Dario Fo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il desiderio, l’immaginario e i fantasmi rimossi della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2020/05/06/il-desiderio-limmaginario-e-i-fantasmi-rimossi-della-lotta-di-classe/ Wed, 06 May 2020 21:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59659 di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma [...]]]> di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma privilegiata. Questi ultimi, infatti, potevano inquadrare e colpire con sufficiente precisione singoli obiettivi, talvolta causando gravi perdite al nemico, ma chi puntò maggiormente sulle prime, potendo spaziare più lontano con lo sguardo, ebbe modo di colpire a distanza e in maggiore profondità.

La metafora della guerra sul mare potrebbe anche non piacere all’autrice, anarchica e antimilitarista, del libro qui recensito, ma può rivelarsi utile per guardare a due differenti approcci al problema del rovesciamento dei rapporti sociali e di produzione ancora vigenti.
Uno si accontenta di singoli, momentanei obiettivi (talvolta raggiunti, talvolta no), attraverso cui arrivare ad un cambiamento graduale, un passo dopo l’altro, destinato in realtà a non aver mai fine; mentre l’altro cerca uno scontro a tutto campo che allarghi la sua azione ad un orizzonte il più vasto possibile, per poter giungere ad una distruzione totale e definitiva dell’avversario. Questo secondo metodo può avere un margine momentaneo di errore un po’ più ampio, ma è sicuramente destinato a rivelarsi come l’unico possibile per una strategia di successo.

Anche la vita dei due equipaggi è in/comparabile: tristi, rinchiusi in un ambiente asfittico e buio i sommergibilisti, più baldanzosi e vivaci coloro che all’aria aperta su una tolda spazzata dal vento e dalle onde, ma illuminata dal sole, possono osservare l’orizzonte. Cogliendo con largo anticipo, anche ad occhio nudo, i mutamenti climatici e le mosse che potrebbero avvantaggiarli nella lotta contro il nemico. Senza parlare poi di quelli che possono librarsi in volo e spingersi a guardare con i loro occhi oltre l’orizzonte stesso. Anche al di là di quello temporale.

Annie Le Brun appartiene senza ombra di dubbio ai secondi, anzi ai terzi, in grado di volare oltre le miserie e le banalità del presente per provare a cogliere la gioia di vivere futura già in ogni istante del vissuto quotidiano. Nata nel 1942 a Rennes, è una poetessa surrealista, scrittrice e critica letteraria. Dopo aver incontrato André Breton a ventuno anni, prende parte alle attività del movimento surrealista dal 1963 fino all’autodissoluzione del gruppo. E’ autrice di numerosi testi di cui soltanto due sono stati tradotti in italiano: Disertate! (il femminismo è morto), pubblicato da Arcana nel 1978 e quello qui recensito. Inoltre, nel 1996, ha curato la prefazione all’edizione francese del Manifesto di Unabomber, L’avvenire della società industriale.

Con il testo edito in Italia nel 1978, Annie aveva già suscitato un certo scalpore, proprio contrapponendo la vita all’ideologia, l’azione alla ripetizione formale di concetti provenienti da un esistenzialismo filosofico virato al femminile da Simone De Beauvoir, che del maggior rappresentante di quella corrente di pensiero (Jean-Paul Sartre) era stata compagna nella vita.

Qui, dove la perseveranza sta al posto dello slancio, e la ripetizione al posto della convinzione, eccoci ben lontani da tutte quelle lavandaie, battilana, brunitrici, calzolaie… della Comune di Parigi che ci hanno svelato le radici della rivolta femminile nel cuore stesso della vita, nel momento stesso in cui essa era più minacciata. Non che io voglia qui opporre l’azione alla riflessione. Voglio piuttosto opporre l’incontenibile esplosione di un’idea, alle ardite speculazioni più o meno interessate di cui essa diviene poco a poco il bersaglio e di cui non mancano mai di ridurre la portata. Quando si tenga bene a mente la tensione di queste donne della Comune prese nella invenzione appassionata del loro destino particolare e collettivo, la falsa obiettività universitaria del Secondo sesso diviene insopportabile, per il suo non essere altro che un artificio capace di ingannare le inquietudini di una personale devozione filosofica1.

Secondo l’autrice, infatti, mentre le femministe del XVIII e XIX secolo erano impegnate a cancellare l’illusoria differenza che investiva gli uomini di un potere reale sulle donne, il neo-femminismo si affannava e si affanna a stabilire la realtà di questa differenza per pretendere un potere illusorio, che spesso ha portato il movimento a sfociare nel carrierismo, nello psicanalismo più grossolano oppure in un prolisso rivendicazionismo. Nel denunciare tale impasse l’autrice fonde il suo stile con quello dei surrealisti e dei situazionisti, cui sarà sempre fedele, come anche nel testo recentemente curato da Martina Guerrini. Che, nell’Introduzione, può affermare:

Il mio incontro con il pensiero di Annie Le Brun è stato un lampo capace di aprire un orizzonte da troppo tempo oscurato. Il suo unico lavoro tradotto in italiano mi aspettava su una bancarella di libri, e mai come in quel momento è stato comprensibile quanto l’imprevisto fosse benvenuto. Da allora è stata una corsa forsennata ad approfondire, un’immersione in ampi spazi e in abissi profondi, accompagnati da una scrittura sensuale e ruvida allo stesso tempo, difficile, carica di negativo.
Questo testo non fa eccezione, né fa sconti alle sicurezze e ai rituali – teorici, politici, filosofici, artistici – e soprattutto evita accuratamente di dare indirizzi o soluzioni.
È la bellezza sconvolgente dell’autrice, che non si nasconde mai pur chiedendo ai lettori e alle lettrici di abbandonare i propri sentieri perché tutto sia chiaro, […] Vale la pena, certamente, faticare e scalare letteralmente la prima parte dell’Eccesso di realtà, per capire cosa è realmente un testo di critica radicale.
D’altra parte, inerpicarsi su alte vette e raggiungere orizzonti a pochi consentiti è infinitamente più affascinante che cercare e trovare ciò che nutre la noia dei pensieri battuti2.

E’ un percorso di analisi e riflessione ben preciso quello che il testo della Le Brun ci propone. Percorso che va dall’impoverimento del linguaggio contemporaneo, dovuto principalmente ad un abuso di tecnicismi e di vocaboli tratti da una terminologia che si vorrebbe scientifica e specialistica, all’inaridimento della poesia (e più in generale della letteratura), costretta ormai a ripetere soltanto cliché stilistici ed emozionali destinati a fare trionfare il principio di realtà all’interno di ogni discorso e di ogni riflessione. Si badi bene però, l’unica realtà possibile deve essere quella dell’esistente e non quella della sua negazione. Il principio di realtà dominante, derivato ed esaltato da quello degli specialisti, degli intellettuali e dei promotori del pensiero asservito può essere soltanto quello che nega la negazione del mondo che ci è imposto.

E’ questo l’eccesso di realtà di cui ci parla l’autrice. Una realtà che si confonde con il virtuale e che, attraverso la distorsione del linguaggio e della poesia, giunge a delimitare l’immaginario per mezzo della finzione di un certo grado di tolleranza e, ancora, a sradicare il desiderio, incanalandolo lungo una sorta di sistema binario in cui lo 0 e l’1 sono sempre definiti secondo le logiche della assuefazione sistemica al principio di massima soddisfazione possibile all’interno di ciò che già esiste, senza mai superarne i limiti.

Un processo di spersonalizzazione collettiva ottenuta per il tramite di moduli adeguati a soddisfare le più svariate formule identitarie, in cui il politically correct ha la funzione fondamentale di rimuovere l’individuo e le sue passioni, i suoi lati oscuri, la sua sessualità, veri motori di ogni rivolta. Che non può scaturire altrimenti che dall’incontro delle contraddizioni del reale con l’immaginario, non ancora massificato, prodotto da una psiche che affonda le sue radici nella carne e non nella realtà prodotta dal web e dai suoi master.

Ecco allora che «le parole di Shakespeare, Charles Bukowski o Emily Dickinson si trovano poste sullo stesso piano di quelle di Neruda e altri cantori stipendiati»3. Una poesia che non può e non deve contenere già il seme della rivolta, ma funzionare da antidepressivo in funzione della conservazione dell’esistente.

Bisogna forse ricordare che i totalitarismi del xx secolo si sono tutti distinti per un medesimo gusto inveterato per una cultura raggiante di felicità? Stalin e Hitler erano degli allegri buontemponi in materia culturale e su fino a Tito che, alla fine della sua vita, ha condannato tutto ciò che gli sembrava troppo tetro, per promuovere se non ordinare una letteratura e una musica “rosa”. Certo, le cose sono cambiate: la poesia è diventata l’antidepressivo che ci obbligano in ogni momento a ingurgitare…4

Per raggiunger l’obiettivo desiderato occorre far circolare “dizionari della contestazione” in cui:

in buona posizione troviamo premi Nobel, dal “molto politicamente corretto” Dario Fo allo sbirro stalinista Pablo Neruda, mentre non vi figurano, per esempio, i nomi di René Crevel e del poeta Benjamin Péret, disertore francese, condannato in tre paesi diversi, solo menzionato qua e là, in una frase, per la sua partecipazione a Dada, al surrealismo, o ancora per un poema “istericamente anticlericale” […] Ma ci si domanda se non sia meglio essere stati dimenticati piuttosto che figurare in una simile antologia, dove se Georges Bataille è citato come “scrittore francese”, Antonin Artaud è citato,proprio lui, come “scrittore dei limiti”.5

Scriveva Sigmund Freud in una lettera a Eric Jones del 17 maggio 1914: «Colui che permetterà all’umanità di liberarsi dall’imbarazzante sottomissione sessuale, qualsiasi stupidaggine scelga di dire, sarà considerato come un eroe»6.
Perché è proprio al punto di incontro tra impedimenti del reale, immaginario e sessualità che scaturisce il desiderio. Quel desiderio senza il quale non può esistere nemmeno il rovesciamento dell’esistente ovvero la rivoluzione. Perché solo dal desiderio più profondo può scaturire la passione.

Passione e possibilità di rivoluzione viaggiano l’una accanto all’altra. Minare la prima attraverso i percorsi di imposizione dell’unica realtà possibile significa, nella sostanza, minare e impedire la seconda. Impedendone anche soltanto il desiderio. Desiderio che per essere tale, vivo e provocatorio, può soltanto essere individuale, nato nel profondo di ognuno, ma che è destinato ad appassire e a morire ogni volta in cui è canonizzato in formule destinate a risistemarlo e impoverirlo. Per trasformarlo in una merce vendibile ad una maggioranza di consumatori passivi.

L’erotismo mercificato e fintamente liberato dalla cultura dominante odierna, si tratti della pruderie contenuta nelle pagine di noti scrittori invitati a scrivere racconti erotici per le riviste femminili o del voyeurismo mascherato nel discorso di tanti intellettuali e filosofi alla moda, oppure rimosso dal discorso neo-femminista, risponde in fin dei conti alla necessità di deerotizzare l’insorgenza, la ribellione spontanea, la rivoluzione. La fossilizzazione della quale avviene con un percorso lastricato da buone intenzioni, schemi e formule ripetute come mantra, buone per tutte le occasioni. Inutili e riduttive sempre, poiché destinate a rivitalizzare il conformismo dell’esistente.

Affinché la rivoluzione non sia patrimonio dei grigi burocrati e degli insoddisfatti petulanti, di ogni genere e convinzione, deve vivere di pulsioni e di passioni che non possono essere ridotte a formule, pena l’estinguersi ancora prima di essere entrata in scena. Come separarla infatti dalle giovani operaie pietroburghesi senza obblighi famigliari della rivoluzione del febbraio 1917? Come separarlo dalle donne della Comune e, infine, come separarla dall’irrefrenabile pulsione desiderante che animò la rivolta giovanile e operaia del ’68 e del ’77?

Oggi i linguaggi, i corpi, i desideri, le pulsioni devono essere codificati in una finzione di liberazione i cui promotori sono ben lontani, e non potrebbe essere altrimenti, da quella indicata, senza inutili pedagogismi, da Sade, Baudelaire, Rimbaud e dai surrealisti (cui oggi occorrerebbe anche aggiungere almeno un autore come James Ballard). Riscoprire tutto ciò, attraverso lo sguardo d’aquila e il cammino talvolta tortuoso della Le Brun, significa tornare alle origini della rivolta.

Quella che muove sempre da un moto individuale di rifiuto dell’esistente e delle sue leggi. Ciò che spesso non si sa come spiegare, ma che è immancabilmente destinato a diventare collettivo. Si tratti pure del manifesto di Unabomber o degli atti vandalici messi in atto dai giovani teppisti delle banlieue.
Farlo, significa tornare alla radici della negazione radicale, senza la quale non vi è cambiamento reale possibile. Liberando i fantasmi rimossi della lotta di classe dalle loro catene.


  1. A. Le Brun, Disertate!, Arcana 1978, pp. 10-11  

  2. M. Guerrini, Introduzione, A. Le Brun, L’eccesso di realtà, BFS Edizioni 2020, pp. 5-6  

  3. A. Le Brun, L’eccesso di realtà, op. cit. p.86  

  4. A. Le Brun, cit. p.86  

  5. Ibidem, pp. 94-95  

  6. Ivi, p.186  

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La fine dei tempi e la nave che verrà https://www.carmillaonline.com/2018/07/10/la-fine-dei-tempi-e-la-nave-che-verra/ Mon, 09 Jul 2018 22:01:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46685 di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, Donzelli editore, Roma 2018, pp. 178, € 18,00

Per una volta va detto chiaramente e subito, in apertura della recensione: per chiunque sia interessato a Bob Dylan o, più in generale, alla popular music il testo di Alessandro Portelli si rivelerà come una lettura indispensabile. Condotto con attenzione certosina al particolare e costruito su più piani, tutti perfettamente incastrati tra di loro, il libro permette di compiere un viaggio esperienziale attraverso l’opera poetico-musicale del menestrello di Duluth, il mistero del suo successo a [...]]]> di Sandro Moiso

Alessandro Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, Donzelli editore, Roma 2018, pp. 178, € 18,00

Per una volta va detto chiaramente e subito, in apertura della recensione: per chiunque sia interessato a Bob Dylan o, più in generale, alla popular music il testo di Alessandro Portelli si rivelerà come una lettura indispensabile.
Condotto con attenzione certosina al particolare e costruito su più piani, tutti perfettamente incastrati tra di loro, il libro permette di compiere un viaggio esperienziale attraverso l’opera poetico-musicale del menestrello di Duluth, il mistero del suo successo a livello planetario che sembra aver superato le barriere dello spazio e del tempo, la diffusione della ricezione delle sue canzoni in Italia fin dai primi anni sessanta, il collegamento con la tradizione folklorica e musicale non soltanto anglo-sassone e, infine, l’immancabile richiamo al testo biblico.

A tutto questo, che già potrebbe costituire un materiale enciclopedico intorno alla figura di Dylan, si va ad aggiungere un puntuale e coltissimo riferimento alle origini e ai richiami della tradizione delle ballate popolari all’interno delle sue canzoni e una definizione, credo, finalmente esaustiva di ciò che costituisce una ballata e che la differenzia da altri generi musicali quali, ad esempio, la canzone politica.

Il tutto si articola intorno ad una singola canzone, la celeberrima A Hard Rain’s A-Gonna Fall che, come afferma Portelli, fu anche la prima canzone di Dylan ad essere trasmessa da una radio italiana nel 1964. Affermazione avvalorata dal fatto che fu proprio lo stesso Portelli a trasmetterla nel programma Rotocalco musicale di Adriano Mazzoletti che andava in onda, sul secondo programma della RAI, ogni mercoledì alle 17.

Un legame di antica origine e di lunga durata è quello che lega quindi l’autore del libro, oggi uno degli americanisti e studiosi di storia orale e di cultura e musica popolare più importanti (forse il più importante) d’Italia, al cantautore e poeta statunitense. Legame lungo, appassionato e serio che permette a Portelli di sviscerare autenticamente la canzone, le sue origini e tutti i suoi possibili significati e, allo stesso tempo, fare altrettanto con i suoi riferimenti culturali e musicali.

Se il viaggio con l’opera e il successo di Dylan inizia infatti in Italia nel 1964, esso poi continua nel deserto del Sahara dove una guida tuareg, nel 1969, fa ascoltare al fotografo Mark Edwards la voce di Dylan, attraverso un vecchio mangiacassette a batteria, mentre interpreta proprio Hard Rain. Per continuare poi, nel tempo e nello spazio, fino al festival che si tiene annualmente a Shillong, ex-capitale dell’Assam, in India in occasione del compleanno di Dylan il 24 maggio. Festival rock cui partecipano gruppi e spettatori di mezza India, pur non essendo mai andato il destinatario di quella manifestazione ad esibirsi in quel paese. Oppure a Calcutta nel 2016, dove cantautori locali, giovani o meno, continuano ad interpretare ed inventare canzoni tradizionali sulla base della musica o della poetica dylaniana.

Un viaggio che in Italia ha visto avvicinarsi fin dagli inizi alla medesima poetica, per trarne ispirazione, cantautori ed artisti quali Fabrizio De André, Edoardo Bennato, Francesco De Gregori, il Nuovo Canzoniere Italiano e molti altri ancora. Ma, come si è già detto, questo viaggio non è soltanto nel tempo delle canzoni di Dylan e della loro ricezione, ma anche nelle radici popolari e storiche delle stesse.

Per fare ciò Portelli utilizza la ballata che maggiormente sembra avere influenzato la struttura di Hard Rain: si intitola Lord Randall, di cui sono state individuate dagli studiosi «versioni e varianti tedesche, olandesi, svedesi, danesi, ungheresi, wendish, irlandesi, americane, boeme, catalane; ma la coesione più stretta e fra le versioni italiane e quelle anglofone».1

Ed è esattamente a questo punto che la storia di Hard Rain/Lord Randall torna ad incrociarsi con la canzone popolare italiana, si potrebbe dire con l’autentica canzone popolare; quella trasmessa oralmente attraverso i secoli, da un esecutore all’altro, e di cui si trovano tracce fin dal 1629. La versione italiana, che potrebbe essere addirittura la prima e la più antica, si intitola Testamento dell’avvelenato ed è ricordata da «un certo Camillo detto il Bianchino, in una raccolta di testi pubblicata a Verona ».2

L’antica ballata, che inizia in media res, racconta la vicenda di un giovane che allontanatosi da casa per trovare la sua bella, tornerà a morire tra le braccia della madre e dei famigliari dopo essere stato avvelenato dalla stessa donna di cui si era innamorato. Non vi sono spiegazioni sui motivi dell’omicidio, ma la metafora dei rischi legati all’abbandono dei luoghi conosciuti e famigliari è potentissima. Infatti, come afferma Portelli

“la pulsione verso il conosciuto, stabile, famigliare in tempi di trasformazioni tempestose ha anche una risonanza con il senso del tempo storico: la sensazione che il «nuovo» possa essere portatore non solo di speranza ma anche di pericolo.
Gli anni in cui fiorisce in Gran Bretagna la ballata epico-lirica sono quelli delle enclosures e delle leggi anti-vagabondaggio, in cui la modernizzazione consiste nella privatizzazione dei beni comuni e nella cancellazione degli usi civici, impoverendo le famiglie rurali o trasformandole in poveri urbani itineranti e vagabondi illegali. Non sempre, per le classi non egemoni, il nuovo ha voluto dire progresso, miglioramento.[…] La canzone popolare è una delle forme che esprimono, per dirla con Vito Teti, antropologo del mondo rurale del Sud, «l’inquietudine di popolazioni mobili rese costitutivamente precarie, melanconiche, ma anche creative e resilienti dall’esperienza prolungata delle catastrofi naturali e dagli stravolgimenti storico-economici, dalla fame e dalla ricerca di un paradiso altrove»”.3

La canzone di Dylan, cantata in pubblico per la prima volta nel 1962 ed uscita per la prima volta su disco il 27 maggio 1963, nel suo primo album di canzoni originali The Freewheelin’ Bob Dylan, parla in realtà del pericolo di un fall-out nucleare destinato a distruggere il nuovo mondo di cui il blue eyed young man protagonista della canzone è andato in cerca incontrando soltanto morte e distruzione, compresa la sua. La canzone riprende i toni apocalittici ereditati dalla Bibbia da blues, gospel e spiritual.

Non è la sola nel disco poiché con essa è presente anche Talkin’ World War Blues che riprende il tema della possibile distruzione nucleare del mondo con versi ora drammatici ora ironici. Ma l’anno è importante poiché si tratta del 1962 e la crisi dei missili di Cuba ne è diventata il simbolo. Il senso del vivere sul limite di una catastrofe nucleare pervade le folk songs, i primi movimenti di protesta giovanili anti-militaristi e precederà di poco lo sviluppo dei movimenti per i diritti civili e di lì a poco il 1968.

Ma Dylan può affermare, a ragione, di non aver mai scritto una canzone politica, anche se molt, ieri e ancora oggi sono state accolte e sono ancora interpretate come tali. In questa affermazione l’autore americano non solo conferma la sua volontà di non essere mai inquadrato in un cliché, ma rivendica indirettamente il suo essere scrittore ed interprete di ballate epico-liriche tipiche della cultura popolare.

Infatti, ci spiega Portelli

“La ballata si occupa di quelle opposizioni in cui schierarsi non è possibile. Ciascuna ballata, o il sistema delle ballate nel suo insieme, enuncia un dilemma ma non lo risolve perché, come nella tragedia, le ragioni sono divise, sono tutte sia giuste, sia fatali: il nuovo è minaccioso ma come possiamo rinunciare al futuro? […] Ascoltare le ballate e prenderle sul serio ci aiuta a conoscere meglio Bob Dylan e a capire anche perché non sia solo il Dylan giovanile ma anche quello più recente a esserne intriso, come se quelle canzoni che esplorava come riproposta tornassero decenni più tardi, interiorizzate in forma di memoria.”4

L’argomento delle ballate, scrive ancora l’autore, sono le domande, non le risposte e questo può spiegare la loro sopravvivenza nel tempo e nello spazio poiché spesso fanno riferimento ai grandi temi e ai grandi archetipi dell’agire umano e dell’inconscio collettivo. Potendo essere di volta utilizzate e riutilizzate in contesti sempre nuovi, sempre diversi e allo stesso tempo costanti.
Cosa che le avvicina alla lirica e alla poesia e che in Dylan vede accumularsi, insieme alla tradizione folk, blues, gospel, biblica e tradizionale, elementi della poesia moderna dal Bateau ivre di Rimbaud a Howl di Allen Ginsberg, passando per la ribellione giovanile dell’autentico drop out quattrocentesco François Villon. Ed è stato proprio questo approccio che ha, di fatto, contribuito all’assegnazione del Nobel a Dylan proprio nell’anniversario della morte di un altro premio Nobel, questa volta italiano, che dell’unione tra colto e popolare aveva fatto il centro del suo Mistero buffo: Dario Fo.

Poiché un viaggio deve per forza concludersi con una nave che entra in porto, se nella canzone Hard Rain a trionfare può essere l’apocalisse, in un’altra canzone famosissima la speranza può arrivare con una nave, un’arca della salvezza oppure carica di angeli sterminatori per i malvagi: When The Ship Comes In. Inserita in The Times They Are A-Changin’, del 1964 e terzo lp del giovane Dylan, in essa si afferma che

“Tempo verrà; non se ma quando arriverà la nave.[…] When The Ship Comes In è un’altra profezia che rovescia e bilancia A Hard Rain’s A-Gonna Fall. Siamo in quel momento sospeso in cui la pioggia sta per cadere, ma stavolta non è la fine del tempo: è un prodigioso tempo nuovo, un avvento liberatore che apre l’oceano e scuote la sabbia; persino i pesci e i gabbiani sorrideranno, persino le rocce si ergeranno orgogliose sulla riva, il sole finalmente non brucerà più i visi dei naviganti e le parole usate per confondere la nave si riveleranno in tutta la loro incomprensibile insensatezza. E’ una canzone intrisa di echi biblici. Ma quelle catene che si spezzeranno fanno pensare anche ad un altro testo sacro […] Quando arriva la nave non è più il tempo dei compromessi, delle mediazioni, delle concessioni; dalla prua della nave grideremo (ai nostri potenti nemici) «your days are numbered», i vostri giorni sono contati. «We’ll shout from bow» – Noi grideremo dalla prua; la nave non è un prodigioso deus ex-machina che viene a salvarci; sulla nave ci siamo noi; siamo noi, tutti insieme, la nostra salvezza”.5

Sarebbero ancora tantissimi i temi, le canzoni, i collegamenti contenuti nel libro, ma credo sia giusto chiudere qui, con un messaggio che è allo stesso tempo di vendetta e di speranza, esattamente come fa l’autore, che rinvia più ai drammi dell’odierno Mediterraneo colonizzato e insanguinato dall’imperialismo europeo che ai versi tratti dalla Madama Butterfly di Giacomo Puccini: «Un bel dì, vedremo levarsi un fil di fumo, sull’estremo confin del mare. E poi la nave appare. E poi la nave appare».


  1. A. Portelli, Bob Dylan, pioggia e veleno, pag. 29  

  2. A.Portelli, op.cit., pag. 27  

  3. ibid. pp.120-121  

  4. ibid. pp. 124-125  

  5. ibid. pp.143-144  

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Il libro delle metamorfosi – Intervista a Piero Cipriano https://www.carmillaonline.com/2018/05/06/libro-delle-metamorfosi-intervista-piero-cipriano/ Sat, 05 May 2018 22:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45116 di Gioacchino Toni

Dopo aver pubblicato La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016), in occasione dell’imminente uscita del suo nuovo libro, Piero Cipriano anticipa in questa intervista alcune questioni trattate nella pubblicazione edita, come le precedenti, da Elèuthera.

[ght] Nel tuo nuovo libro che esce a quarant’anni dall’entrata in vigore della Legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi,  oltre a ricostruire le lotte che portarono a quel risultato, tratteggi le trasformazioni del dispositivo manicomiale fino al “manicomio digitale” prossimo venturo, dove la rete sembrerebbe essere il panottico perfetto da cui non [...]]]> di Gioacchino Toni

Dopo aver pubblicato La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016), in occasione dell’imminente uscita del suo nuovo libro, Piero Cipriano anticipa in questa intervista alcune questioni trattate nella pubblicazione edita, come le precedenti, da Elèuthera.

[ght] Nel tuo nuovo libro che esce a quarant’anni dall’entrata in vigore della Legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi,  oltre a ricostruire le lotte che portarono a quel risultato, tratteggi le trasformazioni del dispositivo manicomiale fino al “manicomio digitale” prossimo venturo, dove la rete sembrerebbe essere il panottico perfetto da cui non è possibile sfuggire. In attesa dell’uscita del libro ti chiediamo di anticiparci brevemente qualcosa a tal proposito.

[pc] I quarant’anni di una legge straordinaria ma tutto sommato per lo più tradita offrono l’occasione per fare il punto. Quella legge era fatta a misura del manicomio classico, quello che siamo abituati a pensare essere il manicomio, l’unico manicomio, il manicomio inventato da Pinel nel 1794, il manicomio lager che serviva per segregare i devianti affetti da un qualche elemento di follia, non per curarli e restituirli alla società ma per separarli per sempre da essa. Un luogo dove si compiva un’eutanasia sociale prossima a quella dei lager nazisti. Il luogo della definitiva sparizione degli esseri umani diversamente ragionanti. Diciamo che con la legge 180 si decretava, in Italia almeno, la fine di questi dispositivi di annientamento. Ma, è quel che sostengo in questo libro, il manicomio è un Proteo, è cangiante, e la psichiatria ha saputo sempre declinarsi in un manicomio; posto fuori legge il manicomio concentrazionario ecco ascendere, proprio a partire dal 1980, un manicomio fatto di etichette diagnostiche e psicofarmaci conseguenti, a vita, quel manicomio che ho definito chimico, il 2.0, diciamo. Ma questo manicomio invisibile si embrica con un ulteriore manicomio, trasparente, emanazione di questa società della trasparenza, la società digitale del web, della rete, dei social network, dove ognuno si denuda e mette in piazza la sua esistenza, dove il controllo è totale, come in un panottico dove, a differenza di quello benthamiano, i controllori sono gli stessi controllati, un controllo reciproco a 360 gradi, perfetto. Dirai ok, ma come questo si interseca con il manicomio chimico e quello concentrazionario? Ti faccio un esempio. La Food and Drug americana sta sperimentando un sistema detto Proteus (non per caso ispirato al Proteo mostro cangiante della mitologia) per rendere l’assunzione dei nuovi antipsicotici sicura, certa, assoluta. Il malato psichico del prossimo futuro digitale ingoia la pasticca, dotata di un sensore ingeribile che comunica con un sensore posto sulla pelle che a sua volta comunica col tablet dello psichiatra, il quale alla prima trasgressione provvederà al ricovero obbligatorio, in un reparto chiuso. Ecco che il manicomio chimico si embrica con quello digitale e con quello concentrazionario. L’uno non esclude l’altro ma si combinano. Poi mi sono perfino immaginato un povero paziente psichico digitale la cui assunzione o meno del farmaco con sensore sarà premiata con un like o biasimata con un dislike da parte dei suoi cosiddetti amici social-virtuali. E così via. Non ti racconto tutto…

[ght] Nel libro, ricostruendo la lunga lotta condotta da Basaglia contro il manicomio concentrazionario e il significato assunto dalla Legge 180 da essa derivata, insisti sulla necessità di una nuova rivoluzione anti-manicomiale. Ti chiediamo di fornirci qualche elemento utile a motivare l’urgenza di una nuova rivoluzione nell’ambito del disagio mentale.

[pc] La Legge 180 è stata una legge straordinaria, meglio di così non si poteva fare. Però è stata applicata solo in pochi luoghi, che peraltro dimostrano proprio il contrario di ciò che sostengono i detrattori, ovvero che sapendola attuare è una legge che fa quel che deve fare, ovvero elimina la manicomialità, e permette la cura delle persone nei luoghi di vita e non nelle cliniche, nei letti, nei luoghi a parte, nei tanti manicomietti e caravanserragli sparsi per il paese, che si chiamino SPDC che si chiamino casa di cura che si chiamino comunità terapeutica che si chiamino REMS. Una rivoluzione politica e scientifica che, come spesso succede, è stata in parte riassorbita, se non vanificata. La vicenda del suo ispiratore, Franco Basaglia, sulla cui figura imposto questo libro, assomiglia a quella del ginecologo viennese della metà dell’Ottocento, Filippo Ignazio Semmelweis. Il quale aveva intuito che la sepsi puerperale delle donne gravide dipendeva dalle mani dei medici, che non lavate, le infettavano a morte. Bastava lavarsi le mani, suggerì Semmelweis. Grandissima intuizione, politica e scientifica. Ebbene, fu necessario mezzo secolo perché Pasteur dimostrasse, con le scoperte microbiche, che Semmelweis aveva ragione. Nel frattempo i medici avevano ottusamente continuato a non lavarsi le mani. Nel nostro specifico sembra sia accaduta la stessa cosa. Basaglia come Semmelweis dice sono gli psichiatri che con i loro dispositivi internanti ovvero i manicomi uccidono, socialmente e fisicamente, le persone. Ancora una volta il motivo della malattia è iatrogeno. Lavatevi le mani. Eliminate i manicomi. Be’, siamo anche noi in attesa di un Pasteur della psichiatria che confermi l’intuizione di Basaglia e dica: i manicomi ammalano, non curano.

[ght] Nel libro concedi spazio ad autori come Paolo Virzì, Silvano Agosti, Nicola Lagioia e Pierpaolo Capovilla, accomunati dall’avere raccontato al grande pubblico il mondo della sofferenza mentale. Mi sembra sia importante raggiungere un pubblico diffuso perché quella rivoluzione anti-manicomiale di cui parli richiede una rivoluzione dell’immaginario collettivo e il ruolo del cinema, della musica, della narrativa e di altre forme di comunicazione è probabilmente fondamentale per il raggiungimento di questo scopo.

[pc] In effetti non l’ho detto ma lo dico ora: sono due libri, appunto. Nel primo libro, che rappresenta la prima parte, faccio una contro-storia della follia e dell’anti-follia ovvero la psichiatria, da Pinel a oggi, dove il fulcro è Basaglia. C’è insomma, io penso, nella storia della psichiatria, un prima e un dopo Basaglia. Un po’ come quell’altro, che non nomino. Nel secondo libro, appunto per capire con chi farla questa rivoluzione se di rivoluzione vogliamo parlare, oppure questa nuova 180 di cui c’è bisogno, do la parola ai nuovi tecnici, operatori, esperti della salute mentale. Capire da loro cos’hanno in testa. Cosa pensano di fare. Purtroppo erano tanti a cui ho dato la parola, e siccome il libro è fatto di pagine e di carta, ad alcuni di loro a malincuore ho dovuto toglierla, nel senso che troveranno spazio nella versione e-book, ma non nella forma cartacea, in cui saranno presenti solo cinque: uno psicologo che fa lo psicologo non nello studiolo dorato ma in un orto, una filosofa che fa le consulenze filosofiche, un giovane psichiatra che come me a trent’anni si sente un cane in chiesa, un’infermiera poco più che ventenne che vede le fasce come il fumo negli occhi, e un’economista nonché esperta di jazz che non ha neppure uno straccio di attestato che la abiliti alla cura eppure ha delle splendide idee di come una società dovrebbe prendersi cura di sé invece di ricorrere agli esperti.
Prima di arrivare a quelli famosi di cui mi chiedi, devo dirti che ho dato la parola anche agli esigenti, ovvero impazienti che hanno delle idee molto chiare su cosa vogliono e cosa non, hanno avuto un inciampo psichico ma non gli piace di essere maltrattati da operatori poco gentili. Sono una filosofa una poetessa e un narratore. Sono stupendi. Infine questi quattro grandi autori. Perché? Quando Basaglia prese la direzione del manicomio di Gorizia prima e di Trieste poi cosa fece? Per prima cosa li aprì, e dopo li distrusse. Per distruggerli però li dovette prima aprire. Aprire alla cittadinanza. Da lager diventarono nel giro di pochi anni luoghi di vita: concerti, spettacoli, teatro. Entrarono Dario Fo, De Gregori, gli Area, Battiato, molti altri. Nel momento in cui erano stati aperti, fu facile abolirli, a quel punto non avevano più senso come luoghi di internamento.
Per i nostri manicomi succedanei direi che è un po’ la stessa cosa. Abbiamo bisogno di farli conoscere. Ho individuato alcuni artisti che per un verso si sono già occupati a fondo di questi temi, per altri versi sono dei potenti amplificatori. Virzì veniva fuori dal film La pazza gioia dove racconta benissimo le contraddizioni della psichiatria italiana di questi anni. Mi venne a cercare nell’ospedale dove lavoro dopo aver letto Il manicomio chimico, a quei tempi era voracissimo di tutto ciò che ineriva il tema, sapeva tutto, ed era appassionato e direi decisamente schierato. Era con noi, con Basaglia, con Marco Cavallo, nel film denunciava le contenzioni, l’elettrochoc, la follia dei manicomi giudiziari, le pasticche facili, insomma, il suo film l’ho trovato molto più potente e immediato di molti saggi o documentari. Direi che è stato, per questo tema, ciò che negli anni Settanta era stato Silvano Agosti, autore di Matti da slegare e del documentario Il volo con cui filmava Basaglia e duecento internati in gita aerea su Venezia. Perciò ho voluto intervistare pure Agosti, testimone di quella rivoluzione. Nicola Lagioia, invece, apparentemente è il meno dentro alla questione manicomi, però è esperto di quel tipo di manicomio che sono le sostanze o gli psicofarmaci. In che senso. Nel senso che con lui i mediatori sono stati due narratori su cui lui è ferratissimo, e che, secondo me, sono stati i massimi esperti dei due manicomi di cui scrivo: Roberto Bolaño dei grandi manicomi concentrazionari dell’America latina, di cui parla nei Detective selvaggi e in 2666, e David Foster Wallace del manicomio chimico, essendo un dichiarato dipendente da antidepressivi, i nuovi psico-cosmetici che alimentano questa nostra contemporanea società della prestazione. Infine Pierpaolo Capovilla, è stato divertente intervistare un cantautore rock di cui, essendone diventato amico, pensavo di sapere già molte cose. Invece viene fuori ancora il fuoco, la passione civile che lo divora, e che ha messo a disposizione della causa dei perdenti. Dei soccombenti, voglio dire, in questa lotta cartesiana tra chi ha la ragione e chi no.


[Su Carmilla:Conversazione con Piero Cipriano, psichiatra riluttante” – P. Cipriano, “Le psichiatrie al lavoro” – P. Cipriano, “Il manicomio che non vuole morire” – P. Cipriano, “Lo specialista pericoloso” – P. Cipriano, “Metapsicologia dell’inanalizzabile” – P. Cipriano, “Il selvaggio Abrahams: tra Bolaño e Basaglia” – Volumi di Piero Cipriano recensiti: P. Cipriano, La fabbrica della cura mentale (2013) – P. Cipriano, Il manicomio chimico (2015) – P. Cipriano, La società dei devianti (2016)]

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La cultura altra e l’intellettuale rovesciato / seconda parte https://www.carmillaonline.com/2017/08/29/la-cultura-altra-lintellettuale-rovesciato-seconda-parte/ Mon, 28 Aug 2017 22:01:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40067 di Fiorenzo Angoscini

Il Nuovo Canzoniere Italiano e l’Istituto Ernesto de Martino

Come organizzatore di cultura, Bosio, ha promosso, proposto e realizzato molti progetti. Sicuramente, i due più significativi, tra loro collegati e interdipendenti, conseguenti con tutte le iniziative ‘pensate’ in precedenza, sono il “Nuovo Canzoniere Italiano”, che non è stato solo il nome di una rivista, e l’ “Istituto Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario”.

Il ‘Canzoniere’ è stato un agglomerato di solisti: Ivan Della Mea, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Alfredo Bandelli, Luisa Ronchini, Pino Masi, Rosa [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Il Nuovo Canzoniere Italiano e l’Istituto Ernesto de Martino

Come organizzatore di cultura, Bosio, ha promosso, proposto e realizzato molti progetti. Sicuramente, i due più significativi, tra loro collegati e interdipendenti, conseguenti con tutte le iniziative ‘pensate’ in precedenza, sono il “Nuovo Canzoniere Italiano”, che non è stato solo il nome di una rivista, e l’ “Istituto Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario”.

Il ‘Canzoniere’ è stato un agglomerato di solisti: Ivan Della Mea, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Alfredo Bandelli, Luisa Ronchini, Pino Masi, Rosa Balistreri, Gualtiero Bertelli, la mondina Giovanna Daffini e suo marito Vittorio Carpi (suonatore ambulante di violino), reggiani di Santa Vittoria di Gualtieri, Caterina Bueno, Ciccio Busacca, Sandra e Mimmo Boninelli1 , gli ex Cantacronache2 Fausto Amodei-Michele Luciano Straniero-Emilio Jona-Sergio Liberovici-‘Margot’, Alberto D’amico, Giorgio Gaslini, Sandra Mantovani ; mentre nella fase iniziale d’attività anche Dario Fò ed Enzo Jannacci sono stati canzonieri militanti e gruppi musicali (Canzoniere del Lazio, Nuovo Canzoniere Bresciano, Canzoniere Popolare Veneto, Gruppo Padano di Piadena, Canzoniere Pisano, I Giorni Cantati di Calvatone e Piadena, Canzoniere di Rimini, Canzoniere Popolare di Bergamo, Canzoniere Popolare della Brianza, Canzoniere Popolare Romano, Canzoniere Popolare Modenese) hanno raccontato, affiancato, sostenuto, con ballate, lettere musicali, racconti orali, canzoni, rappresentazioni teatrali, la vita, le lotte, le storie della classi subalterne. Anche Franco Fortini e Umberto Eco sono stati ispiratori pratici di questo progetto. Oltre ai protagonisti, anche alcune delle loro realizzazioni-rappresentazioni hanno inciso sul tessuto socio culturale di quest’Italia. Si sono già ricordati gli allestimenti di ‘Bella Ciao. Un programma di canzoni popolari italiane’ e ‘L’altra Italia. Prima rassegna italiana della canzone popolare e di protesta vecchia e nuova’. Altrettanto importanti sono stati ‘Pietà le morta. La Resistenza nelle canzoni 1919-1964 ‘, ‘Ci ragiono e canto’ (Rappresentazione popolare in due tempi su materiale originale curata da Cesare Bermani e Franco Coggiola) e’La grande paura. Settembre 1920. L’occupazione delle fabbriche’ (Rappresentazione teatrale in due tempi su materiale raccolto da Cesare Bermani, Gianni Bosio, Franco Coggiola con allestimento, testo e interpretazione del Collettivo Teatrale di Parma). Infine, ‘Il bosco degli alberi. La storia d’Italia dall’ Unità a oggi attraverso il giudizio delle classi popolari’ (Rappresentazione in due tempi a cura di Gianni Bosio e Franco Coggiola).

Già sul finire degli anni cinquanta (1957) Gianni Bosio e Alberto Mario Cirese, pensavano di costituire una struttura stabile e polifunzionale dove far convergere, organizzare, raccogliere e conservare tutto il diverso materiale (libri, riviste, pubblicazioni sparse, dischi, manifesti, spettacoli teatrali-musicali, fotografie e filmati) frutto del lavoro già compiuto e di quello futuro ancora da svolgere. Il “Centro di documentazione e studio delle arti e tradizioni popolari” è stato (anche se solo in bozza) il precursore ed anticipatore dell’ Istituto Ernesto de Martino.

Bosio e Cirese costituiscono ‘legalmente’ l’Istituto il primo gennaio 1966, convenendo di affidare la direzione a Roberto Leydi.3 Divergenze di opinioni e metodologie distinte portano al distacco di Leydi dai due promotori del progetto e rallentano l’inizio delle attività dell’Istituo, che slitta al primo luglio dello stesso anno. Nel 1965 era morto Ernesto de Martino 4 antropologo,5 etnologo,6 storico delle religioni, studioso, professore universitario, uomo di cultura nel senso più ampio del termine. Tra lui e Cesare Pavese intercorre un corposo carteggio relativo a come impostare e gestire la mitica Collana Viola dell’ editore Einaudi (poi passata a Bollati Boringhieri) “collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici7 . La ‘viola’, riuscì a far appassionare lettori ed esperti, veicolando nel paese scienze fino ad allora semi-sconosciute: etnologia e storia delle religioni, conferendo tagli ed impostazioni disciplinari particolari: psicologia religiosa e studio dei dislivelli culturali.

Ma de Martino è stato anche un militante politico che affrontava rilevanti questioni teoriche e ne discuteva con, ad esempio, Pietro Secchia8 , il ‘rivoluzionario eretico’ che dialogava con molti, nonostante gli sciocchi appellativi con cui veniva etichettato: l’ uomo che sognava la lotta armata, l’ultimo stalinista, l’amico di Giangiacomo Feltrinelli (sottinteso in odore di guerriglia).

Gli uomini, le donne, i collettivi citati non sono tutti i protagonisti di questo viaggio culturale-umano-storico-musicale-teatrale-letterario e politico. Ci sono stati abbandoni, distacchi e, in alcuni casi, ritorni. Alcuni hanno compiuto solo un breve tratto di strada comune, altri un tragitto più lungo, i più convinti il percorso completo. Così come non è stato ‘ricostruito’, in maniera totale, tutto il ‘movimento’ che, partito dalle intuizioni-elaborazioni-realizzazioni di Gianni Bosio si è organizzato attorno a lui. Si è voluto, però, offrire un panorama il più rappresentativo possibile.
Oggi, l’Istituto, è un insieme di “…gruppi collegati: dalla Lega di Cultura di Piadena, al Circolo Gianni Bosio di Roma, alla Società di Mutuo Soccorso Ernesto de Martino di Venezia, ad altre nate negli ultimi anni come gli Archivi della Resistenza di Fosdinovo o la recentissima L’altra Cultura di Orta San Giulio9
Di seguito, per completezza parziale, alcuni esempi di ‘eredi’ non diretti, esperienze cioè che, con il lavoro dell’innovatore culturale mantovano, hanno tratti comuni. Ad esso, sostanzialmente, si richiamano o ispirano. Oppure compiono una traiettoria simile.

Eredi ‘paralleli’

Nel dicembre 1963 nasce a Reggio Emilia con un primo numero ciclostilato ‘Il Cantastorie. Rivista di tradizioni popolari’, come continuazione di un saggio monografico di Giorgio Vezzani, fondatore e attuale direttore, dedicato ai cantastorie allora numerosi e presenti sul territorio emiliano. Con l’anno successivo la rivista viene stampata in tipografia e continua fino ad oggi con periodicità semestrale.10

Dopo il 2000 si sono formate, oltre alla direzione centrale di Reggio Emilia, altre due redazioni a Milano e a Roma. Il 2013 segna la chiusura definitiva della storica Rivista per decisione del suo fondatore che continua la sua attività di ricerca. I cinquantanni di attività sono certificati con un convegno. “I cinquant’anni della rivista ‘Il Cantastorie’ (1963-2012)” i cui atti e relazioni sono stati raccolti e pubblicati nel 2012, come quaderno n. 13, da “Il Giorno di Giovanna”.
Ed inizia la pubblicazione di ‘Foglio Volante’ nuovo strumento ‘elettronico’ informativo della rivista di tradizioni popolari “Il Cantastorie on line”11 che continua tutt’oggi. Ultimo numero diffuso è il 13 dell’aprile 2017.

A Montecchio Emilia, paese reggiano al confine con la provincia Parmense, Bruno Grulli stampa, nel maggio1979, il numero 1 di “La Piva dal carner. Foglio volutamente rudimentale di cultura popolare, ricerca, comunicazione e dintorni a 361°”. La prima serie prosegue fino al n. 74 dell’ottobre 2012 che pubblica la ricerca sulle 18 pive emiliane superstiti e che di fatto avviava il nuovo corso della PdC. Nell’aprile del 2013 viene pubblicato il primo numero della nuova serie e viene leggermente modificato il sottotitolo: ‘Foglio rudimentale di comunicazione a 361°’. In questo n. 1 si segnala un saggio di Gianpaolo Borghi: “Due recenti studi sui cori delle mondine”. Nel n. 7 (ottobre 2014) Franco Piccinini, in ‘Non solo folk’, racconta la storia di Ferruccio Reggiani, migrante per reato di antifascismo, e del suo salone da parrucchiere in rue Faubourg St. Denis a Parigi: “Un covo di antifascisti, boxeurs, magnaccia e prostitute”.
Sul n. 8 del gennaio 2015, un contributo di Stefania Colafranceschi racconta di “Sant’ Antuone, Sant’ Antuone, lu nemiche de lu demonie”. “La copertina è dedicata a Sant’Antonio Abate, santo col quale la PdC intrattiene uno speciale rapporto nella ricorrenza del 17 gennaio consumando il “tradizionale” ZAMPETTO che quest’anno raggiunge la 30^ seduta. Lo zampetto è connesso con la pratica della macellazione del suino che culmina in questo periodo secondo l’ operatività di una cultura materiale antichissima. «Tradizionale» è una parola della quale andrebbe chiarito il significato. Gli attribuiamo semplicemente il valore «…che avviene calendarialmente e regolarmente da tanto tempo…». Oggi però si inseriscono nel tradizionale anche cose di recente origine, prive di un reale retroterra e fissate da esigenze commerciali o ludiche e pertanto ci chiediamo quale veramente sia la portata di quella parola. Optiamo dunque per una distinzione tra ciò che deriva dalla «cultura popolare operativa» e ciò che è «qualcosa d’ altro». Le feste patronali, i balli antichi, la fiaba, ecc. a quale categoria appartengono?” E’ quanto chiariscono in presentazione d’opuscolo, GianPaolo Borghi e il direttore di testata Bruno Grulli. Il n. 9 (aprile 2015) titola: “Cantar bisogna. Canto sociale e canzoni partigiane a Reggio Emilia”. Sull’ultimo numero, luglio 2017, Riccardo Varini ricorda cosa si fa “Nelle ultime osterie del medio Appennino Reggiano”.

Nel 1984, Saverio Tutino, giornalista, ex inviato de ‘L’Unità’ e di altra stampa comunista, ha l’idea di fondare a Pieve Santo Stefano (Ar) un luogo in cui accogliere le scritture autobiografiche degli italiani, per concedere il diritto di parola ai ‘senzastoria’. Lo chiama Fondazione Archivio Diaristico Nazionale12 ed istituisce il Premio letterario ‘Pieve’. “Cercate nelle soffitte e nei cassetti i carteggi d’amore dei nonni, le lettere d’emigrazione, i taccuini dalle trincee di guerra, il diario di un vecchio antenato, inviateci le pagine personali che avete scritto durante la vostra vita, le memorie autobiografiche di eventi passati, ma anche i vostri diari intimi giovanili: raccoglieremo questo materiale in una sede pubblica e lo metteremo a disposizione delle generazioni future. Naturalmente cerchiamo documenti autentici, non rielaborati né corretti da altri”.13 Il premio si svolge dal 1986, ed è giunto alla 33° edizione. Dall’edizione 2012 è diventato Premio Pieve Saverio Tutino-Diritto di memoria, in omaggio al suo fondatore, scomparso nel novembre 2011. L’autore vincitore, viene premiato ogni anno con la pubblicazione del ‘diario’ prescelto. L’efficace motto che accompagna il ‘Premio’ è: ‘sostieni la causa della memoria’.

La ricerca folklorica, contributi allo studio della cultura delle classi popolari’, è la rivista trimestrale che La Grafo Edizioni di Brescia, con direttore responsabile Glauco Sanga, inizia a pubblicare dall’aprile 1980. Il n.1, dedicato a ‘La cultura popolare’, contiene contributi dello stesso Sanga, ‘Due note sulla cultura contadina’, di Diego Carpitella, ‘Comunicazione e mentalità orale’ e Bruno Pianta, ‘Ricerca sul campo e riflessioni sul metodo’. Collaborano a questo primo numero anche, ma non solo, Umberto Cerroni, Alberto Mario Cirese, Roberto Leydi. Il n° 70 (2015) è l’ ultimo numero rintracciato. Dal numero 41 (aprile 2000) ha modificato denominazione, grafica e ‘testata’: non più il precedente titolo per esteso, bensì le iniziali ‘pronunciate’ di R(icerca) e F(olklorica). Ed è diventata ‘ErreEffe’.

A Motteggiana (Mn) dal 1994 si svolgono gli incontri denominati “Il Giorno di Giovanna”, dedicati alla mondina-cantastorie mantovana Giovanna Daffini. Nata, il 22 aprile 1914, esattamente a Villa Saviola frazione di Motteggiana, anche se, dal 1936, dopo essersi sposata con il violinista di strada Vittorio Carpi, si stabilisce a Gualtieri (Re) dove muore il 7 luglio 1969. Contemporaneamente agli incontri, vengono consegnati i premi ai vincitori del ‘Concorso nazionale Giovanna Daffini per testi inediti da cantastorie’. I premiati andrebbero ricodati tutti, purtroppo per esigenze di spazio, e notorietà, citiamo i ‘conosciuti’: Franco Trincale, nel 1997 con ‘La Resistenza’, Sandra Boninelli, nel 2004 per ‘Con te’ e nel 2011 con ‘O rondinella se passi di qua’. Nel 2016 lo speciale premio della giuria è stato conferito a Mehta Jagjit Rai (amico-collaboratore della Lega di Cultura di Piadena) per “melismi di altre terre che narrano il dramma degli emigranti” . Il 4 giugno 2017, durante il 23° Concorso Nazionale sono stati attribuiti questi riconoscimenti. Premio speciale fuori concorso a ‘Lega di Cultura di Piadena’ “nel 50° della sua fondazione”; a ‘I Giorni Cantati’ il “premio continuità e tradizione”. Ancora a Meha Jagjit Rai il 1° premio per “Nessuni mi ha detto spegni la luna’ “tra memoria e ironia”.

Dal 2001, il Comune di Motteggiana-Archivio Nazionale “Giovanna Daffini”, in occasione de “Il Giorno di Giovanna”, diffonde un quaderno monografico con, oltre al programma della giornata, nomi dei vincitori e loro composizioni e contributi e notizie varie sul mondo dei cantastorie e degli ‘ambulanti’ delle note.
Dei ‘quaderni’, giunti al 17 numero (tutti preziosi e dal n. 7, del 2007, con allegato Cd contenente l’esecuzione, da parte degli autori stessi, dei brani vincitori) si segnalano il n. 14 del 2014: “Giovanna Daffini: celebrando il centenario della sua nascita nel ventennale del suo giorno” e il ‘fuori collana’, “Giovanna Daffini. L’amata Genitrice. Le canzoni di Giovanna Daffini dall’archivio di Roberto Leydi (1963-1965)” con Cd allegato. Ristampa della precedente edizione storica registrata da “I Dischi del Mulo”.

L’ultimo richiamo, forse atipico, è riservato ad un gruppo musicale di ‘combat-rock’, i Gang dei fratelli Severini14. Amici e collaboratori di Alessandro Portelli ed Ambrogio Sparagna si rifanno a “Quella scuola cha ha radici nei lavori di De Martino, di Carpitella, di Alan Lomax, di Gianni Bosio fino appunto a ‘I Giorni Cantati’ (la rivista, nda). Portelli è stato e resta il guru dei Gang, una guida spirituale e scientifica”. 15
Del resto “sono solo dei vecchi Comunisti”.

Io e Bosio

Saranno circa vent’anni, forse meno/e proprio a casa mia/c’era il Gianni Bosio/che io chiamavo Giuan/gli occhiali sul naso/gli scivolavano via/fumava e chiaccherava/il Bosio, il mio Giuan/E io per fare il grande/restavo lì a guardare/e mi rompevo le palle/di tutto quel gran parlare/tra il Gianni e mio fratello/e gli altri che erano lì/ma quello che loro dicevano/non potevo capire”.
Così, nella primavera del ’72 (non ancora diciottenne) ad un anno dalla sua morte, ho conosciuto Gianni Bosio. Attraverso quelle ballate che Ivan Della Mea aveva raccolto e inciso nel disco “Se qualcuno ti fa morto”. Dopo averlo ascoltato, e riascoltato, mi sono detto: “non ho capito nulla”. Della Mea era, per me, colui che aveva scritto e cantato “Cara moglie” e proprio non riuscivo a capire quel suo poetare e mischiare Giuan con i socialisti, i Maggi di Costabona e Che Guevara. Ma è stato proprio da lì, dalla prima volta che ho sentito parlare di quell’ animale strano che ho imparato a conoscerlo.

Gianni Bosio, me l’hanno insegnato : Ivan, attraverso le sue canzoni e scritti, Cesare Bermani, il curatore privilegiato della pubblicazione dei suoi scritti postumi, gli animatori della Lega di Cultura di Piadena, con cui collabora strettamente. Per un’altra realtà di base piadanese, il Gruppo Padano, cura la pubblicazione in vinile di “I Giorni Cantati”. Un disco in cui sono raccolte canzoni e comportamenti delle genti che abitano quella porzione di terra racchiusa fra due fiumi, il Chiese e l’Oglio, “paesi come Calvatone, Piadena, Voltido, San Paolo, Canneto, Vho, Bizzolano, Acquanegra con tante osterie, differenti situazioni di lavoro e uomini incerti tra l’antica fatica dei campi e la pressione che viene dai nuovi insediamenti industriali”.

E’ ancora Ivan Della Mea che, pochi mesi dopo (maggio 1972) aver cantato “Se qualcuno ti fa morto”, riprende e prosegue, per me, il dialogo ‘a distanza’ con Gianni. Con lui ripercorre idealmente gli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra, quelli della ricostruzione, i bei tempi di buriana (bufera) che contraddistinsero il ’48, gli anni del Fronte Popolare, dell’illusione della sinistra (PCI-PSI) al potere e dell’effige di Giuseppe Garibaldi che, soprattutto nella Padania lombarda ed emiliana, campeggiava ovunque: edifici di città, baite di montagna, cascine, fienili. Con ‘Sent un po’, Giuan te se ricordet…‘ racconta otto anni della nostra storia (‘dalla parte del torto’) dal 1948 al 1956 , e canta le speranze dei giovani che, in qualsiasi occasione e situazione, abbracciati, cantavano Bandiera Rossa ed esternavano le loro aspirazioni. Ma anche allora e proprio in quel mese primaverile “han vint i pret cont i bali e i orazion”. Questo, d’altronde, era stato l’epilogo del 18 aprile 1948.

Il 14 luglio sparano a Togliatti in parlamento. Si è, forse, sull’orlo della guerra civile. Ma a Parigi Bartali taglia per primo il traguardo. Si aggiudica il Giro di Francia e così il vicino di casa che il pomeriggio caldeggiava l’occupazione delle piazze, la sera, ascoltata la radio, urla Viva Bartali! Come ricorda Della Mea, “i democristi han vinciu i elezion”.
Poi, ancora, il ’50, Anno Santo, con Pacelli (Papa Pio XII) che dispensa scomuniche e anatemi anticomunisti, e la statua della Madonna Pellegrina vaga in lungo e in largo per la penisola. Ma il ’50 è anche un anno maledetto : il 29 agosto, in un albergo di Torino, Cesare Pavese muore suicida. Pone così fine al suo difficile ‘mestiere di vivere‘.

Dopo i fatti politici gli eventi ‘naturali‘. Nell’inverno a cavallo tra il ’51 e il ’52 la grande alluvione nel Polesine. Il fiume Po straripa e allaga mezza pianura del basso Veneto. “Case allagate dispersi a centinaia. E poi le foto, Giuan, ti ricordi? Galline e cani e vacche nella fanga, la gente acquattata sui tetti, è un grande silenzio di acqua e di dolore”.
Lo stesso silenzio che abbiamo sentito nel Vajont (9 ottobre 1963).

Ancora la politica nel ’53, con la ‘Legge Truffa’, e sempre in quegli anni, agosto ’56, un’altra tragedia della fame e del lavoro, che in Italia non c’è. A Marcinelle,16 in una miniera del Belgio, perdono la vita 262 lavoratori, 136 sono italiani. Vittime della miniera, dell’emigrazione, della miseria.
Gianni Bosio muore, Mantova, il 21 agosto del 1971. I Compagni che lo accompagnano, ricoprono la sua bara con una bandiera rossa, senza nessun simbolo o marchio di partito.
“L’Unità” ne da solo un laconico annuncio tramite un trafiletto anonimo nell’edizione del giorno successivo. Ivan Della Mea, sempre su “L’Unità”, ma di sabato 17 agosto 1985, sostiene:“Gianni Bosio misconosciuto in vita. Misconosciuto dopo la sua morte. Non dovrebbe succedere, ma succede”.17


  1. Il Nuovo Canzoniere Italiano dal 1962 al 1968 reprint, con prefazione di Cesare Bermani, Istituto Ernesto de Martino-Gabriele Mazzotta Editore, Milano, novembre 1978; Cesare Bermani, Una storia cantata. 1962-1997. Trentacinque anni di attività del Nuovo Canzoniere Italiano/Istituto Ernesto de Martino, Jaca Book-Istituto Ernesto de Martino, Milano, marzo 1997  

  2. Emilio Jona e Michele Luciano Straniero (a cura di) Cantacronache. Un’avventura politico-musicale degli anni cinquanta, Scriptorium & Ddt Associati, Torino, novembre 1995 – Giovanni Straniero-Carlo Rovetto, Cantacronache. I 50 anni della canzone ribelle. L’eredità di Michele L. Straniero, Editrice Zona, Civitella in Val di Chiana (Ar) maggio 2008  

  3. Ivrea (To) 1928-Milano 2003, cultore di musica contemporanea e jazz, poi ricercatore di musica popolare, nella più ampia accezione del termine. Dal 1973 docente di etnomusicologia al DAMS di Bologna  

  4. Napoli 1908-Roma 1965, nel 1948 pubblica ‘Mondo magico’, testo fondamentale delle sue esperienze e convinzioni. Iscritto al Psi, è segretario di federazione in Puglia, lì approfondisce le ricerche ed indirizza i suoi interessi verso lo studio etnografico delle comunità contadine del meridione d’Italia. Di questa fase sono le sue opere più conosciute: “Morte e pianto rituale”, “Sud e magia”, “La terra del rimorso” incentrata, quest’ultima, sul fenomeno del tarantismo e realizzata con ricerche sul campo in Salento, la collaborazione di Giovanni Jervis (psichiatra), Letizia Comba Jervis (psicologa), Amalia Signorelli (antropologa culturale) Diego Carpitella (etnomusicologo), Franco Pinna (fotografo) e la consulenza di S. Bettini, medico. Nel 1950 aderisce al Partito Comunista Italiano. Nel 1962 pubblica “Furore Simbolo Valore”, forse il suo contributo più importante alla comprensione degli ‘episodi di costume dell’Europa contemporanea‘  

  5. Amalia Signorelli, Ernesto de Martino, Teoria antropologica e metodologia della ricerca, L’Asino d’oro edizioni, Roma, maggio 2015  

  6. Clara Gallini e Francesco Faeta (a cura di) I viaggi nel sud di Ernesto De Martino, fotografie di Arturo Zavattini, Franco Pinna e Ando Gilardi, Bollati Boringhieri, Torino, maggio 1999  

  7. Pietro Angelini (a cura di) Cesare Pavese-Ernesto De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950. Storia di una battaglia culturale, Bollati Boringhieri, Torino, gennaio 1991  

  8. Riccardo Di Donato (a cura di) Compagni e amici, Lettere di Ernesto De Martino e Pietro Secchia, La Nuova Italia, Firenze, dicembre 1993  

  9. Istituto Ernesto de Martino, Un laboratorio sul mondo oppresso e antagonista, Gli uomini, le opere, i giorni, Il de Martino. Rivista dell’Istituto n. 25 del 2015  

  10. https://www.rivistailcantastorie.it/pagina-iniziale/  

  11. https://www.rivistailcantastorie.it/  

  12. http://www.archiviodiari.org/index.php/home.html  

  13. Salvate dalla distruzione i diari e le lettere, Premio Pieve  

  14. Marino e Sandro Severini (The Gang), Banditi senza tempo, prefazione di Alessandro Portelli, Selene Edizioni, Milano, settembre 2003  

  15. Lorenzo ‘Lerry’ Arabia e Gianluca Morozzi (a cura di), Le Radici e le Ali. La storia dei Gang, Associazione Culturale Musica e Idee – Ferenandel, Ravenna, aprile 2008  

  16. https://www.carmillaonline.com/2016/08/08/marcinelle-8-agosto-1956-carbone-cambio-vite-umane/  

  17. Maurice Mariani (F.A.), L’intellettuale rovesciato, BresciaOggi, 21 agosto 1985  

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Storia di una donna: Franca Rame https://www.carmillaonline.com/2014/10/02/storia-donna-franca-rame/ Wed, 01 Oct 2014 22:06:48 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17791 di Sandro Moiso

Franca Rame Franca Rame con Joseph Farrell, Non è tempo di nostalgia, Della Porta Editori, Pisa Cagliari 2013, pp. 128, € 11,00

L’agile e, allo stesso tempo, interessante testo proposto da Della Porta Editori è frutto di un’intervista rilasciata a Joseph Farrell da Franca Rame, a pochi mesi dalla morte, nel febbraio del 2013 . Insieme alla trascrizione di questa Farrell, Professore Emerito di Italianistica presso l’Università di Strathclyde di Glasgow (Scozia), ha utilizzato altri brani provenienti da un’intervista rilasciatagli nel 2000 mentre stava scrivendo una biografia di Dari Fo e Franca Rame poi pubblicata in inglese nel [...]]]> di Sandro Moiso

Franca Rame Franca Rame con Joseph Farrell, Non è tempo di nostalgia, Della Porta Editori, Pisa Cagliari 2013, pp. 128, € 11,00

L’agile e, allo stesso tempo, interessante testo proposto da Della Porta Editori è frutto di un’intervista rilasciata a Joseph Farrell da Franca Rame, a pochi mesi dalla morte, nel febbraio del 2013 . Insieme alla trascrizione di questa Farrell, Professore Emerito di Italianistica presso l’Università di Strathclyde di Glasgow (Scozia), ha utilizzato altri brani provenienti da un’intervista rilasciatagli nel 2000 mentre stava scrivendo una biografia di Dari Fo e Franca Rame poi pubblicata in inglese nel 2002.

Scomparsa nel maggio del 2013, Franca molto spesso “ha dovuto sopportare un’indubbia sottovalutazione: gli stessi critici impegnati in commenti agiografici su Dario, per molti anni si sono limitati a uno scarso: «Bellissima la Rame!»”, come sottolinea lo stesso Farrell nell’introduzione al testo.
Eppure Franca non è stata soltanto la moglie di quello che può essere, forse, considerato il più grande autore teatrale italiano del secondo novecento né è stata soltanto la sua migliore interprete femminile.

E’ stata qualcosa di più. Anche più di una musa. Tutta l’opera di Fo è stata infatti in gran parte trascritta, rivista, riletta e, molto spesso, ispirata da una donna che nel teatro era nata per tradizione famigliare e che nelle commedie e negli atti unici del premio nobel ha saputo infondere la passione e lo sguardo ironico che non le derivava dalla frequentazione delle Accademie, ma della vita stessa come lei sembra rivendicare in ogni passo dell’intervista.

Un’attività, quella teatrale, che non aveva neppure potuto scegliere poiché ad otto giorni dalla nascita si era già ritrovata tra le braccia della madre sul palco di una di quelle rappresentazioni, ancora così vicine allo spirito della Commedia dell’Arte, che la sua famiglia era solita recitare a braccio e ad improvvisare sul palco davanti al pubblico popolare delle campagne e delle città di provincia della pianura padana.

Un’abitudine che l’aveva plasmata come donna e come attrice, nella sua ricerca di un’arte e di una recitazione il più possibile vicina alla naturalezza e alla semplicità della gente comune e che l’avrebbe portata, dagli anni cinquanta agli anni settanta passando per il ’68 e la stagione delle grandi lotte operaie e studentesche, a sposare sempre più la causa degli sfruttati e dei proletari. Contro qualsiasi forma di oppressione e repressione.

Una scelta che l’avrebbe vista, da una parte, avvicinarsi per un lungo periodo, insieme a Dario, al Partito Comunista per poi allontanarsene quando a seguito delle critiche ai comportamenti dei dirigenti dello stesso partito il duo, in particolare per gli interventi di Franca, si vedrà sostanzialmente sabotato nelle iniziative teatrali portate in giro nelle stesse Case del Popolo per essere più vicini ai lavoratori e ai militanti di base.

Arrivavamo lì e non c’era neanche un manifesto, la gente chiedeva:«Come mai da queste parti?»
«Come ‘come mai’? Abbiamo lo spettacolo stasera»
«Stasera? Ma no, vi sbagliate».
Trovavamo le nostre locandine buttate nei bagni. Fu allora che lasciai il PCI e resi la mia tessera stracciata
” (pag. 118)

Ad ulteriore riprova, se mai l’attuale e definitiva deriva renziana ne avesse ancora bisogno, della tradizione di un partito che è riuscito costantemente ad allontanare da sé, quando non a criminalizzare letteralmente, proprio coloro i cui interessi e le cui aspirazioni avrebbe dovuto, almeno formalmente, saper rappresentare. Proprio come nel caso dei due artisti che fin dai tempi della Canzonissima televisiva, del 1962, interrotta dalla censura democristiana alla ottava puntata nonostante l’eccezionale seguito di pubblico, erano stati accusati di essere comunisti. Forse “troppo rossi”, come l’anguria di cui avevano parlato in uno dei loro sketch, anche per il PCI.

Ma accanto a questa scelta c’era sempre stata quella di stare vicina a coloro che non potevano pagarsi il biglietto per un teatro “borghese”. Da qui la svolta che li avrebbe portati a non calcare per un lungo periodo i palchi dei teatri istituzionali. Proprio a partire dal 1968. Con la creazione, prima, della cooperativa Nuova Scena e le sue recite nelle piazze d’Italia e nelle Case del popolo, poi, con la formazione del collettivo teatrale “La Comune” con sede al Capannone di via Colletta a Milano e, infine, con l’occupazione della Palazzina Liberty.

Scelta che ben presto l’avrebbe costretta a travalicare i limiti della rappresentazione teatrale e del “terzo atto” (il dibattito politico con il pubblico che seguiva ogni rappresentazione) per proiettarsi nella fondazione del Soccorso Rosso per sostenere gli arrestati e, spesso, le loro famiglie durante le lotte operaie ed antifasciste. Azione di soccorso che per Franca continuerà anche quando i detenuti non saranno più solo quelli “«gloriosi», vale a dire ragazzi delle manifestazioni antifasciste, oppure operai arrestati per l’occupazione di una fabbrica” (pag.63), ma anche quando si inizierà a parlare di terrorismo.

Perché anche se “Non condivido le tue scelte, non sono d’accordo politicamente, difenderò fino alla morte il tuo diritto a una carcerazione civile. La tortura non mi va bene, se sei cieco che ti tolgano gli occhiali non mi va bene, se ti picchiano non mi va bene” (pag.63). Questo la porterà a doversi confrontare con le critiche provenienti dall’interno della lotta armata e delle BR, ma anche a subire un rapimento il 9 marzo del 1973, durato poco meno di un’ora, in cui sarà vittima di torture e di uno stupro ad opera di fascisti milanesi in accordo con alcuni vertici dell’arma dei carabinieri.

Sono, probabilmente, vicende risapute, ma è sicuramente utile rileggerle nei ricordi di Franca. Nel suo continuo ricollegare la propria recitazione e le proprie opere, oppure quelle quasi “riscritte” di Dario Fo, alle esperienze vissute, anche attraverso la vita e le testimonianza degli altri. Dal proprio dramma rivissuto attraverso l’atto unico Lo stupro a quello raccontato in Una Madre che ricostruisce le vicende della madre del brigatista Umberto Farioli: “Una madre che viene perquisita in vagina e analmente prima di vedere il figlio attraverso il vetro, era una scena che parlava da sola” (pag.66).

E poi c’è l’opera costante di battitura, revisione e di editing delle opere del marito, in cui l’attrice/donna/moglie rifiuta nei fatti la condizione di moglie come “entità, fantasma o uovo sodo” (pag.91). Una sorta di femminismo, ma lei avrebbe quasi sicuramente cassato questo termine, vissuto contemporaneamente dall’alto (la donna “libera” artista e creatrice) e dal basso (la compagna di una figura maschile che sembra destinata ad offuscare sempre la sua immagine, anche senza volerlo).

Il testo è tutto pervaso di spunti, riflessioni e richiami, come lo è stata la vita della donna al centro della scena, il cui unico vero cruccio, forse, è stato quello portato in scena dal Ruzzante “uno dei più grandi drammaturghi del Rinascimento europeo, nato cinquant’anni prima di Shakespeare” (pag. 92): “Troppo in fretta mi sono invecchiato, non ho fatto in tempo a liberarmi della leggera imbecillità della giovinezza” (pag. 93).

Dove, in questo caso, la leggera imbecillità sta per l’entusiasmo con cui Franca Rame sembra aver vissuto ogni istante ed ogni passione, anche tra innumerevoli contraddizioni, fino al termine dei suoi giorni. Senza quella nostalgia, come sembra suggerire il titolo, che appartiene più a chi guarda al passato piuttosto che a coloro che si ostinano a guardare al futuro e alle sue infinite possibilità di ricambio culturale, sociale e politico.

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