Critica al programma di Gotha – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Classe operaia e rivoluzione: un equivoco secolare? https://www.carmillaonline.com/2018/01/18/classe-operaia-rivoluzione-un-equivoco-secolare/ Wed, 17 Jan 2018 23:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42768 di Sandro Moiso

Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00

E se l’errore di previsione più grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non potrebbe svolgere? Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi necessario, appena pubblicato da Colibrì.

Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede [...]]]> di Sandro Moiso

Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00

E se l’errore di previsione più grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non potrebbe svolgere? Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi necessario, appena pubblicato da Colibrì.

Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede rivoluzionaria, che in tempi oscuri come quelli che stiamo attraversando potrebbe rivelarsi inattuale, almeno nel cuore delle metropoli imperialiste, e necessario poiché costringe chi si occupa di politica in chiave antagonista a fare i conti non solo con le fin troppo scontate convinzioni cui si accennava prima, ma anche con una ideale continuità tra Marx e Lenin, tra Marx e marxismo-leninismo, che a ben vedere non è sempre data e così facile riscontrare.

Il presupposto da cui parte l’autore è il seguente, delineato fin dalle pagine della Prefazione:

“Il punto chiave è se il modo di produzione capitalistico, come determinato storico di un processo tecnico-scientifico dell’uomo, regga a causa del dominio della borghesia o a causa di leggi proprie.
Il vortice portentoso del modo di produzione capitalistico, basato sulla concorrenza, chiama l’uomo ad abbandonare la logica del minimo sforzo, a sgomitare, a camminare sui morti, divide le persone per ruoli e categorie produttive, integrandole nel suo tessuto, alimentandone continuamente la corsa. In questo modo gli uomini di tutte le classi sociali sono permeati dalla legge della concorrenza; è questo meccanismo che genera i ruoli cui le persone sono asservite. Se sono i ruoli ad assumere la funzione di soggetto e le persone fisiche fungono da oggetti alienati, indipendentemente dalla classe di appartenenza, può questo meccanismo essere razionalizzato? La classe operaia, pur subendo lo sfruttamento nel suo ruolo subordinato, proprio perché è una classe complementare perché dovrebbe abbattere il modo di produzione capitalistico come ipotizzato da Marx e Engels?”1

Per affrontare questo spinoso problema l’autore compie un lungo viaggio a ritroso tra gli scritti di Marx, soprattutto quelli dedicati alla Comune di Parigi, quelli di Lenin sulla rivoluzione e la sua concezione, poi bolscevica, della società russa e, infine, analizzando la rivoluzione russa nel suo svolgimento e nelle sue conseguenze. E proprio a Lenin e alla Rivoluzione “bolscevica” è dedicata la parte più consistente dell’opera: otto capitoli su undici, 350 pagine su 446.

All’interno di tale parte del progetto, Castaldo analizza in particolare, riprendendo anche tesi già esposte da Ettore Cinnella nei suoi studi sulla Rivoluzione,2 il rapporto conflittuale che si stabilì tra il pensiero leninista e l’azione bolscevica da una parte e le aspirazioni e le richieste della gran massa dei contadini, quasi sempre poveri, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione della Russia imperiale prima e successivamente dell’Unione Sovietica.

Oltre a questo l’autore pone il problema, già posto da Amadeo Bordiga,3 di come possa definirsi socialista una società in cui il lavoro continui ad essere salariato e quindi “monetizzato” in una contabilità a partita doppia in cui appaiano sia la colonna dei costi che quella dei “profitti”. Problema tutt’altro che secondario nell’analisi del risultato della rivoluzione sovietica, soprattutto nei decenni successivi all’Ottobre del ’17.

Le conclusioni cui giunge l’autore si articolano intorno al fatto che:

“I riflettori della storia puntati sull’arco temporale che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento hanno messo in luce la forza dirompente del moto-modo di produzione capitalistico che, da un lato, ha scosso le vecchie classi come i servi della gleba in Russia e, dall’altro, ha posto alla ribalta della scena storica una nuova classe come il proletariato, che si è andato affermando in maniera definitiva come classe complementare nel modo di produzione capitalistico ad ogni latitudine del globo. […] Siamo arrivati alla conclusione che il potere bolscevico, sorto da quella rivoluzione, fu costretto alle nazionalizzazioni economiche e alla centralizzazione politica per accelerare il processo di accumulazione capitalistica.[…] Uno Stato che fu definito sovietico dai bolscevichi, ma che aveva in sè tutte le caratteristiche di un apparato teso a dirigere lo sviluppo di un’accumulazione capitalistica originaria ed era molto distante dalla natura del potere della classe operaia e della dittatura del proletariato. “4

L’osservazione che il proletariato si è andato affermando come classe complementare al modo di produzione capitalistico sembra però dare per scontato che proletariato e classe operaia coincidano, fatto non così scontato nella realtà. Il proletariato inteso come massa dei diseredati, di coloro che sono stati espropriati non solo della ricchezza sociale prodotta, andata progressivamente ad accumularsi nelle mani dell’altro polo sociale, ma anche della decisione di come e quanta ricchezza o beni materiali produrre, pencola costantemente tra forme sociali integrate nella produzione (classe operaia in generale) e forme escluse dalla stessa (disoccupati e sottoproletariato o, ancora come nel mondo d’oggi, in forme precarie di occupazione) tese a demolire qualsiasi presunta omogeneità di classe e di coscienza.

Prima di andare avanti nell’analisi delle conclusioni occorre quindi sottolineare che l’autore, pur critico della vulgata più semplicistica della rivoluzione d’Ottobre e del ruolo della classe operaia, tende a subire ancora le influenze di una visone politica in cui sostanzialmente proletariato e classe operaia tendono forzatamente a coincidere. Visione riscontrabile a partire da Plechanov e nel suo allievo Lenin oltre che nel successivo marxismo-leninismo che, però, non si presenta allo stesso modo in Marx ed Engels.

Sostanzialmente si potrebbe dire che mentre in Lenin e nel bolscevismo il proletariato deve farsi classe operaia per acquisire piena coscienza dei suoi compiti, in Marx e in Engels, fatto dovuto forse all’epoca, il proletariato deve negarsi in quanto tale per poter liberarsi dalle catene e dalle pastoie che lo legano al capitalismo. Non deve contribuire, soprattutto dopo la Comune di Parigi, a svilupparlo ma a negarlo. Non solo per l’abbrutimento e l’alienazione di cui troviamo la critica in Marx e più difficilmente in Lenin, ma anche per l’attenzione che Marx, nella parte finale della sua vita, prestò all’analisi delle società primitive e alla stessa comune contadina russa e alla possibilità che avrebbero avuto di giungere al socialismo e al comunismo saltando la fase, orrenda, del capitalismo.5

In questo la radicalità dell’azione rivoluzionaria del proletariato non deriva da una coscienza importata dall’esterno (leninismo), ma dalla ribellione contro le proprie condizioni di alienazione, abbrutimento ed espropriazione economica e culturale.6 Mentre l’ipotesi su cui si basò gran parte dell’azione bolscevica in prima istanza e, successivamente, del marxismo-leninismo, si adagiò sulla concezione deterministica e gradualistica derivata da Plechanov (prima pieno sviluppo del capitalismo poi trasformazione dei rapporti sociali ed economici di produzione) che, pur di affermarla nella sua battaglia con il populismo russo, aveva nascosto fino alla morte la risposta di tutt’altro tenore che Marx aveva inviato in una lettera a Vera Zašulic sullo stesso problema.7

Nel primo caso il proletariato e la classe operaia devono impadronirsi dello Stato per distruggerlo e per negarsi in quanto classe nella negazione dei rapporti di produzione capitalistici che la forma Stato avevano determinano, rimanendone a loro volta determinati, mentre nel secondo caso proletariato e classe operaia devono farsi Stato per sviluppare le forze produttive e rinforzare la propria funzione di e come classe. Ancora una volta lo scontro non è soltanto all’interno dei rapporti sociali reali, ma anche, e talvolta soprattutto, nell’immaginario politico che ne consegue.

Se poi qualcuno rimanesse ancora perplesso di fronte all’uso degli scritti del Marx più giovane in possibile antitesi alle le proposizioni leniniane, basterebbe ricordare che anche il Marx più vecchio (1875, otto anni prima di morire), nella sua critica al programma del partito socialdemocratico tedesco detto di Gotha, avanza riserve infinite su numerosi aspetti che poi, proprio attraverso l’influenza socialdemocratica su Plechanov, sarebbero entrati nelle formulazioni del marxismo-leninismo.

Afferma, ad esempio, Marx all’inizio della sua critica, proprio là dove il programma dichiara: «Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà»:

“Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è tanto la fonte dei valori d’uso quanto il lavoro, che è esso stesso solo l’espressione di una forza naturale, della forza-lavoro umana.
Quella frase si trova in tutti gli abbecedari […] ma un programma socialista non deve pemettere a tali luoghi comuni borghesi di nascondere le condizioni che sole danno loro un senso. Il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi anche di ricchezza, solo nella misura in cui l’uomo si comporta fin dal principio come proprietario nei confronti della natura, la fonte prima di tutti i mezzi e ogggetti di lavoro, e la tratta come osa di sua proprietà. I borghesi hanno i loro buoni motivi per affibbiare al lavoro una forza creativa soprannaturale, perché […] ne consegue che l’uomo, il quale non ha altra proprietà all’infuori della propria forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo di quegli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni oggettive di lavoro. Egli puà lavorare solo con il loro permesso e solo con il loro permesso può quindi vivere”.8

Altro che orgoglio del lavoro operaio!
Senza poi tener conto del fatto che se Marx, come ebbe a dire più volte, non voleva essere “marxista”, altrettanto Lenin non pensò mai di essere “leninista”; mentre il cosiddetto marxismo-leninismo fu formulato per la prima volta come ideologia dell’Internazionale e del Partito bolscevico o comunista dell’URSS da Stalin, alla fine del suo resoconto al XVII Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) il 26 gennaio 1934. Ma fu soltanto a partire dal 1938, nel Corso breve di storia del Partito bolscevico, redatto dall’apposita commissione del Comitato centrale del PCU(b), che tale pensiero e la stessa storia del partito acquisirono la forma di un dogma. Nello stesso anno vennero istituite in URSS le prime Università di marxismo-leninismo come una delle istituzioni della formazione dei militanti.
Ma continuiamo con le conclusioni cui giunge Castaldo;

“La nostra tesi sostiene che il proletariato è una classe complementare alla borghesia e come tale è un pilastro del modo di produzione capitalistico, finché le leggi lo sorreggono nel suo processo di riproduzione dell’accumulazione, Solo un’implosione per sovrapproduzione di merci e mezzi di produzione del sistema capitalistico potrà aprire scenari all’oggi del tutto sconosciuti.[…] Assegnare a una parte del tutto, cioè al proletariato-classe operaia, la possibilità di precostituire una forza aggregata per abbattere l’altra parte del tutto, cioè la borghesia detentrice dei mezzi di produzione, equivale a definire i rapporti sociali da un punto di vista etico, cioè ideale, piuttosto che vedere deterministicamente il loro sviluppo e la loro crisi causata dalle leggi immanenti del suo funzionamento, che diviene crisi di un tutto, cioè di sistema, del modo di produzione. Se tiene la legge generale dell’accumulazione, questa tiene unito il tutto, dunque lo stesso proletariato che non può in alcun modo separarsi e distaccarsi perché materialmente vincolatodalle stesse leggi dell’accumulazione”.9

Ecco allora che dopo aver accettato una funzione meramente produttivistica della classe operaia, viene sventolata la determinazione delle leggi immanenti alla produzione capitalistica (ad esempio la caduta tendenziale del saggio di profitto) come unica causa della fine possibile del capitalismo stesso, negando al proletariato qualsiasi soggettività politica che, sia nel caso della Comune che della iniziale rivoluzione russa, esso aveva avuto invece la capacità di affermare.

In un mondo dove la proletarizzazione ha assunto, nei paesi imperialisti d’Occidente come in quelli degli altri continenti, dimensioni mai viste prima, tale conclusione significa volere affidarsi ad un mantra che recita sostanzialmente che la fine verrà da sé, per leggi che sfuggono al controllo della classe e della specie umana e che soltanto una particolare setta o un determinato partito saprà individuare. Come ogni religione rivelata e ogni organismo di carattere sacerdotale tende a fare e promettere.

Spogliando così il proletariato delle sue capacità di riflessione e di lotta in grado di competere con le sirene del capitalismo e del nazionalismo. Condannandolo ad essere succube dei Trump, dei sovranisti o dei populisti di ogni risma. Contribuendo col fargli assumere, come nel caso della rivendicazione del valore assoluto del lavoro, un’identità artificiale attraverso un’invenzione impostagli dalle classi dominanti.

Peccato, perché la proposizione iniziale poteva servire a ben altre riflessioni sul ruolo della classe operaia, del proletariato tutto, della sua azione e delle sue differenti forme organizzative nel divenire della storia passata e futura della specie e della comunità umana.


  1. Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, pag. 11  

  2. Ettore Cinnella: 1905, la vera rivoluzione russa, Della Porta edizioni, Pisa –Cagliari 2008; 1917. La Russia verso l’abisso, Della Porta edizioni 2012; La tragedia della rivoluzione russa, Luni Editrice, Milano-Trento 2000  

  3. Nel suo Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, edizioni il programma comunista 1976 che va ben al di là della riflessione sulla burocratizzazione impostata da Trockij e seguita dai suoi vari epigoni  

  4. Castaldo, pp.420-422  

  5. Si veda ancora una volta su questo tema: Ettore Cinnella , L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014  

  6. Si confrontino: Marx- Engels, La sacra famiglia, cap.IV, II , Nota marginale critica e K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi 1968 pp. 71-84. Testi che all’epoca Lenin non poteva conoscere perché ancora da ri/scoprire 

  7. Si veda ancora E.Cinnella, L’altro Marx, op. cit.  

  8. Karl Marx, Critica al Programma di Gotha, Massari editore, 2008, pp. 33 – 35 

  9. Castaldo, pp. 422 – 423  

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Martirio, Sacrificio, Festa https://www.carmillaonline.com/2014/10/28/martirio-sacrificio-festa/ Mon, 27 Oct 2014 23:01:14 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18319 di Sandro Moiso

martirioSe Bertolt Brecht auspicava la fortuna di quei popoli che non avrebbero più avuto bisogno di eroi, io, da tempo, non riesco e non voglio più celebrare i martiri. Soprattutto della causa a cui tengo di più: quella della liberazione della specie umana dalla schiavitù capitalistica. Il martirologio religioso, conservatore o, peggio ancora, “rivoluzionario” non mi appartiene più.

Naturalmente quelle che seguono sono considerazioni di carattere personale, ma, allo stesso tempo, vorrebbero provocare una riflessione in tutti coloro, soprattutto giovani, che ancora si battono ostinatamente e giustamente per la causa della liberazione umana e per il superamento dello [...]]]> di Sandro Moiso

martirioSe Bertolt Brecht auspicava la fortuna di quei popoli che non avrebbero più avuto bisogno di eroi, io, da tempo, non riesco e non voglio più celebrare i martiri.
Soprattutto della causa a cui tengo di più: quella della liberazione della specie umana dalla schiavitù capitalistica.
Il martirologio religioso, conservatore o, peggio ancora, “rivoluzionario” non mi appartiene più.

Naturalmente quelle che seguono sono considerazioni di carattere personale, ma, allo stesso tempo, vorrebbero provocare una riflessione in tutti coloro, soprattutto giovani, che ancora si battono ostinatamente e giustamente per la causa della liberazione umana e per il superamento dello stato di cose presenti.

Sì, perché al concetto di martirio è indissolubilmente legato quello di sconfitta. E, non c’è dubbio, quello di sconfitta è sempre rinviabile a quello di errore. Errore di calcolo, di prospettiva, di valutazione, ma, comunque errore. E non possiamo continuare a credere fideisticamente e religiosamente che la “nostra” rivoluzione sarà il frutto di una serie di innumerevoli e ripetuti errori.

Con i calcoli sbagliati e con la sola fede non si va da nessuna parte.
Al massimo si crepa oppure, come minimo, si perde e si passa la vita a rimuginare sulle proprie sconfitte. Magari all’ombra di una nuova dittatura.
Oppure ci si pente. Si torna sui propri passi.
Si rivaluta ciò che si combatteva, magari con strane contorsioni del pensiero.

Martirio e pentimento sono le due facce di una stessa medaglia.
Scusami Dio, per avere peccato. Per aver molto peccato. E così tu mi hai punito.
Ma io ti amo ancora, perché so di aver sbagliato.
Ecco perché alla fine di tante esperienze vere o para-rivoluzionarie, di lotta e di sangue abbiamo dovuto fare i conti con il pentimento. Con la rassegnazione.
Con l’accettazione della sconfitta .

Le rivoluzioni e le lotte vincenti non le realizzano i Rambo o gli dei: le fanno gli uomini. In carne ed ossa. E sangue.
Per cui soffrire molto, assaporare il dolore della sconfitta, delle ferite e della morte, alla fine, non porta da nessuna parte.
Si può morire, si può combattere, si può soffrire per una causa.
Si può essere costretti ad esercitare la violenza per una causa, ma non celebriamolo. Il bello non sta lì.

La ragione ci impone, da Epicuro a Marx passando per il materialismo illuministico, di perseguire la felicità degli uomini, mentre le sofferenze e le violenze non possono costituire altro che incidenti di percorso determinati dalle casualità storiche in cui ci si ritrova dover lottare.
Incidenti che l’umanità futura non celebrerà ma rimuoverà, insieme al ricordo della preistoria in cui siamo ancora immersi, esattamente come la nostra psiche tende a rimuovere i traumi dell’infanzia.

A meno che non si voglia a tutti i costi accettare il filisteismo borghese. O, peggio, la logica del sacrificio tout court. Che è anche quella che più si adatta alle memorie e alle necessità del nazionalismo e dei costruttori di nazioni. O, ancora, a quelle dei fanatismi politici e religiosi di ogni genere.
Dalla jihad odierna ai “martiri” di Piazza Indipendenza a Kiev.

Perché il filisteismo é sempre uguale a sé stesso.
Piange sul latte versato, si cosparge il capo di cenere; grida all’offesa, contro l’inciviltà, contro la mancanza di regole, contro il tradimento. E, intanto, li coltiva. Coscientemente. Spudoratamente. Vilmente. Opportunisticamente.
Così a volte, anche negli ambienti antagonisti, si spera che la sofferenza altrui o le lotte disperate, frutto di ricette “antiche” ma sbagliate, siano di giovamento alla propria causa. No, sbagliato: restano soltanto sofferenze e lotte disperate.

Non vado matto per il leader dallo sguardo da tartaro, ma Ulianov detto Lenin su una cosa aveva mille volte ragione: l’insurrezione è un’arte.
La lotta vincente è un’arte. La Rivoluzione è un’arte.
E non si inventa né, tanto meno, si improvvisa.
Si improvvisa, coscientemente, su uno spartito conosciuto o del quale, almeno, si sanno leggere le note. E sul quale occorre aver a lungo studiato.

Tutto il resto è illusione, dolore, sofferenza e perdita di tempo e di speranza.
Un altro leader, che non amo affatto, disse invece che “la Rivoluzione non è un pranzo di gala“. E così facendo fece accomodare centinaia di milioni di cinesi ad un ben misero banchetto. Gli mancava, per così dire, l’idea della Festa.
Che non avrebbe mai permesso alla Cina “popolare” di diventare la prima potenza economica mondiale.

Ma la Rivoluzione, per essere tale, è anche una festa.
Non condivide la povertà, ma la ricchezza. Non solo materiale.
Non solo il lavoro, ma anche il riposo. Il sacrosanto diritto all’ozio del nostro Paul Lafargue.
La Festa ha poco a che spartire con il martirio e il sacrificio, ma il martirio e il sacrificio hanno molto a che spartire con i regimi, le religioni, i nazionalismi e la loro supina accettazione.

Sacrificatevi per la Patria, per l’Onore, per la Vera Fede, per la Causa oppure per il Grande Partito. L’hanno fatto i vostri Padri. L’hanno fatto i Martiri.
Lo farete anche voi.
Si fanno i sacrifici oggi come sono stati fatti ieri. La vita e la lotta sono fatte di sacrifici. E’ sempre lo stesso principio.
Il trionfo della morale cristiana. Anzi delle religioni rivelate
Dall’Antico Testamento al Corano.

Così ci si perde il bello della Festa rivoluzionaria e delle lotte sociali.
Che, alla faccia di De Coubertin, devono essere vincenti. Davvero.
Si partecipa per vincere e non solo per far presenza.
Lo spirito olimpico non appartiene ai rivoluzionari.
Magari ai pacifisti e ai masochisti della politica, non a chi vuole una nuova vita, un diverso futuro.

E poi il problema è costituito dal fatto che chi è masochista è spesso anche un po’ sadico. Non vi è piacere senza dolore, nostro o altrui, questo è il suo comandamento.
E allora bello il sangue versato; belle le vite perdute; bella anche la sconfitta!
Dai moti mazziniani a Shangai nel 1927 si potrebbe elencare una serie infinita di insurrezioni e tentativi rivoluzionari falliti.

Falliti perché fuori tempo rispetto allo spartito del loro momento storico e destinati alla sconfitta fin dal momento della loro ideazione.
Autentici tritacarne in cui hanno perso la vita migliaia di giovani rivoluzionari e di lavoratori, da Pisacane a Sapri fino al Che tra le foreste boliviane. Ma dalla lezione di tutte quelle sconfitte possiamo imparare a non ripetere gli stessi errori.

Così in caso di vittoria, per forza di cose, ci sarà poi la vendetta.
Sui nemici, anche quando sono rivoluzionari che hanno espresso qualche dubbio sull’efficacia delle decisioni prese dai grandi timonieri della storia.
Da Stalin a Mao ai leader di altri mille massacri.
Dai processi di Mosca della fine degli anni trenta all’orrore delle infinite stragi di carattere etnico, religioso, politico e di genere.

Teste tagliate, campi di lavoro, condanne a morte o ai lavori forzati, montagne di teschi destinati, foscolianamente, a far da trono ai nuovi dittatori.
Tutto entrerà o dovrebbe entrare nel medagliere futuro.
Della Rivoluzione fallita (comunque), della Nazione rafforzata, del Gulag travestito da Società migliore. Ma il ben noto “Chi non lavora non mangia” ha sempre avuto poco a che spartire con il comunismo.

Magari più con il socialismo reale, che ha sempre portato con sé l’idea che chi non soffre non è degno dello stato socialista.
Mentre, al contrario, una società altra, libera, di eguali potrà essere tale solo se sulle sue bandiere potrà scrivere: ”Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!
Come affermò Marx nella sua Critica al programma di Gotha.

E allora perché celebrare ancora il marxismo-leninismo di impianto staliniano? Oppure lo stakanovismo fuori tempo massimo di chi chiede più lavoro e più produzione?
Di chi vuole occupare le fabbriche per far vedere quanto è bravo a fare il lavoro del capitale? Perché impiccarsi con le proprie mani all’albero luterano e capitalista del lavoro salariato? O, ancora più semplicemente, alla continuità aziendale?

barroso Rovistando nella recente tradizione marxista-leninista potremmo scoprire così che José Manuel Durão Barroso, principe dei sacrifici europei, è stato a lungo leader e militante di un gruppuscolo portoghese m-l filo-cinese. Proprio di quel MRPP1 il cui giornale, “O grito do povo”, avevo già avuto modo di apprezzare in Portogallo ai tempi della rivoluzione del 1975! (qui http://olharaesquerda.blogspot.it/2014/05/durao-barroso-estalinista.html )

Oppure, scendendo di qualche gradino, potremmo accorgerci che Aldo Brandirali, che è stato in anni recenti un importante rappresentante delle cooperative bianche, anzi della cattolicissima e più che chiacchierata Compagnia delle opere, oltre che di Forza Italia, tra la fine degli anni sessanta e gli anni settanta fu direttore di “Servire il popolo”, il periodico dell’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti) di cui era l’incontrastato leader. E che incoraggiò tanto il culto della (sua) personalità da spingere i militanti della sua organizzazione (sì, gli stessi di cui celebrava i “matrimoni comunisti”) ad inneggiare al proprio nome insieme a quelli di Mao e Stalin nei cortei dei primi anni Settanta!

Ma qui l’album delle figurine di leader e leaderini, non solo di matrice m-l ma anche provenienti da altre galassie, che in quegli anni predicarono e razzolarono male per poi fare ancora di peggio nei decenni successivi rischia di farsi talmente lungo da dover tagliare immediatamente il discorso.

Quel che c’è ancora da dire, però, è che Matteo Renzi, nel suo credersi così originale ed innovativo rispetto al suo partito, non fa altro che rinnovare la tradizione stakanovista e dittatoriale dello stalinismo (e del fascismo) su lavoro salariato e sulla produttività dello stesso. Così come la rinnova con le “purghe” interne dei vecchi quadri dirigenti. Mentre sono virtualmente già tutti compresi nelle sue riforme e nelle sue proposte quegli entusiasmi dimostrati da quei gerarchi e intellettuali fascisti che visitarono il paese di Stalin tra il 1929 e il 1934.2 Cosa che, tra le altre, gli toglie anche il primato della collaborazione con la Destra.

Gli stessi obiettivi che sono presentati come miraggio positivo dal presidente di Confindustria. E persino da quel sindacato che, contrario a qualsiasi reale mobilitazione di classe, sabato scorso ha portato a spasso per le vie e le piazze di Roma “le sue tristezze“, senza vergognarsi di essere stato, un tempo, il primo a chiedere sacrifici ai lavoratori.

Non temete, sarà una risata a seppellirli.
Tutti insieme.
Appassionatamente.
E senza alcun dolore.
E con il TAV.3


  1. Movimento per la riorganizzazione del partito del proletariato  

  2. Si veda a questo proposito l’utile testo di Pier Luigi Bassignana, Fascisti nel paese dei soviet, Bollati Boringhieri, Torino 2000  

  3. La Corte dei Conti conferma che il Lione-Torino è un’opera inutile e costosa
    23 ottobre 2014

    La Corte dei conti francese ha oggi appena pubblicato un nuovo rapporto per denunciare la deriva ferroviaria francese. Non ha risparmiato l’opera Lione-Torino che ha già largamente rimesso in causa per tre volte nel corso dell’anno 2012.
    In effetti, dichiara che la « troppo debole redditività socio-economica è per esempio manifesta per li collegamento Lione-Torino, che ha criticato nel suo rapporto del 1° agosto 2012 »
    Come giustificare, al momento in cui il governo cera 50 miliardi d’euro, un’opera di cui ogni chilometro di tunnel è uguale alla costruzione d’un ospedale di 60 000 m².
    Il governo si sbaglia orientando i finanziamenti al Lione-Torino per soddisfare gli egoismi regionali a cui sottomettersi al ricatto dell’uso del BTP.
    Ecco i fatti : la Francia, per mancanza di volontà di rimettere in causa il « tutto su strada », non trasporta che 3,4 milioni di tonnellate sulla linea esistente quando in Svizzera o in Austria, delle linee identiche (Gottardo e Brennero) sopportano fino a 5 volte di più.
    E’ possibile creare occupazione investendo in opere utili, ridando la priorità al merci ferroviario su rotaia, cominciando con il riorganizzare le vie ferroviarie esistenti, come lo prevedevano le raccomandazioni delle autostrade de l’ispezione generale della finanza che datano dal giugno 2006 e che non sono state seguite.
    Credere che i finanziamenti europei permetteranno di realizzare quest’opera faraonica è illusoria perché i fondi disponibili non sono sufficienti per finanziare i 40% annunciati dal governo francese.
    La corte ha appena duramente sostenuto questa constatazione, « La presa en compte di una di queste opere [canal Seine Nord Europe et Lyon-Turin], implicherebbe in effetti che« alcuna possibilità di finanziamento d’altre opere da parte dell’AFITF (Agenzia di finanziamento delle infrastrutture dei trasporti di Francia) non sarebbe più allora iniziata prima del 2028 o 2030 »

    Karima DELLI et Michèle RIVASI, eurodeputate ecologiste  

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