvey definisce “spatial fix”), il consumo improduttivo nella forma di investimenti nell’urbanizzazione e in ogni genere di infrastrutture fisiche, ma anche delle spese militari.
A dire il vero, nota Harvey, l’economia bellica è trattata da Marx solo attraverso pochissimi commenti. Il marxista britannico, però, cita una breve ma significativa digressione in cui l’autore dei Grundrisse afferma essere un’ovvietà il fatto che dedicando risorse alla guerra “dal punto di vista economico è come se la nazione buttasse a mare una parte del suo capitale”.13 Un accenno importante perché prefigura la volontà di costruire una teoria più generale su questo argomento. Una teoria, commenta Harvey, in grado di spiegare come “Ogni tendenza verso la sovraccumulazione […] può essere risolta incanalando e dissipando il capitale in investimenti inutili e in campagne militari”.14

In ogni caso l’incessante espansione del capitale generalizza e intensifica il suo dominio nella forma che propriamente gli si addice, quella dei “rapporti di dipendenza materiale in antitesi con quelli personali”15 tipici di sistemi precapitalistici. Questo significa che “Gli individui [sono] dominati da astrazioni mentre in precedenza dipendevano gli uni dagli altri”.16 Non si tratta di un dominio delle idee, come quello che viene chiamato spesso in causa quando si vuole spiegare l’affermazione dell’ideologia thatcheriana, e più in generale neoliberista, con la sostituzione di una concezione statalista keynesiana con il pensiero filo-imprenditoriale di Hayek e Friedman. Questa è una prospettiva idealistica che ragiona come se “la dissoluzione di una determinata forma di coscienza” fosse “sufficiente ad uccidere un’intera epoca”17. Dal punto di vista storico-materialistico di Marx, invece, occorre identificare quali forze di classe e quali origini sociali si nascondano dietro queste astrazioni. “Perché l’astrazione o idea non è altro che l’espressione teorica di quei rapporti materiali che esercitano il dominio”18 sugli individui. Sono specifiche pratiche sociali e condizioni storico-materialistiche, per esempio, che “pongono” (per dirla alla Marx) l’esistenza del valore in qualità di astrazione capace di governare l’azione sociale. Così come accade per la gravità, il valore non lo si può vedere o misurare direttamente, ma la sua esistenza viene confermata chiaramente dai suoi effetti. Questo ha delle conseguenze politiche di importanza tutt’altro che secondaria.

Se siamo governati dalle astrazioni, come Marx insiste a dire, l’unico obiettivo dell’agire umano che abbia un senso è prendersela con quei processi che le producono in modo tale da renderli infine irrilevanti: esattamente ciò che l’ideologia e la politica capitalista si rifiutano di prendere anche solo in considerazione. D’altra parte, contemplare una lotta di classe contro le astrazioni sembra anche parecchio complicato.19

Ma delle vicissitudini della lotta di classe di fronte alla totalità capitalistica ci occuperemo nella seconda e ultima parte di questo articolo.

La seconda parte sarà pubblicata martedì 16 luglio.


  1. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, Edizioni Alegre, Roma 2024, p. 24. Per le precedenti citazioni vedi p. 12. Harvey ha pubblicato anche due commentari dedicati rispettivamente al primo e al secondo volume de Il capitale, successivamente raccolti in un unico volume: A Companion to Marx’s Capital: The Complete Edition, Verso Book 2018. Del primo è disponibile una traduzione italiana: Introduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro e sull’attualità di Marx, La Casa Usher 2014. I commentari di Harvey nascono dalle sue lezioni che sono disponibili in video sul sito Intenet https://davidharvey.org/

  2. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi 1976, p. 285. 

  3. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p.15. 

  4. Ivi, p. 15. 

  5. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit. p. 767. 

  6. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 448. 

  7. Ivi, p. 2017. 

  8. Ivi, p. 44. 

  9. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit. p. 227. 

  10. Ivi, p. 213. 

  11. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 199. 

  12. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., p. 384. 

  13. Ivi, p. 54. 

  14. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 82. 

  15. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., p. 96. 

  16. Ibidem. 

  17. Ivi, p. 529. 

  18. Ivi, p. 96. 

  19. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 433. 

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Globale è bello? Su “Capitale Mondo” di Robert Kurz https://www.carmillaonline.com/2022/12/18/globale-e-bello-su-capitale-mondo-di-robert-kurz/ Sun, 18 Dec 2022 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75190 di Samuele Cerea

Robert Kurz, Il capitale mondo. Globalizzazione e limiti interni del moderno sistema produttore di merci, Meltemi, Milano, 2022, pp. 539, euro 30,00.

A quanto ci dicono i commentatori stiamo attraversando un’epoca di de-globalizzazione o di post-globalizzazione a base di tensioni internazionali, protezionismo, guerre commerciali, sanzioni economiche e spettri pandemici. Sugli schermi televisivi furoreggia un remake post-politico tanto desolante, quanto potenzialmente micidiale, del classico confronto tra le superpotenze nucleari, che avevamo liquidato un po’ troppo sbrigativamente come un relitto del passato, con le sue proxy-war e le sue figure emblematiche, oggi [...]]]> di Samuele Cerea

Robert Kurz, Il capitale mondo. Globalizzazione e limiti interni del moderno sistema produttore di merci, Meltemi, Milano, 2022, pp. 539, euro 30,00.

A quanto ci dicono i commentatori stiamo attraversando un’epoca di de-globalizzazione o di post-globalizzazione a base di tensioni internazionali, protezionismo, guerre commerciali, sanzioni economiche e spettri pandemici. Sugli schermi televisivi furoreggia un remake post-politico tanto desolante, quanto potenzialmente micidiale, del classico confronto tra le superpotenze nucleari, che avevamo liquidato un po’ troppo sbrigativamente come un relitto del passato, con le sue proxy-war e le sue figure emblematiche, oggi un tantino surreali. Nel frattempo le élite occidentali elogiano entusiasticamente la logica dei blocchi, auspicano con ansia la fine della dipendenza energetica, mettono in guardia sollecitamente contro il “pericolo giallo”, gli Stati-canaglia vecchi e nuovi e le torme dei falliti globali che si preparano ad assediare la “fortezza Occidente” (o il “giardino meraviglioso” nella poetica lezione di Josep Borrell).

Mentre Big Brother e Goldstein vivono ormai da tempo con noi e anche Oceania sembra a portata di mano vale ancora la pena leggere un libro pubblicato in Germania nei primi anni Duemila, quando le medesime élite politiche ed economiche urlavano dai tetti la buona novella della globalizzazione, trattando con un misto di sufficienza, di fastidio e di apprensione coloro che, ed allora erano davvero tanti, contestavano con ragioni più o meno condivisibili, l’utopia-distopia del mondo unificato?

Il saggio in questione ha per titolo “Il Capitale-mondo” (“Das Weltkapital”, 2004). L’autore, il tedesco Robert Kurz, ha finora goduto di scarsa fortuna e notorietà in Italia anche se taluni rivoli del suo pensiero affiorano talvolta nelle opere di qualche autore nostrano come fiumiciattoli carsici. Scomparso una decina di anni or sono, autore, a partire dagli anni Ottanta, di una decina di libri e di un numero assai maggiore di contributi, apparsi generalmente sulle riviste Krisis e Exit!, nonché di moltissimi articoli per quotidiani come il berlinese “Neue Zeit” e la “Folha” di San Paolo, Robert Kurz può contare da noi, negli ultimi anni, sulla traduzione de Il collasso della modernizzazione e del testo qui presentato oltre che di altri saggi più brevi.

Va detto che Kurz sconta il fatto di aver commesso numerosi peccati contro lo spirito (dei tempi). Anzitutto, contravvenendo agli anatemi postmoderni e alla tendenza attuale verso la “divisione del lavoro” filosofica, nemici giurati della “totalità” e alquanto inclini alle cineserie intellettuali, è l’orgoglioso aedo di una nuova “grande narrazione”. Animata per giunta non certo da una postura contemplativa ma decisamente rivolta verso il sovvertimento dell’ordine sociale esistente. In secondo luogo ha posato le fondamenta di questa impresa sulla base, a dir poco insidiosa, del paria ideologico Karl Marx. E nemmeno su quelle parti della teoria di Marx più o meno sopravvissute allo sconquasso successivo al 1989, come la “lotta di classe” o lo “sfruttamento”, bensì su frammenti, intuizioni, filoni, idee che si stagliano nel panorama del pensiero del filosofo di Treviri come massi erratici o come smarriti isolotti in un esteso arcipelago. Terzo, la teoria di Kurz ha un grave fastidio: analizza e interpreta la realtà sociale ma non contiene nulla che possa essere convertito in breve tempo in un programma politico, al servizio dei partiti della “sinistra” (oggi meno che mai), dei sindacati o dei movimenti di protesta.

Ma veniamo al saggio in questione. Il Capitale-mondo è un libro di grossa mole e non certo di facile lettura. E del resto, da buon seguace di Marx, anche Kurz scrive per lettori che vogliano imparare qualcosa con la propria testa. Aiuterebbe certo una conoscenza almeno elementare del quadro teorico in cui si muove l’autore ma ciò esula dai limiti di una semplice recensione. Si rimanda ad altre opere dal carattere propedeutico. Ci limitiamo a dire che la diagnosi operata da Kurz sui destini della modernità ha il suo fulcro nella critica dell’economia politica di Marx e sulle categorie, in crisi irreversibile, di valore e lavoro (astratto).

Come il riccio di Archiloco anche Robert Kurz conosce una sola cosa ma è grande. Il sistema sociale che indichiamo comunemente in una prospettiva storica con il nome di modernità o società moderna e in una prospettiva socio-economica come società capitalistica o capitalismo tout court è giunto a fine corsa e minaccia di schiantarsi. Buone notizie per gli oppositori del sistema? Non tanto. Il capitalismo ha già imboccato la strada che porta verso il cimitero dei pachidermi della storia. Il guaio è che a sotterrare il capitalismo non saranno audaci schiere di lavoratori organizzati, o qualunque surrogato sulla piazza, ma le sue stesse contraddizioni, che Kurz condensa nel concetto del “limite interno”. Il corollario di questa concezione è però che non è affatto detto che il capitalismo venga seguito da una nuova società più stabile e giusta, da un nuovo ordine coerente; al momento l’alternativa più probabile è che il capitalismo entri in una nuova “era delle tenebre”, caratterizzata dall’implosione delle istituzioni sociali e delle strutture economiche. Come ha detto altrove il nostro autore, “la prigione è in fiamme ma qualcuno ha serrato le finestre e i prigionieri sono bloccati al suo interno”.

La storia del capitalismo è quella di una dinamica irreversibile con le sue fasi. Quella analizzata da Kurz in questo saggio è l’apogeo della fase neo-liberale, iniziata alla fine dei Settanta, poi traumatizzata dalla crisi del 2008. La narrazione assembla l’analisi storica con la critica dell’ideologia, alterna capitoli in cui la natura della globalizzazione viene sviscerata sulla base di una grande quantità di dati economici (il cui filo non è sempre agevole da seguire) ad altri in cui si esaminano le conseguenze della frammentazione sociale, la crisi del denaro e della politica. Da sottolineare, in particolare, la disamina del capitale finanziario e del suo ruolo nel meccanismo dell’economia moderna. La ricchezza di temi è amplissima e Kurz ama dialogare, generalmente in termini polemici, con una moltitudine di voci presenti e passate, da Ulrich Beck a Joseph Stiglitz, da David Ricardo a Rudolf Hilferding, da Michel Aglietta a Peter Sloterdijk. Sarà possibile solo un breve excursus sul carattere generale dell’opera cui uniremo alcuni spunti critici circa numerose convinzioni diffuse oggi tra i contestatori del sistema.

Cosa turba l’apparente imbattibilità del sistema? La sua stessa logica. Nella prospettiva di Kurz la globalizzazione non è il sintomo dello stato di salute del capitale, che abbandona le mura nazionali per propagarsi con le sue catene produttive in tutto il globo ma una chiara conseguenza del fatto che il ristagno della produzione di valore, dovuto all’intervento della tecnologia informatica, della robotica – cioè della Terza Rivoluzione industriale –, costringe le imprese a una concorrenza disperata e cannibalesca, disperdendo le loro fasi produttive per il globo per approfittare del divario dei costi e delle condizioni sociali e giuridiche messe a disposizione degli Stati. Gli investimenti oggi non sono più investimenti per l’espansione ma per la razionalizzazione. Ma se le imprese se la passano male, per gli Stati va anche peggio, costretti dalla crisi delle finanze pubbliche a indebitarsi sempre più sui mercati finanziari, a privatizzare e a tagliare le infrastrutture sociali.

In quest’ottica un effetto salutare del libro potrebbe essere quello di fare piazza pulita di tutta una serie di false idee sulla crisi del sistema e sulla possibilità di venirne a capo. Il primo punto lo si potrebbe intitolare “Com’era verde la mia nazione!” E qui entra naturalmente in gioco la categoria del “sovranismo”, la testa di turco preferita dell’establishment politico-finanziario-mediatico neoliberale. Il problema del sovranismo è che i suoi apostoli più riflessivi, per la maggior parte, non sono né ottusi campanilisti, né irriducibili fustigatori della contaminazione multiculturalista, né fanatici nazionalisti, adusi ad esterofobe campagne aggressive. Il loro errore consiste invece nel credere in ciò che un tempo si chiamava il “primato della politica”, cioè nella convinzione che uno Stato-nazione, ben radicato nelle sue istituzioni, guidato da una classe dirigente volenterosa, sia in grado di controllare, governare, correggere la propria economia di mercato, dirigendola verso obiettivi consoni agli interessi nazionali e della popolazione. Questa idea, che predica l’autonomia dello Stato nei confronti dell’economia o addirittura uno status gerarchico superiore, viene però sconfessata da Kurz. Lungi da essere il nocchiero del mercato, lo Stato e con esso, in generale, la sfera politica, dipende dall’accumulazione di capitale al suo interno, da cui esso preleva ciò di cui abbisogna per le sue “politiche” (sostanzialmente allocazioni di denaro in favore di obiettivi più o meno “democraticamente” prefissati). Ma una volta che il modello dell’accumulazione fordista entra in crisi, anche lo Stato manifesta la sua natura “secondaria” rispetto alla base economica. Di fronte alla transnazionalizzazione e alla razionalizzazione dell’economia, lo Stato, come osserva argutamente Kurz, non può “transnazionalizzarsi” a sua volta, né tantomeno “licenziare” i propri cittadini ma solo operare una “razionalizzazione” distruttiva, rinunciando gradualmente a finanziare le proprie infrastrutture sociali, indebitandosi fino al collo sui mercati finanziari e arrangiandosi così da attirare la quantità maggiore possibile di investimenti.

La critica “sovranista” non vuole comprendere questa relazione causale e interpreta, ad esempio, l’adesione dell’Italia alla moneta unica europea, non come una strategia opportunistica, per quanto miope, al fine della sopravvivenza del paese nel mercato mondiale ma come l’esito del “tradimento” di una casta politica di infedeli (Prodi, Ciampi, Amato etc.), cui sarebbe necessario rispondere con una rinazionalizzazione per la quale non sussiste il benché minimo fondamento.

Del resto tra i medesimi apologeti del sovranismo vale anche il grido “Que viva Keynes!” Da tempo, nel campo della “sinistra” più o meno radicale, l’icona di Keynes gode almeno di altrettanto favore di quella di Marx. Il motivo è presto detto. Il nome dell’economista di Cambridge è associato nella memoria di ogni buon socialdemocratico con i “trenta gloriosi” del XX secolo, con la realizzazione dello Stato del benessere, con il ruolo dello Stato nell’economia. Ciò ha perfino condotto a ritenere qualcuno che la teoria di Keynes sia fondamentalmente anti-capitalista. Ma la “nostalgia keynesiana” della sinistra e per il mondo di cui è stato l’augure è necessariamente legata alle fortune dello Stato-nazione e non è più adeguata al mondo attuale.

Dunque chi ha vinto la lotta di classe? Secondo una battuta attribuita a Warren Buffett, la sua, almeno per il momento. L’idea che la globalizzazione o, più in generale, l’epoca dei movimenti di capitale senza controllo coincida con una “rivincita” dell’élite globale capitalistica, dopo il micidiale affondo delle classi subalterne del secondo dopoguerra è stata sostenuta in tempi relativamente recenti, ad esempio, da David Harvey, secondo il quale il neoliberismo nel suo complesso sarebbe una colossale strategia di intervento del potere privato, delle grandi società industriali e finanziarie, le quali stanche di veder erosi i loro tassi di profitto a vantaggio della classe lavoratrice avrebbero plasmato le classi dirigenti al fine di rilanciare il dominio del potere economico sulla società.
Ma per Kurz l’avanzata della dottrina neoliberale alla fine degli anni Settanta non è stata altro che la risposta “passatista”, perché basata su di un recupero di alcuni aspetti della teoria dell’economia neoclassica, già falliti nell’epoca delle due guerre, alla crisi economica intervenuta in quel periodo. Era stata proprio la difficoltà nell’accumulazione del capitale, dovuta ai primordi della Terza Rivoluzione industriale, e la conseguente crisi del modello keynesiano, a suggerire la necessità di flessibilizzare il lavoro, ridurre la spesa pubblica, privatizzare tutto ciò che era possibile, fino allo sviluppo estremistico del settore finanziario. Dunque alla radice di questa vittoria della “classe sbagliata” c’era il fallimento del vecchio modello, quello della “classe giusta”, non una forma di revanscismo sociologico.

La principale illusione è quella di credere che l’economia di mercato e la democrazia politica non siano in sé cose troppo negative e che il problema consista solo nel combattere tutti quei soggetti che deformano il sistema per il proprio tornaconto. E allora per invertire la tendenza verso la crisi basterebbe che la politica smettesse di concentrarsi solo sul debito pubblico e sul prodotto interno lordo, come chiedono gli eurocrati, ma pensasse invece a promuovere posti di lavoro e aumenti salariali, che si chiudesse una volta per tutte con le privatizzazioni e con la socializzazione delle perdite del settore bancario e finanziario, che si ponessero paletti alla delocalizzazione delle imprese. In poche parole, occorrerebbe ripristinare un “mercato corretto”, immune dall’influenza dell’establishment e dei suoi lobbysti. Il progressivo degrado delle condizioni di vita non sarebbe quindi figlio della dinamica del capitalismo ma solo il frutto di strategie politiche manipolative.

La conclusione più reale è invece che le spaventose disuguaglianze che caratterizzano l’era del capitalismo neoliberale non sono il risultato di una strategia consapevole di élite ben decise a riaffermare il proprio punto di vista di classe ma la conseguenza logica e coerente del fatto che il capitalismo fallisce in ciò che esso ha di più essenziale, vale a dire l’accumulazione di valore effettivamente valido. La società dei “trenta gloriosi” del secondo dopoguerra, l’apoteosi del capitalismo “socialdemocratico”, nei limiti del mondo dell’Occidente sviluppato, con il suo solido capitalismo industriale in espansione, accompagnato da un settore creditizio e finanziario ancillare, si è estinta proprio perché tale modello fatto di sostanziale piena occupazione, di Stato sociale, di crescita dei redditi etc., si era ormai infilato in vicolo cieco fatto di stagnazione e inflazione.

L’abnorme crescita del capitale finanziario, favorita con ogni mezzo sul piano giuridico e normativo dalle classi dirigenti di ogni paese (anche se naturalmente non dappertutto con la stessa prontezza e la stessa rapidità) era dunque necessaria per simulare una crescita economica in totale assenza di una valorizzazione reale del capitale. La soppressione di tutte le catene che ostacolavano la libera circolazione del capitale finanziario era indispensabile, non solo perché lo esigevano gli interessi soggettivi degli attori interessati, ma soprattutto per una imperativa esigenza sistemica: il salvataggio, in ultima analisi illusorio, del sistema di mercato.

Si aggiunga inoltre che questa eclatante asimmetria di ricchezza e di reddito che caratterizza la nuova era neoliberale non è affatto eccezionale nella storia del capitalismo. Come illustra lo stesso Kurz in un altro saggio (“Schwarzbuch Kapitalismus”, 1999) la tendenza del capitalismo è sempre stata quella di ridurre al minimo il consumo delle masse, di deteriorare fino all’estremo la vita sociale. Questo fa sì che la relativa “cuccagna” dell’Età dell’oro fu un evento eccezionale, una sorta di effimero periodo di tepore in un’epoca di glaciazione.

Ne risulta che l’idea del “primato della politica”, della possibilità da parte di una classe dirigente benintenzionata e “popolare” possa ripristinare l’Eden fordista mediante misure redistributive e una nuova strategia di sviluppo economico è una mera illusione. L’“estate di san Martino” del capitalismo non tornerà mai più, tantomeno per mano di un sovranismo progressista.

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