David Cronemberg – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il destino del corpo elettrico https://www.carmillaonline.com/2022/09/14/il-destino-del-corpo-elettrico/ Wed, 14 Sep 2022 20:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73614 di Sandro Moiso

Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, a cura di German A. Duarte e con una postfazione di Marcel-lí Antúnez Roca, Krisis Publishing 2022, pp. 220, €18,00

Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrà con loro, non risponderà loro, e li purificherà, li caricherà in pieno con il carico dell’anima. E’ mai stato chiesto se quelli che corrompono i propri corpi nascondono se stessi? E se quanti [...]]]> di Sandro Moiso

Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, a cura di German A. Duarte e con una postfazione di Marcel-lí Antúnez Roca, Krisis Publishing 2022, pp. 220, €18,00

Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrà con loro, non risponderà loro, e li purificherà, li caricherà in pieno con il carico dell’anima.
E’ mai stato chiesto se quelli che corrompono i propri corpi nascondono se stessi? E se quanti contaminano i viventi sono malvagi come quelli che contaminano i morti? E se il corpo non agisce pienamente come fa l’anima? E se il corpo non fosse l’anima, l’anima cosa sarebbe? (Walt Whitman – I Sing the Body Electric)

Sono passati più di centocinquant’anni dalla prometeica intuizione contenuta nei versi di Walt Whitman ed inserita nella sua unica raccolta di poesie, «Foglie d’erba», pubblicata per la prima volta nel 1855 e in seguito rivista ed ampliata più volte. Eppure soltanto oggi è forse possibile comprendere appieno il significato di quella comunanza dei corpi “fisici” e la loro intrinseca e specifica bellezza e diversità esaltata allora dal poeta americano.

E’ stato Antonio Caronia (1944-2013), in un saggio edito per la prima volta nel 1996 e oggi ripubblicato dalle sempre meritorie edizioni Krisis Publishing di Brescia, a sviluppare in senso attuale quel “canto”.
Anche se lo ha fatto in prosa e con un testo che analizza nel dettaglio le trasformazioni del corpo fisico e della specie avvenute in seguito allo sviluppo delle diverse tecnologie a disposizione delle differenti e successive società umane, nel tentativo di proiettarsi nella comprensione del destino futuro delle funzioni e dello sviluppo dello stesso una volta inserito nel magma della comunicazione elettronica.

L’autore, saggista, docente di Comunicazione all’Accademia di Brera e figura di spicco della critica letteraria fantascientifica italiana fra gli anni settanta e ottanta, attraverso una cavalcata che, sulle orme di Marshall McLuhan e dei più importanti innovatori della letteratura fantascientifica e del cinema corrispondente (da Asimov a Ballard e da Dick a Sterling e Gibson fino a Cronenberg), ci porta dall’avvento della scrittura alla Rete e oltre. Ci fa riflettere sulla progressiva esternalizzazione delle funzioni cognitive, ma non solo, svolte dal nostro corpo “naturale” a favore di tecnologie che se da un lato ingigantiscono le nostre capacità di gestire dati, dall’altra sembrano trasformare e condizionare sempre più il nostro immaginario e il corpo “sociale”.

Come afferma il curatore:

La prima edizione di questo volume è apparsa nel periodo in cui si andavano consolidando le narrazioni utopiche che hanno accompagnato lo sviluppo delle tecnologie digitali e della rete […] La rete, in particolare, sembrava poter dare voce al singolo cittadino, e molti leggevano questa sua potenzialità come la capacità, insita nel digitale, di determinare processi sociali complessi. Ed era fuor di dubbio, all’interno della narrazione utopica, che tutti questi processi fossero avviati verso una democrazia diretta, o quantomeno più partecipativa.
[…] Negli stessi anni, però, il panorama democratico e quello liberale cominciavano ugualmente a mutare. Progressivamente, quegli stessi scenari si trasformavano in un laboratorio per le multinazionali e le corporations che regnano nel mediascape contemporaneo. E’ infatti proprio nel momento più alto dell’ondata libertarianista che, in forma embrionale, le corporations hanno trovato terreno fertile, minando progressivamente questi spazi di libero scambio di idee, d’informazione e di merci, e appropriandosene successivamente a livello planetario1.

Proprio in ciò che è sottolineato da German Duarte sta l’estremo interesse insito nella riedizione del testo di Caronia, ovvero nella possibilità di mettere a confronto ciò che un quarto di secolo fa si poteva intravedere nello sviluppo dei media e delle tecnologie digitali con ciò che è effettivamente avvenuto, poiché la problematica costituita da ciò che avrebbe potuto essere e ciò che effettivamente è stato era già, in qualche modo, presente nel lavoro di Caronia, soprattutto quando nelle sue pagine «ci mette ripetutamente in guardia contro il possibile “tecnopolio” incarnato dalla Microsoft , nella persona di Bill Gates»2.

Lo sguardo dell’autore non era alimentato infatti soltanto del discorso “utopico” e fantascientifico, oltre che tecnologico e artistico sull’uso delle nuove tecnologie, ma anche dall’attenzione per i contraddittori processi sociali, cognitivi e politici messi in moto dal capitale in tutte le sue stagioni di esistenza. Anche se la sua attenzione si spingeva fino all’età neolitica, con l’invenzione dell’agricoltura e di società complesse, organizzate intorno al lavoro. Età neolitica in cui, nonostante la Rivoluzione industriale, secondo lo stesso, saremmo ancora inseriti proprio per la centralità costituita dal lavoro produttivo.

Agricoltura che ha segnato i primi passi della società umana verso quella trasformazione o “artificializzazione” del paesaggio e dell’ambiente che oggi regna incontrastata, nella realtà e nell’immaginario. D’altra parte la progressiva artificializzazione del corpo, dalle protesi alle medicine quotidianamente ingerite per gli scopi più disparati fino alla costruzione di identità fittizie in rete, sui social e nella Realtà Virtuale (RV), non può essere separata da quella del mondo che circonda l’individuo sociale. Come aveva già ben compreso James Ballard.

Il cyborg di Ballard non ha bisogno di impiantare fisicamente la tecnologia all’interno del proprio corpo. Quest’ultima, diffusa nel suo ambiente, agisce in lui direttamente a livello mentale, si inscrive nel suo sistema nervoso, con uno scambio tra l’interno e l’esterno che riattiva un processo simbolico a livello di tutto il corpo. Ma la civiltà industriale matura vive nell’apoteosi dell’esteriorizzazione prodotta dalla società mediatizzata e informatizzata, si crogiola nel trionfo della separazione analitica tra mente e corpo, coltiva l’illusione delirante di riunificare il mondo sotto un unico principio, lo sguardo oggettivo e impersonale della scienza, la logica dell’equivalenza astratta. In queste condizioni ogni riattivazione di un processo simbolico a livello del corpo non può avere che una conseguenza: l’impossibilità di leggere in modo “socialmente corretto” i codici di scrittura del comportamento, la rottura della “normalità sociale”, l’insorgere di quella che la medicina ufficiale chiama “malattia mentale”. E così è con i personaggi di Ballard, che, come spesso in Dick, solo attraverso la malattia, la perdita dell’identità, la confusione tra io e mondo, possono tentare di dare un senso alla propria vita e a tutto ciò che li circonda. Ma Ballard (e questo è uno dei suoi meriti) non descrive questi processi collocandosene al di fuori, non assume alcun punto di vista morale o nostalgico. Al contrario, mostra come tutto ciò non sia effetto di una logica estranea e alternativa, ma sia conseguenza ineluttabile dello sviluppo delle tecnologie e dei media, che nella loro ipertrofia aprono una contraddizione insanabile con i fondamenti della società che li ha prodotti3.

In realtà la separazione tra mente e corpo e l’unione tra corpo e macchina inizia ben prima dell’età dei media elettronici e della realtà virtuale. E’ stato Marx a sottolineare il processo di estraniazione e alienazione che ha accompagnato lo sviluppo industriale e la progressiva sottomissione del lavorato alla macchina, alla scienza applicata e al capitale. Motivo per cui l’idea del cyborg e del robot (termine slavo con cui si indica il lavoro mentre con robotnik si indica l’operaio) affonda le sue radici nello sviluppo della rivoluzione industriale e delle sue conseguenze sociali, economiche, politiche e culturali.

Oggi sappiamo però anche che lo sviluppo della RV è andato molto più a rilento di quanto potessero immaginarsi Caronia o Ballard4, mentre lo sviluppo dei social media e dell’uso degli smartphone ha contribuito a creare un’autentica realtà “esterna”, in cui tutti gli utenti della rete possono diventare protagonisti e attori di un mondo virtuale dove tutto può accadere, essere vero e credibile all’interno di un sistema dato, anche se non del tutto definito, in cui tutte le informazioni possono essere o possono trasformarsi in fake news.

Ci accorgiamo che contemporaneamente al “declino” delle RV in quanto tali, c’è stata invece l’ascesa dell’aggettivo “virtuale”. “Virtuale” è una delle parole chiave di questi anni […] Che la vita dell’uomo, e tanto più quella dell’uomo contemporaneo, è a ogni istante sospesa fra l’attimo appena trascorso e una pluralità di eventi possibili, che non sta solo a noi, certo, trasformare in eventi “attuali”, ma il cui accadere ci appare molto più di prima legato alle nostre scelte […] Una cosa è certa: incomparabilmente più di quelle del passato, queste tecnologie [digitali] sono “tecnologie del possibile”: nel senso che rendono sempre più possibili eventi che sino a ieri apparivano impossibili, ma anche nel senso che tendono a “derealizzare”, a togliere alla “realtà” tradizionale, in primo luogo a quella materiale, quell’aura di unicità e di immodificabilità con cui ogni essere vivente su questo pianeta si scontra dalle origini della vita5.

Un sistema relazionale e diffuso in cui il corpo, attraverso i selfie e l’ostentazione continua dell’immagine di sé, diventa “virtuale” nel suo volersi mostrare giovane, affascinante, sensuale, aggressivo o disponibile all’incontro, all’avventura momentanea e alla notorietà fittizia. Una condizione in cui a trionfare è più Andy Warhol con i suoi 15 minuti di celebrità per ognuno che non le raffinate teorie estetiche degli artisti estremi del corpo e della realtà virtuale che si incontrano tra le pagine del libro di Caronia.

Il corpo è diventato “disseminato”, esattamente come titola uno dei capitoli del testo, l’ultimo, ma in forme diverse da quelle previste ventisei anni fa. Cosa che ancora si stenta a comprendere se, non accettando la definizione borghese di “Io”, si continua dimenticare il possibile utilizzo del pronome plurale “noi” per sostituirlo con la rivendicazione di infiniti “ii”. Come avviene, ad esempio, nel testo Cosa vuole Luther Blisset citato all’epoca da Caronia (p.192)

Come afferma Marcel-lí Antúnez Roca, nella sua postfazione:

L’era del lavoro si era aperta quando l’estendersi della rivoluzione neolitica aveva creato un sovrapprodotto sociale di dimensioni tali da richiedere la nascita di funzioni specifiche per la sua gestione e di gruppi separati addetti a tali funzioni cognitive e delle basi etiche su cui si fondava la convivenza degli aggregati umani […] Le “televisioni interattive”, i cinquecento canali, il “digitale” nella sua versione fieristica e industriale, non sono il primo passo per uscire dal neolitico, ma l’ultimo sussulto di un sistema di comunicazione gerarchico e funzionale a una società la cui perpetuazione significherebbe la bancarotta dell’umanità. Sarebbe una ben misera prospettiva se il corpo disseminato non fosse che lo sgabello con cui Bill Gates si issa sulla schiena del resto dell’umanità6.

Se quello della transizione dal corpo “naturale” e quello “virtuale”, in tutte le sue possibili declinazioni, costituisce il tema centrale del testo appena ripubblicato, in realtà la ricchezza dell’opera di Caronia apre ad una infinità varietà di argomenti, temi e critiche che, inevitabilmente, costringeranno il lettore ad aprire gli occhi, e la mente, su tutte le possibili conseguenze dell’artificiale ampliamento delle funzioni dello stesso. Sia a livello individuale che sociale.


  1. German A. Duarte, Prefazione a A. Caronia, Il corpo virtuale, Krisis Publishing 2022, pp. 11-12  

  2. G. A. Duarte, op. cit., p. 12  

  3. A. Caronia, op. cit., pp. 105-106  

  4. Per le idee di Ballard sulla RV si veda: J. Ballard, All That Mattered Was Sensation, intervista e prefazione a cura di Sandro Moiso con un saggio di Simon Reynolds, Krisis Publishing 2019  

  5. A. Caronia, op. cit., p. 157  

  6. Marcel-lí Antúnez Roca, Postfazione a A. Caronia, op. cit., pp. 197-201  

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“Katla”: un’eterotopia da incubo nella natura ostile https://www.carmillaonline.com/2021/07/18/katla-uneterotopia-da-incubo-nella-natura-ostile/ Sun, 18 Jul 2021 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67227 di Paolo Lago

Katla, una serie tv islandese con la regia di Baltasar Kormákur che ha debuttato su Netflix lo scorso 17 giugno, affresca uno spazio naturale presentato come una vera e propria eterotopia. Il termine è stato coniato da Michel Foucault per indicare uno “spazio altro”, totalmente separato dalle dinamiche della quotidianità1. L’islandese paese di Vik, ormai semi-abbandonato, ai piedi del vulcano Katla, e lo spazio che lo circonda appaiono come una eterotopia generata dalla natura ostile che [...]]]> di Paolo Lago

Katla, una serie tv islandese con la regia di Baltasar Kormákur che ha debuttato su Netflix lo scorso 17 giugno, affresca uno spazio naturale presentato come una vera e propria eterotopia. Il termine è stato coniato da Michel Foucault per indicare uno “spazio altro”, totalmente separato dalle dinamiche della quotidianità1. L’islandese paese di Vik, ormai semi-abbandonato, ai piedi del vulcano Katla, e lo spazio che lo circonda appaiono come una eterotopia generata dalla natura ostile che li avvolgono. È un luogo separato dal resto del paese, attraversato da venti impetuosi che sollevano le ceneri tossiche del vulcano. Non a caso, gli abitanti che ancora sono rimasti, per potersi spostare all’esterno, devono utilizzare una mascherina in modo da coprirsi naso e bocca, un oggetto che suona tristemente noto anche a noi spettatori, pure se per altri motivi. Per entrare nella zona di Vik, giunti al confine naturale di un fiume, se non si e residenti, è necessario possedere un permesso speciale da esibire a un funzionario che traghetta i viaggiatori da una parte all’altra. D’altronde, anche per entrare nelle eterotopie, specie in quelle che Foucault denomina «di crisi» (luoghi privilegiati, sacri o interdetti)2, non si può entrare «se non si possiede un certo permesso e se non si è compiuto un certo numero di gesti»3.

Il paese è costituito dalle poche case in cui vivono gli abitanti rimasti e da altre abbandonate, tinteggiate con colori grigi e foschi, terrei e granitici, come se fossero le espansioni della dura pietra lavica proveniente dal vulcano. Le immagini ci mostrano una natura che certo non si può definire “bella”, come uno scenario da cartolina; non è un’Islanda da agenzia turistica quella che vediamo nella serie tv. È una natura inquietante, sovrastante, annichilente, indubbiamente affascinante, pronta a scatenarsi in tempeste impetuose e distruttive. Sullo sfondo emerge costantemente il gigantesco profilo del vulcano in preda a una nuova serie di eruzioni. Lo scenario appare quasi come il risultato di una devastazione apocalittica che ha cancellato la civiltà umana, uno spazio in cui la natura più terribile ha ripreso il sopravvento. Gli stessi vicoli del paese, i cortili, e anche certi interni domestici sono tratteggiati come uno scenario postindustriale, con colori opachi e tendenti al seppia, secondo un’estetica fotografica che può rimandare al Tarkovskij di Stalker (1979). Tra l’altro, sia nel film che nel romanzo da cui è tratto, Picnic sul ciglio della strada (1972) di Arkadij e Boris Strugatzkij, è presente la “zona”, uno spazio recintato in cui è interdetto l’ingresso forse a causa del passaggio di extraterrestri. L’abbandono, il silenzio, il disuso e l’inutilità di ogni oggetto che si trova nel paese di Vik segnano inesorabilmente lo spazio dove avviene l’azione narrativa di Katla. Tutto è nebbioso e oscuro, caliginoso e terreo, mentre lo stesso tempo appare bloccato, rappreso in una granitica concrezione. Perché nello spazio eterotopico, ormai, non può più scorrere un tempo ‘normale’: è esso stesso un tempo ‘altro’ che prepara il perturbante incontro con l’alterità.

Quest’ultima entra in scena con i ‘cloni’ che gradatamente cominciano a invadere Vik: senza rivelare altro sulla trama, si può affermare che essi si presentano come degli esseri generati dalla pietra lavica del vulcano che assumono svariate forme, generati dalla coscienza e dai desideri reconditi degli individui che si trovano nel paese. Queste figure – chiamate changeling con un riferimento alla leggenda nordica relativa a una fata o a un folletto che rapisce e sostituisce i bambini – assumono le forme ora di un vero e proprio doppio, ora di una sorta di clone di una persona cara (figlio, moglie, sorella) ormai defunta secondo una modalità molto simile a quanto avviene in un altro film di Tarkovskij, Solaris (1972) e nel romanzo di Stanislav Lem (1962) da cui esso è tratto. Agli scienziati che si trovano su una stazione orbitante intorno al pianeta Solaris appaiono dei fantasmi, delle proiezioni viventi dei loro incubi, dei loro sogni e delle loro fantasie. Nella fattispecie, allo psicologo Kris Kelvin appare un vero e proprio clone di Harey, la moglie scomparsa anni prima, generato dall’Oceano pensante di Solaris, che sa leggere i desideri più reconditi degli esseri umani.

Il vulcano Katla, come il pianeta Solaris, trasforma in corpi i desideri e gli incubi degli individui e tutto ciò avviene all’interno di uno spazio eterotopico e lontano, ai confini dell’universo o nei lembi più remoti dell’Islanda. L’incontro con l’altro assume quindi connotazioni particolarmente perturbanti perché si tratta di un altro che possiede delle caratteristiche familiari e può essere scambiato per quello che non è in realtà. È in uno spazio lontano e isolato che si viene a contatto con l’altro, con il Mostro. Come scrive Fabrizio Borin riguardo a Solaris, «secondo i canoni della fantascienza sul cammino dell’uomo alla scoperta di altri universi – ma anche quando esseri ‘altri’ invadono a vario titolo la Terra – si viene a trovare il Mostro»4. Esso può comparire quindi in uno spazio eterotopico ‘estremo’ come, ad esempio, l’Antartide in cui si trova la base scientifica che affronta il parassita alieno in La cosa (The Thing, 1982) di John Carpenter, che ha la capacità di assumere le sembianze degli esseri umani con i quali viene in contatto. Del resto, fin dalla letteratura antica, l’incontro con l’altro avviene in un ambiente lontano e ostile, raggiungibile dopo un lungo viaggio. In Katla i personaggi, per giungere a questo incontro non devono recarsi in un territorio sconosciuto e lontano. Vik, il loro paese, dopo l’eruzione del vulcano, ha però assunto un altro aspetto: da luogo familiare si è trasformato in un luogo desolato ed ostile trasformandosi in una vera e propria eterotopia separata dal mondo esterno (spesso, nel film, si fa riferimento a Reykjavík come lo spazio della normalità, della razionalità e della tranquilla vita borghese).

Nell’eterotopia vige una logica altra, che non è quella della razionalità. Si tratta di uno spazio non definito, proteiforme e in continuo movimento, come le incrostazioni laviche del vulcano, emblema di una natura incontrollabile e soggetta a una perenne mutazione. Se la capitale islandese è lo spazio urbano sottoposto alla geometricità di una vita regolare e scontata, Vik è la rappresentazione iconica e fisica di una natura che si presenta ostile agli stessi insediamenti umani. All’interno di questo spazio proteiforme e indefinibile è quindi possibile anche l’incontro con un doppio perturbante di se stessi: «Il tema del doppio costituisce infatti un attacco plateale alla logica dominante con cui leggiamo il mondo, basata sui principi aristotelici di identità e non contraddizione; un attacco che, come in tutte le tematiche del fantastico, implica il riemergere di un sapere magico e arcaico, di una totalità indistinta, omogenea e indifferenziata […]»5. Se a Reykjavík vige il principio di identità e non contraddizione, Vik è segnato dal riemergere di un sapere magico, legato alle antiche leggende nordiche dei changeling, è uno spazio che si presenta come «una totalità indistinta, omogenea e indifferenziata».

Se il mostro è uguale o molto vicino a noi allora ci fa più paura. Ed è probabilmente questo uno dei punti forti della serie: rappresentare il mostro, l’altro come qualcosa che viene da dentro di noi. L’alterità rappresentata nella letteratura e nel cinema possiede spesso questa valenza: la mostruosità non è mai del tutto estranea a noi. Come scrive Gioacchino Toni in un interessante saggio apparso su “Carmilla” (Nemico (e) immaginario. Paure identitarie fuori e dentro gli schermi dei primi anni Ottanta) dedicato alla rappresentazione dell’alterità in quattro film statunitensi dell’inizio degli anni Ottanta (Alien e Blade Runner di Ridley Scott, La cosa di John Carpenter e Videodrome di David Cronemberg), siamo ben «consapevoli che lo sguardo sull’alterità è inevitabilmente anche uno sguardo su se stessi, sulla propria identità». Gli stessi esseri generati dal vulcano non compaiono propriamente come dei ‘nemici’: provengono da un territorio indistinto, da un tutto in cui non c’è una separazione netta fra bene e male. Così infatti si rivolge Kelvin a Harey in Solaris di Stanislav Lem, con parole che potrebbero essere pronunciate anche dai personaggi di Katla che si trovano a fronteggiare le rappresentazioni fisiche dei loro incubi e dei loro desideri: «Non so perché tu mi sia stata mandata: se come una tortura, come un favore o forse solo come una specie di microscopio per esaminarmi…»6. Gli stessi ‘cloni’ appaiono come profondamente umani: deboli, impauriti, sofferenti, bisognosi dell’affetto dei propri cari ai quali sono comparsi, un bisogno che non è altro che la proiezione di quello che ha generato la loro presenza.

Una presenza sorta in una eterotopia da incubo, racchiusa da una natura ostile che la fotografia del film rende in modo molto suggestivo sullo schermo. Come già osservato, non si tratta di una bellezza ‘classica’, da cartolina, ma probabilmente della vera essenza di un territorio ostilmente spettacolare e affascinante come quello islandese. Ed è questo sicuramente un altro dei punti di forza della serie tv: mostrarci luoghi insoliti, poco frequentati dalle fiction e poco inclini ad essere visivamente commercializzati. Luoghi poco esplorati dallo sguardo cinematografico e rivestiti di una nuova caratterizzazione che riesce a reincantarli, a ricoprirli di magia e di onirismo, a trasformarli in una eterotopia da incubo che è capace di reincantare anche il nostro immaginario.


  1. Cfr. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis, Milano, 2002. 

  2. Cfr. ivi, p. 25. 

  3. Ivi, p. 31. 

  4. F. Borin, L’arte allo specchio. Il cinema di Andrej Tarkovskij, Jouvence, Milano, 2004, pp. 153-154. 

  5. M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Mucchi, Modena, 2012, p. 27. 

  6. S. Lem, Solaris, trad. it. Sellerio, Palermo, 2017, p. 215. 

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Dall’avatar al corpo: restare umani nel mondo virtuale https://www.carmillaonline.com/2020/07/16/dallavatar-al-corpo-restare-umani-nel-mondo-virtuale/ Thu, 16 Jul 2020 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61476 di Paolo Lago

Michele Cocchi, Us, Fandango, Roma, 2020, pp. 319, € 17,00.

In Ready Player One (2018) di Steven Spielberg, in una Terra del futuro devastata dall’inquinamento e dalla sovrappopolazione, le persone si rifugiano nel mondo virtuale di Oasis, una specie di grande videogioco che regala un vero e proprio universo parallelo, una vita finta da opporre alla miseria che attanaglia quella vera. In eXistenZ (1999) di David Cronemberg, in un futuro non precisato, un gioco regala ai partecipanti una dimensione parallela, alternativa alla realtà ma del tutto realistica. In questi due [...]]]> di Paolo Lago

Michele Cocchi, Us, Fandango, Roma, 2020, pp. 319, € 17,00.

In Ready Player One (2018) di Steven Spielberg, in una Terra del futuro devastata dall’inquinamento e dalla sovrappopolazione, le persone si rifugiano nel mondo virtuale di Oasis, una specie di grande videogioco che regala un vero e proprio universo parallelo, una vita finta da opporre alla miseria che attanaglia quella vera. In eXistenZ (1999) di David Cronemberg, in un futuro non precisato, un gioco regala ai partecipanti una dimensione parallela, alternativa alla realtà ma del tutto realistica. In questi due film, in futuri più o meno distopici, gli esseri umani si immergono in mondi virtuali per dimenticare quello reale.

La stessa contrapposizione fra mondo reale e mondo virtuale la ritroviamo in Us di Michele Cocchi, recentemente uscito per i tipi di Fandango: un romanzo che tematizza, tramite il conflitto fra questi due universi paralleli, le problematiche dell’infanzia e dell’adolescenza (l’autore è infatti uno psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza e già in un suo precedente romanzo, La casa dei bambini, aveva affrontato il momento difficile della crescita e del passaggio dall’infanzia all’età adulta). Oltre ad affrontare tali problematiche, l’intelaiatura narrativa realizzata da Cocchi attua una vera e propria immersione in alcuni dei conflitti più sanguinosi del Novecento. I personaggi, grazie al loro videogioco di ultima generazione, Us, si trovano proiettati in diversi luoghi del mondo, teatro di svariate guerre e guerre civili: nella ex Jugoslavia del 1992, nel Libano dell’inizio degli anni Ottanta, nel bel mezzo del conflitto con Israele, nel Sudafrica di Nelson Mandela uscito da poco dalla piaga dell’apartheid, nell’Etiopia conquistata dal regime fascista, nella Germania nazista, in Colombia a fianco delle Farc. Logan, Hud e Rin, con i loro avatar, entrano nella realtà virtuale di Us e vivono le loro avventure virtuali, ora a fianco dei ‘buoni’, ora dei ‘cattivi’, come prescrivono le regole del gioco in quelle determinate azioni, o “campagne”. Tommaso, alias Logan, vive in una situazione di estremo disagio: non esce di casa da 18 mesi per un problema psicosomatico, dopo aver interrotto qualsiasi tipo di relazione con il mondo esterno, dallo sport alla scuola. Il racconto di Us si srotola dunque in due dimensioni che procedono parallele: da un lato, la vita di Tommaso nella sua casa in un piccolo paesino della Liguria, vicino al confine con la Francia, i suoi rapporti difficili con i genitori e i fratelli, la vita quotidiana con i suoi mille problemi e le sue ansie; dall’altro, l’universo virtuale del videogioco, in cui è chiamato ad affrontare missioni pericolose e a dover scegliere chi aiutare e chi ostacolare o, addirittura, uccidere.

A differenza dei videogiochi e dei mondi virtuali dei film sopra citati, però, Us possiede qualcosa in più: il fatto, cioè, di creare non dei mondi fantastici e immaginari ma di ricreare, invece, delle situazioni reali, in cui sono ricostruiti, come già accennato, degli importanti conflitti del Novecento. I personaggi si trovano così inseriti in situazioni reali, pure se ricreate artificialmente dal gioco, che hanno vissuto persone realmente esistite. Se Rin, l’unica ragazza del gruppo, e Logan-Tommaso, in queste situazioni, si pongono dei problemi, Hud, che appare come il più cinico e il più sprezzante fra i tre, ripete che si tratta soltanto di un gioco. Eppure, Tommaso, avverte qualcosa di umano anche nella realtà virtuale in cui loro agiscono solo con i loro avatar: “Il problema è che Us propone loro fatti realmente accaduti, pensa, qualcuno queste cose le ha realmente vissute, è questo che lo disturba”. Us pone i propri giocatori di fronte ad una umanità che ha veramente vissuto quelle situazioni: anche nelle avventure virtuali del videogioco, probabilmente, sono nascosti degli esseri umani che soffrono, come i tre personaggi ricorrenti nelle varie “campagne”, dai nomi di Giovanni, Davide e Maria.

Come si può capire, al centro del nuovo romanzo di Michele Cocchi non vi è soltanto la contrapposizione fra il mondo reale e quello virtuale ricostruito dal videogioco, ma una continua riflessione sulle azioni da compiere nella vita quotidiana. Se Tommaso confonde la realtà e la propria esistenza con l’universo parallelo di Us, si insinua in lui una pungente riflessione sulla giustezza delle proprie azioni e sulla dimensione umana, sul compiere scelte che stiano dalla parte dell’umanità, pure all’interno del mondo virtuale del videogioco. Ed è grazie a questa lenta scoperta della dimensione umana che potrà finalmente crescere ed essere responsabile delle proprie azioni, risolvendo i suoi problemi psicologici adolescenziali. Se egli desidera essere un eroe, e forse lo può essere nella finzione del videogioco, dovrà scoprire che nella realtà non c’è bisogno del concetto di eroe, che l’eroismo consiste semplicemente nel rimanere profondamente attaccati alla propria dimensione umana. La dimensione virtuale di Us si trasforma, allora, in una specie di banco di prova per affrontare la vita, come afferma Luca, alias Hud: “«Metterci alla prova», continua Luca, «ho imparato più cose sulla storia del Novecento in due mesi che in dodici anni di scuola. Us ci costringe a essere vittime o carnefici, militari o ribelli, violenti o pacifici. All’inizio ti sembra uno sparatutto come gli altri, sei forte perché hai un fucile ma poi capisci che avere un’arma non è decisivo, che nella vita Tommaso si può scegliere, si deve scegliere»”.

Senza svelare troppo la trama, è necessario comunque ricordare che i personaggi, alla fine, si troveranno coinvolti in un’azione reale in cui si trovano schierati dalla parte dell’umanità: aiutare una famiglia di immigrati irregolari africani ad attraversare il confine con la Francia. Abbandonati gli avatar, essi si riappropriano fortemente dei loro corpi e della loro dimensione umana: non devono più sottomettere le loro scelte alle opzioni del gioco, non devono più compiere azioni disumane soltanto per accumulare maggiore punteggio. Scelgono di stare dalla parte dell’umanità, pure se nell’illegalità, contro l’ordine costituito e i pattugliamenti delle “ronde” che cercano di bloccare i migranti irregolari. I ragazzi si troveranno quindi di fronte alla scelta che li fa crescere e maturare, come il giovane protagonista di Terraferma (2011) di Emanuele Crialese, il quale, infrangendo una legge disumana, aiuta una ragazza africana e la sua bambina a fuggire dall’isola di Linosa e a raggiungere il marito che risiede a Torino.

Il ritorno definitivo alla dimensione umana risuona come una vera e propria catarsi segnata dal riso, un’espressione profondamente legata al corpo. Tommaso e gli altri, compiuta la loro azione, scoppiano a ridere, come in uno scioglimento della dimensione tragica che li aveva avvolti fino ad allora. Se nel gioco, dal significativo nome di “Us” (“Noi”) era necessario essere sempre in accordo con i membri della propria squadra e comportarsi come fratelli, nella realtà, in una nuova dimensione fraterna, il corpo si sostituisce all’avatar. Riappropriatisi dei loro corpi, i personaggi saranno finalmente liberi di scegliere e, nel più difficile e complesso fra i mondi attraversati, quello reale, sceglieranno l’apertura all’altro, l’ibridazione, l’umanità contro tutte le chiusure, tutte le paure, tutti i fascismi.

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Processi di ibridazione. La carne, lo schermo e l’inner space contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2020/07/13/processi-di-ibridazione-la-carne-lo-schermo-e-linner-space-contemporaneo/ Mon, 13 Jul 2020 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61115 di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli [...]]]> di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli individui tendono a rinunciare a qualsiasi relazione sociale significativa non gestita attraverso i media tecnologici, è su come gli attuali schermi, sempre più piccoli e leggeri, si stiano progressivamente fondendo con il corpo dell’utente perdendo la loro natura di medium, di strumento intermedio tra due diverse realtà, che riflette il sociologo Vanni Codeluppi nel suo contributo Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media – al volume curato da Carlo Bordoni, Il primato delle tecnologie (Mimesis 2020)1, in cui sono raccolti scritti di diversi autori sul rapporto tra tecnologia e individuo.

Nell’epoca della convergenza mediatica, tecnolgica e culturale il messaggio veicolato dagli schermi elettronici non è più vincolato alla superficie del supporto e tende a essere instabile, mutando costanemente sottoposto tanto alle strategie dell’industria dell’intrattenimento quanto ai desideri e all’uso autonomo praticato dagli utenti2.

Con lo schermo elettronico, il “vedere sopra” dei supporti fissi, ma anche il “vedere attraverso” tipico della prospettiva rinascimentale e frutto di una strategia visiva tesa a catturare lo sguardo dello spettatore, vengono sostituiti dalla promessa di “vedere dentro”, cioè all’interno del mondo mediatico. Lo spettatore rimane all’esterno dello schermo, ma si può muovere in sintonia con esso e non è più costretto a rimanere immobile dentro lo spazio, come accadeva con le forme precedenti di schermo, quale ad esempio quella che caratterizzava la televisione tradizionale. Ha così la sensazione di essere costantemente in contatto con lo schermo e di poter esercitare un controllo su quella realtà a cui lo schermo stesso gli consente di accedere3.

Da ciò l’individuo deriva la gratificante sensazione di essere, attraverso lo schermo, in contatto con l’intero mondo e di poter influire su di esso. Tutto ciò è ulteriormente rafforzato dai dispositivi tattili che suggeriscono una fusione tra strumenti e corpo dell’utente richiamando quella “nuova carne” indagata dal cinema di David Cronemberg passando dalla mutazione allucinatoria del corpo (Videodrome, 1983) fino a un interfaccia tra essere umano e game in cui universo reale e universo del gioco si con-fondono definitivamente (eXistenZ, 1999) dando luogo a un vero e proprio nuovo corpo-ambiente.

Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione. (Brian O’Blivion, Videodrome)

Come in Videodrome, anche in eXistenz Cronenberg insiste sulla centralità del corpo nella relazione tra essere umano e macchina in quanto luogo in cui si iscrive l’esperienza dell’individuo.

È collegato con te, sei tu l’alimentazione: il tuo corpo, il tuo sistema nervoso, il tuo metabolismo, la tua energia. Quando sei stanco si scarica e non funziona più correttamente (Allegra Geller, eXistenz)

La macchina innestata nel corpo umano risponde tanto alla necessità del capitalismo di estendere gli ambiti da cui estrarre profitto, quanto all’insufficienza della realtà quotidiana percepita dagli individui e al desiderio di un suo superamento alla ricerca di un nuovo mondo. Al regista canadese interessa mostrare la sempre più marcata indistinguibilità tra carne biologica e quella tecnologica, l’ibrido della “nuova carne”.

Se alla sua nascita il surrealismo, attraverso il recupero delle pulsioni vitali rimosse e il dar loro libero sfogo all’interno della realtà quotidiana, mirava al raggiungimento di quella completezza, quello stato di realtà superiore (surrealtà), comprendente tanto il livello conscio quanto quello inconscio, la filmografia cronemberghiana sembra voler rileggere tale ricerca di realtà superiore alla luce dei nuovi tempi contemplando l’interfacciarsi dell’essere umano con le macchine, soprattutto mediatiche.

Tali questioni sono al centro anche di Black Mirror (dal 2011 – in produzione, Channel 4 – Netflix), serie televisiva che forse più di ogni altra induce a riflettere sul rapporto tra individuo e tecnologie e sul pericolo del controllo. Scrive a tal proposito Claudia Attimonelli Corpo in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror (Rogas 2018) – che

il senso del titolo Black Mirror è analogico al finale di Videodrome (1983), quando Max Renn fuggendo lontano crede d’essersene liberato, ma è proprio quando gli schermi sono spenti e i dispositivi dormienti che le pratiche agiscono sui corpi online, a loro insaputa. “Lunga vita alla nuova carne”, esultava Renn, e all’alba del nuovo millennio Black Mirror ripropone i dilemmi della nuova condizione postumana.4

Suggestioni surrealiste sono prensenti anche in James Ballard che nelle sue opere ha indagato l’immaginario contemporaneo individuando proprio nell’inner space il luogo di conflitto tra differenti concezioni di libertà individuale e collettiva in cui si danno i maggiori cambiamenti epocali determinati soprattutto dai media. In un’intervista rilasciata al nostro Sandro Moiso nel 1992, recentemente data alle stampe in una curatissima edizione – J. Ballard, All that Mattered was Sensation (Krisis Publishing 2019)5 –, lo scrittore sostiene che se in generale è difficile definire il confine tra sogno e realtà, ciò lo è a maggior ragione ai giorni nostri:

l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger? Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale di un campo d’erba che cresce. Schwarzenegger rappresenta le più grandi mitologie commerciali della fine del XX secolo. Tristemente l’erba potrebbe morire domani a causa dello smog o dei gas emessi dalle macchine che passano lungo la strada. Questa differenza tra realtà e sogno è molto difficile da analizzare e, in diversi modi, il sogno è la nostra realtà. È più sensato pensare che i nostri sogni siano reali6.

Antonio Tursi Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi 2018) – ha approfondito le caratteristiche di tali nuovi scenari concentrandosi in particolare sul loro carattere politico-conflittuale e mettendo in luce come il rapporto tra corpi e immaginario (soprattutto tecnologico) risulti storicamente meno oppositivo di quanto sembri7.

L’intenso ricorso contemporaneo a schermi che tendono ad annullare la distanza che separa lo spettacolo rappresentato al loro interno e il fruitore incide sul modo con cui gli esseri umani conoscono la realtà sociale, dunque su quest’ultima stessa. A proposito dello schermo, nel suo scritto Codeluppi sottolinea come questo sia anche uno strumento di vertinizzazione, di messa in vetrina della realtà, in linea con un modello comunicativo introdotto dalle vetrine dei negozi, imposto socialmente sin dalla prima metà del Settecento8, poi affinato nel corso dei secoli successivi con l’ampliamento degli spazi commerciali e, negli ultimi decenni, con «l’adozione da parte dei principali ambiti sociali di quella particolare logica di rappresentazione visiva che contraddistingue le modalità comunicative appartenenti alla vetrina, non a caso una specie di grande schermo ante litteram»9.

Seguendo tale ragionamento, gli attuali youtuber, influencer, net attivisti ecc. rappresenterebbero allora alcuni degli esiti contemporanei di quel processo che ha preso via nelle metropoli europee attorno alla metà del XVIII secolo e che ha portato alla ribalta figure provenienti dalla folla generando un processo di estetizzazione del pubblico. Scrivono a tal proposito Claudia Attimonelli e Vincenzo SuscaUn oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis 2020)10 – occupandosi della serie telvisiva di Chris Brooker:

I diversi dispositivi caratterizzanti la vita metropolitana e le sue propaggini mediatiche hanno assecondato la progressiva traduzione del quotidiano e persino del triviale dall’altra parte degli schermi, delle cornici e delle vetrine, confondendoli tra loro in un incidente tanto spettacolare quanto gravido di conseguenze. Tra di esse, la prima e la più importante tra tutte – anche della democratizzazione della politica – è l’estetizzazione delle masse, che siamo stati abituati ad interpretare come la loro definitiva emancipazione, considerandola un affrancamento della cultura bassa nei confronti di quella alta. La sua onda lunga, a ben vedere, ci conduce dalle chiacchiere nei café londinesi costituenti i prodromi dell’opinione pubblica borghese alle chat di Telegram e ai dialoghi di Twitter, dalle prime fotografie raffiguranti gente ordinaria nella seconda metà dell’Ottocento alla celebrazione del quotidiano su Instagram, dalla raffigurazione di donne e uomini senza qualità come comparse nella Hollywood degli anni Trenta alle stories di Snapchat e ai video degli youtuber. Piaccia o meno il suo risultato, è qui in atto il divenire opera del pubblico, una dinamica della quale Black Mirror svela il compimento inatteso, i passaggi oscuri e gli effetti perversi.11

È difficile definire quanto si sia spinto in avanti il processo di ibridazione tra corpo e schermo, quanto l’immaginario contemporaneo risulti plasmato da tale con-fusione e quanto sia sottoposto a un processo di colonizzazione volto a estrarne profitto. Attimonelli e Susca, suggeriscono di

spostare la prospettiva ai bordi dello specchio nero, dove non troviamo che paradossi relativi a ciò che crediamo di conoscere in merito al nostro corpo venuto a contatto con le tecnologie immersive, del controllo, delle realtà virtuali e del gaming. Lasciando proliferare i margini del corpo, estendere i suoi orifizi e cedere le sue parti molli, si sovvertono, nostro malgrado, gerarchia e funzioni tradizionali degli organi e ci vengono restituite immagini oscene, destabilizzanti e triviali. Il nostro corpo abita la diaspora delle istantanee esternalizzate e collocate in memorie digitali accessibili a chiunque, il nostro corpo è irrimediabilmente di Altri. Non tutti sono pronti a questa mutazione.12

In Black Mirror la negatività con cui è spesso presentata la pulsione all’ibridazione del corpo con altro da sé, sostiene Claudia Attimonelli, sembrerebbe derivare dal timore della perdita di centralità dell’umano in una postmodernità segnata da una relativizzazione a cui, non di rado, si tende a rispondere con rigurgiti nostalgici per una fantomatica età dell’oro non più ripristinabile. «Rinegoziare costantemente, così com’è richiesto dalla serialità televisiva, il grado di umanità a partire dalla “fine del corpo umano” sembra essere il movente per Chris Brooker a ogni nuova stagione»13.

Guardando a Black Mirror come a un’anticipazione del nostro futuro, sostiene Attimonelli, sembra di scorgere

il cambio di paradigma che vedeva nel tecnocentrismo il contrario dell’antropocentrismo. Nel declino dell’antropocene sono altri i punti di fuga da considerare. A tratti sembra ci si orienti verso scenari diretti da principi tecnocratici e imbevuti di datacrazia […] Intorno a sistemi postmedievali di tortura del corpo si dipana l’immaginario dell’autodeterminazione, confessione, liberazione, valutazione, punizione, sperimentazione e iniziazione. Con l’emergere di queste forme neo-tribali veicolate da totem ad altissima tecnologia e intelligenza artificiale, nel silenzio della cultura scritta, nella sottomissione ai linguaggi elettronici, nell’“emozione pubblica”, sono i corpi a riprendere potere e vantaggio sul linguaggio. Esso, infatti, risulta essere fallimentare nella sua organizzazione tradizionale, non serve più a spiegare e retrocede dinanzi alle reazioni inedite della carne elettronica14.

Con una buona dose di ironia, oltre che di abilità autopromozionale, la notte in cui è stato eletto Donald Trump i produttori di Black Mirror, quasi a far risuonare la voce del professore Brian O’Blivion, predicatore della Chiesa Catodica in Videodrome, hanno lanciato un meme con la scritta “I realizzatori di Black Mirror confermano che l’elezione americana non è un episodio di Black Mirror” facendo seguito al profilo di Twitter della stessa produzione in cui si riportava: “Questo non è un episodio. Questo non è marketing. Questa è la realtà”15.

È andato in loop, non ne uscirà finché non dirai una battuta che appartiene al dialogo del gioco (Allegra Geller, eXistenz)

Di certo l’inner space dell’epoca della vetrinizzazione spinta, derivato (anche) dall’ibridazione corpo-schermo, è un ambito di conflitto. È altrettanto certo che tale conflitto non potrà essere risolto dal messianico arrivo di un eroe coadiuvato dal suo mentore in stile Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski. In qualche modo occorrerà arrangiarsi. In tal caso il vecchio slogan punk Do it yourself andrebbe però declinato al plurale.


  1. C. Bordoni (a cura di), Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020. Testi di: Cosimo Accoto, Carlo Bordoni, Vanni Codeluppi, Derrick de Kerckhove, Lelio Demichelis, Ernesto Di Mauro, Pierpaolo Donati, Adriano Fabris, Ubaldo Fadini, Marcello Faletra, Umberto Galimberti, Domenico Gallo, Riccardo Gramantieri, Giuseppe O. Longo, Michel Maffesoli, Alberto Oliverio, Matteo Rima, Carlo Sini Bernard Stiegler, Stefano Tani. 

  2. Sulle questioni concernenti la convergenza mediatica, tecnolgica e culturale si vedano i lavori di Henry Jenkins, in particolare il volume H. Jenkis, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007. L’idea che vedeva nella digitalizzazione un viatico per potenziare enormemente le capacità umane dispensando libertà, informazione e una generale propensione al bene comune viene contestata da vari studiosi. Pablo Calzeroni sostiene che i media digitali tendono ad amplificare gli effetti più alienanti del mezzo televisivo; interattività e connettività, anziché migliorare la qualità delle relazioni sociali, sembrano piuttosto averle ulteriormente impoverite incrementando isolamento ed alienazione sociale. P. Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano Udine 2019. Sul volume si veda: G. Toni, Nemico (e) immaginario. Desoggettivazione ed immaginario antisociale, Carmilla, 20 gennaio 2020. Altrettanto impietoso nei confronti delle possibilità emancipatorie digitali è Jonathan Crary che accusa il sistema tecnologico-mediatico attuale non solo di esercitare una funzione di sorveglianza e di indirizzo di tutte le informazioni prodotte on line, ma anche di intercettare e sfruttare la destabilizzazione umana dilatando i tempi e i modi di comunicazione, lavoro e consumo. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino 2015. 

  3. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, in C. Bordoni (a cura di) Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 33-34. 

  4. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immagini, culture e media della società digitale, Rogas, Roma 2018, p. 101. 

  5. James Ballard, All that Mattered was Sensation, Krisis Publishing, Brescia 2019. Testo bilingue con intervista e prefazione di Sandro Moiso e un saggio critico di Simon Reynolds. Sulle tematiche affrontate nel volume si vedano: G. Toni, J.G. Ballard e l’immaginario come luogo di conflitto, Il lavoro culturale, 18 dicembre 2019; S. Moiso, Un profeta per il XXI secolo, Carmilla, 8 gennaio 2020; S. Moiso, Leggere J.G. Ballard al tempo della pandemia, Scenari, 16 aprile 2020; S. Moiso, Wonderland, puntata del 16 gugno 2020, Rai 4, visibile su Rai Play

  6. James Ballard, All that Mattered was Sensation, op. cit., pp. 37-38. 

  7. A. Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica, Meltemi, Milano 2018. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2]

  8. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 

  9. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, cit. p. 35. 

  10. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, Mimesis, Milano-Udine 2020. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2] 

  11. Ivi, pp. 273-274. 

  12. Ivi, p. 175. 

  13. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror, cit. p. 97. 

  14. Ivi, pp. 102-103. 

  15. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, cit., p. 141. 

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Contagi immaginari e antidoti di resistenza https://www.carmillaonline.com/2020/04/15/contagi-immaginari-e-antidoti-di-resistenza/ Wed, 15 Apr 2020 21:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59436 di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga [...]]]> di Paolo Lago

L’immaginario letterario e cinematografico, in questi giorni estremamente difficili, ci può offrire un vero e proprio antidoto di resistenza, uno strumento che non deve assolutamente configurarsi come una fuga dalla realtà ma come uno spunto di riflessione e di creatività, di incoraggiamento al pensiero, di spinta propulsiva per sempre nuovi, possibili immaginari liberati da qualsiasi dinamica di potere. Se, partendo dalla realtà, purtroppo tragica, che ci circonda, ci muoviamo nella direzione dell’immaginario, si può scoprire come nella letteratura e nel cinema le tematiche del contagio e dell’epidemia siano in larga misura presenti.

Fin dalla letteratura antica, il contagio è stato oggetto dell’attenzione di poeti e scrittori. Nel libro I dell’Iliade si racconta di come Apollo – adirato con i Greci per la mancata restituzione, da parte di Agamennone, di Criseide al padre Crise, sacerdote del dio – scateni una pestilenza nel campo acheo. Apollo diffonde la pestilenza scoccando le sue frecce in mezzo all’accampamento: “I muli colpiva in principio e i cani veloci / ma poi mirando sugli uomini la freccia acuta / lanciava; e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte” (Il., I, 50-53).

Se nell’Iliade la pestilenza è dovuta all’ira divina e per placarla, come osserva l’indovino Calcante, non sono necessari dei sacrifici agli dei ma la semplice restituzione della figlia al sacerdote di Apollo, nelle Baccanti (407-406 a.C.) di Euripide il culto di Dioniso si presenta di fronte al re Penteo come un elemento di pericolosa contaminazione. Nella tragedia, Dioniso appare a Penteo, re di Tebe, sotto le vesti di uno straniero che giunge da terre lontane, accompagnato dal corteo delle Baccanti. Il re, temendo la diversità assoluta del dio, ordina di incarcerarlo ma la vendetta di Dioniso sarà terribile. Penteo verrà infatti ucciso dalla sua stessa madre, Agave, in preda al delirio bacchico. Il culto dionisiaco viene paragonato dal re ad una vera e propria epidemia, e così anche il delirio delle Baccanti. In questo modo, infatti, si rivolge Penteo a Cadmo, che gli consiglia di accogliere Dioniso, dando così ascolto all’indovino Tiresia: “Non toccarmi, va’ a fare l’invasato da qualche altra parte! Non contagiarmi con questa pazzia!” (vv. 343-344). Dioniso appare come uno straniero giunto dall’Oriente, dai costumi strani e incomprensibili per l’ottica greca, un possibile conduttore di perturbamento e di sovvertimento dell’ordine all’interno della società. Il culto ‘sovvertitore’ è assimilato a un’epidemia che si propaga; e, non a caso, l’epidemia giunge da Oriente, da territori sconosciuti e lontani, i luoghi da dove le comunità nomadi possono sferrare il loro attacco alla stanziale civiltà occidentale. Come vedremo, anche il contagio portato da Dracula nel romanzo di Bram Stoker giunge da un Oriente sconosciuto, terra di arcane magie, abitata da antiche e sapienti popolazioni di zingari (come vediamo nella rilettura cinematografica di Herzog).

Una descrizione del contagio e dell’epidemia è attuata da Lucrezio nel VI libro del De rerum natura (I sec. a.C.) che si conclude con un vero e proprio affresco poetico del contagio e degli effetti della peste modellato sulla descrizione di Tucidide della peste di Atene del 430 a.C. Dopo aver esordito con una spiegazione quasi tecnica e ‘scientifica’ sulle possibili cause dei morbi (“Ora spiegherò quale sia la causa dei morbi, e di dove / sorta d’un tratto una violenta infezione possa spargere / fra le stirpi degli uomini e i branchi degli animali una funesta strage”, VI, 1090-1092), le quali non sono comunque imputabili a vendette divine, il poeta si lascia andare a una descrizione di una pestilenza in cui le tonalità realistiche si mescolano all’afflato poetico. Anche Virgilio, nel III libro delle Georgiche (I sec. a.C.) descrive la pestilenza del Norico non come una punizione divina ma come l’evoluzione di una particolare condizione climatico-ambientale. Ovidio, nel libro VII delle Metamorfosi (I sec. d.C.), offre invece una descrizione della pestilenza di Egina nel segno di una esaltazione del fantastico, con marcati accenti poetici, filtrata dal racconto di Eaco (una malattia che è comunque causata dall’ira di Giunone).

Se pensiamo poi alla pestilenza narrata nella cornice del Decameron (1350-1353) di Giovanni Boccaccio, si può notare come essa si configuri come un vero e proprio motore dell’immaginario e del racconto. Dapprima Boccaccio descrive in modo realistico gli aspetti più crudi e gli effetti della peste che, nel 1348, si è abbattuta su Firenze, notando anche che essa arriva da Oriente (come poi sarà in Dracula) e successivamente si concentra sui più svariati comportamenti delle persone, da quelli più moderati, all’insegna della salvaguardia personale, fino a quelli più smodati, all’insegna degli eccessi. Poco dopo, però, la narrazione si focalizza sul gruppo di sette giovani donne che si ritrovano a Santa Maria Novella. Una di loro, Pampinea, suggerisce alle altre di recarsi in campagna dove, a causa della salubrità dell’aria, la pestilenza potrà diffondersi in modo meno violento. E così, il gruppo, al quale si sono uniti anche tre giovani, si reca fuori città dove la stessa Pampinea decide che il tempo venga trascorso “novellando”. Come si vede, la pestilenza e il contagio si presentano come motivi scatenanti della narrazione. Se non ci fosse stata la peste, non ci sarebbe stato neanche il Decameron. Nei più oscuri e tragici risvolti dell’epidemia, perciò, si nasconde la libera macchina dell’immaginario che sa trarre il racconto e la narrazione anche dagli aspetti più terribili dell’esistenza. L’immaginario liberato si configura così come un vero e proprio antidoto di resistenza di fronte alla tragicità della situazione: è grazie al reciproco racconto che i personaggi della cornice riescono, in fin dei conti, a salvarsi la vita, stando al riparo e dimenticando gli aspetti più dolorosi del momento che si trovano a vivere. Il racconto possiede quindi un’indubbia potenza intrinseca: è la parola stessa che appare come una vera e propria resistenza culturale di fronte alla cruda realtà che si manifesta d’intorno.

Alessandro Manzoni, nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi sposi (1842) racconta, con piglio cronachistico, la peste che imperversò a Milano nel 1630. Il capitolo XXXI è dedicato ad un’analisi della pestilenza intesa come, per usare le parole di Natalino Sapegno, “una malattia da diagnosticare e da curare, in un disteso ragionamento attento e preciso, critico e pungente, su come questo male poté sorgere e diffondersi, su quello che le autorità fecero per ripararvi, che cosa credettero gli uomini di scienza, come si comportò il popolo”. Viene messo in luce il “delirio dell’unzioni”, la credenza popolare, cioè, che vi fossero degli “untori”, dei malevoli propagatori della pestilenza e come tale credenza conducesse ad una “pubblica follia”. Nel capitolo XXXIV, Renzo si ritrova per le vie di Milano in preda alla pestilenza. Emerge allora una delle vittime delle pratiche di restrizioni e della paura diffusa: una “povera donna, con una nidiata di bambini intorno”, la quale, da un terrazzino, implora Renzo di recarsi dal commissario per avvertirlo che “siamo qui dimenticati” (“ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci hanno inchiodato l’uscio, come vedete, e da ier mattina, nessuno è venuto a portarci da mangiare”). Fino al toccante incontro con la madre di Cecilia che consegna ai monatti il cadavere della sua bambina e all’accusa di essere un untore di cui è vittima lo stesso Renzo, il celebre “dagli all’untore”, una vera e propria caccia alle streghe generata dalla follia collettiva, la ricerca del capro espiatorio per scongiurare la propagazione del morbo (inutile dire che, anche in questo tristo periodo che ci troviamo adesso a vivere, i cosiddetti runner e chi fa passeggiate vengono considerati quasi alla stregua di “untori”).

Un contagio immaginario dai risvolti horror è quello narrato da Edgar Allan Poe in un racconto contemporaneo al romanzo manzoniano, La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death, 1842). Di fronte all’epidemia della Morte Rossa, una pestilenza che riduce le vittime a poltiglie sanguinolente, il principe Prospero e la sua corte si rinchiudono in un castello conducendo una vita all’insegna del lusso e dello sfarzo. Ma durante una festa di carnevale, la maschera della Morte Rossa si insinua nei saloni del castello, diffondendo morte e devastazione. Se qui la chiusura egoistica di una classe ricca e aristocratica nei confronti del popolo porta a una autodistruzione, in un altro racconto, Re Peste (King Pest, 1840), l’ibridazione conduce alla salvezza due allegri marinai ubriachi che si erano avventurati all’interno della zona di Londra sottoposta alla quarantena per una epidemia di peste. I marinai, penetrati di notte in un lugubre e desolato quartiere, incontreranno il Re Peste in persona e avranno la meglio sulla dimensione dell’orrore che si sprigiona dal Re e da altri orrifici personaggi. Riusciranno quindi a fuggire verso la loro goletta ormeggiata sul Tamigi portando addirittura con sé la Regina Peste e l’arciduchessa Ana-Peste.

Un contagio immaginario che giunge da un Oriente lontano e sconosciuto ci viene offerto dal già citato Dracula (1897) di Bram Stoker. Il vampiro assume la valenza di un sovvertitore ‘demonico’ dell’ordine costituito che porta con sé la malattia del vampirismo, la quale si diffonde tramite il contagio (proprio come la sifilide, una temutissima malattia dell’epoca) nell’universo capitalista della Londra vittoriana. Come un ‘nomade’ che giunge da steppe lontane, Dracula insinua la sua epidemia nel razionale Occidente che pretende di dominare, tramite l’imperialismo, i lontani territori orientali. Dracula, un essere metamorfico capace di trasformarsi in lupo e in pipistrello, rappresenta una figura ancora vicina alla natura e alle sue dinamiche; ed è proprio per questo che muove il suo attacco al cuore razionale dell’Occidente, una Londra segnata dalla recente Rivoluzione Industriale, dove l’uomo, pretendendo di dominarla e asservirla, si sta inesorabilmente allontanando dalla natura. Interessante, in questo senso, è la rilettura cinematografica che del romanzo ha offerto Werner Herzog con Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, Phantom der Nacht, 1979). Nel film, che riprende il nucleo narrativo di Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens (1922), di Friedrich W. Murnau, Dracula giunge a Wismar, la cittadina sul mar Baltico che rappresenta la Londra vittoriana, accompagnato da miriadi di ratti. È grazie a questi ultimi che si diffonde la peste in città e tutti gli organi del controllo, dal sindaco al capo della polizia, vengono falcidiati dalla malattia; come scrive Boccaccio nell’introduzione del Decameron, “li ministri et esecutori” delle leggi “erano tutti morti o infermi, o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare”. Il vampiro è il sovvertitore totale che, come un nuovo Dioniso, si insinua nella regolare vita cittadina scandita dal commercio. Egli porta con sé il tempo dell’immaginario che si contrappone al tempo razionale del lavoro e della routine quotidiana. Il vampirismo che si trasmette per mezzo del contagio equivarrebbe quindi quasi a una nuova pratica di immaginario liberata dalle dinamiche coercitive dell’economia e del lavoro.

Albert Camus, con La peste (1947), rappresenta un’epidemia immaginaria che diviene quasi la metafora della presenza del dolore nell’esistenza dell’uomo. Come afferma il dottor Rieux nel romanzo, la peste, come il dolore, può tornare sempre a sconvolgere i normali ritmi della quotidianità e della vita: “Ascoltando, infatti, i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce, e che forse verrebbe un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.

In Non dopo mezzanotte (Not after Midnight, 1971), di Daphne Du Maurier, il narratore e protagonista parla di un virus che ha contratto durante una vacanza a Creta e che lo ha costretto a dimettersi dalla sua professione di insegnante. A suo parere, la malattia è frutto di “una antica magia, insidiosa, perfida, le cui origini si perdono negli albori della storia. Basta dire che il primo a compiere questa magia si ritenne immortale e contagiò gli altri con una gioia sacrilega, spargendo nei suoi discendenti, per tutto il mondo e nel corso dei secoli, i semi dell’autodistruzione”. Si tratta di una contaminazione che affonda le sue radici nell’antichità, un contagio che sembra provenire da un’arcaica dimensione del mito. Come se lo stesso contagio volesse prendersi la rivincita sulla civiltà umana eccessivamente razionale, una civiltà che si è allontanata da una dimensione in cui il rispetto per gli antichi rituali era direttamente collegato al rispetto per la natura.

Rivolgendo il nostro sguardo al cinema, è interessante ricordare un film di Lars von Trier, Epidemic (1987), in cui, in forma metacinematografica, è narrata la propagazione di una terribile pestilenza. Nel film di primo grado, il regista e lo sceneggiatore decidono di raccontare le vicende legate a un’epidemia di peste e vi si trovano improvvisamente immersi. Nel film di secondo grado, un medico idealista decide di curare la peste fino a che non scopre di essere proprio lui il portatore della malattia. La società devastata dal contagio, che vediamo in immagini marcate con la scritta rossa del titolo del film, è segnata da un irrefrenabile processo di accelerazione: ad esempio, in mezza giornata si diventa dentista e basta un giorno per diventare pilota d’aereo. Le autorità mediche decidono di barricarsi dentro le mura della città e discutono della formazione di un nuovo governo interamente composto da medici: i vari ministeri verranno assegnati in base alle singole specializzazioni. Von Trier, con questo film, non mette in scena un vero e proprio horror, ma una narrazione all’insegna dell’ironia: manca quel misto di orrore e fascinazione con il quale, ad esempio, David Cronemberg guarda ai corpi infetti dei suoi personaggi in Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), in cui un parassita che risveglia gli istinti infetta gli abitanti di un complesso residenziale.

Parlando di contagi immaginari nel cinema non possiamo poi non ricordare l’infezione che, negli zombie-movie, trasforma gli esseri umani in zombie, cadaveri redivivi, esseri abulici che sono massa indifferenziata, automi privi di emozioni che si muovono in modo meccanico. Il più grande autore di questo genere di film è sicuramente George A. Romero, creatore di una memorabile trilogia: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), Zombi (Down of the Dead, 1978), Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985). Il contagio trasforma gli uomini in esseri abulici che possono diventare anche la metafora della condizione dei fruitori della società dei consumi, di quella televisiva e digitale, sottoposti a un continuo lavaggio del cervello da parte dei più svariati media di massa. Un film che collega in modo suggestivo le tematiche della propagazione del virus all’abulia degli zombie è Invasion (The Invasion, 2007), di Oliver Hirschbiegel, ispirato al celebre film di Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956). Un virus alieno, scambiato per una normale influenza, è capace di penetrare nella mente degli uomini durante il sonno, trasformandoli in esseri disumani, privi di emozioni ma con l’aspetto esteriore inalterato. Comunque, parlando di zombie-movie, è doveroso ricordare uno fra i più recenti film appartenenti a questo filone, I morti non muoiono (The Dead Don’t Die, 2019) di Jim Jarmusch, che racconta la propagazione di una epidemia zombie nella cittadina rurale di Centerville. Tutti gli abitanti, progressivamente, si trasformano in zombie che vengono rappresentati come segnati dalla smania di appropriarsi di beni di consumo nei confronti dei quali, da vivi, provavano attrazione. Tutta la vicenda della propagazione del contagio viene guardata dalla prospettiva dell’eremita Bob, un personaggio che vive a stretto contatto con la natura, considerato come pericoloso e strano dagli abitanti della cittadina. Per mezzo del suo sguardo viene implicitamente svolta una critica alla società massificata che trasforma gli esseri umani in veri e propri zombie. Emblematico, in questo senso, è il commento finale di Bob che suggella il film: mentre osserva con un binocolo la scena della lotta in cui i due poliziotti Cliff e Ronny, fra i pochi a non essere ancora contagiati, vengono sconfitti dagli zombie, egli si lamenta della realtà che lo circonda, definendola “un mondo di merda”.

È sicuro che anche noi, per riprendere la battuta del film, ci troviamo in un “mondo di merda”: un mondo devastato dalle logiche del profitto capitalista che non guardano in faccia a niente e a nessuno, tanto meno all’ambiente e alla natura. Un mondo che adesso, come conseguenza della situazione di emergenza causata dalla propagazione del coronavirus, rischia di essere attraversato da un sempre maggiore controllo pervasivo e diffuso. E se abbiamo dato uno sguardo a diversi contagi immaginari, adesso ne dobbiamo affrontare uno ben reale: un contagio che non è rappresentato solo dalla diffusione del virus, ma anche dalla diffusione della paura, della delazione, del controllo, di un potere sempre più pervasivo e inconsistente. È per questo che sono sempre più necessari antidoti di resistenza a questo scontato ordine delle cose e, sicuramente, l’immaginario che scaturisce dalla letteratura e dal cinema può essere uno di questi. Che essi possano contribuire, nel loro piccolo, a creare nuovi spazi reali liberati da qualsiasi dinamica di controllo e di coercizione.

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Linee di fuga. Pratiche di rischio e ridefinizione dell’esistenza https://www.carmillaonline.com/2018/01/09/linee-di-fuga-pratiche-di-rischio-e-ridefinizione-dellesistenza/ Mon, 08 Jan 2018 23:02:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42340 di Gioacchino Toni

il rischio […] è il prezzo che ogni uomo paga ad ogni istante per riscattare la propria libertà […] Cercare di non correre rischi […] sgnifica condannarsi a non cambiare le cose, anche se non sono ideali (David Le Breton)

Uscito in Francia nel 2012, è da poco stato tradotto in italiano il volume Sociologia del rischio (Mimesis, 2017) di David Le Breton, opera in cui il docente di Sociologia e Antropologia presso la Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Strasburgo, oltre ad analizzare le principali tipologie di insicurezza sociale che caratterizzano l’attualità, si sofferma sul ruolo giocato [...]]]> di Gioacchino Toni

il rischio […] è il prezzo che ogni uomo paga ad ogni istante per riscattare la propria libertà […] Cercare di non correre rischi […] sgnifica condannarsi a non cambiare le cose, anche se non sono ideali (David Le Breton)

Uscito in Francia nel 2012, è da poco stato tradotto in italiano il volume Sociologia del rischio (Mimesis, 2017) di David Le Breton, opera in cui il docente di Sociologia e Antropologia presso la Facoltà di Scienze sociali dell’Università di Strasburgo, oltre ad analizzare le principali tipologie di insicurezza sociale che caratterizzano l’attualità, si sofferma sul ruolo giocato dal rischio e dalla paura nella vita degli individui, soprattutto giovani, nella contemporaneità.

«Il rischio è una rappresentazione sociale, prende dunque forme mutevoli da una società e da un periodo storico all’altro, secondo le categorie sociali, e anche oltre, poiché le apprensioni delle donne differiscono da quelle degli uomini, quelle dei più giovani da quelle degli anziani, ecc.» (p. 37). Nella società contemporanea sembrano convivere una preoccupazione politica di riduzione dei rischi (incidenti, malattie e catastrofi di ogni tipo) e una ricerca individuale di sensazioni forti. Solitamente il rischio è vissuto come una minaccia all’equilibrio, un’alterità che sfugge al controllo ma, a volte, è proprio per infrangere quell’equilibrio percepito come routine, che gli individui si assumono deliberatamente dei rischi al fine di ridefinire l’esistenza.

L’ossessione per la sicurezza che permea la società contemporanea finisce spesso con il soffocare la possibilità per l’individuo di realizzazione e di esplorazione dell’ignoto. «La richiesta di sicurezza si traduce con la volontà di un controllo sempre maggiore delle tecnologie, dell’alimentazione, della salute, dell’ambiente, del trasporto, addirittura della civiltà, ecc. Il rischio ormai non è più una fatalità, ma un fatto di responsabilità e diviene una posta in gioco politica, etica, sociale, oggetto di numerose polemiche intorno alla sua identificazione e quindi ai mezzi per prevenirlo» (p. 16).

Oltre a un uso del rischio come strumento di controllo e di preservazione dell’esistente, nella società contemporanea è individuabile anche una ricerca del rischio da parte di individui che, secondo Le Breton, al contrario, intendono infrangere quello che percepiscono come mortifero stato delle cose. Il sociologo legge nei comportamenti a rischio delle giovani generazioni «un gioco simbolico o reale con la morte, una messa in gioco di se stessi, non per morire, tutt’altro, ma con la possibilità non indifferente di perdere la vita o di conoscere l’alterazione delle capacità simboliche dell’individuo […] Essi sono indice […] di una voglia di vivere insufficiente. Sono un ultimo sussulto per estirparsi da una sofferenza, mettersi al mondo, partorire se stessi nella sofferenza per accedere infine a un significato di sé e riprendere la propria vita in mano» (pp. 17-18).

A partire dalla fine degli anni Settanta si sono diffuse in Occidente pratiche sportive estreme votate a «una ricerca d’intensità d’essere» minacciata da una vita eccessivamente regolata da quel rappel à l’ordre seguito ad un decennio di diffusa pratica del desiderio. «Il gioco simbolico con la morte è quindi piuttosto motivato da un eccesso di integrazione, è una maniera radicale di fuggire la routine». Tanto tra i più giovani, quanto tra coloro che praticano sport estremi, «si tratta d’interrogare simbolicamente la morte per sapere se vivere vale la pena. Lo scontro con il mondo ha lo scopo di costruire del senso per avere finalmente al gusto di vivere o per mantenerlo» (p. 18). Siamo pertanto di fronte, sostiene Le Breton, alla volontà di abbandonare i punti di riferimento abituali per intraprendere un’esperienza sconosciuta rischiosa e, nei casi in cui il rischio venga deliberatamente cercato o accettato, questo si rivela una risorsa identitaria.

«La risposta alla relativa precarietà dell’esistenza consiste proprio in quest’attaccamento a un mondo il cui godimento è limitato. Ha valore solo quello che può andare perduto e la vita non è mai acquisita una volta per tutte come un’entità chiusa e garantita di per sé» (p. 30). Il vero pericolo nella vita, suggerisce lo studioso, deriverebbe piuttosto dal non mettersi in gioco, dall’accettare la routine senza mai tentare d’inventare né nel rapporto col mondo, né nella relazione con gli altri esseri umani. «L’individualismo contemporaneo riflette il fatto che il soggetto si definisce attraverso i propri riferimenti. Questi non è più sorretto da regole collettive esterne ma costretto a trovare in se stesso le risorse di senso per restare attore della propria esistenza […] L’individualizzazione del senso aumenta il margine di manovra dell’individuo all’interno del tessuto sociale, gli lascia la scelta delle proprie decisioni e dei propri valori […] slega in parte l’individuo dalle antiche forme di solidarietà, dai percorsi un tempo ben definiti che rafforzavano le appartenenze di classe, d’età, di genere» (pp. 32-33).

Nei contesti popolari caratterizzati da disoccupazione e precarietà economica, l’esistenza tende a tradursi in un senso di insicurezza che impedisce ai soggetti di proiettarsi positivamente nel futuro. La deregolamentazione dell’attività lavorativa «porta i dipendenti a una relazione individualizzata con il proprio lavoro, a una rivalità tra di loro, a un’incertezza sulla durata del contratto nell’impresa, a una flessibilità difficile da vivere… La scomparsa del lavoro e della società salariale quale centro di gravità dell’esistenza individuale e famigliare spezza ogni legame con uno spazio privilegiato e alimenta l’occupazione precaria. […] Il liberalismo economico frantuma le antiche forme di solidarietà e prevedibilità, instaurando una concorrenza generalizzata, porta a un contesto di divisione sociale, di dispersione del simbolico che tiene raramente in conto l’altro» (pp. 32-34).

Se liberamente scelto, il rischio può anche essere un modo per riprendere il controllo di un’esistenza in balia dell’incertezza o della monotonia; nella condotta rischiosa può essere intensificato o ritrovato il gusto di vivere. Spesso gli studi sulla società del rischio analizzano quest’ultimo solo collegandolo negativamente ai pericoli, come se si trattasse esclusivamente di una minaccia a cui si deve fuggire. Raramente viene preso in considerazione il fatto che il rischio può essere anche «un piacere che si trasforma in modo di vivere» (p. 96). Non a caso Le Breton dedica qualche passaggio al celebre romanzo di James G. Ballard, Crash (1973), tradotto cinematograficamente dall’omonimo film del 1996 di David Cronemberg, ricordando come «l’incidente, che sia spettacolare o diluito nella banalità dei giorni, come la morte sulle strade, [sia] una delle vie maestre dell’immaginario sociale contemporaneo» (p. 52).

Nel corso degli anni Ottanta si diffondono tra i rappresentanti delle classi medie e privilegiate occidentali attività fisiche e sportive votate al rischio; la sicurezza economica di cui dispongono costoro «induce, come contrappeso, alla ricerca di un’intensità dell’essere che manca loro nella vita quotidiana. Sono, inoltre, soprattutto gli uomini che si dedicano a queste pratiche volte a sviluppare la capacità di resistenza, di accettazione del dolore o della ferita, la volontà di essere all’altezza, il gusto del rischio, il controllo della paura, ecc., valori tradizionalmente associati alla “virilità” […] Giocare con il rischio è la strada maestra per rompere le routine e “ritrovare le proprie sensazioni”» (p. 97).

L’avventura rischiosa a cui ci si sottopone, sostiene Le Breton,

è una sospensione radicale dei vincoli dell’identità e delle routine della vita quotidiana e professionale […] dove l’individuo non deve più nulla agli altri nel suo avanzare […] La moltiplicazione delle attività fisiche e sportive ad alto rischio va di pari passo con una società dove, per un numero crescente dei nostri contemporanei, vivere non è più sufficiente. Bisogna provare il fatto di esistere e mettersi alla prova da soli per decidere che valore dare alla propria vita […] La nuova avventura è una forma contemporanea di spettacolo sportivo che valorizza l’individuo in un impegno fisico di lunga durata dove il rischio di morire non è trascurabile, se non addirittura al centro del progetto. Negli anni Ottanta, questa nuova avventura si è imposta come un giacimento fertile e significativo della mitologia occidentale […] Il gioco con il rischio moltiplica le sue sensazioni e il sentimento di scappare dalla sua vecchia condizione, di rimettersi pienamente al mondo. Questo mettersi in pericolo può arrivare fino all’ordalia, alla ricerca di sensazioni forti […] Il dolore che si prova è una sorta di sostegno dell’esistenza, una garanzia per vivere dopo aver sormontato un’avversità creata ex-novo (pp. 98-100).

Ed è proprio nello «scontro fisico col mondo» che l’individuo cercherebbe i propri riferimenti tentando di mantenere il controllo su un’esistenza che sembra altrimenti sfuggirgli. «I limiti prendono allora il posto dei limiti di senso che non riescono più a instaurarsi. Attraverso la frontalità della sua relazione col mondo, l’individuo moderno cerca deliberatamente degli ostacoli; mettendosi alla prova, si dà l’opportunità di trovare i riferimenti di cui ha bisogno per produrre la propria identità personale» (p. 101).

Numerose attività fisiche e sportive delle giovani generazioni sono altrettanti modi di sentirsi vivi attraverso l’impegno fisico, la stanchezza, il dolore, la sensazione del pericolo. La pelle, il sudore, le sensazioni fisiche, il dolore muscolare sono degli agganci al mondo reale che permettono di provare la propria consistenza. Anche se i punti di partenza sono di un altro ordine, le attività fisiche e sportive di certi adolescenti non sono molto distanti dai comportamenti a rischio per il gusto che li caratterizza di andare sempre più lontano, una passione dell’eccesso. Ma esse sono socialmente valorizzate, non soltanto dalle giovani generazioni che vi trovano un terreno di emulazione e di comunicazione, ma anche dall’insieme della società che vi vede un’affermazione ludica della gioventù. I valori come il coraggio, la resistenza, la vitalità, ecc., vengono celebrati e abbondantemente utilizzati nelle campagne pubblicitarie o di marketing. In una società della competizione, della performance, le giovani generazioni sono inclini a dedicarsi con foga alle attività fisiche e sportive dette “ad alto rischio” dove il gioco con il limite è un elemento fondamentale. Queste generazioni vi trovano una forma incontestabile di narcisismo, alimentando la convinzione di essere al di sopra della massa, virtuose, e di far parte degli eletti […] Il rischio è per le giovani generazioni anche una risorsa per costituirsi come soggetti. La negazione della morte, del pericolo, la preoccupazione costante per la sicurezza fanno della messa in pericolo di sé l’ultima possibilità di appropriarsi di una relazione personale con la propria esistenza in un mondo nel quale il giovane non si sente riconosciuto (pp. 101-102).

Insomma, l’espressione “comportamenti a rischio” finisce con il riunire una serie di pratiche che mettono, simbolicamente o realmente, in pericolo la vita e risultano  accomunate dall’esposizione deliberata dell’individuo al rischio di procurarsi dolore o morte, al fine di alterare il proprio futuro. «I comportamenti a rischio mettono in pericolo le potenzialità del giovane, minacciano le sue possibilità d’integrazione sociale, e spesso riescono, come nel vagabondaggio, nello “sballo” o nell’adesione a una setta, a spezzare i vincoli dell’identità in una volontà di scomparsa da se stessi […] L’agire è un tentativo psichicamente economico di sfuggire all’impotenza, alla difficoltà di pensarsi, anche se può essere carico di conseguenze» (p. 103).

Mentre nelle ragazze, solitamente, i comportamenti a rischio assumono forme discrete e silenziose (come i disturbi alimentari, le pratiche di autolesionismo e i tentativi di suicidio), nei ragazzi si traducono più facilmente in esposizioni di sé, e a volte di altri, magari sotto lo sguardo dei propri simili, in episodi di violenza, di delinquenza e di abuso di droghe. «I comportamenti a rischio riguardano giovani di tutte le fasce sociali, anche se ogni condizione sociale vi lascia il proprio segno. Un giovane di ceto popolare che non si sente bene con se stesso sarà più incline alla piccola delinquenza o alle dimostrazioni di virilità sulla strada o con le ragazze, mentre un giovane di un ceto più abbiente avrà, per esempio, più facile accesso alle droghe» (p. 104).

Secondo Le Breton è la voglia di vivere a dominare quei comportamenti a rischio giovanili che si manifestano come un’interrogazione dolorosa del senso della vita. «I comportamenti a rischio sono riti intimi di contrabbando che mirano a fabbricare un senso per poter continuare a vivere […] Il sentimento di essere di fronte a un muro invalicabile, un presente che non finisce mai. La sofferenza traduce il sentimento di essere privi di qualunque avvenire, di non poter costruirsi come soggetto. Se non è nutrita di progetti, la temporalità dell’adolescente si schianta contro un presente eterno che rende insuperabile la situazione dolorosa. Si declina giorno per giorno. Non ha la fluidità che permette di passare ad altro» (p. 105). I comportamenti a rischio sarebbero, dunque, una ricerca, per quanto brancolante e dolorosa, di una via di fuga da un mondo ostile su cui non si riesce a intervenire.


Linee di fuga: serie completa

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Eversione politica ed insurrezione espressiva https://www.carmillaonline.com/2016/06/29/eversione-politica-ed-insurrezione-espressiva/ Wed, 29 Jun 2016 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30940 di Gioacchino Toni

saccheggiate_louvre_Burroughs_cover_particEludere il controllo. Corpi mutanti e trasformazioni sensoriali in William S. Burroughs e dintorni

Nel febbraio del 2014, in occasione del centenario della sua nascita, l’Università degli studi di Salerno rende omaggio a William Seward Burroughs dedicandogli la rassegna “Saccheggiate il Louvre – Seminari ed eventi per i 100 anni di William Burroughs”. L’editore Ombre Corte, nel marzo del 2016, pubblica un saggio che raccoglie gran parte degli interventi presentati in occasione del convegno salernitano insieme ad alcuni altri scritti: Alfonso Amendola, Mario Trino (a cura di), Saccheggiate il Louvre. [...]]]> di Gioacchino Toni

saccheggiate_louvre_Burroughs_cover_particEludere il controllo. Corpi mutanti e trasformazioni sensoriali in William S. Burroughs e dintorni

Nel febbraio del 2014, in occasione del centenario della sua nascita, l’Università degli studi di Salerno rende omaggio a William Seward Burroughs dedicandogli la rassegna “Saccheggiate il Louvre – Seminari ed eventi per i 100 anni di William Burroughs”. L’editore Ombre Corte, nel marzo del 2016, pubblica un saggio che raccoglie gran parte degli interventi presentati in occasione del convegno salernitano insieme ad alcuni altri scritti: Alfonso Amendola, Mario Trino (a cura di), Saccheggiate il Louvre. William S. Burroughs tra eversione politica e insurrezione espressiva, Ombre Corte, Verona, 2016, 202 pagine, € 18,00. Tale testo si snoda lungo una successione tripartita che prende il via con alcuni contributi (Parte prima) che indagano la matrice politica di Burroughs, prosegue poi (Parte seconda) presentando tre scritti dello scomparso Antonio Caronia (autore di importanti studi a proposito di cyberpunk, mutanti, androidi, virtuale, postumano, ibridi uomo-macchina ecc.) e si conclude (Parte terza) con alcuni interventi che analizzano le tecniche di scrittura di Burroughs ed il suo rapporto con i media.

Da parte nostra passeremo in rassegna il volume seguendo un ordine differente: inizieremo dai contributi di Caronia, proseguiremo con i saggi che trattano William S. Burroughs tra cut-up, remix, musica underground, lingua teatralizzata, sonic weapons, shotgun paintings ed audiovisivi “infetti”… e termineremo con gli scritti che si concentrano su “Burroughs ed il politico”.

I tre interventi di Antonio Caronia raccolti in questo volume sono stati prodotti dallo studioso tra la fine degli anni ’80 ed i primi anni ’90. Il primo scritto, “Il sistema dei media nell’universo della fantascienza” (1990) [originalmente in: C. De Stasio, M. Gotti, R Bonadei (a cura di), La rappresentazione verbale e iconica: valori estetici e funzionali. Atti dell’XI Congresso nazionale dell’A.I.A., Bergamo 24-25 ottobre 1988, Guerini, Milano, 1990] individua nella scrittura burroughsiana la capacità di intercettare le trasformazioni sensoriali, individuali e sociali determinate dalla comunicazione elettronica. In tale intervento Caronia sostiene che del sistema dei media della seconda metà del Novecento, «di questa rete di audiovisivi che connette il pianeta via etere e lo trasforma in villaggio globale (o in una metropoli locale, il che forse è la stessa cosa), Burroughs coglie un carattere fondamentale, quello della trasparenza. Attraverso il collegamento punto-a-punto della radio e della televisione le distanze si annullano, il tempo si relativizza e noi riusciamo a vivere in un eterno presente, espanso a inglobare il lontano e il vicino, il passato e il futuro. Il mondo diviene trasparente, e questa trasparenza è per noi una garanzia della realtà del mondo» (p. 77).

Nella social science fiction, sostiene lo studioso, i mass media risultano metafora del potere, strumenti attraverso cui vengono create realtà artificiali che imprigionano l’essere umano attraverso pratiche di disciplinamento dei corpi. Tale intuizione, da parte della fantascienza più orientata verso la critica sociale ed antropologica, secondo Caronia, esprime «la consapevolezza del processo che vede i media costituirsi come vero e proprio corpo sociale complessivo a detrimento dei corpi individuali» (p. 78). Ad esempio, nel racconto di James Ballard In The Intensive Care Unit (Riunione di famiglia, 1977), viene presentata una società futura ove i corpi non possono entrare in contatto tra loro; tutti i rapporti debbono essere filtrati dal video. Anche nei racconti di Philip Dick il tema dell’espropriazione del corpo risulta ricorrete e viene affrontato soprattutto attraverso la figura dell’androide, come nel celebre Do Androids Dream of Electric Sheep? (Il cacciatore di androidi, 1968).

scanners009A proposito della capacità di certa fantascienza di percepire la problematica dello “statuto del corpo” nell’ambito delle trasformazioni produttive e sociali che attorno alla metà del Novecento iniziano a palesarsi, Caronia, oltre alla narrativa, fa riferimento anche ad una celebre produzione televisiva degli anni Ottanta: Max Headroom (1987-1988) di Annabel Jankel e Rocky Morton, opera che pone la questione del “corpo immateriale” nell’epoca dell’immagine elettronica.
Ancora una volta, secondo Caronia, «la fantascienza, più che veicolo di anticipazione, più che discorso futurologico divulgativo, usa il presente, lo scava, ne estrae le tendenze e caratteristiche sotterranee, in una competizione/emulazione inviabile fra parola e immagine» (p. 80), come ben testimoniano le produzioni cyberpunk. William Gibson, in particolare, «nei suoi romanzi introduce una nuova figurazione che sta già diventando convenzione narrativa, quella del cyberspace, lo spazio virtuale interno al computer nel quale si muovono gli operatori più abili connessi alla macchina per via neuronale» (pp. 80-81). Parola ed immagine, da questo punto di visto, a queste latitudini, ci parlano di un “nuovo corpo sintetico” dato dall’intrecciarsi sempre più inestricabile di naturale ed artificiale.

Caronia, nel suo secondo intervento, “Immaginari a confronto: William S. Burroughs e James Ballard” (1992) [originalmente in: A. Caronia, Archeologie del virtuale. Teorie, scritture, schermi, Ombre Corte, Verona, 2001], propone un’analisi comparata dei testi di William S. Burroughs e di James Ballard soffermandosi soprattutto su Naked Lunch, opera in cui lo studioso individua «l’irreparabile urgenza di rappresentare, nella sua incontenibile virulenza, i processi di degradazione della carne, la purulenta carne del tossicodipendente, sui cui destini si esercitano le violentissime guerre del potere nell'”universo concentrazionario e occlusivo del controllo e della droga» (p. 76).
In questo scritto viene sottolineato come Naked Lunch, nonostante la sua destrutturazione narrativa e la mescolanza di stili differenti, riesca a coinvolgere il lettore grazie soprattutto al suo saper trasmettere una «stringente sensazione di necessità» (p. 83). In tale romanzo non viene ancora fatto ricorso al metodo del cut-up e l’effetto straniante, che comunque lo contraddistingue, deriva, secondo lo studioso, dall’urgenza della scrittura. «Quello che Il pasto nudo ci offre è insomma uno sguardo sull’universo concentrazionario e occlusivo del controllo e della droga. Da qui prende l’avvio quella particolarissima “continuità” che lega l’uno all’altro tutti i libri di Burroughs almeno fino a Nova Express […] e che ruota attorno al tema del controllo e del complotto» (p. 84) e, continua lo studioso, le «”aree psichiche” esplorate da Burroughs diventano qui delle aree geografiche in senso letterale, paesi fantastici che servono da sfondo e da commento alle azioni dei personaggi» (p. 84). Dunque, la galleria di figure che scorre davanti agli occhi del lettore «è innanzitutto la loro carne malata di droga in continua trasformazione, e le parole che la descrivono, un flusso di parole in caduta libera» (p. 85). Naked Lunch, attraverso la magmaticità del linguaggio, mette in scena il decadimento, la trasformazione, la dissoluzione e la perdita del corpo umano. In Burroughs però, sostiene lo studioso, non vi è alcuna visione romantica dell’innocenza originaria del corpo; il corpo è malato in quanto tale e lo è irreparabilmente.

James Ballard, una decina di anni dopo l’uscita di Naked Lunch di Burroughs, è alle prese con i suoi condensed novels poi raccolti in The Atrocity Exhibition (1970), tradotti in italiano soltanto nel 1990 proprio da Antonio Caronia con il titolo La mostra delle atrocità. A proposito di tale raccolta, sostiene lo studioso, «non c’è altro testo, forse, che sollevi temi analoghi e che possa stare al pari del libro di Burroughs quanto a intensità e lucidità della visione» (p. 87). Da una costola di questo libro di Ballard nasce il romanzo Crash (1975) che ha nella mutazione del corpo il suo nucleo fondamentale. In questo caso la mutazione viene indagata «attraverso una violenta e catastrofica variante del matrimonio tra corpo e tecnologia: la compenetrazione del corpo e della macchina nell’incidente automobilistico» (p. 87). In Ballard, dunque, interno ed esterno del corpo, corpo e mondo si compenetrano diventando «un luogo neutro e indistinto in cui si va registrando, con una scrittura crudele e impietosa, la fine della modernità» (p. 87)

nl_cronembergNel terzo intervento, “Il pasto nudo. Storia di un testo” [scritto per il saggio Naked Lunch messo in cantiere da Telemaco Edizioni nel 1992 ma mai pubblicato], Caronia ricostruisce brevemente la faticosa genesi del celebre romanzo di Burroughs a partire dalle difficoltà nel trovare un editore e, soprattutto, una diffusione in America a causa dei tanti problemi di censura.

La parte di Saccheggiare il Louvre che si occupa del rapporto di Burroughs con le arti mediali prende il via con il contributo di Vito Campanelli, Lieterary Cut-Ups. Le radici letterarie della cultura del remix”, in cui lo studioso intende verificare se la figura di Burroughs può essere collocata tra i fondatori di quello che oggi è divenuto un vero e proprio fenomeno di massa: la “cultura del remix”. Se è pur vero che ogni epoca ha fatto ricorso a frammenti di produzioni precedenti, è indubbio che mai come nell’età contemporanea si può parlare di cultura del remix come tratto distintivo. La diffusione di strumenti di post-produzione che permettono di campionare e sovrapporre fonti diverse, la moltiplicazione delle fonti a cui si può accedere ovunque ed in ogni istante e la tendenza a riversare in formato digitale quanto prodotto precedentemente dalla cultura analogica, sono alcuni dei motivi che permettono alla cultura del remix di caratterizzare la contemporaneità. Inoltre, le ingenti quantità di informazioni a disposizione richiedono memorie artificiale in grado di contenerle in maniera modulare, dunque immediatamente disponibili ad operazioni di remix.
Campanelli, che segnala come le radici della tecnica burroughsiana del cut-up possono essere individuate nelle sperimentazioni della poetica dadaista di inizio Novecento, sottolinea come ricorrendo al “gioco modulare” dei frammenti, Burroughs possa «andare oltre la definitività, quasi la sacralità, dei testi per aprire ad opere e visioni che non possono mai dirsi finite, concluse, appunto, definitive […] Anche i concetti di autorialità ed originalità sono messi fortemente in discussione attraverso i cut-up» (pp. 101-102). L’operazione burroughsiana contribuisce ad esplicitare come innovazione ed originalità non siano ormai più possibili.

Sono diversi anche i musicisti sperimentali contemporanei che hanno contribuito a diffondere la cultura del remix; si pensi alle pratiche di campionatura che rendono l’opera mai davvero conclusa in quanto chiunque può riprendere il lavoro e modificarlo ulteriormente. Proprio ai musicisti lo studioso concede un ruolo privilegiato nella diffusione di tale cultura perché più che alle fonti dell’avanguardia artistica è al mondo musicale che si deve la comprensione profonda del remix. Campanelli ricostruisce brevemente i punti salienti della storia del remix musicale a partire dalle pratiche dei DJ giamaicani che, a fine anni Sessanta, utilizzano basi ritmiche preregistrate per poi riarrangiarle. È in queste pratiche musicali che si devono ricercare le radici della cultura del remix e non nell’avanguardia dada primonovecentesca o nel cut-up burroughsiano. A suffragio di tale ipotesi nello scritto vengono riportate le riflessioni della studiosa statunitense Rosalind Krauss (L’originalità dell’avanguardia) che vede nelle avanguardie storiche il permanere del mito modernista dell’originalità; «l’originalità avanguardista è concepita come un’origine in senso proprio, un inizio a partire da niente. Un concetto questo che è incompatibile con la prospettiva del remix che si fonda proprio sul riutilizzo creativo del passato» (p.103). A differenze delle avanguardie storiche, la contemporaneità avrebbe una maggior consapevolezza di come il concetto di originalità sia ormai completamente andato in frantumi a causa dei processi di automazione nella produzione, riproduzione e distribuzione oltre che, a parere nostro, a causa di pratiche di esproprio, di appropriazione, votate ai commons, alla conquista ed alla condivisione di beni comuni in ostilità all’industria culturale ed al concetto di proprietà autoriale.

Se la rivoluzione del remix ha fatto saltare le rigide distinzioni tra autore e fruitore, tra emittente e ricevente, sostiene Campanelli, il mercato dell’arte ha reagito a ciò “commercializzando l’aura”; «Nell’attuale mercato dell’arte, infatti, ciò che si vende e si compra è l'”aura”, ovvero la possibilità di definire qualcosa come arte e in tale ottica, l’originalità dell’opera, la possibilità di attribuirne la paternità al genio solitario del presunto artista di turno, diventa l’aspetto nodale» (p. 104).
Secondo lo studioso «la cultura del remix rappresenta l’approdo finale di quel processo di sgretolamento di quel mito modernista dell’originalità che, sotto una serie di spinte concentriche (economiche, sociali, culturali e tecnologiche), giunge al pieno compimento con il diffondersi su scala planetaria dei media digitali» (p. 105).
I cut-up burroughsiani sembrerebbero un tentativo di sottrazione ai ruoli prescritti dalle principali istituzioni: famiglia, scuola, azienda, moda e comunicazione dei media. Attraverso operazioni di remix, come il cut-up, si possono sperimentare strade differenti da quelle tracciate ma, sottolinea Campanelli, «Il problema diventa, in ultima analisi, quello di capire quali condizioni devono verificarsi affinché le pratiche remixatorie attuali possano sottrarsi a quelle forme di creatività indotte dalla Rete, omologanti, massificanti al massimo grado, come nel caso delle memi, le idee-virus che si diffondono con enorme rapidità nel Web. In definitiva, quali sono le condizioni perché il remix possa accogliere l’eredità dei cut-up letterari divenendo una pratica per sottrarsi agli stampi prefabbricati dell’auto-identità?» (p. 106).

Bacon-Studies-Self-PortraitNel contributo The cut-up up the cut the up cut. Le rivoluzioni linguistiche e metodologiche di William S. Burroughs” di Linda Barone e Gerardo Guarino, gli autori si soffermano soprattutto sul rapporto tra Burroughs e la musica, mettendo in luce come una parte non irrilevante della scena musicale underground «in pieno stile cut-up, abbia tagliato frammenti del messaggio e dell’opera di Burroughs e se li sia cuciti addosso sotto forma di citazioni, tecniche del cut-up e fold in, dreamachine, ma soprattutto imparando il suo linguaggio, facendo propria la sua cultura, ergendosi spesso a parte attiva e spinta rinnovatrice diventando veicolo di un cambiamento con l’obiettivo di ricostruire il sistema sociale» (p. 108).

Il concetto di parola/lingua come strumento di controllo compare in molta della produzione burroughsiana e, secondo lo scrittore americano, se le droghe, il potere ed il sesso attivano un controllo sul corpo, la lingua esercita il suo controllo sulla mente ed è perciò necessario ricorre a tecniche come il cut-up al fine di sottrarsi a tale controllo. Gerardo Guarino, riprendendo le riflessioni di Matteo Boscarol (William Burroughs, Rock and Roll Virus. Conversazioni con: David Bowie, Patti Smith, Blondie, Devo) sottolinea come «le tematiche dell’eccesso, delle droghe, del viaggio psichedelico da una parte e quelle del controllo, dell’alienazione, della mutazione e dello spazio, dall’altro, come rifugio per l’essere umano, via di fuga dal controllo e dal condizionamento della pattumiera dell’establishment che reprime l’uomo sono topoi, luoghi, quartieri (boroughs in altre parole) centrali in certi ambienti musicali» (p. 122). Tra i musicisti che, nel corso degli anni Settanta ed Ottanta, sono stati influenzati, seppure in modo diverso, dalla cultura burroughsiana lo studioso cita: David Bowie, Patti Smith, Lou Reed, Mick Jagger, Bob Dylan, John Cage, Philip Glass, Laurie Anderson, Frank Zappa, Ian Curtis, Nick Cave, Kurt Cobain, Lydia Lunch, David Johanesen, Tom Waits… e gruppi come: Blondie, Devo, Cabaret Voltaire, Throbbing Gristle, Ramones, Sonic Youth, The Future…

Vincenzo Del Gaudio, nel suo “Il segno e il caso: William S. Burroughs tra scrittura e teatro”, affronta il processo che porta la parola scritta dal foglio alla voce trasformandola in suono declamato ed udito. La tecnica del cut-up in Burroughs, dopo aver frantumato e fatto esplodere la consequenzialità del discorso-potere, ha lo scopo di creare una nuova lingua e come prerequisito il principio della teatralizzazione della parola che «non è una semplice operazione di rappresentazione, ma ha come scopo principale rendere la lingua creata non una mera lingua rappresentabile, ma una lingua teatrabile, ovvero, da ultimo, una lingua declamabile» (pp. 128-129). La teatralizzazione in Burroughs richiede «un’attivazione sonora della lingua, attraverso un teatro della voce senza attore, attraverso una messa in presenza della lingua» (p. 129). Dunque, sostiene Del Gaudio, «La lingua di Burroughs è un corpo teatrale, un corpo teatro, una scrittura dove “non c’è più spettacolo possibile, ci sono soltanto lo scontro, la mischia con il mondo, le attrazioni e le repulsioni” [Jean-Luc Nancy, Corpo teatro]» (p. 129). La scrittura burroughsiana, per dirla con Roland Barthes (Variazioni sul tema), è una “scrittura ad alta voce”, legata al respiro, alla vita, che «biologizza la macchina di scrittura» (p. 130).

A partire da tali premesse, Del Gaudio passa ad analizzare lo spettacolo The Black Rider: The Casting of Magic Bullets, realizzato da Burroughs insieme al regista Robert Wilson ed al musicista Tom Waits, andato inscena per la prima volta ad Amburgo nel 1990. Tale spettacolo è descritto dallo studioso come «un’eroica messa in vita operativa della lingua che si fa suono e respiro e che diventa una lingua teatralizzata, un’oscena voce oscura che proviene dalla black box, una voce metallica filtrata da un megafono: “Ascoltate le mie ultime parole in qualsiasi luogo”» (p. 134).

crocif_bacon005Stefano Perna, in Mixes by Bill. Tape experiments, armi sonore”, si occupa invece del rapporto tra Burroughs e le tecnologie di registrazione, manipolazione e riproduzione del suono, viste dallo scrittore americano come strumenti dotatati di possibilità rivoluzionarie in termini conoscitivi e di decondizionamento mentale. Perna individua nel cut-up non solo un procedimento artistico ma anche la modalità di funzionamento del sistema media elettronico, dunque, secondo lo studioso, l’artista può, attraverso tale pratica, produrre «uno sfasamento “denarcotizzante, la riappropriazione critica di una routine già implicita nel funzionamento stesso dell’ecosistema mediale» (p. 138).

Le tecniche di sperimentazione di Burroughs e compagni variano dalla sovrincisione di suoni su registrazioni preesistenti (drop-in) ai rimaneggiamenti di una “frase sonora” al fine di sfruttare tutte le possibilità combinatorie, dalle manipolazioni dello scorrimento del nastro durante la fase di registrazione (inching) alla registrazione simultanea di fonti differenti provenienti da vari media ecc. Alcuni di questi procedimenti sono simili a quelli utilizzati da compositori come Karlheinz Stockhausen, Luciano Berio, Pierre Schaeffer e Pierre Henry ma, sostiene Perna, «sebbene le procedure e alcuni risultati possano sembrare per certi versi simili a quelli dei compositori, i presupposti da cui prendono le mosse gli esperimenti di Burroughs erano estremamente differenti. Mentre i compositori di area avanguardistica con le loro manipolazioni e decostruzioni tramite nastro erano alla ricerca di nuovi metodi per generare mondi sonori sconosciuti o inauditi, sui quali esercitare però un pieno e totale controllo espressivo, una sorta di ampliamento delle loro possibilità di azione e composizione della materia artistica, l’orizzonte di Burroughs era completamente diverso, semmai più vicino all’utilizzo delle tecnologie mediali fatto da John Cage» (pp. 139-140). Per Burroughs si tratta di ricavare zone/ritagli di tempo sottratti a quel “fluire normale” degli eventi attraverso cui viene esercitato il controllo: «frammenti di realtà depurati dalle manipolazioni che la macchina del controllo impone su tutti i discorsi e i contenuti prodotti e riprodotti dal linguaggio e dai media» (p. 140). I media sonori sono pertanto per Burroughs vere e proprie armi da utilizzare ed indirizzare al meglio, visto che lo stesso esercito americano non ha mancato di condurre ricerche sulle cosiddette sonic weapon, «armi che, producendo suoni nello spettro ultra- o infra-sonico, puntano a provocare effetti deflagranti e allo stesso tempo invisibili sulle persone, andando ad agire direttamente sui “ritmi” interni del corpo e della percezione» (p. 144).

Nell’intervento di Costantino Vassallo, “William S. Burroughs e i lineamenti di una pittura autografa”, viene presa in esame l’attività pittorica di Burroughs attuata ricorrendo alla pratica degli shotgun paintings. Se nel caso del cut-up la scrittura è trattata in forma plastica, come il materiale in pittura od in scultura, all’opposto, sostiene lo studioso, Burroughs sembra trattare la pittura come la scrittura: «i dipinti scrivono. Raccontano e predicono storie» (p. 151), afferma lo stesso Burroughs (The Third Mind). Lo scrittore americano sostiene che la pittura, a differenza della scrittura, può trasmettere serie di immagini e storie contemporaneamente, dunque «lo sparo per Burroughs permetterebbe il deliberasi di una precipua quanto particolare simultaneità narrativa in buona parte promossa per via automatica» (pp. 151-152).

Mario Trino, nel suo scritto Junker’s Movies. Il cinema infetto di William S. Burroughs”, analizza il rapporto tra lo scrittore americano e gli audiovisivi a partire delle esplorazioni della tecnica del cut-up in ambito audiovisivo da parte dello stesso Burroughs insieme a Brion Gysin, Ian Sommerville ed Anthony Balch. In The Cut Ups (1967), ad esempio, la durata dei fotogrammi viene calibrata, durante il montaggio, in modo che le immagini vengano percepite dallo spettatore senza che questi abbia il tempo di analizzarle in profondità. Se il cut-up nella scrittura permette di realizzare testi liberatori che rompono la linearità del testo, «espongono al pubblico la metodologia del controllo e la distruggono» (p. 158), in ambito audiovisivo le medesime tecniche «invece di liberare lo spettatore, ne impegnano le risorse cognitive con immagini intermittenti, che alimentano disturbi percettivi e fisici» (p. 158). Si intende così «rinegoziare la natura dell’esperienza mediale e i termini della costruzione e, quindi, della percezione del reale: esattamente come nelle opere letterarie, ma con processi e tecniche tipiche del cinema sperimentale, il loro obiettivo primario consiste nel mettere in discussione la “natura della realtà percepita”» (p. 160).

saccheggiate_louvre_Burroughs_coverSe c’è un cineasta influenzato da Burroughs, questo è David Cronemberg. Molte delle sue produzioni sono popolate da corpi mutanti e tecniche di controllo esercitate su di essi e sulla mente, si pensi a film come: Rabid (Rabid – Sete di Sangue, 1977), Videodrome (id., 1983), The Fly (La mosca, 1986), Scanners (id., 1981), The Dead Zone (La zona morta, 1983), Dead Ringers (Inseparabili, 1988). In Nake Lunch (Il pasto nudo, 1992), Cronemberg decide di «utilizzare il testo di partenza per creare una sorta di intertesto, un Naked Lunch che è nella stessa misura intessuto di sostanze burroughsiane, eppure le oltrepassa verso una dimensione audiovisiva autonoma in un processo acutamente definito “a dialectis intoxication”» (pp. 163-164). Il risultato è un nuovo Naked Lunch, in forma cinematografica, che può essere inteso come un’espansione dell’immaginario di Burroughs.

Oltre al regista canadese, Trino passa in rassegna anche alcune produzioni di Guns Van Sant che sicuramente derivano dall’immaginario burroughsiano, così come alcuni corti d’animazione e cartoon realizzati da Nick Donkin, Melodie McDaniel, Malcom McNeil, Gerrit van Dijk. Non mancano nemmeno opere audiovisive in cui Burroughs è coinvolto come attore-icona ed opere documentarie. Lo studio di Trino analizza, inoltre, la genesi di Blade Runner: A Movie (1979), opera realizzata da Burroughs ispirandosi al romanzo Bladerunner (1974) di Alan E. Nourse. Ad inizio anni Ottanta Ridley Scott è alle prese con una sua versione cinematografica del romanzo di Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968) e decide di acquistare i diritti d’uso del titolo (non dei contenuti) delle opere di Nourse e di Burroughs per il suo film. Nonostante il lungometraggio di Scott derivi dal romanzo di Dick, sostiene Trino, sono evidenti i debiti del regista nei confronti dell’immaginario iconografico burroughsiano.

I contributi relativi a “Burroughs ed il politico” si aprono con lo scritto di Giso Amendola, “Saccheggiate la Banca centrale. Dal controllo al debito, senza tacer d’eccedenti mostruosità”, in cui lo studioso individua nell’opera burroughsiana una topografia del controllo. È lo stesso Gilles Deleuze ad associare il concetto di controllo allo scrittore americano: «Sono le società di controllo che stanno sostituendo le società disciplinari. “Controllo” è il nome che Burroughs propone per designare il nuovo mostro e che Foucault riconosce come il nostro prossimo avvenire» (p. 25). Amendola, dopo aver ricostruito il pensiero di Foucault in merito al superamento della società disciplinare ed all’avvento di quella di controllo, evidenzia come la produzione burroughsiana si leghi a tale nuovo tipo di potere: «La sua concezione del controllo non è iscrivibile nella lunga tradizione delle distopie, non c’è traccia di Grandi Fratelli, e nemmeno di panottici […] La società del controllo è un piano dinamico […] il controllo non si esercita sopra i soggetti, né li osserva: ma attraversa i soggetti stessi, li modifica e ne è costantemente modificato. In Burroughs, la concezione del controllo non passa affatto fuori dal soggetto: lo stesso tema della dipendenza sposta tutto sul campo della produzione di soggettività. La società del controllo taglia fuori qualsiasi culto ideologico del potere» (p. 28).

Il potere è dunque una relazione che attraversa e costituisce i soggetti e Deleuze spiega come l’uomo non sia più rinchiuso ma indebitato. «Il ruolo dell’indebitamento si comprende solo guardando ad una società il cui intero corpo sociale è diventato estesamente produttivo, in cui il welfare, i servizi, la vita stessa, tutta intera, delle persone diventano fonte di estrazione del valore» (p. 31). Secondo Foucault e Deleuze la resistenza non avviene (non può avvenire) a partire da “un fuori” (che non esiste); essa si produce all’interno della relazione di potere, trasformandola. Qualcosa di analogo, sostiene Amendola, avviene in Burroughs ed in lui il controllo è sempre anche una macchina di resistenza e per questo motivo intende portare la rottura dentro il linguaggio attuando pratiche di desoggettivazione e di fuoriuscita dal linguaggio al fine di cercare una via di fuga da esso. «La macchina non è più il mezzo di produzione a noi esterno, ma è intelligenza, sapere, linguaggio: è incorporata dentro di noi e dentro le forme della cooperazione sociale. Così il lavoro, potenza della liberazione umana e insieme origine della sua miseria – la croce dei Grundrisse – si dà ora finalmente come produttività sociale ampliata, dove la macchina è ormai incorporata nella vita di uomini e donne: una potenza diffusa che però continua a incontrare il comando della valorizzazione capitalistica, sempre più parassitaria e estrattiva» (p. 35). È dall’interno della cooperazione sociale che la resistenza può oltrepassare le identità imposte.

nl_cronemberg_008Claudia Landolfi, nel suo “Non potere più dire ‘sono questo’. L’Apocalisse in/di parole di William S. Burroughs”, inizia col collocare Burroughs tra coloro che Timothy S. Murphy (Up the Marks: The Amodern William Burroughs) etichetta come scrittori “amoderni” pur restando per certi versi anomalo anche all’interno di questa categoria. Landolfi individua in Burroughs una radicale critica al capitalismo ed al suo sistema di controllo attuata attraverso le sue sperimentazioni linguistiche con cui è alla ricerca di una linea di fuga dalla catena “capitale-soggettività-linguaggio”: «l’indagine sulle forme paranoiche del controllo capitalistico della società americana che trasforma le soggettività attraverso il linguaggio-virus che usa (e dunque controlla) il corpo umano è ben chiaro da Junky (La scimmia sulla schiena, 1953) a Naked Lunch» (p. 43). In generale, sostiene Landolfi, il limite politico delle opere di Burroughs è ravvisabile nel fatto che, pur ingaggiando una resistenza al controllo votata al cambiamento sociale, non sembrano andare oltre alla negazione dello status quo, mancano di prospettare nuove forme di organizzazione sociale.

Education is a virus from outer space: elementi di anatomia politica” di Alfredo Di Tore parte dalla constatazione di come l’opera burroughsiana mostri «in filigrana, come il filo rosso che lega linguaggio, corpo e mutazione sia oggetto di una deliberata confusione di piani e livelli, di una ibridazione mistificante. Più propriamente il legame tra linguaggio e corpo umano è il frutto dell’attività di quella che Giorgio Agamben definisce la macchina antropologica, un artificio che propone incessantemente una distinzione fittizia tra umano e non umano attraverso un processo arbitrario, ideologicamente orientato, di inclusione/esclusione. Secondo lo studioso in tutta l’attività di Burroughs è possibile rintracciare un tentativo, costante ed efficace, di smantellare la macchina antropologica» (pp. 50-51). Attribuendo al linguaggio la natura di virus, Burroughs dà corpo al linguaggio conferendogli una dimensione parassitaria. Il corpo funzionerebbe dunque come un decodificatore che reagisce al virus del linguaggio. Il rapporto identità/corpo/ambiente è, in Burroughs, un esercizio di potere che deve essere fatto saltare e l’ultima parte dell’intervento di Alfredo Di Tore analizza come la mutazione, in Burroughs, sembri offrirsi come possibilità.

locandina_saccheggiate_louvre_003Concludiamo questa lunga disamina di Saccheggiare il Louvre, con il contributo di Antonio Lucci, “Sciarada gattesca. Schizotecniche della scrittura in William Burroughs”, che prende il via da alcune riflessioni sulle “tecniche culturali” sviluppate dalle Kulturwissenschaften tedesche, in particolare dal filosofo viennese Thomas Macho e dallo studioso tedesco Friedrich A. Kittler. Lucci riprende gli studi di Macho a proposito della “divisione del soggetto” alla base delle “pratiche di solitudine”, tra cui ha un posto eminente la scrittura, mentre da Kittler recupera l’idea che «il soggetto è creato dal sistema di media che utilizza, nella misura in cui ne fa uso» (p. 64). A partire da tali linee guida, Lucci analizza l’opera burroughsiana evidenziandone la «funzione di raddoppiamento, quindi di sdoppiamento e di Spaltung, che assume la scrittura […] andando a vedere come a questa funzione di sdoppiamento scritturale faccia pendant una serie di contenuti narrativi opposta e parallela, vale a dire quella della moltiplicazione, proliferazione ed ibridazione dei soggetti della nella narrazione, che si pone come un affollato e brulicante “brodo primordiale” da cui escono, per poi ricadere nel calderone della scrittura libera e magmatica, figure allucinatorie, allunanti e allucinate, tipiche di una dimensionalità simbolica altra, atta a segnare i (non-) confini di un cosmo anumano» (p. 65).
L’analisi di Lucci si concentra su The Cat Inside (Il gatto in noi, 1986), opera tarda di Burroughs, in cui la funzione del doppio assume la massima evidenza. Secondo lo studioso le tecniche culturali della scrittura, la distruzione del soggetto-scrittore, della scissione della soggettività, costitutive della scrittura burroughsiana, sembrano, in questo testo, essere superate «grazie ad un equilibrio soggettivo ritrovato, attraverso una discreta, magica, sospesa, presenza della dimensione dell’alterità radicale, tanto estranea quanto vicina […]: quella dell’animale domestico, che dà a Burroughs il senso e la dimensione esistenziale e affettiva di una comunità tra i viventi non più vissuta con ferocia critica, ma con l’empatia della compassione» (p. 71).

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Il reale delle/nelle immagini. Forme di resistenza all’onda mediale https://www.carmillaonline.com/2016/03/22/28837/ Tue, 22 Mar 2016 22:45:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28837 di Gioacchino Toni

JLGodardLa resistenza all’onda mediale secondo Andrea Rabbito nei film:

Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher

Abbiamo visto [su Carmilla] come Andrea Rabbito (L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, 2015), indichi con finzione terziaria quel tipo di immagini che palesano la propria artificiosità, quando la finzione, la resa di un Oltremondo, risulta dichiarata. [...]]]> di Gioacchino Toni

JLGodardLa resistenza all’onda mediale secondo Andrea Rabbito nei film:

Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański, Dans la maison (2012) di François Ozon, Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard e Gone Girl (2014) di David Fincher

Abbiamo visto [su Carmilla] come Andrea Rabbito (L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, 2015), indichi con finzione terziaria quel tipo di immagini che palesano la propria artificiosità, quando la finzione, la resa di un Oltremondo, risulta dichiarata. Riprendendo gli studi di Edgar Morin (Il cinema o l’uomo immaginario) che indicano nel cinema la presenza di due caratteri, quello della pittura non-realista, votata alla creazione di una propria realtà, e quello della fotografia, volta ad immortalare la realtà esistente, Rabbito segnala come nel caso della finzione terziaria, ciò che si osserva risulti sbilanciato sul versante della pittura non realista.
Nella finzione terziaria di grado minimo la finzione è occultata, nonostante lo spettatore sappia perfettamente di trovarsi di fronte ad una costruzione. Allo spettatore è richiesto di stare al gioco al fine di godersi lo spettacolo; la realtà rappresentata deve essere percepita come vera, come uno specchio della realtà. Fingendo vi sia soltanto il rappresentato senza alcun rappresentante, si struttura uno spettacolo antitetico a quello proposto da Bertold Brecht (Scritti teatrali).
Nel caso di una finzione terziaria di grado intenso, si riprendono alcune finalità tipiche delle rappresentazioni barocche, cioè «spingere a fare proprio il sapere dell’incertezza, di diffidare di ciò che si vede e di stare all’erta sia nei riguardi della realtà sia nei riguardi della finzione. […] Si invita insomma a considerare l’immagine per quella che è, una rappresentazione, e non creare una confusione tra questa e la realtà» (pp. 121-122). Dunque, nel ricorso alla finzione terziaria di grado intenso si intenderebbe: mettere in discussione il linguaggio audiovisivo; ripensare al ruolo del regista e dello spettatore; evidenziare la complessità della realtà mostrata; esplicitare le modalità di messa in rappresentazione della realtà; rendere vigile lo spettatore e farlo riflettere sulle nuove immagini. In tal modo lo spettatore non verrebbe più trascinato in un ruolo passivo ed ipnotico, ma resterebbe vigile e consapevole.

In questo scritto ci si limiterà a prendere in esame la finzione terziaria di grado intenso proposta dal volume di Andrea Rabbito.

Synecdoche, New York (2008) di Charlie KaufmanIn Synecdoche, New York (2008) di Charlie Kaufman, analizzato da Rabbito a partire dagli studi di José Ortega y Gasset (Meditazioni del Chisciotte), in un intrecciarsi di figure retoriche (metafora, sineddoche, metonimia), si narra di come il protagonista, il regista Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman), intenda creare uno spettacolo teatrale capace di riproporre il mondo esterno in una sorta di doppio del reale che lo porta a ricreare all’interno di un grande capannone uno spaccato di una zona di New York. «La New York di Cotard diviene così una particolare metafora/sineddoche/metonimia dell’originale New York, nel senso che la prima sostituisce la seconda; il rappresentante, dunque, il doppio, il falso più che rimandare al rappresentato, al vero, crea con questo un forte legame e tende a sostituirlo» (p. 136). Cotard giunge a creare una situazione talmente legata alla realtà che finirà col perdersi in questa con-fusione tra i due mondi.
La duplicazione del reale allestita dal protagonista lo induce anche a trovarsi un alter ego, Sammy Barnathan (Tom Noonan), che lo interpreti trasferendosi nell’appartamento allestito sul set. «Quello che si verifica dunque, con progressiva evidenza, è la dinamica della metafora/sineddoche/metonimia: ovvero il rappresentante, Sammy, nega sempre più la propria realtà per essere sostituito dal personaggio che rappresenta, Cotard; e questi a sua volta si orienta ad una sempre maggiore derealizzazione di se stesso, per sparire nell’irreale da lui creato. E tale derealizzazione avviene con esito così incisivo in quanto non è in gioco un rimando, ma un legame, reso mediante l’eccedere la norma della verosimiglianza. Il riflesso speculare si confonde con il soggetto reale di cui duplica le apparenze, creando una dinamica di reciproca sostituzione dei due enti e profonda confusione fra questi» (pp. 139-140).
Si apre così un gioco di specchi che porta alla creazione di un altro set che, dal suo interno, duplica il primo, così che Sammy possa imitare Cotard. A ciò si aggiunge poi l’idea di aumentare il tutto di un nuovo livello di riproduzione, un terzo spazio in cui continuare questo gioco di duplicazione. Tale proliferazione conduce a quella mise en abyme di cui parla Andrè Gide analizzata da Lucien Dällenbach (Il racconto speculare). «Si palesa come attraverso la mise en abyme si costruisca una rappresentazione mostrando in che modo questa intenda rimandare alla realtà, e come il rappresentato rimandi al rappresentante, mettendo in luce la modalità con cui queste dimensioni “si derealizzano, si neutralizzano” tra loro. E, inoltre, si mostra come la derealizzazione avvenga in maniera particolarmente suggestiva quando vi è una forte somiglianza, la quale […] pone in essere non più un rimando, ma un legame tra rappresentato e rappresentante, fra rappresentazione e realtà; quando infatti fra questi due vi è una forte somiglianza, la finzione più che a rimandare al vero, tende a legarsi in maniera radicale a quest’ultimo fino ad orientarsi a farne le veci e a sostituirlo» (p. 143).
Di fronte ad una tale confusione di piani, lo spettatore è indotto a riflettere a proposto del confine che separa realtà e finzione e di come ogni tipo di rappresentazione crei un dialogo tra reale e simulacro. Quello sviluppato dal film di Kaufman, sostiene Rabbito, è un discorso metalinguistico che, pur riguardando anche le immagini classiche, sembra avere come vero obiettivo le nuove immagini.

La Vénus à la fourrure (2013) di Roman Polański è un film – tratto da una pièce di David Ives che narra delle prove teatrali dell’adattamento di Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch – che mette in scena il rapporto di stampo sadomasochistico tra i due interpreti soffermandosi sulla descrizione dei meccanismi della rappresentazione. Il primo livello di lettura dell’opera è rivolto allo spettatore che intende limitarsi a seguire il contenuto, il secondo livello è invece destinato a chi desideri approfondire la forma mediante la quale il contenuto si offre al pubblico.
A differenza della rappresentazione cinematografica convenzionale che tende a mostrarsi come duplicazione del reale, il film di Polanski «mira invece a decostruire la magia cinematografica, a scardinarla, in quanto mostra i meccanismi mediante i quali la rappresentazione realizza la sua magia» (pp. 149-150). Il cineasta polacco mostra quel significante che solitamente risulta celato nelle opere cinematografiche. Attraverso l’uscita dai personaggi di Wanda e Thomas l’illusione viene continuamente interrotta in modo da indurre lo spettatore a rimanere vigile.

venere pellicciaA partire dalla resa esplicita della finzione si moltiplicano i livelli di realtà ed i personaggi iniziali, Wanda von Dunayev (Emmanuelle Seigner, attrice moglie di Polanski) e Thomas Novachek (Mathieu Amalric, attore somigliante a Polanski) finiscono per rinviare alla coppia Polanski-Seigner generando nello spettatore «la strana sensazione che Polanski e Seigner stiano recitando la parte di Thomas e Wanda, e che questi due, a loro volta, interpretino i ruoli di Wanda Dunayev e Severin Kushemski» (p. 151). Il gioco di specchi continua ed alle «tre dimensioni, a cui rimanda il film, vanno aggiunte quella relativa al Thomas e alla Wanda, non dell’adattamento di Thomas, ma del romanzo di Sacher-Masoch; e in più, viene interpellata anche la dimensione dello stesso von Sacher-Masoch e della scrittrice Fanny Pistor, i quali realmente pattuirono un rapporto di padrone e schiavo dietro la volontà dello scrittore, il quale, in seguito, trasse da questa personale vicenda ispirazione per la sua opera letteraria» (p. 151). Si crea così un inestricabile mise en abyme che spinge lo spettatore a riflettere a proposito dell’illusione del doppio ed a proposito di come risulti difficile distinguere la realtà dalle rappresentazioni.

Il film Dans la maison (2012) di François Ozon narra invece del rapporto tra il professore di letteratura Germain (Fabrice Luchini) e l’allievo Claude Garcia (Ernst Umhauer) che sottopone al docente suoi resoconti del tempo passato presso la famiglia dell’amico Rapha Artole (Bastien Ughetto). Dall’intrecciarsi della tendenza della letteratura e del cinema di duplicare il reale si giunge ad esplicitare come ciò «si leghi al desiderio di ammirare e possedere il mondo esterno. A riguardo il mito di Narciso descrive chiaramente come l’uomo risulti affascinato dalla possibilità sia di visionare la realtà che si apprezza, sia di far proprio tale fenomeno del reale; ed è per questo il simulacro si dimostra, come mette in luce il mito, una perfetta forma che soddisfa tali desideri e che permette di immergersi in esso, e in questo perdersi» (p. 156). Rabbito ricorda a tal proposito come Christian Metz sottolinei come i desideri di vedere ed ascoltare attivati dal cinema si possano considerare “pulsioni sessuali” basate sulla “mancanza”.
Germain, grazie ai racconti di Claude, si introduce all’interno dell’abitazione della famiglia Artole, ma, sostiene Rabbito, il voyeurismo del docente è diverso da quello dello spettatore cinematografico; lo spettatore è di fronte ad un prodotto di finzione mentre Germain spia l’intimità dell’abitazione. «Certo, quello di Germain è proprio un atto di spiare, è vero, ma Ozon ci rende coscienti, a noi spettatori, che ciò che sta leggendo il suo personaggio possa essere un inganno, una costruzione immaginata da Claude. Ed è lo stesso Germain che all’inizio ne è cosciente» (pp. 158-159). Seppur cosciente del possibile inganno operato da Claude attraverso il racconto, il docente non è più in grado di discernere la finzione dalla realtà giungendo così, un po’ alla volta, per essere fagocitato dall’Oltremondo.

Adieu au langage (2014) di Jean-Luc Godard intende svelare l’illusorietà delle nuove immagini ed enfatizzare come, a differenza di quanto accade ai protagonisti dei film precedentemente analizzati di Kaufman, Polanski e Ozon, non si debbano con-fondere i due mondi. Le immagini sono le immagini e la realtà è la realtà, sembra suggerire con forza il lungometraggio del cineasta francese.
In Adieu au langage, suggerisce Rabbito, non abbiamo un protagonista che cade vittima della proliferazione dei duplicati di realtà determinata dal teatro o dalla letteratura, ma i principali protagonisti del film di Godard risultano essere la rappresentazione stessa e lo spettatore.
«Non c’è infatti, nell’opera di Godard, la creazione di una vera e propria storia con un personaggio che si trova coinvolto nelle spire della finzione, ma è lo spettatore stesso che diviene il protagonista ed è lui a dover da un lato fronteggiare senza intermediari il mondo delle nuove immagini e della loro illusione, dall’altro lato confrontarsi con la loro messa in discussione sviluppata dal regista francese» (p. 162).

cinema-rabbito-onda-medialeL’opera di Godard recupera la forma epica brechtiana rivolgendosi ad uno spettatore a cui si richiede la “ratio” e non il “sentimento” e, sostiene Rabbito, attraverso la sua opera, il regista francese «ridimensiona l’onda mediale, interrompe sul nascere la possibilità del sorgere di illusioni da parte del film, e di identificazioni da parte dello spettatore [indirizzandosi] verso quella “funzione sociale” propria del cinema […] Funzione che riconosce come uno dei suoi fini quello non solo di spezzare le illusioni, ma di rendere consapevole il pubblico, attraverso lo svelamento del “gioco” della rappresentazione, di come quest’ultima agisce» (p. 163).
Secondo Rabbito il film di Godard critica quelle immagini che duplicano il reale, che lo uccidono sostituendolo con il suo simulacro. È evidente quanto ciò sia affine alle tesi di Jean Baudrillard (Le strategie fataliIl delitto perfetto) che ha più volte evidenziato come la perfetta duplicazione della realtà comporti l’uccisione del reale. A tutto ciò, sostiene Rabbito, Jean-Luc Godard aggiunge, analogamente a Guy Debord (La società dello spettacolo) che la duplicazione e la sostituzione pregiudicano il funzionamento dei sentimenti dell’uomo, della sua esperienza cosciente o subcosciente. «L’obiettivo […] che si pone Godard, recuperando il pensiero di Brecht, è quello di “rinuncia[re] a creare illusioni” per far “prendere posizioni” allo spettatore e svegliarlo dal suo sonno e dal suo cattivo sogno, e questo permette anche all’autore di instaurare un dialogo costruttivo e stimolante con il proprio pubblico» (p. 174).
Adieu au langage mette dunque «in evidenzia che, con le nuove immagini, […] gli oggetti del reale [e] ciò che crea l’uomo, si confondono fra loro, in una duplicazione in cui il referente reale si perde nel suo doppio, in maniera molto più esaustiva rispetto a quanto riescono le immagini classiche» (p. 175).

Gone Girl (2014) di David Fincher riflette sul ricorso alle nuove immagini come registrazione oggettiva della realtà. Se per mettere in discussione la presentazione della realtà da parte delle nuove immagini, Godard fa ricorso alle modalità epiche brechtiane, Fincher preferisce riprendere i meccanismi barocchi: denuncia le illusioni delle nuove immagini proponendo agli spettatori le stesse illusioni prodotte da tali immagini.
Se nella prima parte del lungometraggio lo spettatore è indotto a condividere con i personaggi del film, influenzati dalle immagini, che il protagonista Nick è colpevole della scomparsa della moglie, nella seconda parte del film si fa strada il dubbio, le deduzioni iniziali risultano superficiali. «Il farci cadere in errore, da parte di Fincher, è una scelta funzionale per far riflettere come la presentazione della nuova immagine possa essere del tutto inattendibile, e sollecita a ripensare come sia una quasi-realtà ciò che viene proposta in immagine e non una realtà, marcando particolarmente il suo essere “quasi”» (p. 182). Se col metodo brechtiano rappresentante e rappresentato vengono differenziati sin dall’inizio enfatizzando lo statuto illusorio, la “via barocca” propone invece una momentanea illusione poi messa in discussione.

Gli esempi riportati da Rabbito hanno mostrato come la capacità delle immagini di presentare la realtà esterna possa essere utilizzata al fine di contrastare questa loro capacità illusionistica. Tra gli ulteriori titoli citati dallo studioso come esempi di opere capaci di far riflettere lo spettatore circa il fatto che le immagini dovrebbero limitarsi ad avere un ruolo di mediazione e non di identificazione con il reale si possono ricordare: Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick, eXistenZ (1999) di David Cronemberg, Being John Malkovich (1999) di Spike Jonze , Mulholland Drive (2001) di David Lynch, Dogville (2003) di Lars von Trier, La mala educacion (2004) di Pedro Almodóvar, Cigarette burns (2005) di John Carpenter, The Wild Blue Yonder (2005) di Werner Herzog, La Science des rêves (2007) di Michel Gondry, Avatar (2009) di James Cameron, Shutter Island (2010) di Martin Scorsese, Inception (2010) di Christopher Nolan, Holy Motors (2012) di Leos Carax, Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu, Youth – La giovinezza (2015) di Paolo Sorrentino. Anche grazie a queste opere, la lotta contro l’illusione di cui parla Edgar Morin (I sette saperi necessari all’educazione del futuro), è aperta.

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Il reale delle/nelle immagini. Universi plurali della fiction e costruzione del senso della realtà https://www.carmillaonline.com/2016/01/06/il-reale-dellenelle-immagini-universi-plurali-della-fiction-e-costruzione-del-senso-della-realta/ Wed, 06 Jan 2016 22:10:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26832 di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, [...]]]> di Gioacchino Toni

inceptionValentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 268 pagine, € 18,00

In una serie di film di fine anni ’90 si problematizza il senso della realtà, la distinzione tra ciò che è, o si considera, reale, dunque vero, e ciò che è finzionale, dunque illusorio. In particolare, nel saggio di Valentina Re ed Alessandro Cinquegrani viene fatto riferimento ad opere come: The Matrix (Lana ed Andy Wachowski, 1999); Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenábar, 1997); The Game (David Andrew Leo Fincher, 1997); eXistenZ (David Cronenberg, 1999); Pleasantville (Gary Ross, 1998); The Truman Show (Peter Weir, 1998); Dark City (Alex Proyas, 1998); Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, Josef Rusnak, 1999). Tale produzione cinematografica, affiancata da una nutrita produzione teorica, secondo gli autori del volume, si è sviluppata da un lato lungo un modello dickiano volto al riproporre narrazioni che raccontano “la realtà” come problema, e dall’altro lato verso una riflessione di matrice postmoderna relativa alla “scomparsa della realtà” e sui simulacri. A partire dai punti di contatto tra scenario postmoderno e mondi instabili ed ingannevoli di Philip Kindred Dick, il saggio intende «riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura” originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la definizione di una “dominante ontologica” in grado di distinguere il funzionamento delle finzioni postmoderne – in opposizione a quelle moderne, che sarebbero caratterizzate da una dominante di tipo epistemologico» (p. 8). L’intenzione palesata dagli autori è quella di provare ad applicare l’elaborazione di McHale all’attualità, eliminando però la subordinazione della problematica ontologica al dibattito sul postmoderno.

Il superamento del dibattito sul postmoderno in un’attualità ormai definita come “postmediale”, secondo gli autori, impone la necessità di confrontarsi con quello che è stato indicato, in vari modi, come “postcinema”, “cinema due” (Francesco Casetti) o “cinema della convergenza” (Henry Jenkins). Le innovazioni tecnologiche digitali hanno certamente svolto un ruolo importante in tali trasformazioni ma la questione da indagare riguarda principalmente quel processo di ridefinizione dello statuto del cinema per come lo si è conosciuto nel XX secolo a partire dalle trasformazioni dei modi di produzione, circolazione, fruizione e riutilizzo dell’audiovisivo.

apri gli occhiFilm come The Game o The Truman Show possono essere letti come “mind-game film” (Thomas Elsaesser) che costruiscono con il fruitore un nuovo tipo di rapporto votato ad incoraggiare il costituirsi di fandom e nuove modalità di collocazione, circolazione, condivisione e riuso del cinema. Henry Jenkins, applicando categorie come quelle di “cultura convergente” e “transmedia storytelling”, nel rileggere in maniera innovativa Matrix, orienta profondamente le letture di quei film che aprono il nuovo millennio mettendo in discussione il tradizionale senso della realtà.

Come dieci anni prima, una nuova ondata di film del nuovo millennio insiste  sulla problematizzazione della realtà facendo riemergere quella dominante ontologica individuata anche nella produzione del decennio precedente. Si tratta di film come: Moon (Duncan Jones, 2009); Inception (Christopher Nolan, 2010); Shutter Island (Martin Scorsese, 2010); Source Code (Duncan Jones, 2011); I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, George Nolfi, 2011); Total Recall (remake, Len Wiseman, 2012); Cloud Atlas (Lana ed Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012); Oblivion (Joseph Kosinski, 2013). Anche la serialità del nuovo millennio [affrontata su Carmilla] pare caratterizzata dalla medesima problematica ontologica che si traduce in una «proliferazione di mondi paralleli, mondi finzionali che divengono reali, universi ibridi, passaggi non consentiti tra mondi con statuti non assimilabili» (p. 11).
Mentre per l’ondata dei film degli anni ’90 si è fatto un gran parlare della problematica ontologica, per le opere del nuovo millennio, invece, il dibattito pare aver risentito del mutamento del ruolo socio-culturale del cinema e la questione ontologica sembra essersi spostata in altri ambiti ed in altri media (es. produzione seriale). Il saggio in esame intende concentrarsi proprio sul concetto di dominante ontologica individuabile tanto nelle produzioni di fine anni Novanta che del decennio successivo. Se film come Source Code, Shutter Island ed Inception hanno offerto la possibilità di riprendere le categorie di McHale, relative alla dominante ontologica ed alle strategie narrative, è necessario, però, sostengono gli autori, che tale impostazione venga ora supportata dalla rottura del nesso tra dominante ontologica e finzioni postmoderne e dal recupero di strumenti della teoria letteraria e narratologica contestandone la riduzione ad un approccio formalista.

L’idea di dominante ontologica proposta da McHale viene fatta interagire con l’approccio costruttivista di Nelson Goodman e con la sua nozione di “mondo-versioni”, al fine di evidenziare il ruolo cruciale delle “finzioni”, o delle narrazioni (letterarie/cinematografiche), nella “costruzione di mondi”, compresi quelli riconoscibili come “reali”. Riconsiderata attraverso la “critica del costruire mondi” della prospettiva goodmaniana, l’idea di dominante ontologica può essere sganciata dalla riflessione sulla postmodernità acquisendo una valenza più generale riguardante «il contributo delle finzioni alla costituzione di un orizzonte ontologico plurale, composto dai molti “modi di descrivere tutto ciò che viene descritto”. Ed è proprio attraverso l’analisi delle strategie narrative sistematicamente impiegate nei film che qui ci interessano (da Matrix a Source Code, da eXistenZ a Inception) – quelle stesse strategie che ci permettono appunto di identificare una “dominante ontologica” – che proveremo a comprendere che cosa accade quando certe finzioni sembrano in qualche modo “rappresentare” la nostra attività di costruzione di mondi, e in che modo le finzioni costruiscono, o contribuiscono a mettere in discussione e ridefinire, il nostro senso della realtà. Supportati anche dalla recente riflessione narratologica di Gérard Genette, ci soffermeremo in particolare su una di questa strategie, la metalessi, nella convinzione (…) che essa possa rappresentare un concetto in grado di ampliare le riflessione sulla dominante ontologica e sui meccanismi narrativi ad essa sottesi anche alle pratiche contemporanee che caratterizzano la cultura convergente e, in particolare, le attività legate al fandom e le nuove forme di relazione tra lo spettatore e il film» (pp. 12-13).

cover_innestoI curatori, riprendendo l’analisi di Elsaesser a proposito dell’esperienza del fandom, segnalano come il mondo rappresentato venga preso per vero e come si infranga il confine tra il mondo che si racconta e quello in cui si racconta portando da un lato a quella vertigine che si prova di fronte all’incapacità di distinguere il “reale” dal “finzionale” e, dall’altro, al piacere derivato dall’instaurare «forme di relazione e di comunicazione “impossibili” tra il mondo che quotidianamente abitiamo e i mondi finzionali in cui quotidianamente amiamo, seppur provvisoriamente e temporaneamente, transitare» (p. 14). Se buona parte dei film indagati dal saggio è di matrice fantascientifica, pur non mancando esempi che si sottraggono al genere (come The Truman Show e Shutter Island), la seconda parte del testo allarga ad altri ambiti la questione della dominante ontologica rispetto alla science fiction giungendo ad indagare «la capacità di radicalizzare in maniera tragica quel “senso della fine” che pervade il racconto melodrammatico (Se mi lasci ti cancello, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, M. Gondry, 2004), o di problematizzare (…) quella compiutezza, arbitraria ma apparentemente necessaria, che consente alle finzioni di configurare la nostra esperienza nel mondo, altrimenti caotica e insensata (Synecdoche, New York, C. Kaufman, 2008)» (p. 14)

Recuperando le proposte elaborate da Brian McHale, si può affermare che mentre le narrazioni moderne sono incentrate «sul problema della conoscenza, e della conoscibilità, del mondo e della realtà, e dei modi in cui questa conoscenza può realizzarsi ed essere condivisa tra gli individui» (p. 26), per quanto riguarda le finzioni postmoderne, invece, il problema non è legato alle forme di conoscenza del mondo e della realtà, ma ai concetti stessi di “mondo” e di “realtà”. Si passa da una dominante di tipo epistemologico ad una dominante di tipo ontologico. Se la modernità a dominante epistemologica trova le sue forme narrative privilegiate nell’inchiesta, nell’indagine e nella detective story, la postmodernità a dominante ontologica le trova invece nei generi del fantastico e della fantascienza e quest’ultima, in particolare, permette una continua oscillazione tra realtà diverse. La presenza in una finzione di una determinata dominante non significa per forza di cose che tale finzione sia totalmente priva di elementi riconducibili all’altra dominante; slittamenti da una modalità all’altra sono sempre possibili. A tal proposito il saggio porta come esempio il celebre Blow-Up (Michelangelo Antonioni, 1966), film che, pur procedendo lungo una (moderna) detective story, finisce con il protagonista che perde la convinzione che visione e conoscenza coincidano. Pur essendo incentrato su problematiche epistemologiche riguardanti le possibilità di conoscere la realtà, il film finisce, dunque, col deviare verso questioni di ordine ontologico.

Secondo McHale le finzioni a dominante ontologica presentano mondi a “scatole cinesi” ricorrendo ad una serie di strategie volte a problematizzare il senso della realtà e la possibilità di una pluralità di mondi. Con il moltiplicarsi dei livelli si può determinare un punto di collasso in cui si fatica ad identificare il livello in cui ci si trova. McHale sostiene che i testi di matrice postmoderna incoraggiano una strategia (definita “trompe l’œil”) che tende a far percepire al lettore un mondo di secondo livello come se fosse il mondo principale, salvo poi svelare l’inganno e, dunque, rivelare il vero statuto ontologico della supposta “realtà”. Attraverso tale strategia una supposta rappresentazione “reale” rivela il suo essere “virtuale”, o viceversa. Nel saggio viene sottolineato come, nonostante McHale non ne faccia menzione, tale strategia si ritrovi anche in Genette, pur sotto altro nome (“pseudodiegetico”), ma in questo ultimo caso non si tratta di un’opposizione “realtà” Vs. “finzione” ma di una strategia volta a raccontare come diegetico ciò che è stato presentato come metadiegetico, come avviene, continua il saggio, in film come Matrix ed eXistenZ. La terza strategia di cui parla McHale (“mise en abyme”) è «caratterizzata dalla combinazione di tre elementi: la presenza di un racconto incassato, o metaracconto di secondo livello; la riproposta, nel metaracconto, di tratti presenti anche nel racconto principale; l’aspetto caratterizzante dei tratti riprodotti, così che si possa sostenere che il racconto di secondo livello riproduce il racconto di primo livello» (p. 39). L’ultima, strategia individuata da McHale risulta, nuovamente, collegabile alle riflessioni di Genette a proposito della metalessi.
Secondo Genette il passaggio da un livello all’altro risulta possibile soltanto attraverso alcune strategie ritenute convenzionalmente legittime (es. qualcuno inizia a raccontare od a leggere un testo… ) senza che vi sia “reale” comunicazione tra mondo raccontato e mondo in cui si racconta; i confini che dividono mondo diegetico principale e mondo metadiegetico risultano intoccabili, non permettono scambio se non attraverso un atto convenzionale. Tuttavia, cinema e letteratura sono pieni di narrazioni in cui i livelli diegetici vengono violati e si superano i confini tra mondo rappresentato e mondo della rappresentazione. Se i personaggi di una finzione possono essere presentati come lettori/spettatori, il lettore/osservatore “reale” può essere/sentirsi a sua volta personaggio fittizio. La metalessi più spiazzante, sostiene Genette, si trova proprio in questa ipotesi, cioè che l’extradiegetico è forse sempre diegetico. Con il termine metalessi Genette indica dunque l’infrazione del confine che separa l’atto di rappresentazione (primo livello) dal mondo rappresentato (secondo livello), cioè una strategia volta ad evidenziare come non esista un realtà, ma diversi livelli di realtà.
Si danno forme diverse di metalessi tanto da potere essere distinte tra ontologica e retorica o, ancora, tra ascendente e discendente ecc. Per quanto riguarda la metalessi ontologica (o finzionale) il saggio porta come esempi La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo, W. Allen, 1985), ove una personaggio del film nel film “esce” dallo schermo, oppure Pleasantville in cui il passaggio ha forma inversa ed un personaggio di un mondo dato come reale viene catapultato in un mondo finzionale. Per quanto riguarda la metalessi retorica (o narrativa) un esempio riportato è quello di The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), film strutturato attorno ad un narratore extradiegetico (in voice over: “Il mio nome è Jordan Belfort”…) che racconta la storia che lo vede protagonista. Nella veste di narratore extradiegetico si rivolge direttamente al narratario extradiegetico (“Vedete quell’enorme proprietà laggiù… È casa mia”). «Se è vero che Jordan Belfort narratore extradiegetico in voice over può rivolgersi a noi, lo stesso non si può dire per Jordan Belfort personaggio, che dal livello diegetico, voice in, non può interpellare il narratario extradiegetico. Eppure pretende di farlo, con un effetto di chiara (seppur ludica) violazione dei livelli: senza soluzione di continuità, mentre scende la scalinata della sua lussuosissima villa, Jordan Belfort personaggio, sguardo in macchina e voice in, continua a raccontare la sua storia come se nulla fosse, e si rivolge direttamente a “noi” mentre gli altri personaggi, impassibili, continuano a interagire con lui» (p. 46). Nel caso della metalessi discendente si scende (per infrazione) dal secondo livello al primo, passando dal metaracconto al racconto principale (es. La rosa purpurea del Cairo), mentre nel caso della metalessi ascendente si sale (per infrazione) dal primo al secondo livello, dal racconto principale al metaracconto (es. Pleasantville). Altro tipo di metalessi individuato è quello intertestuale od orizzontale, ove ad essere violati sono i confini tra diversi mondi rappresentati, come ad esempio in Alien vs. Predator (P. W. S. Anderson, 2004). Ovviamente esistono situazioni in cui si scivola da un tipo di metalessi all’altra, come avviene nel film Vero come la finzione (Stranger Than Fiction, M. Forster, 2006), ove si passa dalla metalessi retorica a quella ontologica.

sourcecodeDiversi studi hanno tentato di analizzare la particolarità di Matrix nello scenario dei media senza però ricorrere a quei concetti di convergenza culturale e di transmedia storytelling proposti da Henry Jenkins, «che proprio in Matrix trovano un ambito di applicazione ed esemplificazione in qualche modo emblematico e che tanto successo avranno negli studi sul cinema negli anni immediatamente successivi, assurgendo a vero e proprio canone del cinema contemporaneo» (p. 70). Il saggio Matrix: uno studio di caso (a cura di G. Pescatore, 2006) propone diverse riflessioni che sarebbero poi risultate utili alla diffusioni degli studi di Jenkins, all’epoca poco conosciuti in Italia. Oltre alla linea di indagine “pre-jenkinsiana”, sostiene Re, nel testo curato da Pescatore è rintracciabile una serie di problematiche ruotanti attorno a quattro questioni: «lo statuto ontologico della realtà e la veridicità dell’esperienza e della percezione; la relazione tra mente e corpo; il ruolo della tecnica; la questione degli universi virtuali» (p. 71). Indipendentemente delle specifiche problematiche evocate, continua la studiosa, è interessante notare la rilevanza sociale di un film come questo. «Il volume Matrix: uno studio di caso ci mostra come, pur in un momento di cambiamento profondo del panorama mediale e degli studi sul cinema, al film (in senso lato) venga ancora attribuita una rilevanza culturale, nel senso di una centralità nei processi e nei discorsi che organizzano la nostra cultura» (p. 72). A questo punto si chiede Valentina Re perché nessun saggio interpretativo paragonabile a questo sia stato realizzato a proposito di film più recenti come Source Code, Shutter Island ed Inception. Certo, sostiene la studiosa, potrebbe trattarsi semplicemente di film incapaci di suscitare il medesimo interesse prodotto dall’ondata di opere di fine anni ’90, ma se si vuole provare a dare una risposta più convincente occorre forse, continua Re, prendere atto del cambio di scenario (ben indagato da Francesco Casetti nel suo L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, 2005). Nel corso del decennio che separa Matrix da film come Source Code od Inception il cinema sembra essere stato soppiantato da altri media (televisione, internet…). Se Matrix si poneva sulla soglia di tali mutamenti, i nuovi film si inseriscono all’interno di trasformazioni ormai avvenute. Inoltre, continua la studiosa, «a essere mutato, insieme al ruolo del cinema nel panorama mediale e nella rete dei discorsi sociali, è anche lo sguardo sul cinema, la prospettiva da cui si osservano il cinema e i processi di riposizionamento (o rilocazione) a cui è soggetto, con il risultato che determinate problematiche e linee di ricerca divengono progressivamente minoritarie» (p. 73).

L’ambito letterario è stato indagato da Alessandro Cinquegrani a partire dal film Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) da lui considerato «il punto di partenza di un filone letterario che ha via via preso piede con decisione nella seconda metà degli anni Novanta anche se si è poi esaurito nel volgere di pochi anni (e) per quanto riguarda il decennio successivo si prende avvio da Gomorra (…) campione di quel supposto “ritorno del reale” di cui molto si è parlato e si parla ancora. La semplice giustapposizione di queste due opere stabilisce una distanza incolmabile tra le due stagioni della letteratura, tra due sensibilità opposte» (p. 15).
La convinzione che la distanza tra gli anni Novanta ed i Duemila si basi soprattutto su ciò che si sceglie di analizzare, induce gli autori del saggio a sottolineare come in questo «non si indagano le ragioni, i moventi, la psicologia collettiva che ha portato al successo di una o un’altra forma, della scrittura di genere o dell’autofiction» ma ci si limiti a «prendere atto di un panorama e all’interno di quel panorama segnare un percorso (…) che ognuno valuterà sulla base delle proprie esperienze di lettura» (p. 16-17). In sostanza si vogliono analizzare alcuni fenomeni, particolarmente rilevanti, senza mirare a ricavarne una fenomenologia. Sono state scelte alcune opere paradigmatiche per decennio a cui fanno seguito alcuni casi, per ogni decade, che complicano ed articolano i paradigmi scelti mostrando come tali paradigmi di partenza non possono certo essere considerati esaustivi e risolutivi. Tra i testi analizzati troviamo: Underworld (Don DeLillo, 1997); Troppi paradisi (Walter Siti, 2006); La vita come un romanzo russo (Un roman russe, Emmanuel Carrère, orig. 2007 – it. 2009); Espiazione (Atonement, Ian McEwan, orig 2001 – it. 2003); Esordi (Antonio Moresco, 1998), Canti del caos (Antonio Moresco, 2009); Pentalogia delle stelle (Mauro Covacich, dal 2003 al 2011); 1Q84 (Haruki Murakami, orig. dal 2009 al 2010 – it. dal 2011 al 2012).

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Dal gusto al disgusto https://www.carmillaonline.com/2015/10/15/dal-gusto-al-disgusto/ Thu, 15 Oct 2015 21:00:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24872 di Gioacchino Toni

gusto disgustoMaddalena Mazzocut-Mis (a cura di), Dal gusto al disgusto. L’estetica del pasto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 205 pagine, € 19,00

Il saggio curato da Maddalena Mazzocut-Mis indaga il rapporto fra gusto e disgusto a cavallo tra estetica ed alimentazione passando in rassegna diverse epoche storiche. Mentre i sensi come la vista e l’udito hanno goduto di una speciale considerazione nel pensiero occidentale in quanto considerati vie privilegiate di accesso alla conoscenza, il gusto è invece stato frequentemente relegato ad un livello decisamente inferiore. Platone, collegando il gusto [...]]]> di Gioacchino Toni

gusto disgustoMaddalena Mazzocut-Mis (a cura di), Dal gusto al disgusto. L’estetica del pasto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 205 pagine, € 19,00

Il saggio curato da Maddalena Mazzocut-Mis indaga il rapporto fra gusto e disgusto a cavallo tra estetica ed alimentazione passando in rassegna diverse epoche storiche. Mentre i sensi come la vista e l’udito hanno goduto di una speciale considerazione nel pensiero occidentale in quanto considerati vie privilegiate di accesso alla conoscenza, il gusto è invece stato frequentemente relegato ad un livello decisamente inferiore. Platone, collegando il gusto al basso piacere dell’alimentazione, lo indica addirittura come nemico dell’attività intellettuale. È tra il Sei e Settecento che si ha una sorta di riabilitazione del gusto pur senza affrancarlo dalla carnalità sensoriale attivata dall’alimentazione.

Tenendo in considerazione l’incidenza delle trasformazioni sociali sulla dimensione culturale, i diversi contributi di Maddalena Mazzocut-Mis, Paola Vincenzi, Claudio Rozzoni e Serena Feloj, analizzano, a partire dalle premesse rinascimentali, i mutamenti del gusto in ambito culinario, in particolare nel corso del Sei e Settecento, passando in rassegna la trattatistica relativa alla scienza culinaria, le credenze mediche, la messa in scena dei banchetti e l’aspetto decorativo delle vivande nel passaggio “dal commestibile al godibile”. Una parte della trattazione è dedicata alla ricerca settecentesca di giungere ad una convincente definizione di “piacere” ed al binomio appagamento sessuale-soddisfacimento dello stomaco che rappresenta una costante del pensiero libertino dell’epoca.

Nel secolo dei Lumi, il gusto ha a che fare con la “capacità di discernerne la bellezza artistica e naturale”, pertanto esso si offre come strumento in grado di ampliare le possibilità di entrare in rapporto con le cose. In linea con i principi dell’Encyclopédie, l’individuo non può lasciarsi guidare dal gusto senza che quest’ultimo sia stato educato; occorre fornire al soggetto la capacità di gestire quanto potrebbe disturbarlo o corromperlo nel corpo e nell’intelletto. “L’amore disordinato della buona tavola va di pari passo con la degradazione dei costumi ed è considerato alla stregua dei vizi corruttori dell’animo umano”.

Particolare attenzione viene riservata alle trasformazioni del gusto in rapporto alla mobilità sociale della Francia settecentesca; l’ascesa borghese determina, ovviamente, anche a tavola, nuovi riti di socializzazione e nuove modalità di consumo del cibo dando luogo ad un tipo di alimentazione sempre più lontano dalla secentesca opulenza aristocratica. Dall’analisi dei testi di cucina dell’epoca si comprende, inoltre, come il nuovo gusto francese, affrancatosi degli interdetti religiosi del secolo precedente, sia rivolto ad una “fruizione degustativa regolata”, in linea con lo spirito illuminista.

Nel corso del XVIII secolo, il disgusto si configura come minaccia al piacere estetico derivata dalla sensazione fisica di nausea di fronte al cibo. L’indagine del rapporto tra estetica ed alimentazione introduce alla questione del disgusto. Nell’Encyclopédie il disgusto viene affrontato dal punto di vista medico, non tanto come degenerazione del gusto ma come malfunzionamento della degustazione che porta alla mancanza di appetito. Il Settecento non ammette una fruizione estetica del disgusto, essendo trattato come mera devianza patologica. “Il disgusto è una sensazione chiusa all’interno di una negatività che non porta mai verso un piacere. Non ha mai i tratti dell’ambivalenza e dell’illusorietà, e non entra nel circuito di ciò che può, a vario titolo, essere considerato artistico”. Nel secolo dei Lumi, sostiene la curatrice del saggio, il disgusto non deve essere confuso col brutto, non è il contrario del bello, “se l’irrappresentabile è al limite di una rappresentazione, l’orrore è ancora al di qua del confine, il disgusto è già al di là”. Mentre il sublime “respingendo attrae”, all’opposto il disgusto risulta repellente, allontana dalla fonte disgustosa. Il saggio si sofferma sulla svolta kantiana che esplicita il legame tra estetica e moralità e, successivamente, analizza la filosofia postkantiana ove il disgusto inizia ad essere inteso come “parte di una generale inclusione del brutto, del grottesco e del nauseante nell’estetica”.

the brood 022 cronembergIl contributo di Michele Bertolini si occupa invece dello spazio conquistato dal disgusto nel panorama artistico e cinematografico a partire dalla frattura fra arte e bellezza sancita dalle avanguardie del primo Novecento. L’autore decide di affrontare l’ambito artistico riprendendo la proposta marxiana di intendere il consumo come modalità di produzione: “L’idea dell’arte come merce da consumare e del consumo come forma di produzione, come trasformazione produttiva della realtà e non semplice digestione passiva, che progressivamente s’impone a partire dal ready-made di Duchamp, può costituire un efficace punto di partenza per un approccio generale all’arte del Novecento”. A partire da tale premessa Bertolini sostiene che il ready-made duchampiano può essere interpretato come una modalità di consumo produttivo che apre nuove strade all’arte contemporanea. Facendo riferimento soprattutto agli happening che strutturano banchetti a cui il pubblico è invitato a partecipare, Bertolini sostiene che “l’artista contemporaneo sembra rivolgersi al dispositivo formale della distribuzione, del consumo e della lavorazione del cibo come a un generatore di processi sociali e di scambi interpersonali locali che possono opporsi al sistema dell’economia ‘globale’ e al dominio invisibile e smaterializzato del mercato”. Mentre la produzione artistica relazionale negli anni ’60 e ’70 mirava ad un ampliamento dei limiti, ai giorni nostri, secondo l’autore, si tende maggiormente alla costruzione di modelli di socialità provvisori; è come se fosse caduta ogni possibilità di ambire a trasformazioni durature e via via sempre più allargate. Il contemporaneo sembra non riuscire ad andare oltre la creazione di forme di convivialità e socialità temporanee, accontentandosi di sperimentare e vivere momenti relazionali significativi ma effimeri.

Dalla preparazione e dal consumo conviviale dei cibi al loro utilizzo invasivo ed avariato, il passo è breve e, per tale via, si giunge facilmente all’introduzione del disgusto in ambito artistico. Secondo l’autore, nell’età contemporanea, il disgusto non deve essere considerato il contrario del buon gusto, ma come una consapevole e volontaria reazione nei suoi confronti. I tanti casi in cui l’arte ed il cinema costringono lo spettatore a confrontarsi con reazioni fisiologiche estreme possono essere interpretati come rigetto dell’estetica del buon gusto. Nell’ipotesi di Bertolini, il disgusto, così come l’informe, nel suo far saltare la distinzione tra interno ed esterno di corpi, tra uomo ed animale, si presenta come movimento di degradazione che può tradursi in espressione artistica quando sovverte “le possibilità interpretative di un’estetica giudicatrice, di un’estetica della forma e del buon gusto”. Il disgusto sovverte la distinzione tra interno ed esterno di corpi attraverso due processi opposti: dall’interno all’esterno e dall’esterno all’interno. Il primo caso evoca “forme di apertura del corpo”, il secondo replica in una forma nauseante il consumo del cibo. Il corpo viene smembrato e dato a vedere anche nei suoi anfratti più nascosti. L’estroflessione dell’interno del corpo e la violazione della sua integrità comportano un movimento in direzione dell’informe “che può essere interpretato come una paradossale apertura alle metamorfosi, alle infinite possibilità della forma”, come avviene nel film The Brood (Brood – La covata malefica) del 1979 di David Cronemberg, ove una donna dall’utero estroflesso genera esseri mostruosi. L’autore sottolinea come il cinema cronemberghiano della “bellezza interiore” e dalla “nuova carne” (derivata da ibridazioni fra specie ed organismi e fra corpo biologico e protesi tecnologiche) rimandi all’idea di disgusto proposta da Aurel Kolnai ad inizio Novecento, così riassunta da Bertolini: “un eccesso distruttivo e perverso di vita, irriducibile a qualsiasi forma stabile, che invade e attraversa perfino la morte sotto l’aspetto di una vita putrida, senza riuscire a morire”.

the brood 005 cronembergIn ambito artistico la categoria del disgusto ha avuto negli ultimi decenni grande diffusione soprattutto tra i cosiddetti “giovani artisti britannici” che hanno esposto più volte cadaveri, deformità, elementi in decomposizione, ibridazioni tra organico ed inorganico ecc. Tali proposte artistiche non hanno a che fare con una “poetica del realismo estremo”, occorre piuttosto, sostiene l’autore, “scorgere nel cuore dello spettacolo estetico (la mostra, il mercato e il sistema dell’arte) l’imposizione violenta ai sensi di un disgusto che richiede la nostra adesione e che tuttavia non può essere contemplato o guardato come uno spettacolo”.

Dopo aver analizzato le differenze tanto a livello teorico, quanto a livello di pratiche artistiche, dei concetti di informe, abiezione ed osceno, determinanti diverse diramazioni del disgusto, Bertolini si interroga circa la possibilità di un’estetica del disgusto. “Il disgusto è un processo, un movimento funzionale al suo superamento, alla liberazione dal nauseante (come nel caso del vomito), a una riconquista della purezza perduta, o viceversa al riconoscimento del basso materiale, della dimensione naturale che ci appartiene?”. La produzione artistica novecentesca che ha proposto rappresentazioni del disgusto e del nauseante più estreme, sposta, senza cancellarlo, il limite nella raffigurazione del disgusto obbligando l’estetica contemporanea ad interrogarsi circa la variabilità e la mobilità della frontiera tra presentabile ed irrappresentabile.
“Il disgusto ‘artistico’ è quindi inserito all’interno di un processo di fruizione che non deve necessariamente addomesticarlo, neutralizzarlo o riscattarlo: esso può (…) fermarsi all’informe, senza cedere alla tentazione di un’arte dell’abiezione che finisce per feticizzare i proprio oggetti, le sostanze escrementizie (…) o i temi (…), e quindi per irrigidirsi in significati fissi, pietrificati, in una cornice semantica a priori, oppure giocare tra diverse categorie (…) spostando l’attenzione dall’oggetto, da ciò che genera disgusto, al rapporto totalizzante che l’opera impone al nostro corpo, ai nostri sensi, al di là o al di qua della rappresentazione”. Di fronte ad operazioni artistiche giocate sul disgusto si impone un deciso cambiamento alle modalità di fruizione, non può più trattarsi di un rapporto di tipo contemplativo, ma di un vero e proprio coinvolgimento totale che comporta “un abbandono al dolore e allo choc come unica possibilità di ricezione richiesta dall’opera d’arte, nella rinuncia a qualsiasi, pur minima, distanza di sicurezza”.

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