Critica dell’economia politica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:26:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E’ la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/08/13/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-3/ Sun, 13 Aug 2023 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77119 di Emilio Quadrelli

“Scienza operaia” e “piano del capitale”

Lenin identificò, senza mezze misure, il riformismo come forza del tutto interna al capitale e, pertanto, come forma politica completamente ascrivibile all’ambito della inimicizia. Questo cardine della teoria leniniana anima per intero le pagine de “La classe” anzi, per molti versi, il giornale sviluppa e porta sino alle sue logiche conseguenze la teoria leniniana. La battaglia contro il riformismo e gli istituti del movimento operaio ufficiale non solo albeggiano pressoché in ogni articolo del giornale, ma il riformismo è osservato non tanto come linea politica che annacqua le lotte e le [...]]]> di Emilio Quadrelli

“Scienza operaia” e “piano del capitale”

Lenin identificò, senza mezze misure, il riformismo come forza del tutto interna al capitale e, pertanto, come forma politica completamente ascrivibile all’ambito della inimicizia. Questo cardine della teoria leniniana anima per intero le pagine de “La classe” anzi, per molti versi, il giornale sviluppa e porta sino alle sue logiche conseguenze la teoria leniniana. La battaglia contro il riformismo e gli istituti del movimento operaio ufficiale non solo albeggiano pressoché in ogni articolo del giornale, ma il riformismo è osservato non tanto come linea politica che annacqua le lotte e le fa regredire ma come linea politica tutta interna al piano del capitale . Esattamente in questo passaggio si situa gran parte della ricchezza prima teorica e analitica e poi organizzativa del giornale. Il riformismo è osservato e identificato come progetto e strategia tutta interna al capitale, come suo centrale modello di sviluppo e principale governo della forza lavoro.

Se Lenin aveva identificato il riformismo come la borghesia dentro il movimento operaio, l’operaismo de “La classe” identifica il riformismo come parte costitutiva e costituente del piano del capitale , tutto questo sulla scia di quanto messo a punto nel lavorio teorico delle esperienze precedenti ma, soprattutto, grazie anche alle esperienze poste in atto dalle lotte operaie in aperta rottura con partito e sindacato. Qualche anno dopo, avendo a mente il ruolo del PCI e del sindacato nelle vicende degli anni settanta, tutto ciò potrà sembrare come la scoperta dell’acqua calda ma, negli anni sessanta, questo è un passaggio teorico di grandissima portata poiché, per la prima volta, ascrive il riformismo alla strategia materiale del capitale1. Mentre i gruppi critici, ma ortodossi, pongono l’accento sul revisionismo del movimento operaio ufficiale, “La classe” e tutte le aree teoriche e politiche a questa contigua focalizzano l’attenzione proprio sul riformismo; per gli ortodossi, infatti, la colpa del movimento operaio ufficiale è quella di aver abbandonato la dottrina e aver introdotto una nuova liturgia poco attenta al verbo presente nei testi sacri. A partire da questi presupposti, pertanto, il riformismo diventerebbe solo la conseguenza fenomenologica di una revisione ideologica e non una pratica del tutto interna al piano del capitale. In ciò che “La classe” elabora vi è, invece, un decisivo passaggio qualitativo dentro la ritraduzione di Lenin. Una ritraduzione che va sicuramente oltre Lenin poiché sviluppa un’analisi del riformismo a partire dai processi materiali interni al ciclo di accumulazione capitalista. Il merito enorme de “La classe”, e dell’operaismo in generale, o almeno di questo operaismo, è quello di aver letto il riformismo dentro la fabbrica e averlo osservato come motore principale del processo produttivo e del suo sviluppo.

“La classe” va oltre Lenin perché il capitale è andato oltre la forma fenomenica conosciuta da Lenin il quale, per forza di cose, non poteva certo fare i conti con l’epopea dello stato–piano2 e di tutto ciò che questo ha comportato. La critica di Lenin al riformismo è una critica tutta politica nel senso che a incarnare il riformismo sono quegli strati, la cosiddetta aristocrazia operaia, che dentro il sistema capitalista hanno trovato una sistemazione sostanzialmente confortevole poiché possono usufruire di una quota del surplus di profitto che il proprio imperialismo rastrella in giro per il mondo. In questo senso il riformismo può essere considerato come una tattica del capitale non una strategia ovvero una alleanza tra classi che condividono alcuni interessi in comune e, soprattutto, hanno il medesimo nemico: lo spettro comunista. In questa alleanza, tuttavia, i ruoli rimangono ben distinti.
Diverso, invece, il ruolo che il riformismo inizia a ricoprire nel nuovo ciclo di accumulazione: qui il riformismo si fa strategia del capitale poiché sua preoccupazione essenziale è il governo della forza lavoro e la totale compatibilità di questa con il ciclo produttivo. Con ciò il sindacato e gli istituti del movimento operaio diventano, da mediatori della forza lavoro, gestori e controllori di questa, ma non solo: gli istituti del movimento operaio ufficiale diventano parte integrante del piano. Se l’aristocrazia operaia di Lenin era quella forza deputata, di fronte all’attacco operaio, a puntellare il sistema capitalista, oggi questa, che più sensatamente inizierà a essere individuata come destra operaia, è chiamata a gestire il piano dell’accumulazione e lo scontro con questa, per tanto non potrà che essere una battaglia all’ultimo sangue perché in palio vi è la sopravvivenza o meno del capitalismo e non per caso, le lotte operaie, troveranno davanti a sé, ancora prima che padroni e polizia, gli istituti del movimento operaio ufficiale.

Quando, negli anni settanta, il riformismo svolgerà appieno il ruolo di nuova polizia, non farà altro che completare, entrando a pieno titolo negli apparati della statualità, quel percorso iniziato negli anni sessanta che lo vedeva tutto interno alla materialità del piano del capitale. Questo passaggio è centrale nell’elaborazione de “La classe” e non si tratta certo di cosa di poco conto ma, per molti versi, si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana. È vero Lenin, sin dalla pubblicazione del Che fare? aveva individuato nell’economicismo la politica borghese dentro la classe operaia ma in ciò che viene messo a registro adesso vi è qualcosa di diverso. Qui non si tratta più di leggere una politica borghese che viene portata dentro la classe per limitarne prima e annichilire poi le sue prospettive politiche rivoluzionarie ma di una lettura, tutta materialistica, delle trasformazioni intervenute dentro al capitale. La critica de “La classe” agli istituti del movimento operaio ufficiale ha ben poco di “ideologico” e/o di “politico” ma affonda le sue radici dentro i processi materiali del capitalismo. Parafrasando Marx si può dire che è una critica che non nasce nel cielo delle idee bensì dentro gli inferi della fabbrica. Ma questo cosa significa? Perché ciò rappresenta sia una svolta che manda in frantumi tutto il politicismo proprio del PCI e dei suoi critici e, per altro verso, riporta Lenin dentro la classe operaia? Perché in questo passaggio riaffiora prepotentemente l’attualità della rivoluzione? Non sono certo domande di poco conto alle quali occorre cercare di offrire qualche risposta.

Intanto, per prima cosa, significa riprendere tra le mani la teoria marxiana in quanto critica dell’economia politica. Il punto di partenza della teoria marxiana, il suo cantiere elaborativo è l’inferno di Manchester, non il mondo celestiale della politica ma il sordido rumore delle macchine capitaliste. Quell’inferno, che sembra essere circoscritto alla sola Manchester, segnerà tutto il mondo a seguire. Ciò che Marx osserva, attorniato dallo scetticismo dei più, è il processo materiale che in quel luogo si sta evolvendo e che darà il la al mercato mondiale. Questo è il punto più alto dello sviluppo e questo segnerà, piegandolo a sé, i destini del mondo. Ma Marx non si limita a ciò poiché, insieme all’economia politica, cosa che lo accomunerebbe ai tanti economisti dell’epoca, focalizza lo sguardo sul soggetto deputato a rivestire i panni della critica alla economia politica.

Contro la scienza degli economisti Marx mette a punto la scienza operaia. Questa è la scienza delle lotte ed è una cultura che affonda le sue radici dentro la costituzione materiale che il ciclo dell’accumulazione impone. Il giornale “La classe” si colloca esattamente dentro questa scia dove non gli equilibri di governo, non le schermaglie parlamentari e tanto meno le percentuali elettorali e le rappresentanze effimere che stabiliscono, hanno importanza ma le lotte, la quantità e la qualità di forza che queste sono in grado esercitare. Centrale è il punto di vista operaio e non un punto di vista dal sapore sociologico come piace registrare ai cani da guardia della borghesia, ma il punto di vista politico degli operai, quello, cioè, che si manifesta solo dentro le lotte autonome e qui, allora, vi è per intero la ritraduzione di Lenin da parte de “La classe”. Sulle lotte, di fabbrica e di strada, Lenin aveva costruito il partito dell’insurrezione, sulle lotte di fabbrica del presente e il loro riversarsi nei quartieri proletari va costruita l’organizzazione operaia. Ma non si pone, allora, nuovamente l’attualità della rivoluzione e non occorre forse comprendere in che modo questa attualità si presenta? Questo è ciò che sta al centro e al cuore dell’esperienza de “La classe”.

Certo questo non è la scoperta di qualche intellettuale, non è la teoria messa a punto da un ceto politico particolarmente arguto bensì la sintesi concettuale di ciò che una prassi di massa ha ormai evidenziato. Le avanguardie, il ceto politico–intellettuale non si inventano nulla ma decodificano, sostanziano e rielaborano ciò che la lotta di massa ha già, e non più solo come tendenza, posto in atto. La crisi del PCI e del sindacato in fabbrica non è altro che l’espressione fenomenica della lotta operaia. Ai rappresentanti del lavoro salariato gli operai contrappongono il rifiuto del lavoro salariato. Questo fa saltare il banco del riformismo. “La classe” si limita a registrare prima e a rilanciare poi, attraverso una attenta elaborazione teorica, ciò che dalle masse è stato conquistato. È sicuramente un Lenin inaspettato e anomalo quello che prende forma dalle pagine di questo giornale, ma è anche l’unico Lenin possibile: è di nuovo l’attualità della rivoluzione, la riscoperta e la riappropriazione del tempo della rivoluzione contro i ritmi e i tempi del capitale.

Il tempo operaio è il tempo non declinato sulla produzione ma sulla lotta; è il tempo della soggettività di classe contrapposto al tempo oggettivista della produzione. Il sabotaggio si contrappone ai ritmi produttivi, lo sciopero a gatto selvaggio è il modo migliore per ottenere il massimo dalla lotta con il minimo sforzo e bloccare la produzione impiegando, volta per volta, modesti plotoni operai; una rivisitazione, a conti fatti, della guerra del deserto all’interno della macchina capitalista3.

Lo sciopero improvviso di un solo comparto della fabbrica, che blocca, però, per intero il ciclo di assemblaggio della merce, equivale a quelle mille punture di insetto attraverso le quali un piccolo esercito guerrigliero è in grado di piegare e far implodere anche il più poderoso degli eserciti statuali. Allo stesso tempo l’agguato ai capi, lo spazzare via i reparti con improvvisati cortei mascherati e illegali è un modo per liberare e appropriarsi di pezzi di territorio dentro la fabbrica negando a spie, ruffiani e crumiri un qualunque diritto di cittadinanza. Questa è la guerra che ormai si va delineando dentro la fabbrica e che sancisce l’esistenza di un dualismo di potere.

Dualismo di potere, appunto, non lotta sindacale ancorché particolarmente aspra, scontro tutto politico non economico o economicista come, con fare saccente, lo definiscono le varie anime della ortodossia comunista allineandosi in tutto e per tutto al PCI. Gli operai non liberano la fabbrica, non si impossessano della produzione ma, sabotando il lavoro, si riappropriano del tempo, ma liberare il tempo dalla produzione non era stata una delle principali indicazioni di Marx sin dal periodo dei Manoscritti?4. Questo il perimetro della guerra che si va delineano tra classe operaia e comando capitalista, non il mito neo-resistenziale tutto declinato nell’immaginario del passato, ma la guerra dentro il presente incarnato dalla fabbrica fordista ed è esattamente qui che Lenin va ritradotto e attualizzato. Ma il riappropriarsi della teoria leniniana non si limita a ciò. Torniamo quindi a Lenin, a osservarne le peculiarità e la sua nuova traduzione che le lotte operaie impongono.

Al centro della sua teoria politica vi è la relazione indissolubile tra politica e guerra5, tanto che non è certo un caso che Clausewitz sia uno degli autori da lui maggiormente studiati, la cui conseguenza pratica immediata è la relazione indissolubile tra legalità e illegalità. Due aspetti che non possono che essere costantemente complementari. Mentre per la socialdemocrazia occidentale legalità e illegalità rimandano a momenti e a contesti del tutto incommensurabili per Lenin, che comprende sino in fondo come la guerra sia compresa nella politica, legalità e illegalità sono due aspetti sempre attuali e presenti. Centrale nel conflitto di classe è comunque e sempre la questione della forza.

Ma la forza, aspetto centrale della modernità, è diventata monopolio dello stato6. Solo lo stato è legittimato a detenerla e usarla ma lo stato è quella macchina burocratica e militare deputata a esercitare e garantire una dominazione di classe, la forza, quindi, non può che essere appannaggio della borghesia mentre la forza operaia non può che darsi come forza illegittima ed esprimersi solo attraverso l’illegalità. Dentro lo stato borghese la classe operaia deve essere forzatamente disarmata, ma una classe disarmata non può esercitare alcuna forza, non occorre il rasoio di Occam per comprenderlo.

Su ciò Lenin è estremamente chiaro e, in piena coerenza, considera l’armamento operaio aspetto permanente dell’organizzazione rivoluzionaria. Non si tratta di una particolare propensione di Lenin per il militarismo, ma dello scontato riconoscimento che così come non vi è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria, non vi è organizzazione operaia senza forza operaia.
Per Lenin, e non per caso abbiamo ricordato il debito da lui contratto con Clausewitz, il militare è sempre compreso nel politico, ne è aspetto costitutivo e costituente il quale non subentra al posto del politico e non ne è neppure l’aspetto anomalo e indesiderato bensì un suo tratto ineludibile, ma se ciò è vero, e lo è, ne vanno tratte le ovvie conseguenze.

In un contesto in cui la forza è sottoposta a regime di monopolio o si rinuncia al conflitto o ci si adopera per edificare la propria forza. Certo la forza non può che essere costantemente posta sotto il controllo del politico e modellarsi alle fasi del conflitto, ma deve esistere sempre, essere sempre presente e, per le obiettive caratteristiche che incarna, godere anche di un certo grado di autonomia. La presenza di un apparato militare è una costante della teoria politica leniniana che solo la deriva socialdemocratica e riformista a cui è approdato il movimento operaio ufficiale in occidente ha posto prima tra parentesi e poi in archivio.

Il dibattito sulla forza entra prepotentemente nel dibattito de “La classe” e con ciò l’esperienza di questo giornale compie un salto politico non secondario rispetto a tutto ciò che è venuto prima. Lo compie perché al centro della sua iniziativa, a differenza di gran parte di quanto l’ha preceduto, costante è la questione dell’organizzazione complessiva degli operai in funzione dello scontro con lo stato. Certo, col senno di poi, si potranno anche fare mille obiezioni ai tentativi messi in atto da “La classe”, ma ciò che dobbiamo tenere costantemente a mente è il periodo in cui questi tentativi si danno e il vuoto politico in cui questa sperimentazione si dà. Dobbiamo infatti avere ben a mente che questa generazione di operai e comunisti alle spalle non ha alcuna esperienza tranne il mito resistenziale mutuato velocemente in democraticismo e parlamentarismo opportunista e imbelle. La stessa radicalità operaia manifestatasi nel ’607 e nel ’628 si è trovata di fronte il muro del partito e del sindacato che l’hanno tacciata di estremismo, teppismo e persino fascismo. Dietro di sé questa generazione operaia e comunista non ha alcuna tradizione dalla quale attingere. Ma ritorniamo a occuparci della questione della forza.

Le lotte operaie stanno ponendo, ogni giorno che passa, all’attenzione dei comunisti la questione della forza e “La classe” ha indubbiamente il merito di non eludere il problema ma di affrontarlo di petto. Lo fa, occorre riconoscerlo, anche con una certa ingenuità, ma questo più che essere il frutto di limiti e incapacità è la triste testimonianza di come tutta una generazione di operai e comunisti si sia trovata, e non certo per colpa propria, del tutto impreparata ad affrontare passaggi centrali del conflitto di classe. Proprio questi limiti testimoniano l’infausto ruolo giocato per anni dal movimento operaio ufficiale che si era speso non poco per imporre che la questione della forza dovesse essere considerata ormai del tutto estranea alle esigenze della classe operaia soprattutto come strumento offensivo. È vero l’uso della forza non è ipotesi del tutto estranea al movimento operaio ufficiale, ma lo è nella sua accezione difensiva tutta ripiegata in chiave antifascista e anti golpista. Qui si aprono una serie di questioni che meritano di essere trattate senza fretta.

Intanto, anche seguendo il filo del discorso dei riformisti, viene da chiedersi come sia concretamente possibile fare ricorso alla forza se questa forza non esiste. In che modo, cioè, la classe operaia potrebbe, in caso di golpe fascista o svolta apertamente autoritaria, armarsi e combattere se alle sue spalle non vi è alcun apparato militare minimamente attivo e preparato, ma non solo. O gli operai nascono, per patrimonio genetico, militarmente già formati, oppure asserire che di fronte alla minaccia fascista e golpista si combatterà è solo una boutade o, aspetto tipico dell’opportunismo, passare repentinamente dal legalitarismo all’avventurismo tout court con tutte le ricadute del caso.

Immaginiamo, anche solo per un momento, che di fronte a un golpe vengano distribuite le armi agli operai ora, ammesso e non concesso che queste armi da qualche parte esistano, pensiamo a un qualunque operaio che all’improvviso si ritrovi tra le mani un mitra, cosa ne fa? Immaginiamolo alle prese con il tiro a raffica, è pensabile che sia in grado di farlo con un minimo di dimestichezza? Non occorre dare una risposta. Una simile ipotesi non può che condurre al massacro cosa che, del resto, è proprio dell’opportunismo che precipita velocemente nell’avventurismo.

Qui occorre rilevare la reiterazione di un vizio originario del movimento operaio e comunista italiano e più in generale occidentale, un vizio che possiamo tranquillamente far risalire, per quanto concerne l’Italia, almeno al biennio rosso prima e alla vittoria del fascismo dopo. Di fronte all’offensiva operaia seguita alla guerra e alla tendenza insurrezionale che questa si portava dietro, nessuna delle forze politiche della sinistra, all’epoca ancora legate al PSI e che successivamente daranno vita al PCd’I, si pose minimamente sul terreno della guerra civile e, invece di organizzare l’attacco alla macchina statuale, non riuscirono ad andare oltre la gestione della fabbrica capitalista9.

Nel momento in cui si era reso necessario passare dalle armi della critica alla critica con le armi nessuno si mostrò minimamente preparato e tanto meno intenzionato a farlo. La questione militare, che per Lenin era sempre stata aspetto ineludibile dell’agire di partito, era del tutto estranea anche tra coloro che si professavano interni al marxismo rivoluzionario. Non diversamente da quelli tedeschi, i rivoluzionari italiani si mostravano quanto mai distanti da Lenin poiché la guerra, andando al sodo, continuava a essere considerata come momento anomalo della politica e non suo aspetto costituente, un errore concettuale tipico di tutto il socialismo europeo. Su questi presupposti è ovvio che nessuno si mostrasse non solo pronto alla battaglia, ma che non fosse neppure in grado di raccogliere le tensioni insurrezionali provenienti dalla lotta operaia. Se c’è un momento in cui il distacco della presunta avanguardia dalle masse assume tratti al limite del grottesco è esattamente questo. Se possibile le cose andarono ancora peggio di fronte all’incalzare del fascismo.

Non si può certo dire, come tutte le esperienze degli Arditi del popolo10 sono lì a testimoniare, che non vi fu resistenza di massa al fascismo, ma fu una resistenza che non trovò alcuna sponda politica e del resto, come ricorda nelle sue memorie Bruno Fortichiari11, responsabile del settore militare del PCd’I, l’arsenale del partito nel 1922 contava tre revolver, mentre il suo apparato militare era formato da qualche gruppo di giovanotti che si cimentava in scampagnate tra le montagne.

Tutto ciò a palese dimostrazione di come, indipendentemente dalle dichiarazioni di principio, nel nostro paese i tratti del partito dell’insurrezione difficilmente riuscivano a andare oltre i perimetri della carta stampata e delle frasi fatte, insomma tutto chiacchiere e stemma di partito. Questo lo scenario di fondo al quale, però, si aggiungono anche altri elementi i quali, se possibile, peggiorano ancor più la situazione e finiscono con il fare tabula rasa intorno a qualunque ipotesi insurrezionale. Se, nella tradizione del movimento operaio ufficiale, il ricorso alla forza era stato un enunciato al quale non era mai stato data concretezza, l’assunzione della guerra di posizione come sola e unica cornice politica possibile in un paese a capitalismo avanzato12, pone una pietra tombale sul marxiano passaggio dalle armi della critica alla critica con le armi. Assumere la dimensione della guerra di posizione non significa solo mettere da parte la rivoluzione, ma riconoscere per intero la democrazia borghese e parlamentare come cornice politica della classe operaia e, sulla scia di ciò, per il movimento operaio ufficiale, il ricorso alla forza diventa legittimo solo di fronte a un atto illegittimo della borghesia. La forza, il che ha qualcosa di paradossale, può e deve essere utilizzata solo per ripristinare la legalità borghese nel caso questa, o alcune sue frange, si adoperassero per sopprimerla. La forza è legittima solo in funzione antifascista.

(3 – continua)


  1. Al proposito si veda, G., Trotta, F., Milana, a cura di, L’operaismo degli anni sessanta. Da Quaderni rossi a Classe operaia, Derive Approdi, Roma 2008.  

  2. Cfr. A., Negri, Crisi dello stato piano, organizzazione, comunismo, in Id. I libri del rogo, cit.  

  3. Il riferimento è alla tattica guerrigliera utilizzata dai guerriglieri arabi contro l’esercito ottomano nel corso della prima guerra mondiale, Th. E., Lawrence, Rivolta nel deserto, Il Saggiatore, Milano 2010.  

  4. K., Marx, Manoscritti economico–filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1968.  

  5. V. I., Lenin, Note al libro di Von Clausewitz: sulla guerra e la condotta della guerra, Edizioni del Maquis, Milano 1970.  

  6. M., Weber, La politica come professione, Mondadori, Milano 2006.  

  7. Sulla retorica predominante sui fatti di Genova è quanto mai significativo il testo di A., Paloscia, Al tempo di Tambroni. Genova 1960. La Costituzione salvata dai ragazzi in maglietta a strisce, Mursia, Milano 2010. Per una narrazione decisamente controcorrente e incentrata sul portato che la nuova composizione di classe ha avuto in quegli eventi si veda, A., Dal Lago, E., Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano 2003.  

  8. Sui fatti di piazza Statuto si vedano, C., Bolognini, Quelli di piazza Statuto, Agenzia X, Milano 2019; D., Lanzardo, La rivolta di piazza Statuto. Torino luglio 1962, Feltrinelli, Milano 1979.  

  9. Su ciò si veda, in particolare, P., Spriano, L’Ordine nuovo e i Consigli di fabbrica. Con una scelta di testi dell’Ordine nuovo (1919–1920), Einaudi, Torino 1971.  

  10. La pubblicistica sugli Arditi del popolo è immensa, tra questa uno dei testi maggiormente esauriente è sicuramente il lavoro di E., Francescangeli, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista (1917–1922), Odradek, Roma 2000.  

  11. Al proposito si veda, AA. VV. Bruno Fortichiari. In memoria di uno dei fondatori del PCd’I, Edizioni Lotta comunista, Milano 2020.  

  12. A., Gramsci, Note su Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Editori Riuniti, Roma 1991.  

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L’opera aperta di Marx: un pensiero della totalità che non si fa sistema https://www.carmillaonline.com/2021/11/27/lopera-aperta-di-marx-un-pensiero-della-totalita-che-non-si-fa-sistema/ Fri, 26 Nov 2021 23:10:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69271 di Fabio Ciabatti

Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”. Il lungo presente e i miei studenti. Corso di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, pp. 535, € 35,99.

Marx non può essere considerato un classico. Sono troppe le passioni che ancora suscita la lettura dei suoi scritti per la radicalità della loro critica al sistema capitalistico. Ma c’è di più. Marx rimane un nostro contemporaneo per il carattere aperto della sua opera che, ancora oggi, ci consente di dipanare il filo dei suoi ragionamenti in molteplici direzioni utili per indagare le radici del nostro presente, anche al di là [...]]]> di Fabio Ciabatti

Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”. Il lungo presente e i miei studenti. Corso di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, pp. 535, € 35,99.

Marx non può essere considerato un classico. Sono troppe le passioni che ancora suscita la lettura dei suoi scritti per la radicalità della loro critica al sistema capitalistico. Ma c’è di più. Marx rimane un nostro contemporaneo per il carattere aperto della sua opera che, ancora oggi, ci consente di dipanare il filo dei suoi ragionamenti in molteplici direzioni utili per indagare le radici del nostro presente, anche al di là degli originari programmi di ricerca del rivoluzionario tedesco. Per comprendere questo carattere di apertura, sostiene Paolo Favilli nel suo ultimo libro A proposito de “Il capitale”, bisogna prendere in considerazione il rapporto tra la teoria marxiana e la storia, in un duplice senso. Da una parte bisogna comprendere fino in fondo la “fusione chimica” tra due dimensioni teoriche, quella economica e quella storica, che si intrecciano profondamente nella sua opera e in particolare ne Il capitale; dall’altra occorre capire come le vicende storiche concrete, e in particolare quelle del movimento operaio, abbiano inciso sulla ricezione, l’interpretazione e l’utilizzo del testo marxiano.

Per quanto riguarda il primo punto, bisogna partire dal fatto che per Marx dietro a ogni categoria, anche la più astratta,  c’è sempre una realtà concreta storicamente determinata, mai una realtà universale e eterna. La ricerca della logica specifica dell’oggetto specifico non può prescindere da un’incessante messa a punto degli strumenti concettuali che, per essere adeguati, devono con continuità consumare produttivamente una grande quantità di dati empirici.
D’altra parte Marx non è certo un empirista. Il capitale è, senza dubbio, un lavoro pensato attraverso la categoria di totalità anche se, ed è questo il punto su cui insiste l’autore, non si chiude mai nella costruzione di un sistema. L’opera del rivoluzionario tedesco è un “non finito” che combina Prometeo e Sisifo. 

Sforzo prometeico per abbracciare un insieme di relazioni tendenzialmente “totale” e nel contempo necessità di ritorni, ripartenze, modifica degli strumenti analitici per la comprensione della realtà del capitale in perpetuo mutamento.1

Detto altrimenti il pensiero di Marx è un pensiero della complessità, intendendo questa  categoria in due delle sue principali accezioni:

“complessità” come realtà multiforme, complicata, e “complessità” come realtà “complessiva”, un insieme costituito da parti intenzionalmente legate. … . Le parti non possono essere comprese se non nella prospettiva del tutto, e il tutto senza opera di ricerca empirica, teoricamente fondata, sulle specificità delle singole parti.2

Una complessità che possiamo vedere con chiarezza quando Marx si dedica allo studio di alcune aree coloniali e di marginalità nello sviluppo del capitalismo-mondo. Posto di fronte alla domanda del ruolo della comunità rurale russa per lo sviluppo del socialismo, Marx non fa predizioni sul corso necessario della storia, ma risponde con una serie di frasi ipotetiche. Solo se si fossero realizzate alcune condizioni storico-politiche per l’evoluzione della comunità di villaggio in un contesto di più alta civiltà si sarebbero potute materializzare traiettorie storiche diverse da quelle studiate nel caso del first comer (l’Inghilterra) e che erano servite come base per la costruzione del modello astratto marxiano.

Né la dissoluzione dell’obscina, né il suo sviluppo “come elemento rigeneratore” sono iscritte in una “fatalità” storica, bensì in una contingenza storica in cui operano elementi di determinismo, i diversi lineamenti di una storia di lungo periodo, e altri di volontarismo: le scelte politiche possibili.3

Nell’approccio di Marx, dunque, non abbiamo solo a che fare con la storia, ma anche con il presente come storia. Un presente il cui studio ci  permette di conoscere il  ventaglio di possibilità che ragionevolmente ci si può attendere dalle logiche dei processi in atto.
Ciò detto, non bisogna mai dimenticare che il Marx della maturità è soprattutto un economista politico. Tutto sta nel comprendere la peculiarità della sua concezione di questa materia. L’ambiente economico è sicuramente il primo piano del capitalismo, ma non è “disincarnato”. La riproduzione di rapporti sociali è comprensibile solo tramite l’indagine delle specifiche relazioni tra i membri della “società borghese”, gli “uomini in carne ed ossa”, e la catena delle mediazioni che li collega ai processi di accumulazione. Senza mai dimenticare il ruolo decisivo assegnato alla riproduzione delle forme ideologiche e di coscienza necessarie alla prosecuzione del processo di valorizzazione del capitale. La filosofia non è la strada principale per la critica marxiana delle categorie analitiche dell’economia classica, ma per questa critica rimane importante la “propedeutica dei concetti” e dunque l’utilizzo di una qualche forma di  pensiero filosofico, principalmente di tipo epistemologico.
Solo grazie a una concezione così articolata è possibile porre all’economia “questioni  di senso”, cosa che sarebbe insensata per la stragrande maggioranza degli attuali economisti. In questo contesto, per esempio, si può porre il problema dell’alienazione. Una questione che il giovane Marx pone in termini filosofici, ma che non scompare, pur tramutandosi, nel maturo critico dell’economia politica. Non bisogna però considerare l’alienazione come una situazione di scissione da un astratto ente generico, da una natura umana intesa in senso essenzialistico. Essa, piuttosto, va intesa come lo scontro, lo iato che si apre, all’interno della stessa modernità, tra le spietate logiche dell’accumulazione capitalistica e le potenzialità di realizzazione individuale e collettiva dischiuse dallo sviluppo delle forze produttive promosso dal capitale. Leggere il presente come storia apre alla comprensione delle diverse possibilità di emancipazione che si danno nel nostro mondo per le quali, però, non c’è alcuna garanzia di realizzazione. Consente di vedere lo scarto tra attualità e potenzialità del nostro presente. 

Da quanto fin qui detto appare chiaro che l’idea, spesso ripetuta, del marxismo come Bibbia del movimento operaio è quanto di più lontano possa esserci dagli obiettivi e dal metodo scientifico di Marx. Eppure questa idea è al tempo stesso vera se consideriamo la storia effettiva di un movimento che, nel momento della sua nascita, sentiva il bisogno di una conferma “scientifica”, di una garanzia “in ultima istanza” del suo “giusto” operare nella storia. E con questo arriviamo al secondo punto relativo al rapporto tra Marx e la storia cui abbiamo accennato all’inizio. Questo uso spesso distorto delle categorie di Marx si inscriveva comunque in un processo di crescita delle organizzazioni operaie e di consolidamento della loro autoconsapevolezza. Un processo che rientrava senza dubbio negli intendimenti di Marx. Il fraintendimento della sua opera, paradossalmente, era sempre  una forma di marxismo.
Alla fine dell’Ottocento, quando la maggioranza dei partiti socialisti si stavano costituendo dandosi un’identità “marxista”, il clima culturale e politico favoriva le logiche dell’“assoluta opposizione”. In molti paesi d’Europa nei loro confronti erano in vigore leggi fortemente restrittive, fino alla completa messa fuori legge. Anche i socialdemocratici  tedeschi, con una struttura solidissima e molti parlamentari tra le loro fila, si trovavano nella condizione di una nazione separata all’interno dello Stato. Non sorprende dunque che si sviluppasse una sorta di socialismo “integrale” che si proponeva di  elaborare strumenti concettuali a partire da una propria filosofia, una propria economia politica, una propria sociologia ecc. Un processo di separazione culturale di cui l’asse portante era il marxismo inteso non come una teoria del capitalismo, ma come una concezione complessiva del mondo che consentiva di individuare le tappe per l’affermazione del socialismo all’interno della società capitalistica.

I protagonisti del marxismo diventano movimenti sociali, movimento operaio organizzato, partiti socialisti, comunisti, poi addirittura “Stati socialisti”. Si tratta di marxismo strutturato che risponde a precise contingenze storiche. Semplificando, ma non troppo, si può dire che ciascuna delle “strutture” che ha necessità di assumere una “identità” marxista, s’inventa il marxismo di cui ha bisogno.4

Infine, a partire dalla rivoluzione russa, evento del tutto interno alla Grande guerra, il comunismo del Novecento assume per decenni le caratteristiche del “comunismo di guerra”. E la stessa lettura de Il capitale è soggetta alle leggi belliche. La correttezza della strategia politica e, talvolta, anche delle svolte tattiche, doveva essere dedotta direttamente dall’analisi scientifica. Arrivati a questo punto una “errata” interpretazione di Marx poteva portare alla fucilazione. Con il farsi stato del marxismo assistiamo ad uno scarto decisivo rispetto alla storia precedente che forse andrebbe sottolineato con maggiore forza di quanto faccia l’autore. La miscela instabile tra disciplinamento e autoemancipazione che aveva spesso caratterizzato le organizzazioni operaie, soprattutto quelle più strutturate, non regge più. Una funesta parodia del pensiero marxiano diviene instrumentum regni.
Rimane però il fatto che, a partire dalle vicende tragiche del comunismo di guerra, non si può ridurre la storia del comunismo stesso a una sequela di crimini. In questo modo, sottolinea Favilli, si dimenticherebbe che il pensiero critico ha potuto condizionare le tendenze totalizzanti e disumanizzanti dell’accumulazione capitalistica solo perché si è fatta resistenza reale, antitesi concreta al sistema dominante attraverso la storia del movimento operaio nelle varie forme politiche, sindacali, addirittura istituzionali. Insomma, nella storia dei comunismi sono presenti sia i momenti peggiori sia quelli migliori della storia umana: Gulag ed emancipazione.

L’incontro tra marxismo e movimento operaio, nelle molteplici forme in cui si è dato, non è il frutto di una necessità storica, ma il risultato di una possibilità. Anche se, a posteriori, possiamo dire si sia trattato di un’evenienza molto probabile, date le variabili in campo. Variabili che entrano in gioco in un preciso contesto, nazionale e internazionale. Per questo il ruolo del marxismo nel prossimo futuro non potrà essere, con ogni probabilità, quello del passato. Inutile invocare a ogni piè sospinto la ricostituzione di un autentico partito comunista quale deus ex machina in grado di risolvere tutti i nostri problemi.  Questo, però, non significa affermare che il pensiero di Marx non potrà avere alcun ruolo.
Conviene a questo punto seguire Favilli nella sua ricostruzione dell’evoluzione del pensiero politico di Marx che, dalla concezione quarantottesca di un partito d’avanguardia, passa, con l’adesione all’Internazionale, al tentativo di elaborare un quadro di riferimenti concettuali capace di allargare gli orizzonti del movimento reale, senza sovrapporsi alla sua effettiva esperienza. La forza dei testi scritti da Marx per l’Internazionale consisteva proprio “nella naturalità con cui venivano a coniugarsi il vissuto operaio nell’organizzazione di classe, la valorizzazione della sua esperienza, e gli orizzonti generali dell’emancipazione”.5
Resistenza e azione politica diventano i momenti centrali dell’elaborazione marxiana sull’organizzazione operaia. Si trattava di un modello di intervento intellettuale completamente interno al soggetto sociale che proponeva una “concezione forte di democrazia partecipativa, fondata su profondi e complessi processi di autoemancipazione collettiva”.6 Questo Marx, nota l’autore, potrebbe sembrare oggi quello più inattuale di fronte alla “crisi del soggetto della trasformazione, alla scomparsa della classe generale, e alla metamorfosi dell’attore sociale di massa in spettatore”.7 In effetti oggi l’antitesi ha perduto il nucleo centrale aggregante, la classe operaia dell‘Occidente industriale. L’antitesi però non è scomparsa e, soprattutto, non sono scomparse le condizioni per una sua ricostruzione.

Ora è possibile che la contraddizione capitale lavoro possa non essere percepita come centrale nel contesto della società liquida, ma è certo che nel suo ambito la ricostruzione dell’antitesi può avere funzione aggregante sull’intero panorama delle contraddizioni esistenti.8

Nel mondo contemporaneo assistiamo all’intrecciarsi di due differenti strati temporali: i flussi finanziari e informativi veicolati dalle reti informatiche globalizzate si intersecano con il ritorno su larga scala di forme di sfruttamento selvaggio non dissimili da quelle  sperimentate durante gli albori del capitalismo, quando la logica totalitaria dell’accumulazione non era contrastata da un’antitesi sufficientemente forte. Anche per questo c’è un elemento in comune tra il nostro presente e l’inizio della modernità nei riguardi della costruzione di questa antitesi: “senza la ‘resistenza’ non si inizia nessun percorso”. Oggi, come allora, la resistenza è necessaria contro il nuovo totalitarismo della funzione economica, contro il nuovo pensiero unico. Allora gli scioperi falliti, gli anacronismi di chi difendeva modi di lavoro destinati ad essere superati dallo sviluppo economico e tecnologico crearono le organizzazioni nuove e il nuovo spirito collettivo. Nel capitale-totale del nostro tempo ci sono numerosi semi di quella stessa pianta e anche qualche germoglio. Non possiamo sapere quali daranno frutti. Sappiamo solo che in passato è successo e che certe condizioni di fondo del nostro lungo presente sono rimaste immutate. Per immaginare le possibilità che si aprono nel nostro futuro, dunque, possiamo certamente cercare di comprendere gli elementi di determinismo rintracciabili nella storia di lungo periodo, ma senza mai dimenticare il carattere in ultima istanza irriducibilmente antideterminista della storia.


  1. Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, p. 142. 

  2. Ivi, p. 356. 

  3. Ivi, p. 342. 

  4. Ivi, p. 233. 

  5. Ivi, p. 307. 

  6. Ivi, p. 310. 

  7. Ivi, p. 310. 

  8. Ivi, p. 526. 

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Fare il comunismo con un bacio https://www.carmillaonline.com/2019/03/12/fare-il-comunismo-con-un-bacio/ Mon, 11 Mar 2019 23:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51405 di Luca Cangianti

Quando baciamo con passione ci capita di chiudere gli occhi, ma nel riaprirli potremmo anche scorgere un altro mondo governato da leggi diverse, o da nessuna legge. Un mondo che potrebbe essere perfino una società comunista. Nel midpoint, il punto centrale di una storia, l’eroe si rende conto di amare la persona che fino a quel momento aveva ignorato, oppure, testimone dell’ennesima ingiustizia, realizza che la sua coscienza non avrà pace se non si unirà ai ribelli in lotta contro un potere tirannico. La tensione drammaturgica subisce in [...]]]> di Luca Cangianti

Quando baciamo con passione ci capita di chiudere gli occhi, ma nel riaprirli potremmo anche scorgere un altro mondo governato da leggi diverse, o da nessuna legge. Un mondo che potrebbe essere perfino una società comunista.
Nel midpoint, il punto centrale di una storia, l’eroe si rende conto di amare la persona che fino a quel momento aveva ignorato, oppure, testimone dell’ennesima ingiustizia, realizza che la sua coscienza non avrà pace se non si unirà ai ribelli in lotta contro un potere tirannico. La tensione drammaturgica subisce in questo modo una rottura. Dopo che l’elastico della trama si è teso fino al limite, si verifica un’illuminazione, un collasso gnoseologico: l’eroe riesce a vedere ciò che prima gli era invisibile, aderisce al punto di vista tematico della narrazione (ad esempio, banalmente: «l’amore è un’avventura» oppure «nessuno si libera da solo») e diventa l’opposto di ciò che è stato fino a quell’istante.
Questa struttura narratologica ha il suo corrispettivo epistemologico nella descrizione che Thomas Kuhn fa della scoperta scientifica. Entrambe valorizzano il concetto di esperienza pratica e in questo modo si connettono con l’archetipo del viaggio dell’eroe. Chi vuole agire collettivamente è spinto a chiedersi quale itinerario conoscitivo ed esperienziale debba percorrere il soggetto per diventar tale. A costui e a costei può esser utile sapere che le strutture della narrazione, della conoscenza e dell’azione sono strettamente connesse. Vediamo come.

A quale animale assomiglia di più questa immagine? Coniglio e anatra.

La pluralità dei mondi. Il bacio che consente all’eroe di accedere al mondo nuovo è un’esperienza analoga all’operato dello scienziato rivoluzionario. Questo, spesso un immigrato da altri settori disciplinari o un giovane ricercatore insufficientemente socializzato al paradigma dominante, guarda nello stesso punto dei suoi predecessori e vede cose nuove e diverse. Come nelle immagini gestaltiche, prima si scorge un coniglio, poi un’anatra. Kuhn afferma che nella chimica del XVIII secolo, Lavoisier «Vide l’ossigeno là dove Priestley aveva visto l’aria deflogistizzata e dove altri osservatori non avevano visto assolutamente nulla.»1 Il filosofo della scienza statunitense sostenne così che «quando mutano i paradigmi, il mondo stesso cambia con essi… È quasi come se la comunità degli specialisti fosse stata improvvisamente trasportata su un altro pianeta dove gli oggetti familiari fossero visti sotto una luce differente e venissero accostati ad oggetti insoliti.»2
Si tratta di uno scenario che ricorda il Sottosopra della serie Netflix Stranger Things. Non a caso, nel corso di un lungo dibattito, che dagli anni sessanta è arrivato fino al nuovo millennio, Kuhn fu accusato d’irrazionalismo da parte dei colleghi sostenitori della Standard view positivista. Secondo questi, per semplificare, un fatto è un fatto, la realtà è una sola e il soggetto non può che darsi da fare per conoscerla così come essa oggettivamente è, indipendentemente da questo. A detta di questi filosofi e scienziati, il mutamento scientifico concepito da Kuhn impediva il confronto razionale tra due teorie antagoniste al fine di decidere quale fosse la migliore: i paradigmi prima e dopo una rivoluzione scientifica risultavano incommensurabili. Insomma, si vedevano conigli o anatre senza poter decidere concordemente chi avesse ragione; ci si trovava nel mondo dell’Indiana degli anni ottanta o in quello del Sottosopra senza poter connettere razionalmente le due esperienze percettive.
Kuhn tuttavia aveva avvertito che le rivoluzioni scientifiche non cambiano solo il modo di vedere. La scienza è in larga parte un’attività pratica: gli «scienziati con paradigmi differenti si interessano di differenti manipolazioni concrete di laboratorio» che gli «procurano… elementi conoscitivi concreti… tali operazioni di laboratorio mutano con il mutamento di paradigmi. Dopo una rivoluzione scientifica, molte vecchie misurazioni e manipolazioni non sono più ritenute appropriate e sono sostituite da altre.»3 L’apparente e irrazionale pluralità dei mondi è così ricondotta alla pluralità delle azioni e delle pratiche all’interno dei differenti contesti sociali. In questo modo il realismo (secondo il quale la nostra conoscenza riguarda qualcosa di extra-soggettivo) si fonde con un costruttivismo (secondo il quale il soggetto costruisce o contribuisce a strutturare la realtà) che integra costrutti sociali, oggetti materiali e tecnologie.
Tornando all’immagine narratologica iniziale, possiamo affermare quindi che non è il solo contatto con le labbra della persona amata a catapultarci misticamente in un altro mondo, così come non è la mera illuminazione dello scienziato rivoluzionario a spiegare la scoperta scientifica. L’eroe viene investito dalla luce del nuovo mondo perché non riesce più a perseverare nel fatal flaw, cioè nell’«ostinato attaccamento a vecchi e consunti sistemi di sopravvivenza che hanno esaurito la loro utilità e la resistenza nei confronti dell’energia rinnovatrice…»4. L’accumularsi dei fallimenti ha inoltre fatto emergere alla sua attenzione un’alternativa esistenziale, che pur presente in precedenza, aveva trascurato. Similmente, nello schema kuhniano, la comunità scientifica difende tenacemente il paradigma dominante in crisi, mentre le anomalie si accumulano fino a quando la loro rimozione diventa estremamente problematica e permette l’emersione di un nuovo paradigma candidato all’egemonia. Quel bacio nel midpoint, quel sussulto di dignità a fronte dell’ennesima ingiustizia, rappresentano la goccia che fa traboccare il vaso ricolmo dell’esperienza fallimentare passata.

La metafora del viaggio. Sottesa a questa impostazione c’è una concezione della conoscenza come esperienza, superamento dei fallimenti, viaggio interplanetario, attraversamento di Stargate (per riferirci all’omonimo film di Roland Emmerich). Del resto la parola tedesca Erfahrung (esperienza) incorpora il verbo fahren (andare, viaggiare), mentre erfahren significa apprendere. Conoscere è quindi viaggiare, visitare nuovi mondi, fare esperienze pratiche, agire, far cozzare contro questo mondo la nostra soggettività, potenziandone così la forza.
Il tema del viaggio, rileva Pino Menzio, ricorre non a caso in molti sistemi filosofici come «schema interpretativo dell’esistenza umana in senso ontologico, psicologico ed antropologico».5 Kant usa questa metafora in senso teoretico: nella prima edizione della Critica della ragion pura, «l’indagine “dialettica”, avviluppata nei paralogismi e nelle antinomie della ragione, viene presentata come un temerario affidarsi ai flutti di un oceano senza rive; il procedere entro i limiti della conoscenza possibile, viceversa, è una sorta di navigazione mediterranea, condotta prudentemente lungo le coste continue dell’esperienza.»6 Anche Hegel impiega l’immagine della navigazione marina come espressione figurata del proprio modo di procedere teorico con particolare riferimento alla Fenomenologia dove lo sviluppo dello Spirito è concepito come un viaggio della coscienza.7
Il ruolo della metafora nelle teorie non si limita a una funzione meramente retorica, utile a render chiara o convincente un’argomentazione specifica. Secondo l’impostazione della Standard view positivista la scienza è costituita da osservazioni ed esperimenti sulle cui basi si elevano le teorie. Secondo Kuhn invece la conoscenza scientifica procede generando strutture che modellano e indirizzano la stessa osservazione. Tali costrutti incorporano concetti desunti dal linguaggio corrente, dall’esperienza pratica, dall’arte e dalla tecnologia. Spesso si tratta proprio di metafore e analogie che si comportano come modelli esplicativi: la rappresentazione di un circuito elettrico a mo’ di sistema idrodinamico; le molecole di un gas come palle da biliardo in movimento casuale; il rapporto tra il mondo economico e delle rappresentazioni ideologiche come relazione architettonica tra struttura e sovrastruttura; la legge del valore e del plusvalore come vampirismo.8 Grazie a tali dispositivi orientiamo le nostre future ricerche, stabiliamo correlazioni e azzardiamo previsioni. Le metafore costituiscono una delle porte attraverso le quali l’esperienza pratica fa ingresso nella costruzione teorica.

L’archetipo del viaggio dell’eroe. Per inseguire le radici del nesso tra conoscenza e viaggio ancora più in profondità dobbiamo prendere in considerazione la teoria del monomito avanzata da Joseph Campbell. Attraverso un’analisi comparativa sterminata, questo autore sostiene che in tutte le culture umane è presente il seguente mito: «L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale (x); qui incontra forze favolose e riporta una decisiva vittoria (y); l’eroe fa ritorno dalla sua misteriosa avventura dotato del potere di diffondere la felicità fra gli uomini (z).»9
Tale struttura rappresenterebbe un archetipo radicato nell’inconscio collettivo e individuale umano dando sostegno all’affermazione junghiana secondo la quale la mitologia è il «sogno collettivo, sintomatico delle aspirazioni archetipe nelle profondità della psiche umana».10 Secondo Carl Gustav Jung, gli archetipi sono una sorta di controparte psichica degli istinti, sono strutture potenziali nascoste, articolate a seconda degli individui e delle culture di riferimento, che si attivano in congiunzione con determinate interazioni con il mondo esterno. Nell’ambito delle teorie evoluzioniste, una corrente dell’etologia ha dato fondamento maggiormente empirico alle entità teoriche degli archetipi e dell’inconscio collettivo. Secondo Anthony Stevens, ad esempio, l’evoluzione riguarda anche le modalità secondo le quali si strutturano le passioni e le immaginazioni: la nostra dotazione archetipica ci predispone ad affrontare la vita della nostra specie nell’ambiente in cui si è evoluta. In questo senso il vuoto, il buio, la presenza di estranei, un rumore improvviso o sospetto ci attivano reazioni di paura, difesa o fuga. Da questo punto di vista quindi gli stessi archetipi potrebbero avere un fondamento operativo di origine evoluzionistica11 e l’archetipo studiato da Campbell altro non sarebbe che una modellizzazione dell’agire umano evoluzionisticamente selezionato.

Narrare, conoscere, agire. Tiriamo le fila di queste considerazioni arditamente interdisciplinari. Il bacio dell’eroe e la scoperta scientifica dello scienziato rivoluzionario consentono l’accesso a nuovi mondi senza sfociare nella mistica perché entrambi si fondano sull’esperienza del soggetto in lotta con il fatal flaw (narratologia) o con le anomalie di un paradigma scientifico in crisi (epistemologia). La prassi a sua volta è modellata dall’archetipo del viaggio dell’eroe quale struttura evoluzionisticamente fondata. Narrare, conoscere e agire hanno la stessa forma. È questa la ragione che permette a chi vuole analizzare i processi di costituzione di un soggetto sociale antagonista di mescolare narratologia, epistemologia e critica dell’economia politica.12 Il viaggio dell’eroe in quanto archetipo dell’agency è un grimaldello teorico utile a studiare e far avanzare i processi necessari ad allineare i simboli dello Stargate. Quando ciò avviene il soggetto intravede un nuovo panorama oltre la porta stellare, anche se in direzione invertita rispetto alla narrazione del film. Poggiando ancora i piedi sul mondo dello sfruttamento scorge la possibilità di un futuro di liberazione. È una breccia che si apre ciclicamente nella storia: 1789, 1848, 1871, 1917, 1919, 1959, 1968, 1974, 1979, 1994, 2014. Si tratta di una selezione parziale e discutibile di date che tuttavia esemplifica una serie di momenti macroscopici di rottura politica e coscienziale occorsi a Parigi, Pietrogrado, Berlino, Avana, Praga, Lisbona, Managua, in Chiapas e nel Rojava. Si tratta di un’esperienza drammatica e appassionante, come un bacio che, senza esserne coscienti, desideriamo nel corso di tutta la vita. Quando riapriamo gli occhi i conigli si sono trasformati in anatre e hanno spiccato il volo.

[Nelle fotografie: Fuerteventura (Canarie, Spagna), Tilos (Dodecaneso, Grecia), Lisbona (Portogallo)]


  1. Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 1978, p. 147. 

  2. Ivi, p. 139. 

  3. Ivi, pp. 156 e 159. 

  4. Dara Marks, L’arco di trasformazione del personaggio, Audino, 2007, p. 85. 

  5. Pino Menzio, Il viaggio dei filosofi. La metafora del viaggio nella letteratura filosofica moderna, CIRVI, 1994, p. 108. 

  6. Ivi, p. 25. 

  7. Ivi, pp. 34 e 38. 

  8. Cfr. Luca Cangianti, «FantaMarx. Critica dell’economia immaginaria», in Aavv, Immaginari alterati, Mimesis, 2018, pp. 84-90. 

  9. Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, 2012, p. 41. 

  10. Ivi, p. 443. 

  11. Cfr. Anthony Stevens, «L’inconscio e l’archetipo del nemico» in Grazia Attili, Francesca Farabollini, Patrizia Messeri, Il nemico ha la coda, Giunti, 1996. 

  12. Cfr. qui

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