cultura – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 31 Mar 2025 16:35:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il paradigma Bordiga e il paradigma Montanelli https://www.carmillaonline.com/2024/06/04/il-paradigma-bordiga-e-il-paradigma-montanelli/ Tue, 04 Jun 2024 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82110 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Evasioni. Spillane, Adorno, Cocco Bill e altre torte con la lima, Milieu edizioni, Milano 2024, pp. 240, euro 17,90

Per chi scrive è sempre un piacere recensire un nuovo testo oppure, come spesso capita, una nuova raccolta di testi di Diego Gabutti. Soprattutto in questo caso, visto che i primi dodici capitoli (su 32 complessivi che compongono l’opera) erano già comparsi su Carmilla on line nella serie “Esperienze estetiche fondamentali”.

E’ un piacere, infatti, occuparsi di un autore che ha fatto del rimescolamento “pop” della cultura alta e bassa del Novecento il suo tratto distintivo, sia [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Evasioni. Spillane, Adorno, Cocco Bill e altre torte con la lima, Milieu edizioni, Milano 2024, pp. 240, euro 17,90

Per chi scrive è sempre un piacere recensire un nuovo testo oppure, come spesso capita, una nuova raccolta di testi di Diego Gabutti. Soprattutto in questo caso, visto che i primi dodici capitoli (su 32 complessivi che compongono l’opera) erano già comparsi su Carmilla on line nella serie “Esperienze estetiche fondamentali”.

E’ un piacere, infatti, occuparsi di un autore che ha fatto del rimescolamento “pop” della cultura alta e bassa del Novecento il suo tratto distintivo, sia quando si tratti di recensire un libro oppure di intervenire, quasi sempre, in maniera leggera e intelligente su argomenti generali della politica e della società attuale. Elemento distintivo poiché, nonostante gli sforzi di rinnovamento messi in atto da molti media e intellettuali mainstream nei confronti di ambienti culturali che definire asfittici (a destra, a sinistra e al centro) è ancora soltanto un eufemismo, il presunto rinnovamento risulta essere quasi sempre di facciata, in super bonus 110% style, più simile ai classici “sepolcri imbiancati” e niente affatto paragonabile all’arguzia e alla vivacità dello sguardo del giornalista torinese.

In quest’ultima opera, per la prima volta insieme, sono presenti due cardini essenziali dell’universo gabuttiano: Amadeo Bordiga e Indro Montanelli. Due personaggi agli antipodi l’uno dall’altro, anche se entrambi appartenenti ad un’epoca decisamente ”altra” rispetto all’attuale, ma che si sono intrecciati, quasi ineluttabilmente, nel percorso culturale e di vita dell’autore.

Secondo la stessa testimonianza di Gabutti, infatti, Montanelli lo invitò a scrivere per la pagina culturale del Giornale proprio dopo aver letto il suo romanzo Un’avventura di Amadeo Bordiga, pubblicato per la prima volta nel 1982 dalle edizioni Longanesi e più recentemente riproposto proprio da Milieu (2019). E ad entrambi dedica pagine in qualche modo riconoscenti e critiche allo stesso tempo; una critica che, però, è comunque stemperata da un certo grado di ammirazione per la capacità di tutti e due gli autori di creare propri universi narrativi e un proprio linguaggio (storico, politico o giornalistico non importa) capace di dar vita a fantasmagorie letterarie capaci di raccontare la realtà superandola oppure, come capita spesso, semplicemente accantonandola.

Bordiga e Montanelli, circondati da un universo pop-politico-letterario che soltanto nelle pagine di Gabutti si può ritrovare, in mezzo a personaggi (veri e immaginari) come Pecos Bill, Lemmy Caution, André Malraux, Philip José Farmer, Theodor Adorno, Tex Willer, Léo Malet, Jorge Luis Borges e così via (chi più ne ha, più ne metta), appaiono comunque come due maestri di scrittura per il nostro. Nonostante le loro cattive frequentazioni politiche, a giudizio dell’autore: il comunismo novecentesco per il primo e il fascismo storico per il secondo.

Bordiga, che viene prima di Montanelli nell’indice (da pagina 110 a 116 l’uno e da pagina 163 a 170 l’altro):

Come Frank Kane, di cui abbiamo parlato all’inizio, e come altri vecchi autori di pulp, è stato dimenticato, insieme ai suoi personaggi ricorrenti, gli eroi e i villain, le dark ladies: Lenin, Engels e Marx, Gramsci, il proletariato, la Storia, il capitale, la rivoluzione socialista. Come Lester Dent, che aveva per eroe Doc Savage, l’«uomo di bronzo», fisico da culturista e Q.I. einsteiniano, anche Bordiga aveva il suo eroe mascherato: il partito storico, o per cosi dire The Masked Historical Party, oggi negletto.
Con “partito”, in altri pulp dell’epoca, s’intendeva un eroe collettivo, o meglio corale: non un singolo vigilante ma un’intera folla di raddrizzatorti e di “spaccaculi”, talvolta vere e proprie moltitudini, come nella Cina della Rivoluzione culturale e nelle scene di massa dei Dieci comandamenti di Cecil B. De Mille. Molto più in grande, Bordiga con “partito” intendeva una persona sola, se stesso, e se aggiungeva storico non era per snobismo o per smania di grandezza, benché ci fosse in questo anche un po’ di presunzione e di snobismo, ma per illustrare meglio il concetto: l’eroe dei pulp – spiegazzato, malpagato, solitario, disprezzato, preso a pacchere dagli sbirri e a revolverate dai criminali, mai una stabile relazione amorosa ma giusto un inguacchio ogni tanto, e generalmente per pieta – e non di meno il solo a sapere che cosa sono, nella sostanza, Legge e Giustizia. E il solo a prendersene carico, il solo a conservarne la memoria1.

Una volta servito e liquidato il sogno del comunismo novecentesco, con le sue pretese anticipatorie e le sue risolutive e “scientifiche” indicazioni che non sono, però, mai andate definitivamente in porto nel corso degli esperimenti insurrezionali, Gabutti analizza i tratti del comunista scrittore e la sua intrinseca originalità linguistica.

Gli altri dimenticavano, o se ne fottevano, e talvolta lo ignoravano, oppure fraintendevano quel che c’era in gioco, ma Bordiga scriveva storie che ribadivano quelle che lui, raramente accigliato, sempre uno sberleffo sulla punta della penna, chiamava con allegra serietà le Leggi della Storia: due parole chiave che si lasciava sciogliere in bocca come cioccolatini. Gli davano del «teorico», ma naturalmente non lo era. Era un romanziere, specializzato in storie d’avventura, non diversamente da Dan Barry e Rafael Sabatini. […] Circondato da vecchi e giovani “compagni”, come si chiamavano tra loro, il vecchio trottatore era gentile con tutti, fingeva d’ascoltare con interesse tutte le opinioni, non rifiutava un caffè quando uno dei ragazzi glielo offriva in un bar di Spaccanapoli o di Via Chiaia, talvolta li riceveva in casa [e] costoro erano i principali (diciamo pure gli unici) lettori delle sue storie. Ne erano ispirati come i fan dei Marvel Studios dall’ultimo blockbuster.
Si dicevano l’un l’altro che le storie di Amadeo Bordiga erano la chiave per comprendere gli eventi passati e prevedere quelli futuri. [Ma] Sapevano o almeno sospettavano che il “bordighismo” era un noir, non una dottrina, e che non basta dichiararsi ortodossi per scansare l’eresia. Bordiga li teneva sotto incantesimo. Sedeva davanti a un’Olivetti 22 nella sua bella casa napoletana vistamare e lì inventava le sue storie hard boiled. Scritte in ameno slang partenopeo-marxista, non erano importanti per “cosa” dicevano, come la saggistica barbosa che circolava quando io m’imbattei in un’opera bordighista per la prima volta, ma per come lo dicevano. Sembrava di leggere i romanzi gialli di Carlo Manzoni, compare di Giovannino Guareschi al «Candido» dei tempi d’oro: Che pioggia di sberle, bambola, Un calcio di rigor sul tuo bel muso, Ti spacco il muso, bimba2.

Personaggio talmente “pulp” da far sì, come si è già detto prima, Gabutti abbia dedicato proprio a Bordiga e alle sua avventure il suo primo e più riuscito romanzo. In un vortice di avventure, circondato da personaggi veri e inventati (dall’ammiraglio Canaris a Nero Wolfe), Amadeo, in arte Bordiga, arriverà a confrontarsi con il villain per eccellenza, Josif Stalin, in occasione del Sesto esecutivo allargato dell’Internazionale Comunista, che lascerà come un autentico eroe alla Clint Eastwood oppure alla Bruce Willis in Last Man Standing, dopo aver sconfitto e sbeffeggiato (almeno a parole) il futuro massacratore di comunisti “eretici”.

Ma se Bordiga era, secondo l’autore, importante per il suo saper inventare un linguaggio nuovo (e spesso ironico) per narrare storie che altrimenti sarebbero risultate trite e ritrite, Montanelli invece è apprezzato come autentico inventore di storie e notizie.

Montanelli sapeva raccontare le storie. Non era un pensatore originale né un filosofo e le sue analisi politiche, sempre improntate a buon senso e prudenza, non erano mai particolarmente brillanti. Ma erano ben raccontate, perché Montanelli non soltanto sapeva raccontare le storie ma sapeva trasformare qualunque cosa, anche un ragionamento poco azzeccato e pomposo, in una storia interessante. Una delle cose che mi svelò quando, per un po’, lavorai per lui al Giornale e qualche volta ci capitava di passeggiare e conversare, fu che il giornalismo è fabula, mito, rappresentazione, racconto.
[…] Questo per dire di che materia erano fatti i suoi Incontri e che idea si fosse fatto della Storia d’Italia, la sua più lunga e duratura infilata di best seller. E anche per dire, più in generale, quale precisamente o meglio imprecisamente fosse il rapporto con la realtà del giornalismo classico […]. Non c’è mai stato altro modo di riprodurre la realtà che quello di sceneggiarla e poi metterla in scena, elevandola a racconto drammatico, oppure comico, spesso (ahinoi) disgraziatamente tragico, e trasformandola in pettegolezzo, retroscena, cronaca desnuda della vita privata dei vip, diffamazione o apologia. Non accade per una particolare attitudine del giornalismo alla diffusione di tarocchi e moralismi e lezioncine da terza elementare. C’è anche questo, naturalmente, o non si spiegherebbe il giornalismo italiano degli ultimi trent’anni, dalle storpiature del Fatto quotidiano al tono greve e impettito delle cazzullate. Ma all’origine della fabula c’è in primis la Musa che orienta e ispira le gazzette: una Musa letteraria, che sparge virgolettati nelle cronache e aggiunge descrizioni vivaci e sintetiche al plumbeo succedersi delle osservazioni seriose e delle smorfiose battute di spirito. Fabula, metafora; il resto e insulsaggine.
Per capirci: Moby Dick è una storia, un romanzo, per di più con tratti biblici e metafisici, ma il Capitano Achab, con la sua fiocina, arpiona la realtà e rende conto, sceneggiandola, della condizione umana. […] Idem la Storia d’Italia di Montanelli, tutta aneddoti, in gran parte fantastici. Idem, soprattutto, i suoi Incontri, che stanno alle gesta del giornalismo italiano come Mondo piccolo, di Giovannino Guareschi, e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di Carlo Emilio Gadda, alla storia della letteratura nazionale: evergreen, opere destinate a durare. Personalmente, alle eccellenza di Gadda, Guareschi e Montanelli, aggiungerei anche i fumetti di Benito Jacovitti, Cocco Bill in testa, e il comunismo a tre piste, con clown e funamboli, d’Amadeo Bordiga, marxista buontempone 3.

Et voilà, eccola qui, la capacità di raccontare storie come arte suprema, destinata a fondare miti, narrazioni in grado di sfrondare l’esistenza umana dalle derive ideologiche e riportarla alla sua essenza: quella di condividere storie e prospettive (per quanto inventate). La Storia, con la S maiuscola, come insieme di storie e il giornalismo come narrazione di fatti non “veri”, ma verosimili (come avrebbe detto un altro Manzoni, quello degli sposi promessi).

E questa visione, in cui sono i grandi affabulatori ad esercitare il loro fascino su Gabutti4, a rendere credibile la visione della Storia come fabula che difende da tempo. Una storia in cui tutto è caduco, soprattutto gran parte delle ideologie novecentesche come quelle, opposte, rappresentate da Montanelli e Bordiga. Peccato, però, che ancora una volta, con fascismo e comunismo, l’autore si dimentichi di seppellire anche l’altra faccia della medaglia di entrambi, forse ancor più caduca e provata dal tempo: il liberalismo, sempre e soltanto presunto, democratico.


  1. Amadeo Bordiga in D. Gabutti, Evasioni. Spillane, Adorno, Cocco Bill e altre torte con la lima, Milieu edizioni, Milano 2024, p. 110.  

  2. Ivi, pp. 110-111. 

  3. Indro Montanelli in D. Gabutti, op. cit., pp. 163-164.  

  4. Ma anche sul sottoscritto che, per esempio, ha sempre apprezzato le cronache montanelliane, all’epoca ritenute impubblicabili dal «Corriere della sera», dell’insurrezione ungherese del 1956 (I. Montanelli, La sublime pazzia della rivolta. L’insurrezione ungherese del 1956, Rizzoli Editore, Milano 2006) che costituiscono ancora, nonostante siano rimaste inedite per cinquant’anni, il miglior reportage italiano su quei giorni di rivolta, sangue e speranza.  

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Per una sociologia degli algoritmi. La cultura nel codice e il codice nella cultura https://www.carmillaonline.com/2024/03/01/per-una-sociologia-degli-algoritmi-la-cultura-nel-codice-e-il-codice-nella-cultura/ Fri, 01 Mar 2024 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81400 di Gioacchino Toni

Massimo Airoldi, Machine Habitus. Sociologia degli algoritmi, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 178, € 21,00 edizione cartacea, € 11,99 edizione ebook

Che gli algoritmi siano strumenti di potere agenti sulla vita degli individui e delle comunità, che lo facciano in maniera del tutto opaca e che alcuni di essi siano capaci di apprendere dagli esseri umani e dai loro pregiudizi, è ormai patrimonio diffuso anche perché, in un modo o nell’altro, lo si sta sperimentando direttamente. Dalla percezione di come le macchine sembrino essere sempre più simili agli esseri umani sono sin qua derivati soprattutto studi comparativi [...]]]> di Gioacchino Toni

Massimo Airoldi, Machine Habitus. Sociologia degli algoritmi, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 178, € 21,00 edizione cartacea, € 11,99 edizione ebook

Che gli algoritmi siano strumenti di potere agenti sulla vita degli individui e delle comunità, che lo facciano in maniera del tutto opaca e che alcuni di essi siano capaci di apprendere dagli esseri umani e dai loro pregiudizi, è ormai patrimonio diffuso anche perché, in un modo o nell’altro, lo si sta sperimentando direttamente. Dalla percezione di come le macchine sembrino essere sempre più simili agli esseri umani sono sin qua derivati soprattutto studi comparativi incentrati su conoscenze, abilità e pregiudizi delle macchine oscurando quella che Massimo Airoldi ritiene essere la ragione sociologica alla radice di tale somiglianza: la cultura.

Airoldi, sociologo dei processi culturali e comunicativi, vede nella cultura – intesa come «pratiche, classificazioni, norme tacite e disposizioni associate a specifiche posizioni nella società» – «il seme che trasforma le macchine in agenti sociali»1. La cultura nel codice è ciò che permette agli algoritmi di machine learning di affrontare la complessità delle realtà sociali come se fossero attori socializzati. Il codice è presente anche nella cultura «e la confonde attraverso interazioni tecno-sociali e distinzioni algoritmiche. Insieme agli esseri umani, le macchine contribuiscono attivamente alla riproduzione dell’ordine sociale, ossia all’incessante tracciare e ridisegnare dei confini sociali e simbolici che dividono oggettivamente e intersoggettivamente la società in porzioni diverse e diseguali»2.

Visto che la vita sociale degli esseri umani è sempre più mediata da infrastrutture digitali che apprendono, elaborano e indirizzano a partire dai dati disseminati quotidianamente – più o meno volontariamente, più o meno consapevolmente – dagli utenti, secondo Airoldi occorre considerare le “macchine intelligenti”, al pari degli individui, come «agenti attivi nella realizzazione dell’ordine sociale»3, visto che «ciò che chiamiamo vita sociale non è altro che il prodotto socio-materiale di relazioni eterogenee, che coinvolgono al contempo agenti umani e non umani»4. Al fine di comprendere il comportamento algoritmico è perciò necessario capire come la cultura entri nel codice dei sistemi algoritmici e come essa sia a sua volta plasmata da questi ultimi.

La necessità di provvedere a una sociologia degli algoritmi deriva, secondo l’autore di Machine Habitus, dalla combinazione di due epocali trasformazioni: una di ordine quantitativo, costituita dall’inedita diffusione delle tecnologie digitali nella quotidianità individuale e sociale, e una di ordine qualitativo, inerente al livello che ha potuto raggiungere l’intelligenza artificiale grazie al machine learning permesso dai processi di datificazione digitale. «Questo cambiamento paradigmatico ha reso improvvisamente possibile l’automazione di compiti di carattere sociale e culturale, a un livello senza precedenti». Ad essere sociologicamente rilevante non è quanto accade nel “cervello artificiale” della macchina ma, puntualizza lo studioso, «ciò che quest’ultima comunica ai suoi utenti, e le conseguenze che ne derivano»5. I livelli raggiunti dai modelli linguistici con cui operano sistemi come ChatGpt mostrano modalità di partecipazione sempre più attive e autonome dei sistemi algoritmici nel mondo sociale destinati, con buona probabilità, ad incrementarsi ulteriormente in futuro.

Gli algoritmi possono essere sinteticamente descritti come sistemi automatizzati che, a partire dalla disponibilità e dalla rielaborazione di dati in entrata (input), producono risultati (output). Si tratta di un’evoluzione socio-tecnica che ha conosciuto diverse fasi, schematicamente così riassumibili: l’Era analogica (non digitale), che va dall’applicazione manuale degli algoritmi da parte dei matematici antichi fino alla comparsa dei computer digitali al termine della seconda guerra mondiale; l’Era digitale, sviluppatasi a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, che ha condotto all’archiviazione digitale delle informazioni, dunque alla loro circolazione attraverso internet e all’elaborazione automatizzata di enormi volumi di dati ponendo le premesse per la successiva evoluzione; l’Era delle piattaforme, contesto di applicazione delle macchine autonome e fonte della loro “intelligenza” attraverso il deep learning di inizio del nuovo millennio.

Se nell’era digitale la commercializzazione degli algoritmi aveva soprattutto scopi analitici, con il processo di platformizzazione questi sono divenuti a tutti gli effetti anche dispositivi operativi. Dall’effettuazione meccanica di compiti assegnati si è passati a tecnologie IA in grado di apprendere dall’esperienza datificata che funzionano come agenti sociali «che plasmano la società e ne sono a loro volta plasmati»6.

Mentre ad inizio millennio il discorso sociologico in buona parte guardava ai big data, ai nuovi social network e alle piattaforme streaming per certi versi limitandosi ad evidenziarne le potenzialità, in ambiti più tangenziali si ponevano le basi di quegli studi che nell’ultimo decennio hanno dato vita ai critical algorithm studies e ai critical marketing studies che hanno posto l’accento: sulla loro opera di profilazione selvaggia; sui meccanismi di indirizzo comportamentale; sullo sfruttamento di risorse naturali e manodopera; su come l’analisi automatizzata e decontestualizzata dei big data conduca a risultati imprecisi o distorti; su come la trasformazione dell’azione sociale in dati quantificati online risulti sempre più importante nel capitalismo contemporaneo; sulle modalità con cui vengono commercializzati e mitizzati gli algoritmi; su come il meccanismo di delega sempre più diffusa delle scelte umane ad algoritmi opachi restringa le libertà e agency umane e su quanto questi non si limitino a mediare ma finiscano per concorrere a costruire la realtà, assumendo un ruolo di “inconscio tecnologico”.

Alla luce dello svilupparsi di tanta letteratura critica, Airoldi motiva il suo obiettivo di costruire un framework sociologico complessivo a partire da una riflessione sul concetto di feedback loop degli algoritmi di raccomandazione tendenti alla reiterazione e all’amplificazione di pattern già presenti nei dati. Le raccomandazioni automatiche generate dagli algoritmi di una piattaforma come Amazon tendono ad indirizzare notevolmente il consumo degli utenti e siccome, allo stesso tempo, gli algoritmi analizzano le modalità di consumo, si genera un vero e proprio feedback loop. Se l’influenza della società sulla tecnologia e l’influenza di quest’ultima sulla prima procedono di pari passo, si giunge secondo lo studioso a due “quesiti sociologici”: la cultura nel codice (l’influenza della società sui sistemi algoritmici) e il codice nella cultura (l’influenza dei sistemi algoritmici sulla società).

Circa l’influenza della società sui sistemi algoritmici, lo studioso ricorda come le piattaforme “imparino” «dai discorsi e dai comportamenti datificati degli utenti, i quali portano con sé le tracce delle culture e dei contesti sociali da cui questi hanno origine»7; dunque derivino dalla società pregiudizi e chiusure mentali. Proporsi di “ripulire” i dati, oltre che probabilmente impossibile, non è forse nemmeno auspicabile in quanto presupporrebbe, in definitiva, un pensiero unico costruito a tavolino secondo logiche parziali.

Per quanto riguarda, invece, l’influenza dei sistemi algoritmici sulla società, basti pensare che gli algoritmi di piattaforme come Netflix ed Amazon riescono ad indirizzare circa l’80% delle “scelte” degli utenti; ciò rende l’idea di come i sistemi autonomi digitali non si limitino a mediare le esperienze digitali ma le costruiscano orientando i comportamenti e le opinioni degli utenti. «Ciò che accade dunque è che i modelli analizzano il mondo, e il mondo risponde ai modelli. Di conseguenza, le culture umane finiscono per diventare “algoritmiche”»8.

Spesso, sostiene Airoldi, si è insistito nel guardare le cose in maniera unidirezionale prospettando un certo determinismo tecnologico mentre in realtà diversi studi recenti dimostrano come gli output prodotti dai sistemi autonomi vengano costantemente negoziati e problematizzati dagli esseri umani. «Gli algoritmi non plasmano in maniera unidirezionale la nostra società datificata. Piuttosto, intervengono all’interno di essa, prendono parte a interazioni socio-materiali situate che coinvolgono agenti umani e non umani. Dunque il contenuto della “cultura algoritmica” è il risultato emergente di dinamiche interattive tecno-sociali»9.

Alla luce di quanto detto, le due questioni principali che approfondisce lo studioso in Machine Habitus riguardano le modalità con cui sono socializzati gli algoritmi e come le macchine socializzate partecipano alla società riproducendola.

Airoldi riprende il concetto di habitus elaborato da Pierre Bourdieu: «luogo dove interagiscono struttura sociale e pratica individuale, cultura e cognizione. Con i loro gesti istintivi, schemi di classificazione sedimentati e bias inconsci, gli individui non sono né naturali né unici. Piuttosto sono il “prodotto della storia”»10. Né determinata a priori, né completamente libera, «l’azione individuale emerge dall’interazione tra un “modello” cognitivo plasmato dall’habitus e gli “input” esterni provenienti dall’ambiente. Risulta evidente come un sistema automatico dipenda dalla scelta dell’habitus datificato su cui viene addestrato. «A seconda dell’insieme di correlazioni esperienziali e disposizioni stilistiche che strutturano il modello, l’algoritmo di machine learning genererà risultati probabilistici diversi. Ergo la frase di Bourdieu “il corpo è nel mondo sociale, ma il mondo sociale è nel corpo” potrebbe essere facilmente riscritta in questo modo: il codice è nel mondo sociale, ma il mondo sociale è nel codice»11.

L’habitus codificato dai sistemi di machine learning è l’habitus della macchina. Di fronte a nuovi dati di input, i sistemi di machine learning si comportano in modo probabilistico, dipendente dal percorso pre-riflessivo. Le loro pratiche «derivano dall’incontro dinamico tra un modello computazionale adattivo e uno specifico contesto di dati, vale a dire tra “la storia incorporata” dell’habitus della macchina e una determinata situazione digitale»12. Nonostante siano privi di vita sociale, riflessione e coscienza, gli algoritmi di machine learning rivestono un ruolo importante nel funzionamento del mondo sociale visto che contribuiscono attivamente alla reiterazione/amplificazione delle diseguaglianze sia di ordine materiale che simbolico. In sostanza, scrive Airoldi, ancora più degli esseri umani, tali macchine contribuiscono a riprodurre, dunque perpetuare un ordine sociale diseguale e naturalizzato.

La proposta dello studioso è pertanto quella di guardare ai sistemi di machine learning come ad «agenti socializzati dotati di habitus, che interagiscono ricorsivamente con gli utenti delle piattaforme all’interno dei campi tecno-sociali dei media digitali, contribuendo così in pratica alla riproduzione sociale della diseguaglianze e della cultura»13.

Ricostruita la genesi sociale del machine habitus, Airoldi sottolinea come questo si differenzi dal tipo di cultura nel codice presente in tanti altri artefatti tecnologici, «cioè la cultura dei suoi creatori umani, la quale agisce come deus in machina»14. Nonostante il discorso pubblico sull’automazione tenda a concentrarsi sui benefici che è in grado di offrire in termini sostanzialmente economici (tempo/denaro), ad essere stato introiettato a livello diffuso è soprattutto il convincimento della sua supposta oggettività, dell’assenza di arbitrarietà. Basterebbe qualche dato per dimostrare quanto la tecnologia sia, ad esempio, genderizzata e razzializzata: la stragrande maggioranza degli individui che hanno realizzato le macchine sono uomini bianchi, circa l’80% dei professori di intelligenza artificiale, l’85% dei ricercatori di Facebook ed il 90% di Google sono maschi (Fonte: AI Now 2019 Report).

Di certo per comprendere la cultura contenuta nei codici non è sufficiente individuare i creatori di macchine e il deus in machina; nei più recenti modelli di IA le disposizioni culturali fatte proprie dai sistemi di machine learning non derivano dai creatori ma da una moltitudine di esseri umani utenti di dispositivi digitali coinvolti a tutti gli effetti, in buona parte a loro insaputa, nel ruolo di “addestratori” non retribuiti che agiscono insieme a lavoratori malpagati.

Se correggere i pregiudizi presenti nel design degli algoritmi è relativamente facile, molto più problematico è agire sui data bias da cui derivano il loro addestramento. «Quando una macchina apprende da azioni umane datificate, essa non apprende solo pregiudizi discriminatori, ma anche una conoscenza culturale più vasta, fatta di inclinazioni e disposizioni e codificata come machine habitus»15. Per un sistema di machine learning i contesti di dati sono astratte collezioni di attributi elaborati come valori matematici e per dare un senso a una realtà vettoriale datificata, tali sistemi sono alla ricerca di pattern che non hanno nulla di neutrale, derivando dagli umani che stanno dietro le macchine.

Una volta affrontata la cultura nel codice nelle macchine che apprendono da contesti di dati strutturati socialmente (da “esperienze” datificate affiancate da un deus in machina codificato da chi le ha realizzate), dal momento che, come detto, le macchine imparano dagli umani e questi ultimi dalle prime attraverso un meccanismo di feedback loop, Airoldi si concentra sul codice nella cultura indagando i modi con cui le macchine socializzate plasmano la società partecipando ad essa.

Gli algoritmi agiscono all’interno di un più generale ambiente tecnologico composto da piattaforme, software, hardware, infrastrutture di dati, sfruttamento di risorse naturali e manodopera, insomma in un habitat tecnologico che, a differenza di quanto si ostina a diffondere una certa mitologia dell’high tech, non è affatto neutro, sottostante com’è ad interessi economici e politici. Risulta dunque di estrema importanza occuparsi di come i sistemi di machine learning prendano parte e influenzino la società interagendo con essa considerando i loro contesti operativi e la loro agency (i loro campi e le loro pratiche, in termini bourdieusiani). Nonostante le macchine socializzate non siano senzienti, queste, sostiene Airoldi, hanno «capacità agentiche». Certo, si tratta di agency diverse da quelle umane mosse da intenzioni e forme di consapevolezza, ma che comunque si intrecciano ad esse. «La società è attivamente co-prodotta dalle agency culturalmente modellate di esseri umani e macchine socializzate. Entrambe operano influenzando le azioni dell’altra, generando effetti la cui eco risuona in tutte le dimensioni interconnesse degli ecosistemi tecno-sociali»16.

Visto che ormai i “sistemi di raccomandazione” delle diverse piattaforme risultano più influenti nel guidare la circolazione di prodotti culturali e di intrattenimento (musica, film, serie tv, libri…) rispetto ai tradizionali “intermediari culturali” (critici, studiosi, giornalisti…), viene da domandarsi se non si stia procedendo a vele spiegate verso una “automazione del gusto” con tutto ciò che comporta a livello culturale e di immaginario. È curioso notare, segnala lo studioso, che se il sistema automatico delle raccomandazioni conosce “tutto” degli utenti, questi ultimi invece non sanno “nulla” di esso. Se tale asimmetria informativa è «una caratteristica intrinseca dell’architettura deliberatamente panottica delle app e delle piattaforme commerciali»17, occorre domandarsi quanto sia effettivamente arginabile attraverso un incremento del livello di alfabetizzazione digitale degli esseri umani e attraverso politiche votate a ottenere una maggiore trasparenza del codice. Quel che è certo è che ci si trova a rincorrere meccanismi che si trasformano con una velocità tale per cui risulta difficile pensare a come “praticare l’obiettivo” in tempo utile, prima che tutto cambi sotto ai nostri occhi.

Airoldi ricostruisce come la cultura nel codice sia impregnata delle logiche dei campi platformizzati, dove i sistemi di machine learning vengono applicati e socializzati, e come le stesse logiche di campo e la cultura siano “confuse” dalla presenza ubiqua di output algoritmici. È soprattutto a livello di campo, ove si ha un numero elevatissimo di interazioni utente-macchina, che, sostiene lo studioso, importanti domande sociologiche sul codice nella cultura necessitano di risposta. «Le logiche di campo pre-digitali incapsulate dalle piattaforme sono sistematicamente rafforzate da miliardi di interazioni algoritmiche culturalmente allineate? Oppure, al contrario, le logiche di piattaforma che confondono il comportamento online finiscono per trasformare la struttura e la doxa dei campi sociali a cui sono applicate?»18.

Dopo essersi occupato, nei primi capitoli, della genesi sociale del machine habitus, delle sue specificità rispetto alla cultura nel codice presente in altri tipi artefatti tecnologici e del codice nella cultura, analizzando i modi con cui le macchine socializzate plasmano la società partecipando ad essa, Airoldi si propone di «riassemblare la cultura nel codice e il codice nella cultura al fine di ricavare una teoria del machine habitus in azione» così da mostrare «come la società sia alla radice dell’interazione dinamica tra sistemi di machine learning e utenti umani, e come ne risulti (ri)prodotta di conseguenza»19.

Una volta mostrato come i sistemi di machine learning sono socializzati attraverso l’esperienza computazionale di contesti di dati generati dagli esseri umani da cui acquisiscono propensioni culturali durevoli in forma di machine habitus, costantemente rimodulate nel corso dell’interazione umano-macchina, Airoldi affronta alcune questioni nodali riconducibili a una serie di interrogativi: cosa cambia nei «processi di condizionamento strutturale che plasmano la genesi e la pratica del machine habitus» rispetto a quanto teorizzato da Bourdieu per il genere umano?; «come le disposizioni cultuali incorporate e codificate come machine habitus mediano nella pratica le interazioni umano-macchina all’interno dei campi tecno-sociali?»; «in che modo i feedback loop tecno-sociali influenzano le traiettorie disposizionali distinte di esseri umani e macchine socializzate, nel tempo e attraverso campi diversi?»; «quali potrebbero essere gli effetti aggregati degli intrecci tra umani e macchine a livello dei campi tecno-sociali?»20.

Inteso come attore sociale in senso bourdieusiano, un algoritmo socializzato risulta tanto produttore quanto riproduttore di senso oggettivo, derivando le sue azioni da un modus operandi di cui non è produttore e di cui non ha coscienza. Non essendo soggetti senzienti, i sistemi di machine learning non problematizzano vincoli ad essi esterni come, ad esempio, forme di discriminazione e di diseguaglianza che però, nei fatti, “interiorizzano”. Le piattaforme digitali sono palesemente strutturate per promuovere engagement e datificazione a scopi di profitto e funzionano al meglio con gli utenti a minor livello di alfabetizzazione digitale e di sapere critico. «Se il potere dell’inconscio sociale dell’habitus risiede nella sua invisibilità […] il potere degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale sta nella rimozione ideologica del sociale dalla black box computazionale, che viene quindi narrata come neutrale, oggettiva, o super-accurata. Al di là delle ideologie, sullo sfondo di qualsiasi interazione utente-macchina si nasconde un intreccio più profondo, che lega gli agenti umani e artificiali alla doxa e alle posizioni sociali di un campo, attraverso habitus e machine habitus»21.

I sistemi di machine learning non soddisfano (come vorrebbero i tecno-entusiasti della personalizzazione) o comandano (secondo i tecno-apocalittici della manipolazione) ma negoziano, nel tempo e costantemente, con gli esseri umani un terreno culturale comune. È dunque, sostiene lo studioso, dalla sommatoria di queste traiettorie non lineari che deriva la riproduzione tecno-sociale della società. A compenetrarsi in un infinito feedback loop sono due opposte direzioni di influenza algoritmica: una orientata alla trasformazione dei confini sociali e simbolici ed una volta al loro rafforzamento.

In un certo senso, scrive Airoldi, «gli algoritmi siamo noi». Noi che tendiamo ad adattarci all’ordine del mondo come lo troviamo, che sulla falsariga di quanto fanno i sistemi di machine learning apprendiamo dalle esperienze che pratichiamo nel mondo riproducendole. Lo sudioso propone dunque una rottura epistemologica nel modo di comprendere la società e la tecnologia: i sistemi di machine learning vanno a suo avviso intesi «come forze interne alla vita sociale, sia soggette che parte integrante delle sue proprietà contingenti»22. Oggi una sociologia degli algoritmi, ma anche la stessa sociologia nel suo complesso, sostiene Airoldi, dovrebbe essere costruita attorno allo studio di questa riproduzione tecno-sociale.

Nella parte finale del libro, lo studioso delinea alcune direzioni di ricerca complementari per una «sociologia (culturale) degli algoritmi»: seguire i creatori di macchine ricostruendo la genesi degli algoritmi e delle applicazioni di IA, dunque gli interventi umani che hanno contribuito a «spacchettare la cultura nel codice e i suoi numerosi miti»; seguire gli utenti dei sistemi algoritmici individuando «gli intrecci socio-materiali dalla loro prospettiva sorvegliata e classificata»; seguire il medium per mappare la infrastruttura digitale «concentrandosi sulle sue affordance e/o sulle pratiche più che umane che la contraddistinguono»23; seguire l’algoritmo, ad esempio analizzando le proposte generate automaticamente dalle piattaforme.

Se è pur vero che le macchine socializzate sono tendenzialmente utilizzate da piattaforme, governi e aziende per datificare utenti al fine di orientare le loro azioni, non si può addebitare loro la responsabilità dei processi di degradazione e sfruttamento della vita sociale. «Il problema non è il machine learning strictu sensu […] ma semmai gli obiettivi inscritti nel codice e, soprattutto, il suo contesto applicativo più ampio: un capitalismo della sorveglianza che schiavizza le macchine socializzate insieme ai loro utenti»24. Altri usi di IA, altri tipi di intrecci tra utente e macchina sarebbero possibili. Certo. Ma si torna sempre lì: servirebbe un contesto diverso da quello sopra descritto.


  1. Massimo Airoldi, Machine Habitus. Sociologia degli algoritmi, Luiss University Press, Roma 2024, p. 10. 

  2. Ivi, p. 11. 

  3. Ivi, p. 13. 

  4. Ivi, p. 15. 

  5. Ivi, p. 17. 

  6. Ivi, p. 24. 

  7. Ivi, p. 28. 

  8. Ivi, p. 30. 

  9. Ibid

  10. Ivi, p. 33. 

  11. Ivi, p. 35. 

  12. Ivi, pp. 35-36. 

  13. Ivi, p. 37. 

  14. Ivi, p. 38. 

  15. Ivi, p. 52. 

  16. Ivi, p. 80. 

  17. Ivi, p. 90. 

  18. Ivi, p. 98. 

  19. Ivi, p. 107. 

  20. Ivi, p. 106. 

  21. Ivi, p. 116. 

  22. Ivi, p. 137. 

  23. Ivi, p. 142. 

  24. Ivi, p. 144. 

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Il trionfo della “società dello spettacolo” e le sue conseguenze https://www.carmillaonline.com/2023/07/24/il-trionfo-della-societa-dello-spettacolo-e-le-sue-conseguenze/ Mon, 24 Jul 2023 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78200 di Sandro Moiso

Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 105, 8 euro

Invece di approfittare dell’occasione offerta da un fatto naturale come la morte per trovare il tempo di indagare storicamente le ragioni del successo, tra una fetta significativa dell’elettorato italiano, di un uomo sicuramente discutibile e sopra le righe in ogni sua manifestazione, alcune starlette dell’intellighenzia di “sinistra” continuano a perpetuare il mito di Berlusconi babau con un atteggiamento che, se non affondasse le sue radici nell’ignavia e nell’insipienza di una sinistra perbenista, anonima e amorfa, [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 105, 8 euro

Invece di approfittare dell’occasione offerta da un fatto naturale come la morte per trovare il tempo di indagare storicamente le ragioni del successo, tra una fetta significativa dell’elettorato italiano, di un uomo sicuramente discutibile e sopra le righe in ogni sua manifestazione, alcune starlette dell’intellighenzia di “sinistra” continuano a perpetuare il mito di Berlusconi babau con un atteggiamento che, se non affondasse le sue radici nell’ignavia e nell’insipienza di una sinistra perbenista, anonima e amorfa, sembrerebbe sfiorare la psicosi. Prova ne sia un’affermazione come quella contenuta in un numero di luglio del «Venerdì» di Repubblica: “Il berlusconismo è stata la disgrazia più grande”, attribuita a Sabina Guzzanti.

Già, la disgrazia più grande. Così mentre il grande pubblico dello spettacolo mediatico, politico e “culturale”, non ha ancora finito di assorbire il fatto che la Shoa abbia costituito il “male più grande”, ecco che già gli viene propinato un altro villain definitivo, dopo Hitler, Mussolini o chi altro diavolo si voglia. E mentre l’audience viene tenuta in uno stato di costante allerta da una classifica di “disgrazie” che non sembra mai finire, dal Vajont al Covid o alla guerra in Ucraina, un nuovo (?) “urlo di dolore” e moto “di denuncia” inizia a diffondersi per l’aere mediatico. Un’eterna corsa al vaccino definitivo contro i mali causati dalla Destra a livello politico e sociale che, però, non intacca mai la sostanza di una società (quella italiana ma non solo) e di un modo di produzione di cui la stessa Sinistra “criticante” fa parte, condividendone spesso valori e principi, fin da prima della caduta definitiva del fascismo storico.

Hanno fatto dunque benissimo le Edizioni Mimesis a riproporre nella collana “Volti” un testo del filosofo e scrittore italiano Mario Perniola (1941-2018), già precedentemente edito nel 2011: Berlusconi o il ’68 realizzato. Come si afferma nella Nota redazionale che precede l’attuale riedizione:

Il grande filosofo italiano che è stato Mario Perniola ci ha regalato uno stile di pensiero in cui ridere e comprendere vanno a braccetto, in nome di un umano e lucido disincanto del presente. Quando uscì Berlusconi o il ’68 realizzato, imperversavano gli scandali delle “cene eleganti” e vacillava la credibilità internazionale del Paese Italia. […] Allora risultarono quanto mai puntuali queste valutazioni di Perniola sul significato storico delle trasformazioni personificate da Berlusconi nella politica, nella cultura, nei costumi e nella vita sociale del Paese. Ma anche oggi, soprattutto oggi, al termine della parabola biografica dell’uomo di Arcore, l’analisi della rivoluzione spettrale, qui proposta, risulta essere uno dei migliori discorsi di commiato che si possano fare1.

Discorso in cui occorre sottolineare, così come fa Perniola e non soltanto per gusto provocatorio, il ricongiungersi, in maniera sicuramente distorta, nel programma di Berlusconi della gran parte degli obiettivi che caratterizzarono la grande ondata del Sessantotto. Dalla fine del lavoro alla distruzione dell’università e al vitalismo giovanilistico fino al trionfo della comunicazione massmediatica. Una sorta di rinnovato “spirito del capitalismo” cui avrebbero fatto riferimento in seguito Luc Boltanski e Eve Chiapello, annotando: la sua vocazione alla mercificazione del desiderio, soprattutto quello di liberazione, e di conseguenza al suo recupero e inquadramento2.

In attesa dunque di valutazioni storiche e politiche degne di questo nome, che non si basino soltanto su frasi ad effetto e battute salaci che si accontentano soltanto di rovesciare lo stile berlusconiano, in realtà senza negarlo nei fatti ma bensì propagandolo3 ad oltranza, val la pena di riprendere la lettura delle pagine del breve testo di Perniola.

Qui chi scrive si limita a riproporre l’interpretazione di alcuni temi, tra i tanti possibili, che ricollegano la “mancata rivoluzione” del ’68 alle sue conseguenze nei decenni successivi durante i quali, come sempre accade in questi casi, la Rivoluzione fallita si è trasformata in arma della Controrivoluzione e uno dei suoi testi più conosciuti e importanti4 si è tramutato nel possibile manuale d’uso per una concezione spregiudicata, ma tutt’altro che rivoluzionaria, della politica e della comunicazione5. Comparso infatti nel 1967, il testo di Debord affermava che: «Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale tra persone mediato da immagini». Anticipando di decenni il modo in cui Silvio Berlusconi con Mediaset e Mark Zuckerberg con Facebook e Instagram, per non parlare di tanti altri social media, avrebbero poi portato alle estreme conseguenze i meccanismi dell’alienazione individuale e sociale.

Sul lavoro e il suo rifiuto

Sebbene Berlusconi sia stato lungo tutta la sua vita un lavoratore instancabile, egli ha consentito alla maggior parte dei giovani di realizzare la famosa ingiunzione di Guy Debord (1931-1994) Ne travaillez jamais! (Non lavorate mai!). L’ironia sta nel fatto che ora i giovani vogliono lavorare, anche a condizioni indecenti e vergognose, incredibilmente più alienanti e squalificate di quelle che erano loro offerte negli anni Sessanta e Settanta: allora una vita piccolo-borghese era più o meno garantita a tutti, oggi essa è un sogno irraggiungibile per quanti non hanno alle spalle una famiglia che li aiuti. È come se Berlusconi avesse monopolizzato nella sua persona tutto il lavoro, e lasciato agli altri solo il gioco6.

Sulla cultura e gli intellettuali

Di tutto il culturame (attenzione, questa parola è detta in camera caritatis, cioè non pubblicamente) ce ne freghiamo: però dobbiamo dire che siamo a favore della cultura, della ricerca, dell’innovazione, dell’inglese, di internet, dell’impresa e di quanto ancora suoni alla moda, anche se di tutte queste cose non ce ne importa un fico, perché a farle sul serio, sono troppo care e complicate e lasciano uno spazio troppo ristretto per la corruzione. Le facciano gli americani, che legandole strettamente all’economia aziendale riescono a guadagnarci un sacco di soldi oppure i paesi del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) che essendo in ascesa e avendo tassi di sviluppo notevoli hanno bisogno di creare una borghesia relativamente istruita! […] Mi raccomando poi di non cadere nella trappola di sostenere sul serio i cosiddetti “intellettuali di destra”, perché questi sono molto più pretenziosi di quelli di sinistra, i quali un po’ per partito preso pauperistico, un po’ per demagogia si autodefiniscono “operai della conoscenza” e quindi non hanno più tante ambizioni: basta che fate far loro qualche comparsata gratuita in televisione e pensano subito di essere dei divi e di spezzare il cuore di qualche ragazza, come se le nostre ragazze di oggi avessero un cuore! Se poi sono veramente accro (segnatevi questa parola francese perché nessuno la capisce e quindi fa un certo effetto), voglio dire sono proprio accaniti, come quel tale Saviano o Saviani che dir si voglia, basta che lo inseriate in uno show ricreativo di puro intrattenimento per neutralizzarlo completamente. Lui vuol fare il tragico, ma se lo mettete insieme ai comici, chi si accorgerà della differenza? E poi in Italia la tragedia non ha mai avuto fortuna: sì certo, c’è stato qualche piemontese tragico come Alfieri e Pareyson, ma chi li legge? Servono per fare delle tesi di laurea. Quindi nessuna fatwā contro i Saviani, tanto meno attentati o cose che fanno casino: non dimenticate che spacciandoci per liberisti (mentre è ovvio che siamo monopolisti) dobbiamo anche mostrare di essere liberali e magnanimi. Mica siamo come i russi o i cinesi, che perseguitano i dissidenti! Tanto alla fine quello che dicono o scrivono non ha alcuna effettualità politica e il popolo bue lo si conquista nella campagna elettorale abbassando o eliminando qualche tassa od odioso balzello7.

Sulla dignità

Una parola che ricorre sempre più frequentemente nei discorsi etico-politici è dignità. Questa è diventata uno dei termini chiave della bioetica, nonché il motto in cui si sono riconosciute le rivolte politiche che hanno scosso molti stati arabi, provocando talora la caduta dei governi. In Italia coloro che si sono detti indignati dalla condotta di… sconi (questa volta mi viene in mente solo la parte finale del nome di questa persona), non si contano. Gli studenti che hanno occupato le piazze di alcune città spagnole si sono definiti los indignados. È nato così un Global Indignant Movement che si è manifestato in molti Paesi. La parola dignità ha eclissato altri termini più tecnici del linguaggio politico, come comunità e diritti dell’uomo. In effetti, la prima è caduta nel ridicolo da quando si è cominciato a parlare di una “comunità internazionale” […]. Quanto ai “diritti umani” che costituiscono uno dei cardini della civiltà occidentale, l’uso fazioso e opportunistico che se ne è fatto, li ha svuotati di credibilità […] Ora la domanda cruciale è: possiamo permetterci di essere indignati, se non abbiamo nessuna delle quattro virtù fondamentali (saggezza, temperanza, coraggio e giustizia)? Possiamo indignarci se noi stessi non abbiamo dignità? Se non siamo minimamente coerenti con noi stessi ma immersi nel mondo della comunicazione, nel quale tutto si capovolge in tutto? I caratteri fondamentali della comunicazione sono descritti benissimo dagli Stoici sotto il termine di stoltezza. Lo stolto non è uno sciocco, uno stupido, un ottuso ma l’essere umano che, in preda a un continuo turbamento, cambia opinione da un momento all’altro; incapace di stare fermo, corre a precipizio con impeto irrefrenabile verso il primo obiettivo che incontra e si pente con facilità di tutto ciò che ha fatto; incapace di ascolto, parla e agisce in modo inconcludente; inetto a elaborare valutazioni stabili e a compiere scelte irreversibili, salta ora qua ora là, pretendendo di avere e di prendere tutto. La stoltezza non nasce da una mancanza, ma da una deviazione, da una distorsione, da un pervertimento della facoltà razionale. Per essere indignati, bisogna almeno avere coraggio, cioè pazienza, perseveranza, magnanimità e magnificenza (Tommaso d’Aquino dixit). Noi italiani (e forse noi occidentali), siamo troppo deboli per permetterci di essere indignati8.


  1. Nota redazionale a M. Perniola. Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 7-8  

  2. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014  

  3. Si veda quanto già scritto qui  

  4. Guy Debord, La società dello spettacolo, SugarCo Edizioni, Milano 1990.  

  5. Si veda: Gianfranco Marelli, L’amara vittoria del situazionismo. Storia critica dell’Internazionale Situazionista 1957-1972, Mimesis Edizioni, 2017.  

  6. Non lavorate mai! in M. Perniola, op. cit., p. 21  

  7. Gli intellettuali da nona categoria puzzolente a spina dorsale della nazione in M. Perniola, op. cit., pp. 64-67  

  8. Possiamo essere indignati? In M. Perniola, op. cit., pp. 95-99  

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Una lettera dal 1970: Mario Perniola e Mario De Paoli, di Agaragar, rispondono a Giuseppe Sertoli, di Nuova Corrente. https://www.carmillaonline.com/2023/06/22/una-lettera-dal-1970-mario-perniola-e-mario-de-paoli-di-agaragar-rispondono-a-giuseppe-sertoli-di-nuova-corrente/ Thu, 22 Jun 2023 20:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77754 a cura di Marc Tibaldi

“Il dibattito culturale, il confronto e la critica, erano molto serrati all’inizio degli anni ‘70”, ci ha raccontato Mario De Paoli – fondatore, assieme al filosofo Mario Perniola, della rivista Agaragar – nell’intervista che abbiamo pubblicato su Carmilla (qui). Come documento che registra quel vivace dibattito culturale, ci sembra interessante riprodurre la lettera che De Paoli e Perniola inviarono a Giuseppe Sertoli. “Il capitalismo monopolistico – continuava De Paoli nell’intervista – era in crisi e si profilava la transizione al un nuovo modo di produzione del capitale. Ma, mentre il capitalismo combinava in una nuova [...]]]> a cura di Marc Tibaldi

“Il dibattito culturale, il confronto e la critica, erano molto serrati all’inizio degli anni ‘70”, ci ha raccontato Mario De Paoli – fondatore, assieme al filosofo Mario Perniola, della rivista Agaragar – nell’intervista che abbiamo pubblicato su Carmilla (qui). Come documento che registra quel vivace dibattito culturale, ci sembra interessante riprodurre la lettera che De Paoli e Perniola inviarono a Giuseppe Sertoli. “Il capitalismo monopolistico – continuava De Paoli nell’intervista – era in crisi e si profilava la transizione al un nuovo modo di produzione del capitale. Ma, mentre il capitalismo combinava in una nuova sintesi produzione materiale e produzione immateriale, i vari movimenti di sinistra rimanevano divisi fra loro, oscillando fra i movimenti operaisti e la contestazione studentesca. Agaragar proponeva una ‘sintesi sociale’ alternativa a quella proposta dal capitale. La rivista fu accolta con un certo entusiasmo, ma fu anche fraintesa. Per fare un esempio: Giuseppe Sertoli, redattore di Nuova Corrente (che in quegli anni era un’importante rivista di letteratura e filosofia. n.d.r.), mentre si dichiarava in accordo con gli scritti di Perniola, criticò aspramente i miei, pubblicati sul primo numero della rivista. Perniola ed io gli rispondemmo con una lunga lettera in cui affermavamo l’importanza della critica del linguaggio e della psiche per una sintesi sociale alternativa”.
Nonostante siano trascorsi 53 anni da quando fu scritta, nonostante sia giusto storicizzarla e contestualizzarla nella propria epoca, questa lettera ci pare stimolante per una riflessione odierna sui temi affrontati. È vero, le riviste cartacee non esistono quasi più, i dibattiti ideologici neppure, per non parlare della critica – politica, filosofica, letteraria, artistica… – ormai scomparsa. Andate pure a verificare sulle più note riviste culturali online o multimediali se esiste qualche dibattito politico e ideologico degno di questo nome. Nulla. Di fronte a questo nulla riappare questo messaggio dalla bottiglia del tempo. Buona lettura. (marc tibaldi)

AGARAGAR – Redazione
Casella Postale 723
00100 ROMA

Roma, 2 novembre 1970

Caro Sertoli,
gli articoli del primo numero a cui ti riferisci nella tua lettera meritano in effetti, come tu dici, di essere criticati, il che presuppone però che essi siano presi in considerazione per quello che effettivamente affermano o anche soltanto suggeriscono. Esigono una critica, ma esigono anche una lettura attenta come premessa di questa critica. Le ragioni che ci fanno pensare che tale lettura sia stata invece frettolosa ed abbia lasciato ai margini la sostanza stessa del discorso, si possono riassumere brevemente:

1. Il discorso svolto nei tre articoli è molto succinto e si sofferma poco sugli argomenti trattati; afferma più che dimostrare, suggerisce più che spiegare: è in sostanza il porre alcune idee che presuppongono un ulteriore sviluppo, in contrapposizione con le idee dominanti sull’argomento. Tu dici invece che si ripetono le stesse cose, che possono essere riunite in un discorso unico: cioè accusi di prolissità. Il fare ciò che tu dici avrebbe reso ancora più difficile la comprensione già, sembra, così difficoltosa.

2. La critica a Marx vuole esortare a tenere presente due fattori importanti nell’ambito del neocapitalismo che Marx non ha preso in debita considerazione perché i suoi tempi non erano ancora maturi: il linguaggio e la psiche. Gli articoli esagerano volutamente rendendoli fattori predominanti: questo allo scopo di costringere il lettore a prenderli in esame attentamente. In effetti la tua critica sembra dar ragione a questa preoccupazione: non solo non è capita la novità del discorso, ma si pretende che tutto sia stato detto da un Marx che non conosceva né linguistica né psicologia o dagli sviluppi di un marxismo (molto indicativo è il fatto che tu chiami in causa Stalin) che lungi dal superare Marx, ne ostacola addirittura la comprensione basilare. I luoghi comuni sono effettivamente presenti in buona parte del marxismo ideologico e un voler riportare il discorso a questi luoghi comuni denuncia non soltanto una mancata comprensione, ma addirittura un tentativo di mistificazione.

3. Non condividiamo il tuo nominalismo metodologico che ci sembra un’eredità del neopositivismo. I soggetti che tu consideri entità immaginarie, come Super-Io, Classe dominante e Proletariato, sono usati nella rivista con chiari riferimenti a Freud e a Marx; si presuppone che questi riferimenti siano tenuti continuamente presenti da chi legge, per evitare facili fraintendimenti sul significato e i limiti dei termini usati e per far presente il contesto stesso da cui sono sorti.

4. Fra tante critiche che si rilevano poi veri e propri fraintendimenti, mancano quelli che invece sono le critiche reali, le sole che avrebbero potuto ampliare veramente il discorso portando un contributo costruttivo. Sono queste in realtà le critiche che ci aspettiamo e che saremo ben contenti di ricevere: e alcune di queste possono venire proprio da noi stessi in quanto, come affermiamo nella rivista, siamo ben lungi dal credere nelle affermazioni definitive, anzi siamo consapevoli che ogni nostro scritto ha un carattere di provvisorietà per cui facilmente può esigere un superamento. Per fare solo un esempio: i tre articoli possono dare, anzi danno luogo a una critica di fondo abbastanza seria. L’introduzione di fattori psichici nell’analisi marxiana della società borghese è un fatto nuovo, anche se non completamente. Nel Capitolo sesto inedito del primo libro del Capitale, Marx affronta il rapporto tra operaio salariata e capitalista, affermando che questo è del tutto nuovo rispetto ai precedenti rapporti di dominio, non solo nell’ambito economico ma anche in quello psichico. Nella prima parte degli Scritti inediti di economia politica vi è poi un discorso sul credito in cui l’autore dice che la migliore falsificazione di moneta è quella che l’individuo fa su sé stesso, intendendo con ciò che il comportamento umano rientra mediante il credito, nell’ambito dell’economia borghese; vi è dunque qui un altro accenno al comportamento individuale e a fattori psichici. Ma se in Marx e poi più tardi, e in modo più completo, in Adorno, vi è un accenno al rapporto tra aspetti economici e psichici della società borghese, tuttavia non viene sviluppato sufficientemente. Conviene allora riferirsi a Freud, poiché costui ha affrontato l’argomento in modo sistematico. Ma, ed ecco la critica di fondo, è necessario essere molto cauti nel fare ciò. Le categorie psichiche fondamentali che Freud introduce nelle sue opere appaiono proprie di tutte le società umane di tutti i tempi (o perlomeno di quelle patriarcali), mentre da un’analisi approfondita risulta che esse hanno una dimensione storica molto più ristretta. Dunque la parte essenziale nei tre articoli è proprio quella che tu non consideri (cioè avere intuito l’importanza dei fattori psichici nell’analisi della società borghese), mentre la parte più discutibile è l’aver usato come strumento per la critica a Marx e Freud stesso senza averne criticato prima i presupposti basilari; cioè senza aver storicizzato, in quanto prodotto essenzialmente borghese, un fatto umano che Freud considera in modo storico. Se una critica deve essere fatta dunque, è proprio per non aver portato a fondo, in modo radicalmente critico un discorso che poteva essere fecondo di sviluppi ben più interessanti e di essersi accontentati di esprimere alcune intenzioni insieme ad alcune conseguenze immediate; sta nel fatto che, essendosi accorti che il problema effettivamente sussiste, non si è riusciti a portarlo fino in fondo.

Il riferimento a Ernst Bloch ci sembra completamente fuori luogo. Questi si muove in una direzione completamente diversa dalla nostra, verso un umanesimo socialista che si pone come erede della storia universale. In particolare le sue Differenziazioni nel concetto di progresso concordano col marxismo ideologico nell’attribuire un carattere automaticamente progressivo alle forze produttive e nell’assegnare all’arte e perfino alla cultura un significato immediatamente positivo. Noi al contrario vediamo nell’arte più l’impotenza del significato a realizzarsi, che l’esperienza di un successo umano; quanto alla cultura, pensiamo con Hegel che essa sia “l’inversione di tutti i concetti e di tutte le realtà”, “il generale inganno di sé medesimo e degli altri” (Fenomenologia dello spirito, VI, B, I). Non ci sembra inoltre che le considerazioni di Bloch nel saggio suddetto sul rapporto tra struttura e sovrastruttura vadano al di là di una ripetizione delle osservazioni fatte da Marx nell’Introduzione a “Per una critica dell’economia politica”: e francamente queste ci paiono tra le più infelici pagine che Marx abbia scritto. Sostenere che determinati periodi di fioritura dell’arte non stanno in rapporto con lo sviluppo genarle della società, significa sostanzialmente far riferimento ad una categoria universale capace di suscitare interessi universali, cioè accettare la premessa fondamentale dell’estetica, che è essenzialmente astorica.

La citazione di Stalin sarebbe una provocazione se non fosse una battuta: secondo il suo Il marxismo e la linguistica (libro a noi da lungo tempo tristemente noto) la lingua non è né una struttura né una base; che cosa essa sia però di preciso Stalin non lo dice mai. Egli si limita a sostenere la tesi della neutralità della lingua, assimilandola alla scienza, alla tecnica e agli strumenti di produzione. Noi all’opposto sottolineiamo il carattere essenzialmente borghese della scienza, della tecnica e dell’economia e, per quanto riguarda il linguaggio, pensiamo che nel momento storico che vede l’affermarsi del capitale commerciale, la sua dimensione sociale diventa parte integrante dell’economia. Infine Stalin, rivendicando la validità della linguistica come disciplina autonoma, si muove nell’ambito della sistemazione borghese parcellare della conoscenza, senza peraltro nemmeno preoccuparsi di prendere in seria considerazione almeno il suo primo teorico scientifico, il de Saussure.

A molte altre delle tue obiezioni riteniamo di aver dato o di dare presto una risposta in altri luoghi:
1. Sui rapporti tra teoria e pratica, nell’Editoriale del secondo numero di AGARAGAR (di cui ti avviamo, qui accluse, le bozze di stampa).
2. Sul trotskismo artistico, nel saggio Il Surrealismo e la realizzazione del Meraviglioso (di due pagine del quale ti inviamo fotocopia).
3. Sul tempo libero e sul gioco vi sono accenni in Per la critica del lavoro e della merce (altro articolo del secondo numero).
4. Sulla vita quotidiana nell’articolo Per una chiarificazione del concetto di vita quotidiana (altro articolo del secondo numero): però più che di una critica moralistica del costume, per noi si tratta di individuare nella vita presente gli elementi che risolutamente si oppongono al way of life borghese.
5. Per quanto riguarda la creatività proletaria, ci sembra che il miglior modo di affrontare la questione sia l’esame storico dei movimenti di contestazione di questi ultimi anni. In questa direzione si muoverà un articolo che abbiamo intenzione di preparare sul Maggio francese.
6. Certamente infine sarebbe stato meglio lasciare le frasi del Maggio nel loro contesto murale, riproducendo le fotografie di queste.
Del tutto oscure ci riescono le tue osservazioni sull’unità e la totalità, specialmente per quanto concerne una eventuale nuova “strutturazione gerarchica” (!) connessa con la totalità. Per quanto poi riguarda i riferimenti agli “intricati problemi dell’analogia” e ad Althusser, potremo prenderli in considerazione quando, uscendo da una generica erudizione, si concreteranno in vere obiezioni.
Le domande con cui si concludono i tuoi due saggi Sull’epistemologia di Gaston Bachelard (“Nuova Corrente”, n.51) e Formalismo perché (id., n.52) – Che cos’è la scienza? Che cos’è la poesia – sono le stesse che noi ci siamo posti e alle quali abbiamo già dato alcune risposte. Queste risposte tuttavia per noi vengono da una considerazione globale della società borghese, che attribuisce all’economia una posizione chiave: quest’importanza attribuita all’economia come componente imprescindibile della società borghese ci distingue nettamente da coloro che pretendono di rispondere a queste domande rimanendo nell’ambito della letteratura.

Mario De Paoli – Mario Perniola

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Dal Bunga Bunga al Festival. Missione compiuta. https://www.carmillaonline.com/2023/02/19/dal-bunga-bunga-al-festival/ Sun, 19 Feb 2023 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76167 di Sandro Moiso

La recente assoluzione del Cavaliere da cabaret non può stupire più di tanto, pertanto l’autore di queste righe non si protrarrà nel ricordare gli eventi e le polemiche che hanno accompagnato la vicenda. Già fin troppo tempo si è speso su un terreno che di opposizione politica reale ben poco aveva ma che, in compenso, è servito da paravento per segnare un passaggio epocale di tanta sinistra italica da una posizione di carattere ancora socialdemocratico ad una persa tra le spirali del liberalismo salottiero e moralista, oltre che economico, [...]]]> di Sandro Moiso

La recente assoluzione del Cavaliere da cabaret non può stupire più di tanto, pertanto l’autore di queste righe non si protrarrà nel ricordare gli eventi e le polemiche che hanno accompagnato la vicenda. Già fin troppo tempo si è speso su un terreno che di opposizione politica reale ben poco aveva ma che, in compenso, è servito da paravento per segnare un passaggio epocale di tanta sinistra italica da una posizione di carattere ancora socialdemocratico ad una persa tra le spirali del liberalismo salottiero e moralista, oltre che economico, destinate soltanto a far smarrire qualsiasi riferimento alla guerra tra le classi e ai bisogni materiali delle fasce sociali meno abbienti della società.

Sì, le lunghe “battaglie”, soprattutto mediatiche, condotte sulle “malefatte” di un premier autentico erede del Marchese del Grillo, intravisto nel nostro futuro più che nel passato nazionale da quel geniaccio cinematografico che rispondeva al nome di Mario Monicelli, avranno pure alimentato tanta ironia, anche sulle pagine di «Carmillaonline» attraverso le “Schegge taglienti” di Alessandra Daniele, ma, soprattutto, sono servite a diffondere una tendenza al moralismo e al giustizialismo che, dopo aver rinvigorito l’immagine di Marco Travaglio e del suo giornale e aver costituito le fondamenta dei “Vaffa Day” di Beppe Grillo, che hanno preceduto l’entrata in scena del Movimento 5 Stelle, ha cancellato, o almeno ha cercato di farlo, ogni riferimento al fatto che la battaglia politica, soprattutto se condotta da Sinistra, dovrebbe fondare le sue radici nelle contraddizioni reali del modo di produzione capitalistico. E non nelle sue platoniche ombre mediatiche.

Si dice che Antonio Ricci, ideatore di tanta tv berlusconiana, dai tempi di Drive In e Lupo Solitario fino ai tutt’ora inossidabili Striscia la notizia e Paperissima, sia da sempre appassionato ammiratore e collezionista di tutto quanto riguardi il Maggio francese e il Situazionismo. Così da far pensare che di quella significativa esperienza critica possa esser diventato uno dei legittimi eredi. Portando lo spettacolo ad essere l’unico elemento di riferimento per qualsiasi critica sociale e politica e rovesciando la rabbia della critica nel sorriso, nemmeno acido, dello spettacolo d’intrattenimento. Tanto da poter dire che se Bonaparte fu l’esecutore testamentario della Rivoluzione francese, così Ricci, si scusi il paragone un po’ azzardato sul piano storico e delle dimensioni effettive dei personaggi e degli eventi, lo è stato altrettanto in Italia per le intuizioni di Guy Debord sulla Società dello spettacolo.

Passato dalle collaborazioni con Beppe Grillo a quella più lunga, solida e, probabilmente, meglio remunerata col Cavaliere di Monza, l’autore televisivo, dopo essersi fatto le ossa in Rai, ha potuto scatenare il suo estro in una serie di programmi che hanno abituato il pubblico a reagire con lo sghignazzo e la battuta a qualsiasi evento politico e sociale. Trasformando così ogni evento in un puro e semplice spettacolo satirico. Anche se dai tempi di Lupo Solitario e dei gemelli Ruggeri, ivi transitati dal cabaret insieme a Patrizio Roversi e Syusy Bladi, e dell’ironica critica al socialismo reale raffigurato nell’immaginaria terra di Kroda, a quelli del Tapiro d’oro di Striscia la notizia e degli involontari capitomboli di Paperissima, qualcosa si è perso per strada. Soprattutto in termini di originalità.

Ma poco importa poiché, per i motivi appena menzionati, forse, si dovrebbe affermare che il vero artefice e stratega dei successi berlusconiani, compresi quelli processuali, sia da individuare proprio in colui che del détournement situazionista ha fatto la sua carta vincente e il grimaldello per scassinare una comunicazione “politica” già da tempo imbalsamata. Il rovesciamento, l’uso obliquo dei significati e dei fatti ha infatti finito col costituire il motore e il motivo delle narrazioni politiche italiane, certo non soltanto a partire dall’epoca berlusconiana, ma che in quest’ultima ha trionfato.

Soprattutto a Sinistra.
Un trionfo del rovesciamento che ha fatto sì che oggi gran parte del cosiddetto elettorato, ma anche chi scrive, non sappia più cosa significhi concretamente in politica il termine “sinistra”. Troppo volubile, troppo espandibile, troppo ambiguo e, come si sa, il troppo stroppia.

Una Sinistra istituzionale ammaliata dai salotti dei talk show televisivi. Una Sinistra per cui il look e l’apparenza hanno trionfato sui contenuti, così come dimostrano ancora le immagini di quella parte della stessa che esultava trionfante alla vista del Cavaliere che lasciava Palazzo Chigi nel 2011. Soltanto per sottomettersi, poi, al successivo governo Monti, lanciato in tv come salvatore della patria, non lo si dimentichi mai, proprio da Pier Luigi Bersani, e alla riforma Fornero delle pensioni. Senza nemmeno lontanamente accennare a ciò che oggi, per un tipo di riforma simile ma tutto sommato più leggera (64 anni invece di 67 per la pensione di vecchiaia) sta accadendo nelle strade e nelle piazze francesi.

Una Sinistra, infine, che si affida ai messaggi social e alle prediche vuote del Festival di Sanremo, durante il quale lo spettacolo di nani e ballerine di craxiana memoria si è ripetuto su grande scala e con un audience elevatissima. Liberalismo da strapazzo che, tra fiori che volavano per i calci di Blanco e le finte provocazioni di Rosa Chemical, Fedez e dei Maneskin, si è ammantato di “impegno civile” per mezzo dei discorsi stantii e retorici di Benigni; di un femminismo che non è riuscito nemmeno a elevarsi al livello dell’hollywoodiano “Me Too” (già piuttosto deludente rispetto ad un serio discorso sulla questione delle reali condizioni sociali e famigliari di milioni di donne); della superficiale lamentatio antirazzista e di mille altre banalità di base scambiate per discorsi “seri” e “impegnati”.

Discorsi del tutto simili a quelli contenuti nei programmi del PD che un altro uomo di spettacolo, Fiorello, ha definito “discorsi ad minchiam” dopo essersi imbattuto in un articolo dell’Adnkronos riguardante “i caratteri del nuovo partito nella quattro mozioni”, nel quale si citava testualmente: «Il nuovo Pd dovrà essere ‘aperto’, ‘inclusivo’ e ‘di prossimità’. Ma anche ‘paritario’, magari con una ‘cosegreteria’ o comunque con vertici ‘duali’ uomo/donna, e mai più ‘verticista’».

Il successo di tanto chiacchiericcio inutile e vuoto, tutt’altro che classista, si è visto, ad esempio nel calo dei tesserati del PD, sul quale pesano nonostante tutto anche le false tessere campane, la scarsa attenzione per il suo congresso (soprattutto nelle sezioni di tradizione “operaia”) e nel risultato delle votazioni regionali di Lazio e Lombardia in cui, guarda caso, il vero vincitore è stato l’astensionismo. Un astensionismo cosciente, non nel senso politico ma di rabbia e disgusto volutamente espresso attraverso il non voto. Come ha ammesso Stefano Fassina in un articolo dell’«Huffington Post» del 16 febbraio scorso:

Un’astensione con un nettissimo segno di classe. A tal proposito, le analisi delle precedenti tornate elettorali, amministrative e politiche sono inequivocabili. In attesa della scomposizione sociale del voto del 12-13 febbraio scorso, ne troviamo chiara conferma nell’affluenza a Roma, dove la quota di votanti in ciascun Municipio è direttamente proporzionale al reddito medio in esso registrato. […] In sintesi brutale, chi ha più bisogno di politica sta lontano dalla politica e, quando si avvicina alla politica, sta lontano dalla sinistra ufficiale…

Astensionismo che segnala anche, però, la possibilità di una rinascita futura di movimenti spontanei dal basso, poco ideologizzati e ancor meno inquadrabili ai fini dell’ormai cadaverico parlamentarismo. Manifestazione di uno scontento diffusissimo, giovanile e non, operaio e non, femminile e non, che per forza di cose dovrà, in forme ancora tutte da definire, rivolgersi contro l’attuale sistema di valori “condivisi” e di sfruttamento diffuso, mal retribuito e spietato del lavoro salariato. In sostanza, contro il capitale e le sue guerre sociali e militari.

Per ora, Berlusconi ha vinto e si sfrega ancora una volta le mani felice. Ma non ha vinto per i cavilli legali utilizzati dai suoi abili avvocati e nemmeno per le crepe apertesi nella magistratura e nel suo lavoro. Sempre fin troppo efficiente nei confronti di anarchici e No tav. Anche se Marco Travaglio potrà piangere ancora su puttanieri scagionati e giudici minacciati, mentre ancora qualche giorno fa il suo giornale mostrava un’immagine di prima pagina in cui alle spalle di Alfredo Cospito si proiettavano le ombre dei mafiosi, sbandierando il suo giustizialismo “tradito” nelle aule di tribunale e parlamentari.

Silvio Berlusconi rimane l’autentico vincitore di Sanremo, tant’è vero che del, tutt’altro che monolitico, blocco di centro-destra è stato l’unico a non iniziare la tiritera opposta su foibe, famiglia e droga. Perché sapeva di aver vinto, insieme ad un Guy Debord rovesciato nel suo contrario (com’è destino di ogni teorico del détournement), quando ha visto il Presidente della Repubblica inchinarsi davanti allo spettacolo e alle sue implacabili leggi. In nome dei discorsi di “impegno civile”. Mentre, Zelensky, nel ruolo di fantasma europeo, poteva soltanto aggirarsi ma non manifestarsi di persona sul palco dell’Ariston.

Dunque, dopo tanti anni, missione compiuta per il Cavaliere. Con la Sinistra istituzionale definitivamente rovesciata nel contrario di ciò che avrebbe dovuto essere e “rifondata” a immagine e somiglianza del glamour dei programmi Mediaset.
The king is dead, long live the king!
Anche se all’orizzonte già si delinea il volto confuso di uno strano soldato…

APPENDICE

Si allega qui di seguito, per dover di cortesia e non per altro, la precisazione richiesta all’autore dall’Ufficio Stampa di Striscia la notizia.

PRECISAZIONE CON RICHIESTA DI PUBBLICAZIONE

Dal Bunga Bunga al Festival. Missione compiuta.

Gentile Sandro Moiso,

abbiamo letto il suo pezzo “Dal Bunga Bunga al Festival. Missione compiuta”, apparso su Carmillaonline.com il 19 febbraio. Superata una certa sorpresa nell’assistere al divertente e creativo tentativo di collegare l’assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo “Ruby ter” al Festival di Sanremo 2023 e all’impatto sul linguaggio televisivo (e non solo) avuto da Striscia la notizia e dai programmi di Antonio Ricci, ci teniamo a precisare alcuni punti che ci sembrano decisivi.

Drive In, come d’altra parte anche Lupo solitario, che lei cita, è stato un programma innovativo, libero e libertario. Era una caricatura delle abitudini degli italiani e della società dell’epoca: un programma comico e satirico che ha irriso e messo alla berlina protagonisti, mode e personaggi degli anni 80. Una parodia dell’Italia di quegli anni esagerati, del riflusso, dell’edonismo reaganiano e della Milano da bere. Omar Calabrese, Luciano Salce, Giovanni Raboni, Federico Fellini, Umberto Eco, Oreste Del Buono, Angelo Guglielmi e tanti altri intellettuali dell’epoca la definirono «la trasmissione di satira più libera che si sia vista e sentita per ora in tv» o «l’unico programma per cui vale la pena di avere la tv».

È andato in onda dal 1983 al 1988, quindi molti anni prima della fondazione di Forza Italia e non ha nulla a che fare con l’impegno politico diretto di Silvio Berlusconi.

E seppure, come scrive lei, a Striscia la notizia, che è nata nel 1988, a volte si ride, è pure vero che non è sempre così. Si ride pochissimo quando, come in questi giorni, si mandano in onda immagini delle violenze dentro il CPR (Centro di permanenza per il rimpatrio) di Palazzo San Gervasio, delle gabbie in cui vengono rinchiusi gli “ospiti” della struttura, delle fascette di contenzione, della “terapia” a base di sedativi che alcuni di loro sono costretti a prendere. Tanto più che Striscia la notizia è l’unica voce di denuncia, nell’indifferenza generale della stampa nazionale. A Striscia si ride pochissimo anche quando salta in aria l’auto dell’inviata da Palermo, Stefania Petyx, che tra i tanti servizi contro le mafie ne ha realizzato uno a Corleone, proprio sotto la casa di Totò Riina. O quando in redazione arriva un pacco bomba o quando viene data alle fiamme la casetta di un inviato. Si ride pure pochissimo quando si denunciano magagne, errori, inefficienze del nostro Paese e lo si fa senza riguardi per le più importanti imprese pubbliche e private, dall’Eni a Fca, a Telecom, e per questo si accumulano più di 400 vertenze legali, e neppure quando si indaga sulle acque minerali, i supermercati, le grandi aziende che talvolta sono sponsor della rete televisiva che manda in onda il programma. È chiaro che tutti noi (lei compreso) potremmo sempre fare di più. Ci proviamo, spesso non ci riusciamo e aumenta il disincanto nel constatare che una risata, anche finta, non seppellirà nessuno.

Con i nostri più cordiali saluti

L’ufficio stampa di Striscia la notizia

P.S. Antonio Ricci non ha mai firmato esclusive di alcun genere con nessuna rete proprio per avere la più grande autonomia possibile.

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Europa e Russia, una incomprensione di culture in “Arca russa” e “Nostalghia” https://www.carmillaonline.com/2022/07/17/europa-e-russia-una-incomprensione-di-culture-in-arca-russa-e-nostalghia/ Sun, 17 Jul 2022 21:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72960 di Paolo Lago

All’inizio c’è solo oscurità, silenzio, spaesamento: così comincia Arca russa (Russkij Kovčeg, 2002) di Aleksandr Sokurov. Un personaggio, che non vediamo mai e che appare soltanto sotto le vesti di voce narrante (presumibilmente lo stesso regista), si ritrova al buio, in un luogo che non conosce; solo successivamente, in modo graduale, comincia a rendersi conto di dove si trova. Quel personaggio coincide con lo sguardo degli spettatori che, insieme a lui, iniziano un onirico viaggio all’interno di un unico piano-sequenza che costituisce l’intero film. Il viaggio avviene dentro il Palazzo [...]]]> di Paolo Lago

All’inizio c’è solo oscurità, silenzio, spaesamento: così comincia Arca russa (Russkij Kovčeg, 2002) di Aleksandr Sokurov. Un personaggio, che non vediamo mai e che appare soltanto sotto le vesti di voce narrante (presumibilmente lo stesso regista), si ritrova al buio, in un luogo che non conosce; solo successivamente, in modo graduale, comincia a rendersi conto di dove si trova. Quel personaggio coincide con lo sguardo degli spettatori che, insieme a lui, iniziano un onirico viaggio all’interno di un unico piano-sequenza che costituisce l’intero film. Il viaggio avviene dentro il Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, e la voce narrante si ritrova proiettata nella Russia del Settecento e dell’Ottocento. Attraverso le sale del palazzo intravede lo zar Pietro il Grande, l’imperatrice Caterina II e poi, nel corso del tempo, gli zar Nicola I e Nicola II. Il personaggio sembra fatto di pura coscienza e di pura voce e non viene visto da nessuno tranne che da un altro personaggio incontrato nel suo incedere, che appare come un misterioso nobile europeo che ha partecipato, in qualità di diplomatico, al Congresso di Vienna. Se la voce narrante rappresenta uno sguardo prettamente russo, il diplomatico possiede uno sguardo e un modo di vedere tipicamente europei e finisce per coincidere con la stessa Europa.

Successivamente, nel loro viaggio temporale, i due personaggi giungono ai giorni nostri, quando il Palazzo d’Inverno è già diventato il museo dell’Ermitage, e si muovono nei corridoi e nelle sale a contemplare la bellezza delle opere d’arte. Il diplomatico si muove flessuoso e baldanzoso attraverso le sale e, quasi novello Casanova felliniano, intrattiene galanti convenevoli con alcune signore intente ad ammirare quadri e statue. Alle espressioni culturali ed artistiche russe, il diplomatico europeo (forse francese?) preferisce notevolmente l’arte, appunto, europea. Di fronte alla bravura di alcuni musicisti, ad esempio, afferma che sono sicuramente italiani mentre la voce narrante ribatte che, invece, sono russi; ammira Rubens, Van Dyck, la pittura fiamminga, i soggetti religiosi occidentali e, soprattutto, una scultura di Canova. L’arte e la cultura russa sembrano talmente lontani dal suo orizzonte visivo che, all’inizio, dice alla voce narrante che il luogo in cui si trovano sono i musei vaticani. Al che, il personaggio narratore controbatte che invece si trovano nell’Ermitage. Il movimento temporale ed estetico attraverso i saloni dell’Ermitage è perciò connotato da una costante incomprensione culturale fra il personaggio del diplomatico (che si trova nella sua epoca ma non nel suo paese) e il narratore (che si trova nel suo paese ma, per gran parte del viaggio, non nella sua epoca).

Il diplomatico europeo è connotato come istrionico e misterioso, quasi toccato da tonalità faustiane, loquace e spinto da una curiosità e un interesse per qualsiasi manifestazione culturale ed artistica russa che i personaggi incontrano nel viaggio temporale attraverso il lungo corridoio e i saloni. Ma questo interesse sfocia presto in una incomprensione, in una incapacità di sondare fino in fondo quel mondo che, attraverso i secoli, brulica nello scenario del Palazzo d’Inverno. Il movimento della macchina da presa è cunicolare e mima l’incedere del tempo, un tempo che fluisce come un fantasma nei dolorosi spasmi della Storia. In tale movimento cunicolare, che sembra percorrere le oscure vie di un tunnel, si intersecano le simultaneità di un presente del passato, di un presente del presente e di un presente declinato in un futuro che appare denso e fumoso, nell’inquadratura finale. Lo stesso tempo appare terribile e inesplicabile e la voce narrante, che rappresenta la Russia, non riesce a sua volta a comprendere le parole del diplomatico, che assumono le sembianze di ironiche e magniloquenti allocuzioni sul piacere estetico. Se l’Europa, nelle vesti del diplomatico, appare baldanzosa e forte delle proprie potenzialità culturali e artistiche, la Russia, nelle sembianze di una voce di cui non vediamo neppure la fonte (una voce spettrale, acusmatica, come direbbe Michel Chion), è contornata di delicatezza e titubanza, di circospezione, di esitazione e di rispetto per il luogo nel quale ci si trova. Il diplomatico europeo sembra non riuscire neppure a comprendere gli orrori della guerra: non esita infatti ad aprire una porta nonostante la voce ‘russa’ gli abbia detto più volte di non aprirla. Dietro di essa si cela l’orrore della seconda guerra mondiale e le sale devastate dell’Ermitage sono ormai sature di bare; il personaggio europeo non riesce allora a capire il dolore e l’angoscia di un anziano che, in quello spazio ormai annientato dagli orrori della guerra, si sta costruendo la propria bara. Anche la guerra, l’orrore, la distruzione e la morte, a quegli occhi europei appaiono come istrionici scherzi, come i languidi sorrisi di quelle vampiresche fanciulle che, sulle ali del tempo, si librano correndo attraverso i corridoi del palazzo.

Anche la sequenza in cui il poeta russo Gorčakov e la sua traduttrice italiana Eugenia, giunti nel paesino toscano di Bagno Vignoni, stanno aspettando la camera d’albergo, in Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij, è immersa nel buio e nel silenzio, come all’inizio di Arca russa. In questo caso, il poeta rappresenta la Russia mentre la giovane – che, nell’interpretazione di Domiziana Giordano, bionda e prorompente, ricorda le figure femminili dell’arte rinascimentale italiana – l’Italia e, più in generale, l’Occidente. Mentre Eugenia sta leggendo in traduzione un libro di poesie di Arsenij Tarkovskij, padre del regista, Gorčakov afferma che è impossibile tradurre la poesia e che è altrettanto impossibile, per due culture diverse come quella russa e quella europea, riuscire a comprendersi. Eugenia ribatte che, invece, le due culture, sia a un livello letterario che artistico, in qualche modo, riescono a comprendersi. Come il diplomatico europeo del film di Sokurov, la giovane traduttrice appare mossa da una spinta positiva nei confronti di una cultura diversa, una positività che probabilmente cela leggerezza e incapacità di sguardi profondi. Il poeta russo, in Nostalghia, afferma, in modo perentorio: “Voi non capite niente della Russia”, dicendo che neppure i russi riescono a capire niente di Dante, Petrarca o Boccaccio. Del resto, il film porta nel titolo un’afflizione tipicamente russa, una “nostalgia” che diviene una vera e propria malattia, difficile da capire per un occidentale. Lo stesso Gorčakov è totalmente avvolto da questa malattia che, oniricamente, gli fa apparire come spettri i suoi paesaggi russi e i suoi familiari lontani. L’unica soluzione per comprendersi – dice – è quella di abbattere le frontiere dello stato, quelle politiche, in un periodo storico comunque molto diverso da quello attuale. Sembra, però, che anche oggi ci sia molta difficoltà nel comprendersi, fra Russia e Occidente. Tale incomprensione è emersa a livelli iperbolici e grotteschi (come la cancellazione di un corso universitario su Dostoevskij o il divieto di artisti russi di esibirsi in Occidente) nel momento in cui è scoppiata la guerra fra Russia e Ucraina. L’intero Occidente, ottusamente, ha fatto fronte compatto contro qualsiasi espressione culturale russa, arrivando a censurare anche personaggi pubblici e dello spettacolo dichiaratamente contrari al regime di Putin.

Di fronte alla prorompenza e all’estrema raffinatezza estetica dell’arte italiana, lo stesso Gorčakov si blocca, si ferma: se uno dei motivi per cui era arrivato in Italia era vedere la Madonna del Parto di Piero della Francesca, nel momento in cui ha la possibilità di osservarlo dal vivo sceglie di non entrare nella stanza dove è custodito il dipinto. D’altra parte, l’arte rinascimentale italiana, soprattutto quella di Leonardo da Vinci, ha sempre ossessionato Tarkovskij, secondo il quale l’Occidente, soprattutto a partire dal Rinascimento, si era allontanato dalle caratteristiche fondanti dell’arte russa, dedita alla semplicità delle icone sacre. In molti suoi film l’arte di Leonardo appare rivestita di un fascino ambiguo e perverso come ad esempio in Solaris (1972), ne Lo specchio (Zerkalo, 1975) e in Sacrificio (Offret, 1986). L’ambiguità connota anche il personaggio europeo del film di Sokurov: come accennato, egli possiede alcune tonalità faustiane che lo fanno partecipe ugualmente del bene e del male, come “una parte di quella forza che eternamente vuole il male, e eternamente opera il bene”, come scrive Goethe nel Faust (non a caso, Sokurov nel 2011 ha tratto un film proprio da questa celebre opera del poeta tedesco).

Continuando il viaggio attraverso i corridoi del palazzo, in Arca russa, emerge anche la greve solennità dei rituali dell’aristocrazia russa. L’europeo e la voce narrante si muovono come fantasmi fra i plenipotenziari della nobiltà, solennemente irrigiditi durante il rituale delle scuse dell’ambasciatore di Persia allo zar Nicola I. Il diplomatico faustiano sembra quasi giocare col tempo, muovendosi a zig zag fra i nobili impettiti, racchiusi dall’opulenza delle loro uniformi, grevi e antiche, sature del fascino di “oggetti desueti”, iperbolici, carichi di ere ormai spente. Ma dopo la solennità del rigido e silenzioso rituale, c’è quella della festa, del concerto in cui esplode l’anima festosa della Russia, quella semplicità e quel silenzio che si sono fatti carne e suono, voluttà ed estasi. E allora, adesso, sarà l’europeo a bloccarsi, a fermarsi, a non riuscire a proseguire il suo viaggio. Si ferma e rifiuta di comprendere fino in fondo la cultura del paese in cui si trova, scegliendo di non sapere mai che cosa è e che cosa sarà quell’immensa “arca russa”. Di fronte agli inviti della voce narrante (“andiamo avanti”), l’europeo dice: “io rimango qui”. La macchina da presa, che ormai coincide totalmente con la voce narrante (che esprime un laconico: “Addio Europa”) e con lo sguardo autoriale, lentamente, lasciando lo strepito della festa, facendosi largo fra ambigue fanciulle mascherate perdute in lascive movenze teatrali, rigide damigelle e nobili impettiti, esce da una finestra del palazzo per ritrovarsi completamente circondata dal mare e da un vento di tempesta.

Mentre lo sguardo autoriale sta per uscire dalla finestra, riecheggiano queste parole, quasi perdute nel vento, rivolte al nobile europeo: “signore, signore, peccato che lei non sia qui con me, lei avrebbe capito ogni cosa, guardi, c’è il mare tutt’intorno, e dovremo navigare per sempre, e vivere, per sempre”. La Russia è un’arca, una grande nave che deve andare avanti,  che deve continuare a navigare e vivere per sempre. L’Europa avrebbe capito ogni cosa, se solo avesse avuto il coraggio di proseguire, di vedere e capire fino in fondo. E anche oggi, questa Europa baldanzosa, irretita nei suoi distruttivi fasti economici e bellici, ambigua e pretenziosa, sembra non riuscire a comprendere la grande arca russa che continua la sua navigazione in mari ghiacciati, fra le spire e le tempeste del tempo, per non morire.

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Studenti e operai uniti nella lotta…? Appunti per una mobilitazione studentesca https://www.carmillaonline.com/2022/02/03/studenti-e-operai-uniti-nella-lotta-per-la-mobilitazione-studentesca-del-5-febbraio/ Thu, 03 Feb 2022 21:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70384 di Sandro Moiso

La nostalgia non è mai una buona compagna di viaggio, sia nella vita che in politica, pertanto le riflessioni che seguono esulano da eventuali rimpianti per una stagione apparentemente finita da decenni. Detto questo, però, è inevitabile registrare come in una società che non ha mai perso le caratteristiche di sfruttamento e comando sulla forza lavoro che già erano state alla base delle rivolte operaie degli anni Sessanta e Settanta, in un contesto in cui alcune caratteristiche del lavoro precarizzato sono penetrate sempre di più anche all’interno dei percorsi [...]]]> di Sandro Moiso

La nostalgia non è mai una buona compagna di viaggio, sia nella vita che in politica, pertanto le riflessioni che seguono esulano da eventuali rimpianti per una stagione apparentemente finita da decenni. Detto questo, però, è inevitabile registrare come in una società che non ha mai perso le caratteristiche di sfruttamento e comando sulla forza lavoro che già erano state alla base delle rivolte operaie degli anni Sessanta e Settanta, in un contesto in cui alcune caratteristiche del lavoro precarizzato sono penetrate sempre di più anche all’interno dei percorsi scolastici contraddicendo la favoletta della formazione culturale dei futuri cittadini, sia ridiventata possibile sperare in una ripresa dell’unità di intenti tra settori del mondo del lavoro e studenti, soprattutto delle scuole superiori, come è riscontrabile oggi a partire dalle mobilitazioni che hanno coinvolto gli stessi in almeno trenta città italiane dopo la tragica morte, durante l’ultimo giorno dello stage di alternanza scuola-lavoro, di un giovane diciottenne, Lorenzo Parelli, in un’azienda dislocata in provincia di Udine.

D’altra parte gli studenti medi, nelle spontanee manifestazioni avvenute dopo la morte di un loro coetaneo sul luogo di lavoro in cui avrebbe dovuto apprendere elementi utili ad una formazione professionale, cui le scuole statali sembrano aver abdicato da molti anni a questa parte, hanno evidenziato un elemento che da troppo tempo, al di là dei falsi piagnistei sindacali e governativi, caratterizza il mondo del lavoro italiano, ovvero il fatto che in questa democratica repubblica sono da contare almeno tre morti al giorno sui posti di lavoro. Cifra che il periodo di allerte ed emergenze pandemiche non ha certamente contribuito a far diminuire.

Secondo l’Inail nel 2021 sono stati 1.221 i morti sul lavoro, mentre 1.270 erano stati nel 2020 (compresi quelli da Covid-19, contratto soprattutto tra il personale ospedaliero) , senza contare quelli che restano non censiti (ad esempio quelli “in itinere” ovvero durante lo spostamento da casa al luogo di lavoro o viceversa). Infatti fonti ufficiose ipotizzano che circa un terzo degli infortuni mortali sul lavoro rimanga sottotraccia, non censito, e che la quota di sommerso sia ancora più rilevante nel settore agricolo e sul fronte degli incidenti stradali. Una media che supera i 3 al giorno e rispetto alla quale non vi sono ancora mai state mobilitazioni significative, al di là delle parole retoriche dei rappresentanti dei sindacati confederali, delle frasi di circostanza governative e della rassegnazione di tanti lavoratori di fronte ad un fenomeno recepito, troppo spesso ormai, come inevitabile.

Così mentre i rappresentanti sindacali da un lato e il populismo no green pas o no vax dall’altro riducevano tutto il problema della sicurezza e della dignità dei lavoratori all’esaltazione o alla critica (in entrambi i casi assoluta) dell’uso dei vaccini e dei green pass, gli studenti sono stati i primi a mobilitarsi su un tema centrale per la definizione dei reali rapporti intercorrenti tra lavoratori, Stato, formazione, datori di lavoro, giovani e realtà dello sfruttamento capitalistico travestito da unico modo possibile di vita e organizzazione sociale.

Ponendo una questione eminentemente politica e contribuendo così a riaprire una riflessione collettiva e un’iniziativa spontanea dal basso dalla possibile connotazione anti-capitalista, in grado di scardinare nuovamente la morta gora sociale che le mancate iniziative sul Covid-19 e le misure anti-pandemiche, anche là dove si pensano radicali come nel caso del movimento anti-green pass, hanno contribuito soltanto a rafforzare1.

Proprio per questo motivo la risposta poliziesca è stata così dura e violenta, al di là delle fasulle spiegazioni dei questori coinvolti (qui) oppure dei finti piagnistei della stampa mainstream sull’inspiegabilità dei comportamenti delle forze dell’ordine nei confronti delle manifestazioni studentesche. Una ragazza di 18 anni con un’anca rotta, una di 14 con sei punti di sutura sulla testa, un ragazzo poco più che maggiorenne ancora ricoverato per un’emorragia cerebrale non ancora riassorbita e decine di altri costretti ad andare all’ospedale e da lì usciti con collari, fasciature e prognosi per lussazioni, in almeno tre città italiane (Torino, Roma e Milano)2, non costituiscono soltanto dei “casi”.

Raffigurano bene l’unica strategia governativa e imprenditoriale possibile di fronte a un’iniziativa che, se non scoraggiata immediatamente, potrebbe rivelarsi perniciosa per un establishment che già fatica a galleggiare sulle proprie contraddizioni politiche ed economiche, oltre che sanitarie. Ma questa strategia affonda le proprie radici anche, e forse soprattutto, in scelte riguardanti la formazione dei giovani che, dopo aver già dimostrato la propria inconsistenza e superficialità nelle scelte riguardanti la DAD e la gestione degli spazi scolastici e dei trasporti pubblici durante l’attuale lunghissima fase pandemica, è iniziata con i tagli alla scuola pubblica e alla formazione professionale statale fin dagli anni ’90.

Chi scrive è stato per quasi quarant’anni docente di scuola superiore, sempre nel settore dell’istruzione tecnica e professionale e quindi, a ragion veduta, può affermare senza alcun dubbio di essere stato testimone di una svalutazione della formazione pubblica che era tesa, oltre che al risparmio sulla spesa pubblica indirizzata alla scuola, ad una svalorizzazione del lavoro in termini di costi della manodopera, qualificata o meno che fosse.

Si può dire che tutto ebbe inizio con il progetto Brocca (dal nome del sottosegretario italiano alla Pubblica istruzione Beniamino Brocca che coordinò la commissione ministeriale autrice del progetto), uno studio per la revisione del sistema didattico pubblico italiano effettuato a cavallo fra gli anni ’80 e ’90. Istituita nel 1988, la Commissione Brocca ricevette dall’allora ministro Giovanni Galloni il mandato di “revisionare” i programmi dei primi due anni della secondaria superiore, in vista del prolungamento dell’istruzione obbligatoria al sedicesimo anno d’età. L’anno successivo (confermata in carica peraltro dal successivo ministro Sergio Mattarella) si ebbe il primo esito concreto della commissione, cioè l’elaborazione dell’area comune del biennio.

Tenuto conto della tripartizione (istruzione liceale, tecnica e professionale) della scuola secondaria superiore, la commissione propose di superare le diverse barriere tra indirizzi di studio. Per superare le diversità di indirizzo si suggerì di dare maggior spazio alle discipline fondamentali. La commissione scartò l’adozione di un “biennio unico”, ossia di un semplice proseguimento della scuola media, per preferire l’alternativa del “biennio unitario articolato”.

Il tentativo era nell’insieme quello di liceizzare la scuola italiana, che raggiunse il suo apice, poi respinto da una vasta mobilitazione di docenti e studenti promossa dai sindacati di base, con le proposte dell’allora ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer, con il quale si intendeva modificare radicalmente la suddivisione del sistema scolastico.

Il risultato, per quanto riguardava gli Istituti Tecnici Industriali che allora raccoglievano il maggior numero di iscritti, insieme agli Istituti Tecnici professionali, fu quello di abolire le ore di officina del biennio. Ore in cui gli allievi e le allieve, oltre a ricevere i primi rudimenti di una professionalità specificamente tecnica, imparavano ad usare macchine a controllo numerico e torni secondo le norme della sicurezza sul lavoro.

I docenti tecnico-pratici furono trasferiti, salvo un breve e superficiale corso di aggiornamento, alla funzione di assistenti di laboratorio di informatica e matematica, mentre le ore delle materie teoriche andavano a sostituire quelle di officina meccanica. Il tutto condito da una retorica umanistico-scientifica che serviva soltanto a nascondere il fatto che proprio l’istruzione tecnico-pratica, in ogni settore e quindi anche le ore di officina del biennio, era quella che costava di più alla scuola italiana, facendo sì che all’epoca gli istituti tecnici industriali e professionali fossero quelli che costavano di più allo Stato in termini di spesa per macchine, laboratori, materie prime e materiali di consumo (bulloneria, attrezzi, preparati, vernici etc.).

Un liceo costa molto meno allo Stato, poiché biblioteche e laboratori linguistici, anche là dove esistono in maniera degna di questo nome, costano di meno di quanto rapidamente elencato prima, mentre il costo maggiore (dizionari, libri, quaderni, penne etc.) ricade principalmente sulle famiglie degli utenti ovvero sugli studenti.

La strategia che proseguì poi negli anni seguenti, nel tripudio irrazionale dei docenti di materie umanistiche (di cui il sottoscritto ha fatto parte per tutta la carriera lavorativa), portò successivamente ad una parziale esternalizzazione della formazione tecnica specifica attraverso le attività di alternanza scuola-lavoro, istituite a partire dai primi anni 20003 e codificate definitivamente con riordino dei licei, degli istituti tecnici e degli istituti professionali emanati dal Presidente della Repubblica in data 15 marzo 2010 (Registrati alla Corte dei Conti in data 1 giugno 2010). Seguita, infine, dall’abolizione della qualifica professionale che era conseguito dagli studenti degli Istituti Tecnici Professionali al termine del terzo anno a seguito di un esame professionalizzante (anno durante il quale le ore di laboratorio-officina della materia qualificante ammontavano a 12 su 36/38 settimanali).

Questo lungo percorso di esternalizzazione, almeno parziale, della formazione tecnica e professionale degli allievi delle scuole superiori di ogni ordine e grado, non dipendeva soltanto però da una volontà politica, ma anche da una economico-imprenditoriale tesa ad approfittare della suddetta svalutazione della formazione da due punti di vista. Entrambi remunerativi per il mondo dell’imprenditoria, grande o piccola che fosse.

In prima battuta, là dove ancora non esisteva oppure non esistesse più una specifica formazione professionale statale, gli imprenditori avrebbero potuto approfittare dei fondi europei per la formazione, istituendo corsi ad hoc da spartirsi annualmente tra i promotori.
In seconda battuta la creazione di una manodopera meno cosciente dei propri diritti (lavorativi ed economici) legati al possesso di ben precise tecniche e conoscenze professionali, decisamente più disposta ad adattarsi alle nuove “norme” della sempre più diffusa precarizzazione del lavoro.

Chi scrive, avendo insegnato per oltre un decennio in uno specifico contesto di economia turistica (Isola d’Elba), può tranquillamente affermare ciò, ricordando come i maggiori oppositori all’apertura di un Istituto Tecnico Professionale alberghiero in tale situazione socio-economica fossero stati proprio i maggiori albergatori locali, abituati a spartirsi annualmente i fondi europei per la formazione (con corsi semestrali) e ad utilizzare in prevalenza manodopera scarsamente professionalizzata e, proprio per questo motivo, a bassissimo costo. L’apertura dell’Istituto Alberghiero fu, in quel contesto, un’autentica vittoria per la qualificazione professionale di una parte dei giovani isolani, anche se destinata a durar poco proprio a causa delle riforme più sopra esposte.

E’ chiaro, pertanto, che le manganellate di oggi arrivano da lontano e portano firme importanti (visto che in periodi diversi si sono alternati sul “trono” della scuola rappresentanti politici di ogni colore e grado), tutte al servizio di interessi che con la cultura hanno ben poco a che fare, ma molto di più con gli interessi della riduzione della spesa pubblica e dell’imprenditoria nostrana.

La riduzione delle ore di laboratorio, negli istituti tecnici e professionali, è di fatto coincisa con un allargamento della manodopera gratuita prestata ad aziende e settori delle amministrazioni pubbliche per centinaia di ore pro-capite per studente che diventano centinaia di migliaia annualmente per le imprese e aziende interessate. Coinvolgendo in tale “prestito lavorativo” anche gli studenti liceali che fino all’istituzione dell’alternanza scuola-lavoro erano rimasti esclusi da qualsiasi tipo di pratica lavorativa.

Questo, di per sé, non costituirebbe un male se davvero costituisse, come vorrebbe far credere chi la promuove, una fase della formazione sociale, culturale e lavorativa dei giovani. Ma questa ipotesi sembra costituire soltanto il cappello sotto cui nascondere l’untume ideologico e la forfora economica di chi tali iniziative ha promosso e di chi ne trae vantaggio. Soprattutto alla luce del fatto che per molti giovani, qualificati e diplomati, l’alternativa lavorativa più diffusa sia quella di rider per la consegna a domicilio di cibo spazzatura, merci o altro.

«Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita». Tutto sembra rinviare, a distanza di novant’anni alla frase con cui si apriva uno dei primi, importanti romanzi di formazione del ‘900: Aden, Arabia di Paul Nizan (1931).
Violenta, superba, categorica, “vera”, questa frase è da sempre piaciuta molto ed è diventata famosa come specchio del rifiuto, indice di ribellione e bandiera della gioventù tribolata e scontenta.

Frase, quella di Nizan, cui seguiva di lì a poco un’altra, altrettanto emblematica: «Nulla sapevamo di quanto sarebbe stato necessario sapere e la cultura era troppo complessa per permetterci di capire altro che le rughe superficiali»4.
Oggi la critica per la mancanza di democrazia può costituire un movente dello scontro politico, ma la richiesta di realizzazione della democrazia rimane entro i confini di un mondo dominato dal modo di produzione capitalistico che è causa esso stesso di quella mancata promessa di democrazia.
Allo stesso tempo la critica di una scuola che non funziona più, o non ha mai funzionato, come strumento di elevazione sociale in una società profondamente ineguale non può fermarsi alla promozione di un’idea di scuola che funzioni nell’ ambito della società “borghese”.

La critica odierna, quella collegata al rifiuto dell’alternanza scuola-lavoro, costituisce già di per sé un superamento dei due esempi appena citati, ponendo al centro dell’attenzione il tema del lavoro e della cultura ad esso collegata. Un tema centrale che, non per nulla, sembra essere ancora accolto a suon di manganellate. Anche se nella fase attuale la possibile condanna o richiesta di dimissioni della ministra Lamorgese da parte di alcune forze parlamentari (ad esempio il PD) sembra rispondere alla duplice esigenza di premiare lo “sforzo” leghista per il voto a Mattarella da un lato e di limitare lo sviluppo della protesta studentesca prima che questa debordi dall’altro.

Già, il lavoro. Poiché se è proprio il sopravvivere di una società che esalta continuamente l’individuo e la sua indipendenza formale, per poi schiacciarlo sotto il peso delle sue difficoltà economiche, lavorative, affettive e famigliari, a provocare tanta parte della rabbia, del disagio e della frustrazione che animano i giovani, è proprio la questione del lavoro ad agitarsi nel profondo di questo scontento.

Il lavoro dovrebbe essere la principale attività della specie umana, quella che la distingue dalle altre specie animali. Il lavoro umano ha infatti subito nel tempo un’evoluzione diversa dall’istinto e contiene la possibilità di astrarre geometrie e forme che danno luogo a un progetto diverso dalla ripetitività istintiva genetica.
La domanda che sorge spontanea allora è questa: se l’unica cosa che distingue la nostra specie dalle altre, permettendogli di progettare l’ambiente e la realtà che lo circonda, come mai il lavoro stesso diventa, sotto il regime capitalista, un’attività coatta, non libera, estraniata, continuamente rifuggita? E cosa dovrebbero dire oggi le giovani generazioni, che non solo sono vittime del lavoro alienato che opprimeva l’operaio raffigurato da Marx, ma come tendenza storica nell’ambito del capitalismo attuale, sono tagliate fuori, in tutto e per tutto, da un lavoro degno di questo nome?

Essere separati dal lavoro significa essere separati dal proprio futuro, dato che non si può contare su di una vita autonoma; significa vedere annichilite le proprie potenzialità, che rimangono sprecate, non utilizzate neppure per fini capitalistici; significa quindi veder mortificate le proprie energie proprio nel momento in cui potrebbero esprimersi al massimo grado. In altre parole il motore sotterraneo e primario di tanto malessere giovanile, non solo studentesco, non trova la sua regione nel rifiuto di questo o quel governo, in questo o quel programma scolastico, in questo o quel provvedimento restrittivo della libertà “individuale”, ma più in generale nella perdita di senso reale della vita sotto la schiavitù capitalistica.

I giovani separati dal lavoro non possono che volerlo mentre, allo stesso tempo, lo odiano sia perché è la fonte del loro disagio, sia perché vedono, da un punto di vista relativamente privilegiato (finché hanno un minimo di libertà di sopravvivenza legata alla famiglia o a lavori saltuari o altro), coloro che dal lavoro sono schiavizzati. L’impatto giovanile con il lavoro è in genere traumatico perché non vi è ancora stata assuefazione allo sfruttamento insito nello stesso. Ancor di più se questo si manifesta attraverso la morte di un coetaneo durante uno stage di “formazione”. Fatto che rivela come la svalutazione delle competenze professionali e del lavoro finisca, in un paese in cui già sussistono salari tra i più bassi d’Europa, con il negare il valore della vita stessa.
Tragica conseguenza che le cifre degli incidenti mortali sul lavoro, sciorinate più sopra, rendono ancor più evidente.

La posta in gioco delle manifestazioni della scorsa settimana e di questo sabato e, speriamo, ancora di quelle future è molto più alto quindi di quel che sembra. Da qui, come si è già detto, la violenza della risposta e la necessità di una riflessione e auto-organizzazione che sappia superare i limiti della dimensione studentesca e giovanile per approcciarsi diversamente al mondo del lavoro e alla sue spietate leggi regolamentate soltanto dalla legge dell’estrazione del plusvalore e del profitto.

Nell’autunno del 1968, proprio a Torino, chi scrive fu risvegliato a nuova vita e ad un’attività di critica radicale militante, durata una vita intera, dalle violente cariche dei carabinieri di fronte alla facoltà di Architettura. In quell’occasione una generazione ancora adolescente imparò in fretta a mantenere il punto delle proprie rivendicazioni tenendo testa, nelle strade e nelle piazze, ai reparti della celere e dei carabinieri. L’auspicio non può essere allora altro da quello che le cariche e le manganellate di oggi, invece di seminare il panico e il terrore come si vorrebbe, ottengano il risultato opposto, contribuendo a “formare” una generazione destinata a cambiare il mondo, ben al di là dei blah blah di Greta Thunberg e della sua lamentela per il futuro negato alle giovani generazioni occidentali che, però, non ricorda mai il fatto che molti giovani e giovanissimi, in gran parte del mondo e della società attuale, non possano nemmeno sperare in una vita che vada al di là delle successive 24 ore.

 


  1. Si vedano in proposito gli articoli pubblicati su Carmilla nel corso del 2020 da chi scrive e da altri redattori, poi raccolti in L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, (a cura di Jack Orlando e Sandro Moiso), Il Galeone Editore, Roma 2020  

  2. Si veda Selvaggia Lucarelli, C’è una “strategia del manganello” per spaventare gli studenti in piazza, «Domani» di martedì 1 febbraio 2021  

  3. L’alternanza scuola-lavoro è stata istituita con la Legge 53/2003 e il Decreto Legislativo n. 77 del 15 aprile 2005 e ridefinita dalla Legge n. 107 del 13 Luglio 2015  

  4. Paul Nizan, Aden, Arabia, Savelli editore, Roma 1978  

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Culture e pratiche di sorveglianza. Il nuovo ordine mediale delle piattaforme-mondo https://www.carmillaonline.com/2022/01/12/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-il-nuovo-ordine-mediale-delle-piattaforme-mondo/ Wed, 12 Jan 2022 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70009 di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Dieci del nuovo millennio è emersa con forza l’importanza che nell’odierna economia globale sta assumendo il cosiddetto Platform Capitalism – analizzato pionieristicamente da studiosi come Nick Srnicek1 –, cioè quella particolare forma di business ruotante attorno al modello delle piattaforme web rivelatosi il paradigma organizzativo emergente dell’industria e del mercato grazie alla sua abilità nello sfruttare pienamente le potenzialità della cosiddetta quarta rivoluzione industriale.

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di Gioacchino Toni

Attorno alla metà degli anni Dieci del nuovo millennio è emersa con forza l’importanza che nell’odierna economia globale sta assumendo il cosiddetto Platform Capitalism – analizzato pionieristicamente da studiosi come Nick Srnicek1 –, cioè quella particolare forma di business ruotante attorno al modello delle piattaforme web rivelatosi il paradigma organizzativo emergente dell’industria e del mercato grazie alla sua abilità nello sfruttare pienamente le potenzialità della cosiddetta quarta rivoluzione industriale.

Se c’è un settore in cui emerge con chiarezza l’importanza assunta da tale modello questo è il comparto dei media ed è proprio a questo che si riferisce il volume di Luca Balestrieri, Le piattaforme mondo. L’egemonia dei nuovi signori dei media (Luiss University Press, 2021), in cui vengono descritte le trasformazioni culturali e industriali dei media che il “centro del mondo” – che, attenzione, significa certo Stati Uniti ma anche Cina – sta imponendo alle sue periferie.

In generale, quando si parala di “piattaforma” si fa riferimento a «uno spazio per transizioni o interazioni digitali che crea valore attraverso l’effetto network, il quale si manifesta tramite la produzione di esternalità positive» (p. 14). Visto che la creazione di valore deriva soprattutto dalla conoscenza dei clienti e del mercato, diventa fondamentale la capacità di estrazione e di interpretazione dei dati comportamentali dei consumatori.

Essendo la piattaforma a organizzare i flussi di informazione all’interno del network, la sua forza risiede proprio in questa sua capacità di connettere e ottimizzare gli scambi di informazioni tra gli elementi che coinvolge che prima erano invece disseminati lungo una filiera lineare. Si tratta pertanto di una forma organizzativa meglio capace di sfruttare le potenzialità offerte dall’intrecciarsi di intelligenza artificiale, cloud computing e connessioni ultraveloci e che, strada facendo, ha dato luogo a quelle che l’autore definisce come vere e proprie “piattaforme-mondo”:

ecosistemi che organizzano in rete produzione e consumi, sviluppano e gestiscono la tecnologia con cui governano i mercati e tendono a espandersi attraverso il controllo dei dati. La piattaforma diventa mondo, tende a dilatare sena limiti i suoi servizi e le opportunità che offre. È la versione dell’one stop shop sviluppata, con il massimo di rigore e coerenza, per le prime dalle grandi piattaforme cinesi. Una sorta di paese dei balocchi nel quale il consumatore, idealmente, non deve cercare altrove per soddisfare digitalmente ogni suo bisogno (p. 19).

Si sta parlando di colossi statunitensi come Alphabet (gruppo Google), Amazon, Facebook, Apple e Microsoft e cinesi come Baidu, Alibaba e Tencent. A un livello inferiore in questa gerarchia di potenza si collocano invece piattaforme come Netflix e Spotify in quanto impegnate in un segmento di mercato limitato, audiovisivo la prima e musicale la seconda. Per dare un’idea della potenza di fuoco di cui dispongono tali colossi si pensi che nel 2021 tra le dieci imprese a maggior capitalizzazione mondiale figuravano ben sette piattaforme-mondo.

Per comprendere come le piattaforme si siano evolute da semplici sistemi informatici nell’infrastruttura chiave dell’economia globale in grado di erodere le sovranità nazionali, sfruttando la capacità di ottenere ed elaborare dati, lo studioso ritiene sia necessario partire dalle “guerre dello streaming” per il controllo dell’industria audiovisiva statunitense che si sono scatenate negli anni Dieci del nuovo millennio. A una prima fase in cui le piattaforme S-VOD (sevizi video-on-demand richiedenti un abbonamento per una visione senza limiti dei contenuti) sferrano il loro attacco alla televisione multicanale uscendone vincitrici, succede una seconda fase in cui queste piattaforme si scontrano tra di loro per il dominio del mercato in una competizione giocata sul volume di dati raccolti e sull’ampiezza dei servizi che tali dati permettono di proporre in maniera profilata ai consumatori.

Per oltre un trentennio, a partire dagli anni Novanta del Novecento, il sistema della tv via cavo statunitense ha regnato sul sistema mondiale dei media grazie soprattutto alla sua indubbia capacità creativa (che ha portato a fare della serialità la narrazione privilegiata della contemporaneità e del suo immaginario) e all’aver messo in piedi un efficace sistema produttivo e di aggregazione di media company capace di integrare il comparto hollywoodiano tanto a livello creativo che organizzativo. Ne corso degli  anni Dieci le piattaforme streaming hanno dunque saputo assimilare e prendere il controllo tanto della creatività seriale che della base produttiva sviluppata nel frattempo dal sistema della tv via cavo.

A risultare vincente, scrive Balestrieri, non è dunque il prodotto in sé (la serialità), che le piattaforme hanno trovato già strutturato dalle cable tv, ma il rapporto con il consumatore, che nello specifico significa la fruizione on demand e la valorizzazione della libertà di scelta. Quando compare Netflix, ad esempio, la cosiddetta complex tv2– la tv della complessità narrativa – era già un dato di fatto così come, almeno parzialmente, le sue innovative modalità produttive. Si potrebbe dire che Netflix arriva quando HBO ha già cambiato la serialità.

Esiste dunque una contiguità ideativa e realizzativa a livello di prodotto; ciò che le piattaforme on demand hanno innovato è la modalità di fruizione e la rapidità con cui il pubblico statunitense si è convertito a questa sembra essere derivata dalla possibilità di controllare autonomamente il tempo di consumo svincolandosi così dal flusso imposto dai palinsesti: «è lo stesso bisogno di differenziare e personalizzare il consumo audiovisivo che, due decenni prima, aveva determinato la rivoluzione creativa e la diversificazione produttiva della tv via cavo e che, negli stessi anni, aveva portato al boom prima dei videoregistratori e poi del Dvr» (pp. 27-28).

A risultare vincenti sono le piattaforme che rinunciano a richiedere il pagamento per ogni singolo atto di consumo – come avveniva nelle prime sperimentazioni on demand – e che propongono invece all’utente, tramite abbonamento, l’esperienza di consumare senza vincoli e senza limiti: «la bulimia di esperienze fictional, di universi narrativi e di immagini che ne deriva è l’atto fondante di un nuovo tipo di consumatore mediale» (p. 29). Nell’offrire allo spettatore immediatamente tutti gli episodi di una serie si sollecita un cambiamento radicale delle abitudini di fruizione allontanandolo ulteriormente dalle proposte delle tv a palinsesto tradizionali, broadcast o cavo/satellite.

Oltre alla possibilità di consumare un’intera serie nei tempi preferiti, il consumatore si trova a poter disporre di una sorta di luna park all’interno del quale può attingere liberamente vivendo un’esperienza di assoluta libertà nella scelta. Si tratta di un’offerta che ha fatto breccia sopratutto tra le generazioni più giovani, e non è forse un caso che gli stessi sistemi educativi, da qualche tempo, siano sempre più inclini a sostituire un’istruzione pianificata in maniera strutturata a “palinsesto”, con una proposta sempre più a “buffet”, ove lo studente vive la sensazione di poter scegliere liberamente tra una molteplicità di offerte formative sempre meno strutturate e bilanciate tra di loro.

Le piattaforme hanno vinto perché, sostiene lo studioso, sono state abili nel creare il consumatore a loro più funzionale.

La piattaforma non mette astrattamente in contatto i soggetti che vi partecipano, ma li plasma e li ridefinisce in funzione dell’ottimizzazione delle loro interdipendenze – in termini di valore per i partecipanti e, soprattutto, per la piattaforma stessa. L’innovazione investe il prodotto, il soggetto che lo offre e il consumatore, educato a scoprire e apprezzare un’esperienza di fruizione diversa. La piattaforma, insomma, è al contempo il legislatore e l’educatore del mondo nuovo che costruisce (pp. 66-67).

Essendo che le piattaforme estraggono valore dall’offerta di servizi regolati dalla profilazione e dall’elaborazione dei dati derivati dal consumatore, quest’ultimo deve essere educato alla fruizione del maggior numero di servizi possibile all’interno di uno spazio digitale unico e alfabetizzato celermente alle regole della piattaforma in maniera che le viva come del tutto naturali inducendolo a comportamenti automatici vissuti come spontanei.

Il consumatore deve essere progressivamente portato a ricercare all’interno di quello spazio il soddisfacimento di bisogni originariamente eterogenei, quali l’informazione e la creazione di comunità, l’esplorazione ludica e l’autoaffermazione, il contratto di vicinanza e lo sguardo sul mondo. I social propongono una user experience facile, immersiva, senza strappi: facilità e immersività apparentemente simili a quelle del flusso televisivo, ma in realtà con un rovesciamento del rapporto tra soggettività e flusso, perché la passività dello spettatore televisivo è trasfigurata in (apparente) protagonismo e l’esperienza sembra ruotare attorno a continue scelte del fruitore attivo (p. 69).

Al di là della percezione del consumatore, modi e forme della partecipazione attiva alla creazione dell’esperienza immersiva sono in buona parte diretti dalle strutture logico-tecnologiche della piattaforma; «quello che sembra un percorso di naturale espansione degli interessi e della socialità del singolo segue un tracciato di messa a valore dei dati estratti e analizzati nell’insieme dello spazio digitale della piattaforma» (pp. 69-70) che lavora incessantemente per ottenere una vera e propria bulimia di contatti e di consumo. Le piattaforme social, in particolare, educano il loro fruitore a una particolare centralità visuale che lo lusinga di essere lui l’oggetto della cultura visiva:

i selfie che intasano i social mostrano i fruitori al centro di spiagge, di montagne, di luoghi di socialità, a riprova che – mentre la televisioni parlava di altro, al più, poteva suggerire un’identificazione con altri, come nei reality – adesso le piattaforme parlano del fruitore stesso, del consumatore che si specchia nell’immagine di sé. Si ottiene così l’effetto network da cui la piattaforma estrae valore. Per questo, l’autoreferenzialità dell’immagine deve essere condivisa e il narcisismo deve diventare contenuto di comunicazione attraverso i like o i retweet (p. 72)

Balestrieri si sofferma particolarmente nell’evidenziare l’asimmetria di potere esistente tra le piattaforme-mondo e i sistemi mediali nazionali.

Il flusso televisivo, nel Novecento e nel passaggio al nuovo secolo, ha svolto una fondamentale funzione costitutiva della socialità e dei percorsi identitari, contribuendo a disegnarne le forme espressive e i valori comunicativi, sostituiti dalle ideologie nella mappatura dello spazio politico e generatrici di rappresentazioni del contemporaneo e del suo significato. Anche nella sua banalità quotidiana, e forse proprio grazie a questa, il flusso televisivo raccontava una grande storia di appartenenza e di identità. Adesso questa capacità di racconto si è logorata, e solo in occasioni eccezionali riesce a trovare nuova potenza emotiva e forza aggregante. La società segue in generale percorsi di soggettività plurime, sempre più estranei alla cultura di massa ereditata dal Novecento, di cui la televisione era elemento costitutivo (pp. 58-59).

Per certi versi, sostiene lo studioso, l’indebolimento della tv broadcasting spodesta la televisione dal ruolo di cerniera e organizzatrice della creatività mediale che aveva assunto; «la crisi della televisione costituisce il segno più evidente della disarticolazione della centralità nazionali della cultura e della creatività» (p. 91). Dunque, il particolare processo di globalizzazione mediale imposto dalle piattaforme-mondo, secondo Balestrieri, pone una pietra tombale sulla «possibilità di esercitare, attraverso un autonomo sistema dei media, una consapevole, trasparente ed efficace gestione dello spazio in cui si forma i discorso pubblico e si producono dinamiche culturali che in una comunità creano identità (al plurale)» (p. 93).

Se le realtà locali non sembrano davvero più in grado di dare forma alla cultura di massa creando o adattando contenuti pensati quasi esclusivamente in funzione di un consumo interno, soppiantate come sono dalle piattaforme-mondo capaci di assimilare tratti culturali locali per poi manipolarli in maniera da renderli appetibili al mercato mondiale, non sono mancati casi di “resistenza” locali che, per qualche tempo, hanno saputo anche oltrepassare i confini nazionali.

Balestrieri ricordata ad esempio la capacità in America Latina di dar vita a un prodotto originale come la telenovela capace di insinuarsi nel mercato internazionale; si pensi a come la telenovela brasiliana negli anni Sessanta abbia saputo trasfigurare in modalità melodrammatiche la quotidianità e il senso di appartenenza e di comunità all’interno di un contesto autoritario sapendo trasformarsi nel corso del decennio successivo al pari della società che stava faticosamente uscendo dalla dittatura.

Nei decenni finali del vecchio millennio e nell’inizio del nuovo permane una certa dialettica tra sistemi nazionali e circuiti internazionali, tra centro e periferie a riprova di ciò si pensi al successo del fenomeno “format” soprattutto negli anni Novanta: «formidabile sintesi di globalizzazione del prodotto audiovisivo e di persistenza del mercato nazionale: si prende un’idea che ha avuto successo da qualche parte nel mondo e la si traduce in un contenuto vicino alla cultura del pubblico di un altro Paese» (p. 107). Ebbene, continua lo studioso, le piattaforme operano in maniera inversa: trasformano contenuti locali in prodotti globali e lo fanno forti dell’incredibile potenza di fuoco economica di cui dispongono nell’operare investimenti.

L’era del trionfo delle piattaforme-mondo ridisegna l’universo mediale riconfigurando anche le modalità di globalizzazione sia a livello di organizzazione industriale delle filiere e dei consumi che delle ibridazioni cultuali. Alla centralità dei flussi internazionali di capitali e prodotti propria della prima fase del processo di globalizzazione si sovrappone l’internazionalizzazione dei servizi al consumatore e delle infrastrutture tecnologiche. Il servizio è venduto direttamente al consumatore di ogni angolo del pianeta «disintermediando le filiere che si articolano nei sistemi nazionali dei media. La raccolta delle risorse e le decisioni strategiche sul loro reimpiego passano di mano e saltano il livello locale, lasciando a quest’ultimo magari il ruolo subalterno di fucina creativa a comando. Benvenuti nella globalizzazione mediale 4.0» (p. 109).

Se è pur vero che l’offerta audiovisiva di colossi come Netflix (che nel 2021 vantava oltre 200 milioni di abbonamenti disseminati in ben 190 paesi) o come Amazon è in buona parte fatta di contenuti statunitensi, sarebbe errato secondo Balestrieri vedere in queste piattaforme una semplice prosecuzione del processo di americanizzazione culturale del mondo iniziato con Hollywood.

Nella fase attuale, nella quale l’internazionalizzazione riguarda i sevizi diretti all’utente, lo scopo di un soggetto che opera globalmente come Netflix o Google non è vendere prodotti statunitensi sugli altri mercati, ma vendere il proprio servizio, che può benissimo prevedere anche la valorizzazione dei prodotti locali. Le piattaforme non vogliono americanizzare il consumatore globale, ma creare una nuova specie di consumatore mediale, impegnato nell’ibridazione dei propri linguaggi, valori estetici, strutture narrative all’interno delle interazioni e transazioni governate dalle piattaforme stesse (p. 124).

Attenzione, avverte lo studioso, ciò non significa affermare che le multinazionali non hanno nazionalità; tutt’altro, rispetto alle piattaforme di inizio millennio, nelle odierne il «governo dello sviluppo industriale e dei flussi culturali è ancora più localizzato negli Stati Uniti» ma non si tratta più di un controllo di tipo novecentesco dei mercati contraddistinto da merci culturali vendute e investimenti per acquisire la proprietà dei media, bensì di un controllo delle piattaforme-mondo che «innovano i flussi culturali e creano i propri consumatori attraverso la vendita diretta di servizi, personalizzati sul profilo di fruizione dei singoli individui» (p. 125). Queste piattaforme non necessitano per forza di acquistare media; spesso è sufficiente svuotarli e riconfigurarli all’interno dei propri ecosistemi reindirizzando le catene di distribuzione economiche e culturali in direzione transazionale.

Gli Stati Uniti non sono soli nella creazione di piattaforme-mondo; ad essi si aggiunge la Cina, Paese che ha saputo sfruttare le economie di scopo offerte dalla datification. Si tenga presente, sostiene Balestrieri, che in Cina le piattaforme-mondo non hanno dovuto ingaggiare una battaglia interna nei confronti del vecchio mercato dei media; in buona parte lo hanno creato. Nel paese asiatico si può dire che il sistema dei media sia nato con la digitalizzazione e l’industria audiovisiva con le piattaforme. In Cina lo streaming è infatti giunto diffusamente alla popolazione prima ancora delle sale cinematografiche: nel 2010 si contavano nel paese di un miliardo e trecento milioni di persone poco più di seimila schermi in duemila sale concentrate nei grandi agglomerati urbani. Il cinema nelle sale è arrivato praticamente insieme alle piattaforme strizzando l’occhio a una popolazione giovane nativa digitale che nel primo decennio del nuovo millennio ha imparato a consumare audiovisivi soprattutto attraverso queste piattaforme.

La densità di servizi offerti dagli ecosistemi delle piattaforme-mondo cinesi si traduce anche in un accelerato sviluppo della base produttiva e delle industrie creative che alimentano questa totalizzante user experience. Senza l’ingombro d un robusto sistema dei media preesistente, le piattaforme hanno potuto costruire secondo le proprie esigenze le fabbriche dei contenuti e i bacini di professionalità necessari, sfruttando al massimo le sinergie offerte dalla crescente complessità e articolazione degli ecosistemi (p. 136).

In generale, statunitensi o cinesi che siano, le piattaforme-mondo vivono della conoscenza del consumatore in modo non solo da poter estendere la gamma di sevizi da offrirgli ma anche di poter anticipare e guidare le decisioni dell’utente sia nell’ambito del consumo/acquisto che nelle connessioni sociali. L’obiettivo è dunque quello di plasmare il consumatore.

In chiusura di volume, Balestrieri si concentra sul potere acquisito dalle piattaforme-mondo a proposito del controllo delle tecnologie che alimentano la quarta rivoluzione industriale. In un panorama in cui la capacità di incidere su economia, società e cultura di queste piattaforme sembrerebbe ormai essere sfuggita al controllo statale, quest’ultimo sembra del tutto intenzionato a rifare capolino dopo decenni di inerzia più o meno pianificata. Si pensi che Amazon fornisce servizi cloud a ben 6500 agenzie governative che vanno dal settore della difesa a quello dell’educazione fino ai tanti apparati governativi.

Le tecnologie che in misura significativa cadono sotto il controllo delle piattaforme-mondo costituiscono il nucleo essenziale della sovranità digitale e politico-istituzionale» (p. 163) e quando ciò si è “improvvisamente” palesato, il potere statuale è sembrato svegliarsi dal torpore con l’intenzione di imporre una rinegoziazione del livello di autonomia concedibile. Insomma, la questione geopolitica è sembrata voler riguadagnare il primato che ritiene le aspetti rispetto alla mera efficienza di mercato. Una delle conseguenze di questa volontà di riallineamento delle piattaforme alle esigenze geopolitiche sembra essere «la fine dell’ideologia della globalizzazione neutrale: le piattaforme sono americane o cinesi, al massimo le prime si vestono del ruolo di campioni dell’occidente, o campioni delle autodefinite tecno-democrazie contro le cosiddette tecno-autocrazie (p. 163).

Se in Cina, dopo un decennio di deregolamentazione che ha riguardato tanto l’ambito finanziario quanto quello delle piattaforme, lo Stato ha potuto ribadire la propria supremazia celermente, negli Stati Uniti, dopo diversi decenni di neoliberismo spinto, il confronto tra piattaforme e Stato appare più travagliato. Resta il fatto che dalla negoziazione anche aspra tra piattaforme-mondo, preoccupate a non perdere competitività sui mercati internazionali, e Stati, con annessi interessi geopolitici, sembrerebbe derivare la presa d’atto che interessi economici e sovranità possono andare di pari passo: i primi hanno necessità di accedere ai dati di cui è in possesso lo Stato (sanità, istruzione ecc.) mentre i secondi necessitano degli efficientissimi oligopoli tecnologici che consentono la sovranità digitale.


Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche di sorveglianza


  1. Cfr. Nick Srnicek, Capitalismo digitale. Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web, Luiss University Press, Roma 2017. 

  2. Cfr. Jason Mittel, Complex TV. Teoria e tecnica dello Storytelling televisivo, Minimum fax, Roma 2017. 

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Per Tomaso Montanari https://www.carmillaonline.com/2020/12/29/per-tomaso-montanari/ Tue, 29 Dec 2020 22:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64101 di Luca Baiada

Dai commenti di Tomaso Montanari sulla gestione di Firenze, a «Report», gli amministratori locali, compreso il sindaco Dario Nardella, si sono sentiti così urtati che gli hanno chiesto per vie legali un risarcimento in denaro. Le posizioni di Tomaso Montanari, professore universitario, storico dell’arte e saggista, toccano i punti nevralgici fra potere e cultura, là dove il fare e il sapere possono molto, nel bene o nel male. Mentre la rappresentanza politica è svilita e la partecipazione democratica è mortificata, il compito dell’intellettuale è prezioso. La rassegnazione, il [...]]]> di Luca Baiada

Dai commenti di Tomaso Montanari sulla gestione di Firenze, a «Report», gli amministratori locali, compreso il sindaco Dario Nardella, si sono sentiti così urtati che gli hanno chiesto per vie legali un risarcimento in denaro.
Le posizioni di Tomaso Montanari, professore universitario, storico dell’arte e saggista, toccano i punti nevralgici fra potere e cultura, là dove il fare e il sapere possono molto, nel bene o nel male. Mentre la rappresentanza politica è svilita e la partecipazione democratica è mortificata, il compito dell’intellettuale è prezioso. La rassegnazione, il fatalismo, il timore, quando non le connivenze e i compromessi, sono bavagli più efficaci della censura. Se non bastano, ecco le carte bollate.

Lo scopo dell’impegno di Montanari, in questa vicenda come in altre, è segnalare scelte sbagliate, scuotere la cittadinanza fiorentina e italiana, impedire che Firenze, le altre città d’arte e in genere le città, della cultura diventino le tombe invece che le culle.
Scempi vistosi, in Italia, intrecciano affarismo, controllo del territorio e cultura reificata, immiserita in cattivo spettacolo, ridotta a trasformare lo spazio urbano in fondale da botteghe. È uno spaccato della modernità e un terreno di scontro. Montanari questa battaglia ha scelto di combatterla; perciò qui, forse, non vale la pena di sminuzzare le sue parole in un singolo episodio, di distinguerle, di ricollocarle nel contesto di un’intervista dove tutto si chiarisce.

Dallo sblocco delle locazioni con la legge sull’equo canone, per poi inventare i patti in deroga, passando per le regole sulla destinazione dei suoli, proseguendo con gli strumenti urbanistici e le loro varianti furbe, e ancora attraversando le norme e gli atti delle amministrazioni sul commercio, sul turismo e sulla ristorazione, sono decenni che la forma urbana, la comunità murata e integrata con la natura, la dimensione spaziale della cittadinanza, tesori della civiltà italiana e umana, sono stravolte e prostituite. Eppure sono antichi, i moniti a far buon uso dell’antico. Giuseppe Parini: «Conviene avvertire doverci noi italiani guardare che, mentre ci stiamo da noi medesimi adulando davanti allo specchio delle nostre antiche glorie, noi non venghiamo a fare come que’ nobili, che neghittosamente dormono sopra gli allori guadagnati da’ loro avi, e tanto più degni sembrano di biasimo e di vituperio, quanto né meno i domestici esempli vagliono ad eccitare scintille di valore nelle loro anime stupide e intormentite»1. Anche la sinistra, snaturando la sua funzione storica, è stata complice, e nascondere questa responsabilità non serve. Proprio nella regione amministrata da sempre dalla sinistra è importante tenere aperti gli occhi, e proprio in Toscana è pericoloso aprire la bocca.

Curiosa, la vicenda della scritta dettata da Luigi Russo nel 1954 per la lapide di San Miniato, dove dieci anni prima, il 22 luglio 1944, c’era stata una strage tedesca. Diceva fra l’altro: «Italiani che leggete, perdonate ma non dimenticate. Lo straniero di ogni parte sia sempre tenuto lontano delle belle contrade rifiutando ogni lusinga o d’aiuto o d’impero. Ricordate che solo nella pace e nel lavoro è l’eterna civiltà». Il prefetto tolse le parole da «lo straniero di ogni parte» a «d’aiuto o d’impero»; la lapide però aveva già le lettere metalliche fissate al marmo, così le parti non approvate furono tolte lasciando i buchi. Passarono gli anni: prima fu aggiunta una nuova lapide per contraddire la precedente e dare la colpa agli Alleati, poi, con la scusa della contraddizione, finirono entrambe in un museo. Bell’esempio di come far sparire la verità: basta appenderci tutt’altro e poi dire che l’attaccapanni sfigura. Se un Montanari denuncia un obbrobrio, basta accusare quel Montanari di un altro obbrobrio; poi si mette tutto l’obbrobriume vero e immaginario nell’indifferenziato, per evitare cattivi odori, fastidiose asimmetrie e posizioni – è una parola che dice voglia di padrone – divisive. Funziona.

Il muro di San Miniato è rimasto vuoto e ignavo. L’ignavia è una colpa, lo insegna un toscano così innamorato e battagliero che morì esule. Nel 2021 cadrà il settimo secolo dalla sua morte, e certamente quelli che hanno in uggia le critiche saranno in prima fila sul palcoscenico. Ma le parole di Luigi Russo, «belle contrade», cancellate subito, additano coi buchi il vuoto di autostima di un bel paese, quello dove a chi comanda piace un popolo fatto di fascisti ringhiosi oppure di imbelli. Adesso, chi difende la bellezza e insieme la democrazia trova avversari pronti a farlo inciampare in qualche parola.

A proposito di parola. Nel 2019 un altro amministratore pubblico dello stesso schieramento che governa Firenze, l’allora presidente della Regione Enrico Rossi, ha ricordato la mancata giustizia sui crimini nazifascisti commessi durante l’occupazione – videro la Toscana fra le regioni più colpite – e ha promesso impegno concreto per ottenere i risarcimenti economici, che sono dovuti dalla Germania ai familiari delle vittime e alla stessa Regione come ente pubblico 2.. I cittadini hanno creduto a una possibilità di giustizia. Ma la parola, Rossi non l’ha mantenuta.

Sono sostanziosi, i risarcimenti che spettano alle famiglie toscane e italiane, per stragi e deportazioni, a carico dello Stato tedesco. Ma gli amministratori fiorentini levano alti lai, trascinano orrende piaghe, sanguinano da ferite immedicabili per le parole di Tomaso Montanari. Dai palazzi del potere i crediti si vedono con un cannocchiale che fa rammentare quel racconto a veglia: «Per chi è codesta minestrona? – È per voi, madre badessa! – Per me codesta minestrina?»3.

I poeti, diceva Jean Cocteau, fanno solo finta di essere morti. Quell’esule, che a Ravenna si riposa chiudendo un occhio solo, potrà commentare questa storia con due o tre parole delle sue, dure come gioielli e scottanti come lava. I suoi versi dovrebbero insegnar bene, che in Toscana non si è usi discorrere di cose pubbliche sciacquandosi la lingua col brodo di coniglio.

Ma forse no, l’esule farà parlare lo straniero, Albert Camus: «La libertà è il diritto di non mentire. Vero sul piano sociale (subalterno e superiore) e su quello morale»; e anche: «La verità è la sola potenza, allegra, inesauribile. Se fossimo capaci di vivere soltanto della e per la verità: un’energia giovane e immortale in noi. L’uomo di verità non invecchia. Ancora uno sforzo e non morirà»4.


  1. Giuseppe Parini, Corso sui princìpi di belle lettere, in Prose, Gius. Laterza & Figli, Bari 1913, p. 262  

  2. Alla commemorazione della strage del Padule di Fucecchio: «L’Armadio della vergogna c’è. Il nostro paese non si è mosso come avrebbe dovuto. Perché le sentenze, contro i mandanti di quelle stragi, non sono state portate a esecuzione. È una vergogna, questa, che ci portiamo dietro, come Italia. E come Regione Toscana siamo disposti a fare ancora di più per arrivare a una degna conclusione». Su Facebook: «Metterò tutto il mio impegno per affiancare i familiari delle vittime delle stragi naziste nella loro richiesta di risarcimento alla Germania e verificare la possibilità di far costituire la Regione stessa. Ci incontreremo a breve per una risposta ufficiale»  

  3. Una versione è in Rodolfo Nerucci (a cura di), Racconti popolari pistoiesi in vernacolo pistoiese, Premiata tipografia Niccolai, Pistoia 1901, racconto XLVII, p. 62.  

  4. Albert Camus, Taccuini. Maggio 1935-Febbraio 1942. Febbraio 1942-Marzo 1951. Marzo 1951-Dicembre 1959, Giunti Editore/Bompiani, 2018, pp. 213 e 485  

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Vivare come l’uselin su la rama* https://www.carmillaonline.com/2020/11/25/vivare-come-luselin-su-la-rama/ Wed, 25 Nov 2020 22:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63532 di Sandro Moiso

Dino Coltro, Il Paese perduto. La cultura dei contadini veneti, vol. I La giornàda e il lunario, pp. 264, Cierre edizioni, Verona 2013, 16,00 euro; vol.II Il giro del torototèla. Ande e cante contadine, Cierre edizioni, Verona 2015, pp. 440, 18,00 euro; vol. III Le parole del moléta, Cierre edizioni 2016, pp. 300, 18,00 euro; vol. IV Il pomo doraro – Aneddoti e favole, Cierre edizioni 2020, pp.750, 20,00 euro.

Torna disponibile per il grande pubblico un’opera uscita per la prima volta, per l’editore Bertani di Verona, tra il [...]]]> di Sandro Moiso

Dino Coltro, Il Paese perduto. La cultura dei contadini veneti, vol. I La giornàda e il lunario, pp. 264, Cierre edizioni, Verona 2013, 16,00 euro; vol.II Il giro del torototèla. Ande e cante contadine, Cierre edizioni, Verona 2015, pp. 440, 18,00 euro; vol. III Le parole del moléta, Cierre edizioni 2016, pp. 300, 18,00 euro; vol. IV Il pomo doraro – Aneddoti e favole, Cierre edizioni 2020, pp.750, 20,00 euro.

Torna disponibile per il grande pubblico un’opera uscita per la prima volta, per l’editore Bertani di Verona, tra il 1975 e il 1978. Fu all’epoca una scelta sicuramente coraggiosa per un editore che fino ad allora aveva principalmente pubblicato testi, italiani e stranieri, riconducibili tutti, o quasi, all’ambito dell’antagonismo politico di estrema sinistra.
La ricerca dell’autore, infatti, si avventurava nell’opera di riscoperta e ricostruzione di una cultura, quella dei contadini veneti delle Basse veronesi, che sicuramente all’epoca, anche e forse soprattutto agli occhi dei militanti di quella Sinistra che si dichiarava extra-parlamentare, doveva apparire arcaica, superata, conservatrice, se non addirittura controrivoluzionaria. Perdendo così, già all’epoca, l’occasione per avvicinare strati popolari, allora ancora in parte superstiti, in cui era radicato un forte antagonismo nei confronti della cultura “elevata”, o presunta tale, imposta dallo Stato e dalla onnicomprensiva modernizzazione della società.

Dino Coltro (1929-2009) di quella cultura e di quella società contadina era invece discendente e, si potrebbe dire, voce; diretta emanazione di una lingua e di conoscenze apparentemente destinate ad essere cancellate dalla Storia.
Nato in provincia di Verona e cresciuto al Pilastro (Bonavigo), una tipica corte della Bassa veronese dove abitò dalla prima infanzia fino agli anni Cinquanta, dopo essere stato avviato al lavoro salariale, riuscì con l’impegno dell’autodidatta a diventare maestro. Con l’insegnamento iniziò anche la sua attività sociale, facendosi promotore di numerose cooperative agricole. A questa si aggiunse l’esperienza della Cooperativa della Cultura di Rivalunga, un’iniziativa socio-pedagogica che anticipò tendenze e metodi del rinnovamento della scuola. Dal 1972 si dedicò alla ricerca e alla trascrizione della tradizione orale veronese e veneta, di cui l’opera ripubblicata e recentemente portata a termine dalle edizioni Cierre di Verona costituisce uno dei risultati e, forse, l’esempio più significativo.

Sappiamo tutti come, oggi, in Veneto l’uso del dialetto sia ancora estremamente diffuso e sappiamo anche, purtroppo, che la sua difesa ha finito col costituire la base di una rivendicazione identitaria troppo spesso sfociata in una forma di autentica ostilità, se non di vero e proprio razzismo, nei confronti dei forestieri e degli immigrati più poveri, cui la Lega, nelle sue varie espressioni, ha dato voce e fiato per poter acquisire maggior rappresentatività politica sia a livello locale che nazionale.

Certo, l’opera di Coltro non andava, e non va letta tutt’ora, in quella direzione. Anzi quelle parole, quelle favole, quei modi di dire, quei canti e quelle filastrocche continuano a ricordare al Veneto degli schei (quattrini)1, una società contadina in cui molti vivevano come l’uccellino sul ramo* ovvero mangiando poco. Una società spesso povera, ma dall’identità forte proprio perché restia alla penetrazione di una cultura ufficiale, basata sulla prevalenza del testo scritto, destinata a sconvolgerla, privandola ancor prima che della lingua, ancor più della sua capacità creativa e della sua capacità di intendere il mondo, la natura, il lavoro, la fatica e la miseria, ma anche e soprattutto dei suoi valori etici e morali.

Come affermava infatti l’autore nelle riflessioni destinate ad accompagnare una prima ristampa dell’opera, nel 1982:

Il mio intento era di presentare una cultura nei termini e nei principi basilari intrinseci, senza ricorrere a prestiti interpretativi provenienti da altre concezioni della vita e del mondo. In questo modo risalta l’originalità della condizione contadina, nello spazio e nel tempo, e si dimostra che il complesso delle esperienze e delle situazioni, trattenute dalla coscienza collettiva, esprime una vera e reale concezione del mondo, da cui derivano valori e modelli che guidarono (e forse guidano) il comportamento individuale e collettivo. La mancanza di comunicazione simbolica o segnica della cultura subalterna, avverte soltanto che l’attenzione alla comunicazione orale deve essere portata al colore, alle forme, alla mitologia, alla fabulazione nelle loro complessità. Ma complessa non vuol dire frammentaria; la creatività e l’autonomia caratterizzante questa cultura ne amplificano la poliformia.

[…] C’è tuttavia, una unità concettuale, in larga misura implicita e intuitiva. Occorre soltanto capirne i termini. Esiste una morale del popolo, cioè degli imperativi molto più forti e tenaci della morale ufficiale con la quale, molto spesso, vengono in opposizione […] Così scopriamo opinioni e credenze sui diritti, sulla giustizia che nascono sotto lo spunto delle condizioni di vita e non risultano dei cascami degradanti dalle concezioni dominanti, come spesso si sente dire2.

Aggiungeva poi ancora, nella Premessa:«La lingua rappresenta un modulo conoscitivo fondamentale di una società e della sua cultura. Per questo ho tentato la trascrizione del linguaggio contadino della Bassa, colto nelle forme più espressive, dalla voce degli ultimi “analfabeti”, conservandone, fin dove possibile la contestualità e la struttura culturale orale. Una lingua non esiste al di fuori della cultura, cioè, al di fuori di un insieme ereditato socialmente di usanze e credenze che determinano la struttura della nostra vita [da S. Amin, Il linguaggio, Einaudi, Torino 1969 – N.d.R]»3.

Come afferma, infatti, Manlio Cortelazzo nella Prefazione al primo dei quattro volumi:

La propria parlata individuale, di uso e di ricordo, come indicatore del lessico comunitario; e questo ripreso, quale specchio fedele e spesso unico testimone della perduta memoria collettiva di un passato anche recente, che va man mano sbiadendosi e sfumando i suoi precisi connotati: ecco l’opera, carica di pietas, compiuta con grande passione e lunga fatica dall’Autore […]
Non c’è, in questo lavoro, né recriminazione, né idilliaca (e, quindi, sostanzialmente falsa) ricostruzione di un’esistenza faticosa, superata sì nei suoi deprimenti aspetti quotidiani, ma anche in altri aspetti positivi, così alieni dal nostro impoverito villaggio globale.
La descrizione di questo “paese perduto” sa procedere attraverso la parola, il verbum, inteso in senso lontanissimo, includente qualsiasi manifestazione verbale, anche i gridi di richiamo e incitamento degli animali domestici, anche le creazioni effimere, incontrollate e irripetibili, o fantasiose e sfuggenti a tutti i tentativi di logica spiegazione, per arrivare a cogliere esattamente, come confermerebbero documentazioni di altro tipo, peraltro non indispensabili, il corso della vita contadina a cavallo fra i due secoli, anzi, tra un mondo millenario […] e il suo fresco antagonista, il mondo d’oggi, che se n’è liberato4.

Coltro privilegiava quindi la lingua dell’oralità, il dialetto, la lingua del fare, che è pensiero legato alla concretezza della vita quotidiana, alle fatiche, alle miserie, alla fame, alla violenza dell’esistenza.
Lingua di condivisione sociale e famigliare degli eventi e degli atti, lingua che ci ricorda che ogni lingua nazionale, spesso imposta con la violenza (anche a scuola), è una forma di colonizzazione non solo socio-economica, ma anche dell’immaginario espresso collettivamente. In un mondo in cui il termine analfabeta ha rappresentato, e rappresenta tutt’ora, un grave stigma.

Il mondo contadino preso in considerazione, appare in una dimensione culturale più esatta attraverso il suo linguaggio che ne esprime anche la filosofia e la morale: uno specchio modesto di una civiltà che va scomparendo […] Tuttavia il mondo contadino non si presenta con un’unica fisionomia: la differenza culturale di chi possiede casa e terra da chi non ha che le braccia per lavorare non è trascurabile. La spaccatura salariale in categorie di lavoro (salariati, avventizi, giornalieri) e in sottoclassi sociali determina una diversa visone del lavoro e della vita.
L’ambiente di paese o di corte, il vivere in case isolate o raggruppate, in contrade, in frazioni; l’influenza della predicazione religiosa e delle tradizioni mitologiche popolari; la frequentazione dell’osteria e la solitudine delle stalle, sono tutti fattori che rendono “diverso” un modo di dire, apparentemente identico o uniforme. In questo caso, ripetizioni e varianti diventano frasi ed espressioni del tutto nuove e autonome.
Il lessico dialettale ha sfumature, inflessioni verbali, accenti che variano con il mutare dell’ambiente naturale, sotto l’influenza delle condizioni economiche, in rapporto alla composizione sociale delle comunità contadine. Differenze si possono notare dentro uno stesso paese, determinate dal lavoro, dalla povertà, sottolineate da condizionamenti storici, da fattori spirituali, dall’accettazione o meno dell’insegnamento della Chiesa5.

In fin dei conti, forse, Francis Fukuyama non aveva del tutto torto quando parlava della fine della Storia con i progressi avvenuti al termine del XX secolo, poiché il capitalismo, il suo stato e la sua cultura hanno di fatto contribuito a far finire migliaia di volte la Storia delle culture e società altre, costringendole ad essere relegate in ricordi sempre più sbiaditi oppure a negarsi per potere stare al passo con la Modernità, lo Sviluppo e il Progresso.

Le lingue altre, i gerghi e i dialetti hanno continuato però a portare dentro di sé una memoria materiale di un passato quasi sempre distrutto e poi rimosso e nascosto. L’opera di Dino Coltro quindi, a quasi cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione, è ancora di estrema attualità per la metodologia impiegata. L’amplissima raccolta di detti, proverbi, modi dire, espressioni comuni, cantilene, fole scaturisce direttamente dalla viva voce dei contadini, non vi sono passaggi di carattere letterario o interpretativo che ne nascondano o ne travisino l’implicita forza espressiva.

L’opera risulta poi ancora attualissima poiché è stata scritta «appena usciti dal grande esodo dalle campagne, risulta, in definitiva, un esame immediato, spontaneo, fatto sul filo di una memoria intatta di quanto il cambiamento” aveva sperperato più che mutato. Perché il “cambiamento” era ed è nelle cose della storia e se c’era qualcuno che lo attendeva come una “liberazione”, questi erano i contadini. E, forse perché arrivato troppo tardi, li ha spinti a una trasmigrazione culturale così affrettata, confusa e sradicata da autentiche energie vitali. Una immagina speculare dell’emigrazione dalle campagne alle aree urbane, un tempo rifiutata»6.

Estremamente attuale nel ricordarci, in questo inizio secolo in cui gigantesche trasformazioni socio-economiche e tecnologiche contribuiscono a rovesciare ogni forma di resistenza e solidarietà nel loro contrario e ogni autonomia politica e culturale in immaginario spendibile per la causa capitalista, anche grazie ad una Sinistra dalle infinite sfumature progressiste tutte ispirate più dall’idealismo illuminista che dal materialismo e dall’interesse per gli “altri” di marxiana memoria7, che ogni passaggio, ogni trasformazione economica e sociale, anche all’intero di un medesimo modo di produzione, è sempre e soprattutto una trasformazione antropologica dei soggetti coinvolti. Senza di questa, senza la scellerata e condivisa rimozione di ogni forma di cultura non funzionale allo sviluppo economico e tecnologico dominante lo stesso non potrebbe infatti affermarsi e sopravvivere.


  1. Si veda G. A. Stella, Schei. Dal boom alla rivolta: il mitico Nord-est, Baldini &Castoldi, Milano 1997  

  2. D. Coltro, Riflessioni per una ristampa, in D. Coltro, Il paese perduto, vol.I, pp. 15-16  

  3. D. Coltro, Premessa a Il paese perduto, vol.I, op.cit. p.9  

  4. M. Cortelazzo, Il mondo contadino di ieri in D. Coltro, Il paese perduto, Vol. I La giornàda e il lunario, Cierre edizioni, Verona 2013, pp. 19-20  

  5. D. Coltro, Premessa in op. cit. pp. 10-11  

  6. D. Coltro, Riflessioni in op. cit. pp.16-17 

  7. Si vedano in proposito: E. Cinnella, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014 e K. Marx, Quaderni antropologici, Edizioni Unicopli, Milano 2009 oltre che K. Marx – Friedrich Engels, India, Cina, Russia, a cura di B. Maffi, il Saggiatore, Milano 1960; oppure, ancora, E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore, Milano 1963  

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