cristianesimo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 04 Mar 2025 06:00:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un François Rabelais del West https://www.carmillaonline.com/2021/10/27/un-francois-rabelais-del-west/ Wed, 27 Oct 2021 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68668 di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, [...]]]> di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, di Le avventure di Huckleberry Finn, ritenuto invece da T. S. Eliot “un capolavoro” e da Ernest Hemingway il romanzo capostipite della letteratura statunitense moderna, la raccolta antologica, proposta da Mattioli 1885 e fino ad oggi inedita in Italia, conferma il ruolo di provocazione e dissacrazione svolto dallo scrittore nordamericano nei confronti della cultura piccoloborghese, bigotta e perbenista statunitense, di ieri e di oggi.

Nel caso specifico l’obiettivo è quello di smascherare il puritanesimo perbenista del mondo letterario statunitense della seconda parte dell’800 che, pur fingendosi colto e attento alla grande letteratura del passato europeo, finiva con lo scandalizzarsi davanti all’uso di qualsiasi parola o frase che non rispettasse le regole del bon ton e del perbenismo borghese (e se ciò suggerisce al lettore alcuni atteggiamenti riferibili al fraseggio politically correct attuale, sappia che questo è proprio l’effetto che la presente breve recensione intende ottenere).

L’occasione per la stesura del testo che dà il titolo alla breve antologia, ce lo spiegano bene i curatori del volume e il successivo commento di Franklin J. Meine, intitolato non a caso Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana1, fu fornita all’autore dalla lamentela espressa dal direttore di una rivista dell’epoca sul fatto che alla letteratura americana mancasse un autore del calibro di Rabelais.
Detto fatto: Mark Twain, nato Samuel L. Clemens e che amava definirsi come «nato irriverente», confezionò su misura un breve ma strabordante testo nello stile dell’autore francese del XVI secolo e lo inviò al medesimo direttore. Che, naturalmente, espresse giudizi feroci e sarcastici sul manoscritto e sul suo autore.

1601, o come recitava per intero il titolo corretto e completo Una conversazione, come la si faceva accanto al caminetto, al tempo dei Tudor, descrive una piacevole serata alla corte della regina Elisabetta I, ormai vecchia, circondata da personaggi quali Francis Bacon, Sir Walter Raleigh, Ben Johnson, Francis Beaumonte, la duchessa di Bilgewater (26 anni), la contessa di Granby (30) e sua figlia Lady Helen (15), due damigelle d’onore [Lady Margery Boothy (65) e Lady Alice Dilberry (70)] e William Shakespeare (qui rinominato Shaxpur). Tutti i personaggi sono reali e soltanto colui che tiene il diario della serata resta anonimo, anche se, a detta di Twain, è chiaramente ispirato alla figura di Samuel Pepys, un politico e scrittore inglese del secolo successivo che oggi è ricordato soprattutto per il suo Journal, il diario tenuto tra il 1° gennaio 1660 e il 31 maggio 1669, in cui si dimostrò capace di mescolare con grande abilità e naturalezza le osservazioni di carattere personale con quelle riguardanti i grandi avvenimenti di cui fu testimone. Diario di cui lo scrittore americano fu un avido ed erudito lettore.

Fin qui nulla di strano se non fosse che, al contrario di quanto potrebbe attendersi il lettore, l’argomento non è costituito dagli affari interni, dalla politica internazionale, dalla scienza, dal teatro o dalla cultura classica. Niente affatto. Qui, invece, si parla disinvoltamente della qualità ed intensità di scoregge, organi genitali maschili e femminili, amplessi più o meno focosi, abitudini sessuali e matrimoniali di altri popoli e delle perversioni in uso all’epoca della decadenza dell’impero romano. Senza scandalo alcuno e nella più totale naturalezza. Espressa dalla regina quando «ha sollevato le sopracciglia e con grande ironia e con aria smancerosa ha esclamato: Oh, merda! Al che tutti sono scoppiati a ridere, tranne Lady Alice»2.

Il testo, dopo l’invio al direttore della rivista, fu stampato una prima volta in tiratura limitatissima presso la tipografia dell’accademia militare di West Point grazie al tenente C.E.S. Wood che la dirigeva e che suggerì allo stesso Twain «di pubblicarlo come se si trattasse di un libro di età elisabettiana con caratteri ortografici obsoleti creati appositamente a mano. Inoltre Wood fece anche macerare dei fogli di carta di lino nel caffè allungato e in altri intrugli, facendoli poi seccare in modo da far sembrare che la carta fosse antica di quattro secoli»3.

Al di là della beffa contenuta nello stesso processo di falsificazione, c’è da dire che l’operazione riuscì a tal punto che ancora nel 1906, ventisei anni dopo la sua prima pubblicazione, fu lo stesso Mark Twain a dover chiarire, in una lettera indirizzata a Charles Orr, bibliotecario della Case Library di Cleveland, che: «Il titolo del pezzo è 1601. Consiste in una conversazione inventata di sana pianta che sarebbe avvenuta, esattamente in quell’anno, nel salottino della regina Elisabetta […] e non è, come John Hay suppone erroneamente, un serio tentativo di riportare la nostra letteratura e la nostra filosofia a i tempi sobri e casti di Elisabetta; se in quelle pagine si trova una sola parola decente, è solo perché m’è sfuggita»4.

D’altra parte come ebbe a sottolineare, successivamente alla prima pubblicazione del testo, lo stesso C. E. S. Wood:

Se ho compreso bene il fermento e l’inquietudine intellettuale di cui 1601 è il frutto, direi che la struttura intellettuale e lo strato subconscio più profondo derivassero dagli Anglosassoni, tanto primitivi quanto l’uomo comune del periodo Tudor. Mark Twain veniva dalle rive del Mississippi – dai marinai dei battelli a fondo piatto, dai piloti, dagli scaricatori di porto, dagli agricoltori e dai villaggi popolati da gente rozza e primitiva – esattamente come Lincoln.
Finì nei campi minerari dell’Ovest tra postiglioni di diligenze, giocatori d’azzardo e gli uomini del ’495. Aveva nel sangue e nel cervello la semplice ruvidità di un popolo di frontiera.
Quelle che alle orecchie altrui risuonano come parole volgari e offensive, per lui erano un linguaggio comune. […] Un simile linguaggio è energico e vigoroso, ed efficace, come lo sono tutte le parole primitive. L’affinamento rende meno espressivi, più deboli – o diciamo meno taglienti – ma le volgari parole monosillabiche cadono giù spietate come il colpo d’ascia di un pioniere, e MT era esattamente questo. Quindi credo che 1601 sia il frutto dell’umorismo, della satira e dell’odio del puritanesimo che in MT sono così profondi e istintivi. […] Ogni parola che troviamo in 1601 era utilizzata dai nostri rozzi pionieri in quanto facevano parte del loro vocabolario – e nessuna parola è stata mai inventata dall’uomo con intenti osceni, ma solo come linguaggio per esprmere meglio quello che intendeva dire. Nessun atto della natura è osceno in sé […] Credo anche che MT si divertisse a scandalizzare – ad affibbiare schiaffi sonori a ciò che Chaucer avrebbe semplicemente definito la “nuda realtà”6.

A completamento di quanto sino ad ora detto, vale la pena di citare ancora una volta lo stesso Twain che, avendo studiato in maniera approfondita i modi di fare e la mentalità sia maschile che femminile della cosiddetta “età aurea” della regina Elisabetta I, nel quarto capitolo del suo romanzo Uno yankee alla corte di re Artù, a proposito di una conversazione presso la famosa Tavola Rotonda, può permettersi di scrivere:

molti dei termini usati con la più grande disinvoltura da quella grande assemblea di dame e di gentiluomini di prim’ordine, ebbene, avrebbero fatto arrossire anche un comanche.
Indelicatezza? No, è un termine troppo blando per rendere l’idea. Certo, anch’io avevo letto Tom Jones e Roderick Random e altri libri del genere7, e quindi sapevo che in Inghilterra, per lo meno fino a un centinaio di anni fa, le dame e i gentiluomini inglesi, anche i più raffinati, indulgevano in un linguaggio piuttosto scurrile e volgare, con ciò che implicava anche nell’ambito morale e di comportamento. Anzi, a essere sinceri, tale andazzo e proseguito anche nel nostro secolo XIX – quando, in linea di massima, nella storia dell’Inghilterra, o dell’Europa intera, hanno finalmente iniziato a fare la loro comparsa i primi esemplari di vere gentildonne e veri gentiluomini8. Pensate un po’…e se Walter Scott, invece d’infilare a martellate quelle conversazioni di sua invenzione nella bocca dei suoi personaggi, avesse permesso loro di esprimersi come volevano? Il modo di parlare di Rebecca, di Ivanhoe e della dolce Lady Rowena avrebbe imbarazzato persino uno scaricatore di porto dei nostri giorni9.

Al di là dell’ironia nei confronti delle vere gentildonne e dei veri gentiluomini del neo-puritanesimo borghese, è chiaro che a cadere sotto l’ascia da pioniere di Mark Twain è proprio colui che è ritenuto il padre di quel “romanzo storico” che, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, avrebbe contribuito a ricostruire una storia nazional-popolare in chiave borghese. Percorso del quale Alessandro Manzoni fu in Italia esponente e precursore. Con tutte le conseguenze relative alla rimozione di linguaggi, mentalità e comportamenti considerati “disturbanti” all’interno delle reali classi sociali, basse o alte che fossero.

Non solo: vi è in Mark Twain la chiara e precisa volontà di reintrodurre nella letteratura un linguaggio vero, autentico e reale, a differenza, ad esempio, del Manzoni appena citato che, invece, fece di tutto per reinventarlo allo scopo di dare all’Italia una lingua “nazionale” (che spesso ancora oggi e con tanta difficoltà occorre imprimere a scuola nelle giovani menti). Rivendicazione che si affiancava al tentativo di Walt Whitman di ricorrere a livello poetico al linguaggio quotidiano e che avrebbe così tanto caratterizzato buona parte della letteratura e della poesia americana moderna (con buona pace di Henry James che per poter trattare temi relativi alla coscienza e alla moralità “borghese” fu costretto a trovar rifugio sulle sponde europee)10.

Ecco allora che per contrastare il neo-puritanesimo accluso al pacchetto del politically correct perbenista, Mark Twai può ancora rivelarsi utile e dilettevole. Come dimostra magnificamente la feroce critica rivolta alla religione cristiana e alla bigotteria contenuta in uno dei racconti più divertenti tra quelli compresi nell’antologia, La piccola Bessie, in cui una bimba di appena tre anni, con le sue imbarazzanti domande alla madre, mette in crisi gran parte delle verità della fede rivelata.


  1. Franklin J. Meine, Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana in Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 17-42  

  2. M. Twain, 1601.Conversazionii davanti al fuoco, op. cit., p.63  

  3. Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea, Introduzione a M. Twain, op.cit., p. 13  

  4. Cit. da Franklin J. Meine in M. Twain, op. cit., p. 19  

  5. Il 1849 fu l’anno della corsa all’oro in California – N.d.R.  

  6. Ivi, pp. 27-28  

  7. Si tenga presente che a narrare l’evento è il protagonista del romanzo stesso. I due romanzi citati, Tom Jones di Henry Fielding e Roderick Random di Tobias Smollett, uscirono, rispettivamente in Inghilterra nel 1749 e nel 1748 – N.d.R.  

  8. Corsivo ad opera del redattore di questo testo  

  9. Mark Twain, Uno yankee alla corte di re Artù, Mattioli 1885, 2020, pp. 44-45 cit. in F. J. Meine, op.cit., pp. 29-30  

  10. Per quanto riguarda Walt Whitman si veda invece qui su Carmilla  

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Ridare la voce alle comunità a cui è stata tagliata la lingua https://www.carmillaonline.com/2021/10/13/ridare-la-voce-alle-comunita-a-cui-e-stata-tagliata-la-lingua/ Wed, 13 Oct 2021 20:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68456 di Sandro Moiso

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 368, 16,00 euro

La nuova edizione rivista del testo di Michela Zucca, edito originariamente nel 2004 da altro editore rispetto all’attuale, può costituire un ottimo punto di partenza per chiunque voglia iniziare un percorso di studio della Storia rimossa dell’Occidente. In un tempo in cui il pensiero unico dominante del politically correct tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di pura rimozione della realtà storica, riducendo ogni conflitto ad un problema di [...]]]> di Sandro Moiso

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 368, 16,00 euro

La nuova edizione rivista del testo di Michela Zucca, edito originariamente nel 2004 da altro editore rispetto all’attuale, può costituire un ottimo punto di partenza per chiunque voglia iniziare un percorso di studio della Storia rimossa dell’Occidente. In un tempo in cui il pensiero unico dominante del politically correct tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di pura rimozione della realtà storica, riducendo ogni conflitto ad un problema di diritti e “coscienze” individuali, con conseguenti atti di contrizione formale ipocriti quanto inutili, diventa urgente sottolineare come anche noi, occidentali ed europei, siamo stati costretti a diventare “bianchi” ovvero portatori di idee e comportamenti culturali, religiosi, politici ed economici che sono stati instillati con la forza e la violenza nei nostri antenati, distruggendone le comunità e le culture cui appartenevano.

Michela Zucca (1964), storica e antropologa, è specializzata in cultura popolare, storia delle donne, analisi dell’immaginario. Ha svolto lavoro sul campo tra gli sciamani della foresta amazzonica, in Perù e Colombia, e fra i Lapponi in Finlandia e ha insegnato Storia del territorio in varie università italiane e svizzere. Ha, inoltre, fondato la «Rete delle donne della montagna» e collaborato con il «Centro di ecologia alpina», mentre attualmente organizza e coordina le attività di Arkeotrekking con l’Associazione Sherwood1. In tale contesto di studi ha prodotto numerosi testi e curato l’opera, in 5 volumi, Matriarcato e montagna (1995-2005).

Come afferma l’autrice nel primo capitolo del testo, destinato ad illustrarne l’impostazione metodologica:

Nelle civiltà arcaiche e “premoderne” la massa della popolazione vive “fuori dalla società”, lontana dal “centro” in cui si esplica il potere politico, religioso, economico, ideologico dell’establishment. Soltanto in modo occasionale e frammentario i vari contesti locali si rapportano con quello centrale, mentre prevalgono la dispersione territoriale e la varietà locale. La scarsa possibilità di coordinamento sociale, la carenza di controllo da parte delle autorità, l’economia di sussistenza e non di mercato, sono fattori di ulteriore riduzione o restrizione del centro.
Con la cultura “moderna”, lo sviluppo del mercato e il rafforzamento amministrativo e tecnologico dell’autorità, l’urbanizzazione e la scolarizzazione su vasta scala, la diffusione capillare delle comunicazioni di massa, si determina un coinvolgimento generale della società, un’accentuazione e un’imposizione del sistema di valori centrale in misura sconosciuta negli altri periodi della storia. Sulle montagne però, le condizioni di vita premoderne continuano a esistere per lunghi, lunghissimi, secoli: quasi fino a ieri2.

Questa trasformazione sociale viene comunemente associata al progresso e come tale rivendicata dai cantori della modernità, tra cui non bisogna esitare ad inserire gran parte del pensiero di sinistra e marxista3, che dimenticano, sottovalutano oppure nascondono ciò che la nostra autrice non manca invece di sottolineare con forza, ovvero che «il “progresso” è fondato sullo sterminio»4.
Stermino di popoli, culture e comunità, di qua e di là degli oceani.

Al riparo delle foreste, tornate dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, trova rifugio una popolazione di fuorilegge, di cui i cittadini hanno paura, ma che vengono lasciati vivere fino a quando gli interessi urbani non si espandono, e anche loro devono essere ridotti alla ragione, letteralmente “razionalizzati”. La caccia alle streghe non è l’unico mezzo di eliminazione di una cultura arcaica. La “soluzione finale” passa anche attraverso la distruzione del substrato ambientale che permise per secoli alle varie “tribù delle Alpi” di mantenersi indipendenti: la foresta meravigliosa che proteggeva genti e spiriti.
Il Concilio di Trento è il momento di rottura violento che sancisce il cambiamento culturale, tanto è vero che viene ricordato nella memoria orale in maniera vivissima ancora oggi5.

Il Concilio trentino (1545-1563) può infatti essere considerato non soltanto come un momento di “rinnovamento” della chiesa cattolica in reazione allo sviluppo e alla diffusione del protestantesimo, ma anche come un momento centrale della fondazione legislativa dello Stato moderno, che proprio tra il XV e il XVI secolo vedrà crescere i propri attributi, compiti, forza militare e repressiva e potere, proprietrio e amministrativo, sui territori definiti sia scala imperiale che nazionale6.

D’altra parte proprio il cristianesimo, nel corso della sua storia, all’epoca già più che millenaria, aveva fortemente contribuito a quella risistemazione socio-culturale su cui avrebbe potuto svilupparsi la società mercantile-capitalistica. Autentica operazione biopolitica che in, qualche modo, già il Romanticismo europeo non aveva mancato di sottolineare e, talvolta, deridere agli albori della Rivoluzione industriale. Come le parole del poeta, e ribelle, tedesco Heinrich Heine possono qui ancora, ironicamente, dimostrare.

C’era un tempo in cui baciavo con fede la mano ad ogni cppuccino che incontravo per strada. Ero un bambino e mio padre mi lasciava fare tranquillamente, sapendo bene che le mie labba non si sarebbero sempre accontentate di carne di cappuccino. E infatti diventai grande e baciai belle donne… Ma esse talvolta mi guardavano così pallide di dolore, e io mi spaventavo nelle braccia della gioia… Qui stava nascosta un’infelicità che nessuno vedeva e di cui ognuno soffriva; e io vi riflettevo. Riflettevo anche su questo: se le privazioni e la rinuncia siano davvero da preferire a tutti i godimenti di questa terra, e se coloro che quaggiù si sono accontentati di cardi, verranno nutriti tanto più abbondantemente di ananassi. No, chi mangiava cardi era un asino: e chi ha ricevuto botte se le tiene.
[…] Forse mi è concesso di riportare qui alcuni fatti banali, per inserire tra le favole che vengo compilando alcune cose ragionevoli o almeno l’apparenza di esse. Quei fatti si riferiscono alla vittoria del cristianesimo sul paganesimo. Io non sono affatto dell’opinione del mio amico Kitzler, che cioè l’iconoclastia dei primi cristiani sia da biasimare con tanta amarezza; essi non potevano e non dovevano risparmiare gli antichi templi e statue, poiché in essi viveva ancora quell’antica serenità greca, quella gioia vitale che al cristiano appariva diabolica. […] Tutto questo piacere, tutte queste risa gioconde sono estinte da lungo tempo, e nelle rovine degli antichi templi continuano sempre ad abitare, secondo la credenza popolare, le vecchie divinità […] La leggenda più originale, romanticamente meravigliosa, narrata dal popolo tedesco è quella della dea Venere che, quando i suoi templi furono distrutti, si rifugiò in un monte misterioso dove conduce una vita fantasticamente felice insieme con i più lieti spiriti dell’aria, con belle ninfe dei boschi e dell’acqua […] Già da lontano, quando ti avvicini al monte, senti risate gioconde e dolci suoni di cetra, che ti avvincono il cuore come una catena invisibile e ti attirano nel monte7.

Certo il riferimento formale è ancora a Venere, così come la stessa Michela Zucca denuncia a proposito delle donne perseguitate come streghe, le cui divinità di riferimento erano travisate oppure misconosciute, ma il significato della forzata rimozione delle divinità e delle credenze locali con quella unica indicata da Santa Romana Chiesa, destinata ad accentrare e regolamentare i comportamenti e l’immaginario, non cambia.

Donne che credono e sostengono di andare di notte al seguito di una signora che cambia il suo nome, spesso identificata da giudici e frati zelanti, infarciti di cultura classica, con Diana, dea latina degli animali e delle foreste, in groppa o insieme a bestie, percorrendo grandi distanze volando, obbedendo ai suoi ordini come a una padrona, servendola in notti determinate, con feste fatte di canti, balli e grandi mangiate, in cui si fa all’amore senza curarsi delle convezioni. Questo – elemento più, elemento meno – il minimo comune denominatore delle confessioni delle streghe. Come i combattimenti fra le nubi, per la fertilità dei campi, contro gli spiriti del male; il cannibalismo rituale; le cavalcate con l’esercito furioso dei morti implacati.
Per un periodo di tempo inimmaginabilmente lungo, secoli, forse anche millenni, matrone, fate e altre divinità femminili, benefiche o mortifere e vendicative, hanno abitato invisibilmente nell’Europa celtizzata. Cacciate via presto, a suon di roghi e benedizioni, dalle città, in cui dominava il clero, hanno continuato a praticare indisturbate sulle montagne, dove sono leaders delle comunità8.

Al di là del fatto che, fino al Concilio di Trento e ancora dopo, gran parte del basso clero era certamente né istruito, tanto meno di cultura classica spesso rimossa dalla Chiesa stessa, né alfabetizzato9, le finalità dell’opera dello Stato e della Chiesa rimanevano inalterate e incontrovertibilmente rivolte alla distruzione delle culture e delle comunità altre, alla drastica riduzione del ruolo che le donne esercitavano al loro interno e alla violenta repressione delle loro, inevitabili, ribellioni.

A tutti i differenti aspetti della vita e della lotta di quelle comunità Michela Zucca dedica i quattro quinti dei capitoli che la compongono e i tre quarti delle pagine dell’opera, suddivisa in quattro parti, intitolate rispettivamente Metodologia di ricerca; La vita quotidiana; Il corpo, la trasgressione, la festa; Il filo rosso della rivolta e La fine dei giochi: repressione e resistenza.
Se i capitoli che costituiscono le ultime quattro parti sono talmente densi, ricchi di informazioni e sollecitazioni che diventa difficile per il recensore riassumerli sinteticamente, ciò che vale la pena di fare in chiusura di questa riflessione su Donne delinquenti, è sottolineare l’importanza delle note metodologiche di ricerca che vengono dettagliatamente e brillantemente esposte nella prima parte.

Il passato esiste solo attraverso la ricostruzione storiografica, e questa, per essere considerata valida, deve rispettare regole precise, che comunque cambiano a seconda del periodo storico e dell’ideologia di riferimento del ricercatore. La storia, quindi, non è verità ricostruita, ma è culturalmente determinata: è una creazione antropologica. Ciò è tanto più vero quanto lo studio di questa disciplina sta lentamente cambiando, trasformandosi da evenemenziale (basato cioè su degli avvenimenti estemporanei, compiuti da “grandi uomini” che “danno una svolta alla storia”) in sociale. In quest’ottica, i dati etnografici e i comportamenti dei popoli diventano fondamentali, così come la mentalità della gente comune, perché sono i veri fattori di evoluzione. E le masse si muovono da protagoniste, anche se tempi e ragioni di cambiamento talvolta si allungano e sfumano, si sovrappongono e si rincorrono in maniera inconcepibile per il nostro sistema di pensiero, che assegna ogni effetto a una causa precisa e circoscritta.
La nuova storia, come d’altra parte l’antropologia e la psicanalisi, indaga su un campo d’azione ben diverso da quello delle attività coscienti e volontarie dell’uomo, orientate verso decisioni politiche chiaramente identificabili. Il suo scopo è scoprire gli elementi non dichiarati che permangono nella cultura di un popolo, il non detto: l’inconscio collettivo, la struttura mentale, che formano la sua totalità psichica, che si impone ai contemporanei senza che questi riescano nemmeno a percepirla. La storiografia antropologica cerca di descrivere la cultura di una comunità, le sue motivazioni di rinnovamento, stasi o, addirittura, regresso, in un’ottica di adattamento alle condizioni ambientali, economiche, politiche, religiose, sociali, che non procedono secondo percorsi lineari e prevedibili. Si delinea così una storia collettiva, che ha per protagoniste le moltitudini, i gruppi, le comunità, che cerca di spiegare il come e il perché della vita stessa degli sconosciuti, e che si traduce in una struttura economico-sociale-culturale che caratterizza gli individui prima ancora che se ne rendano conto.
Le piste spesso sono impercettibili: si parte alla ricerca di impronte quasi evanescenti. Come nell’antropologia classica, è più importante ciò che viene taciuto di quanto viene raccontato. Soprattutto quando si cerca di ricostruire le vicende di individualità più e più volte discriminate: come donne, appartenenti a un “sesso inferiore” di cui però i maschi hanno paura (specie della loro lingua lunga); parte di caste, ceti, classi subalterne, illetterate, che non hanno potuto scrivere e tramandare la propria versione dei fatti nell’unica forma legittimata dalla cultura dominante; oppositrici del potere, di cui a maggior ragione bisogna tacitare la voce; extralegali, delinquenti, che di fatto si mettono contro, e con il loro comportamento e con il proprio corpo si fanno beffe della società costituita dimostrando che un altro mondo è possibile.
In questo lungo lavoro di ricomposizione di una trama di cui sono rimasti solo alcuni frammenti sparsi, bisogna impegnarsi a smascherare – negli atti dei processi, nelle cronache, nei discorsi fatti o scritti dai personaggi illustri, ma anche nei racconti e nelle leggende che si sono salvate dalla distruzione, così come nelle memorie dei “testimoni chiave” delle “storie di vita” – oltre al significato evidente, il senso nascosto, il non detto, ciò di cui nessuno ha parlato, volontariamente o meno, ciò che, coscientemente o no, è stato nascosto, e che invece è necessario decifrare fra le pieghe del poco che ha conquistato il privilegio di essere tramandato.

[…] È difficile raccontare la storia delle culture minoritarie, dei popoli marginali, dei ceti sociali subalterni e, magari, avversari dichiarati e coscienti del potere costituito, della civiltà e dei sistemi di valori dominanti; poiché nel corso dei secoli – e dei millenni – i dottori della legge – di ogni legge scritta – hanno fatto di tutto per distruggerne non solo le tracce, ma anche la memoria. Erano società e comunità di donne (e di uomini) liberi, che vivevano a stretto contatto con la natura e dall’ambiente ricavavano il necessario per vivere e la sapienza per crescere nello spirito. Una razza che una volta occupava gran parte dell’Europa; che in seguito alle invasioni degli eserciti, dei missionari cristiani e dell’economia di mercato ha dovuto ritirarsi nei luoghi più isolati per poter sopravvivere. E che poi lentamente si è estinta, distrutta con una guerra di sterminio durata oltre dieci secoli, alla quale ha opposto una resistenza feroce e disperata.
Per eliminare anche l’aspirazione a un futuro migliore fra i superstiti («Ciò che è già stato può sempre ritornare: sette volte prato e sette volte bosco», recita la Canzone di Santa Margriata, il racconto, in forma mitica, del passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale) era assolutamente necessario cancellare la memoria di quelle antiche genti, imponendo l’idea che – comunque – era sempre stato così, e non avrebbe potuto essere diversamente: le donne sottomesse agli uomini, i poveri ai ricchi. Senza speranza di cambiamento, né, tanto meno, di riscatto10.

Questa, in altre parole, le origini della civiltà “bianca” qui in Occidente, tanto violente, repressive ed oppressive quanto le successive conquiste operate dalla Chiesa, dagli stati e dal capitale nei confronti degli altri continenti e dei popoli che li abitavano. Un’operazione di sterminio, rimozione e imposizione ancora mai finita, fino a quando persisteranno religioni rivelate, patriarcato, capitale e stati centralizzati. Con buona pace di tutti quei perbenisti moderati che credono nella possibilità di riformare il mondo a suon di belle parole e frasi fatte, basate soltanto sulle “evidenze” prodotte dal modo di produzione dominante.


  1. L’Associazione Sherwood nasce nel 2016 e le sue linee di ricerca e di azione riguardano le società egualitarie, le modalità di produzione e riproduzione dei saperi, con un’attenzione particolare ai meccanismi sociali che hanno permesso ad alcune civiltà di sopravvivere e superare le crisi ambientali, rinunciando al “progresso tecnologico”, rispetto ad altre che non sono state capaci di cambiare e sono scomparse. Non ha alcuna fiducia nello “sviluppo sostenibile” (che spesso serve soltanto a sdoganare tipologie di produzione spesso ancor più dannose di quelle che dovrebbe sostituire), ma piuttosto nel fatto che una nuova tecnologia sia possibile: come dimostra il grande salto in avanti realizzato in Europa dall’alto Medio Evo da parte delle comunità che hanno condiviso e messo a frutto conoscenze quali mulini, segherie, frantoi, impianti ad acqua… L’intento è infatti quello di recuperare quel tipo di conoscenze, sul territorio, attraverso il lavoro condiviso, per costruire nuovi modelli di insediamento in grado di sopravvivere, in forme egualitarie, al cambiamento climatico in montagna. Dal 2016 ha dato avvio ad un’attività di Archeotrekking che si occupa di valorizzare i territori montani e la loro storia, troppo spesso ignorata.  

  2. Michela Zucca, Popoli fuori e popoli dentro la storia in Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 28-29  

  3. Basti qui ricordare l’analisi condotta da Roman Rosdolsky nel suo Friedrich Engels e il problema dei popoli «senza storia», Graphos, Genova 2005  

  4. M. Zucca, Premessa a op. cit., p. 11  

  5. Ivi, p. 12  

  6. Si veda: Charles S. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 a oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019  

  7. Heinrich Heine, Gli spiriti elementari (1837) in H. Heine, Gli dei in esilio, Adelphi, Milano 1978, pp. 37-46  

  8. M. Zucca, op. cit., pp. 11-12  

  9. Gli errori e le differenze riscontrabili all’interno dei medesimi testi ricopiati dagli amanuensi di conventi diversi è, per molti studiosi, la testimonianza diretta di un esercito di monaci illetterati che ricopiavano i testi senza comprenderli. Proprio il Concilio di Trento invece, non solo attraverso il rafforzamento della Compagnia di Gesù, avrebbe costretto i chierici, del clero alto e basso, ad una maggiore formazione culturale, teologica e spirituale. Proprio per contrastare una diffusione del Protestantesimo che della diffusione della Bibbia a stampa e dell’allargamento della lettura e della scrittura aveva fatto una delle sue armi più insidiose per la critica della Chiesa romana, dei suoi esponenti e della loro ignoranza.  

  10. M. Zucca, op. cit., pp.17-19  

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Praticare la pigrizia (con impegno) https://www.carmillaonline.com/2020/05/21/praticare-la-pigrizia-con-impegno/ Thu, 21 May 2020 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60120 di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un [...]]]> di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un libro godibile ove: passa in rassegna le modalità con cui si è guardato alla pigrizia nel corso del tempo; opera una ricostruzione semantica del termine pigrizia indagandone derivati, sinonimi e contrari in diverse lingue e culture; prende in esame detti, proverbi, fiabe e romanzi (soprattutto russi) che fanno rigerimento alla pigrizia; si sofferma sul personaggio di Oblòmov di Ivan Aleksandrovič Gončarov e su quello di Bartleby di Herman Melville; esamina la figura del pigro nei fumetti prestando particolare attenzione a Paperino di Disney e a Snoopy dei Peanuts; riflette, infine, su alcune affermazioni di Roland Barthes a proposito della pigrizia.

La pigrizia, sostiene Marrone, non è la manifestazione di un carattere individuale ma un sentimento collettivo, una forma di vita che tendenzialmente si manifesta in reazione – per opposizione o per sottrazione – a quei contesti sociali e culturali in cui il sistema di valori esalta l’operosità, il lavoro, il fare. «Poltrire è rifiutare di agire, considerare l’inazione un obiettivo esistenziale, per resistere a chi vorrebbe farci lavorare, per protestare contro ogni forma di insensato stakanovismo.» (p. 13) Lungi dal “non far nulla”; il pigro si trova a compiere ogni sforzo necessario per riuscire in questo suo intento.

Solitamente a essere contrapposto al lavoro e alle sue retoriche è l’ozio e non la pigrizia. Anche se quest’ultima non se ne allontana granché, resta comunque differente; per certi versi ne consegue e per altri lo anticipa. A seconda di come storicamente è stato concepito il lavoro è stato inteso l’ozio.

Bertrand Russell nel suo “Elogio dell’ozio” (1932) prende di mira l’etica di matrice protestante che indica nel lavoro un dovere sociale denunciando come in ciò sia sottesa  una volontà di sfruttamento e polemizza nei confronti della stessa Russia comunista rea di aver ereditato dal capitalismo occidentale l’etica dell’operosità e dello spirito di sacrificio come realizzazione di sé e non come strumento per guadagnarsi da vivere. Soddisfatti i bisogni indispensabili, sarebbe auspicabile, sostiene Russell, una generalizzata riduzione dell’orario dedicato al lavoro. In linea con una tradizione di pensatori anglosassoni che si confrontano con i disastri dell’industrializzazione, secondo il filosofo inglese è attraverso l’ozio che si possono affermare altre forme di necessità indirizzare alla joie de vivre.

Secondo diverse sfaccettature, apologie dell’ozio si ritrovano in Robert L. Stevenson, Oscar Wilde, Jerome K. Jerome e Gilbert K. Chesterton ma, più in generale, la valorizzazione dell’inoperosità non può essere ricondotta esclusivamente all’ascesa dell’industrialismo. Nella Bibbia il lavoro è una maledizione divina derivata da quel peccato originale che, nel testo sacro, inaugura l’ingiustizia di genere (il dominio dell’uomo sulla donna), quella di specie (il privilegio umano sul resto del creato) e quella sociale (la necessità di ricorrere al lavoro finirà per non riguardare tutti allo stesso modo).

Nell’antichità al negotium si oppone l’otium aristocratico e a proposito delle modalità con cui vengono attribuiti valori o disvalori all’ozio, Marrone passa velocemente in rassegna le posizioni di Cicerone, Orazio, Seneca e Tacito. In ambito cristiano al lavoro come marchio d’infamia si è presto sostituita l’idea del lavoro come rifugio dalle tentazioni prodotte dall’ozio: è qua che trova la sua codifica, pur riprendendo alcuni elementi dalla tradizione greca, la colpa di accidia propria della cultura cristiana.

Se nel contesto medievale l’inattività resta un segno di distinzione sociale, progressivamente il lavoro cambia statuto tanto da necessitare di una nuova definizione e rivalutazione. Di come intendere l’operosità e l’ozio si occupano anche i propugnatori della Riforma protestante e i filosofi dell’utopia come Moro e Campanella. Con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese vengono presi di mira tanto i privilegi degli inoperosi aristocratici quanto coloro che intendono imitarli

«Lavorare è produrre, mettere in circolazione nuove cose, migliorando le condizioni di vita sulla terra senza attendere l’intervento risolutore dell’aldilà. Come diranno gli economisti, il lavoro è strumento di produzione ma anche, e soprattutto, origine del valore dei prodotti, ossia loro trasformazione in merce.» (pp. 28-29) É con la modernità che il lavoro assume stabilmente lo statuto di valore e di pari passo l’ozio diviene un malcostume che, suggerisce lo studioso, altro non è che una forma di accidia secolarizzata: un peccato mortale trasformatosi in disobbedienza civile. Interi sistemi educativi e teorizzazioni economiche e politiche si preoccupano di esaltare l’attivismo in quanto produttore di valore (e valore esso stesso) e di diffondere rancore e condanna verso tale accidia laicizzata. La stessa psichiatria, ricorda Marrone, si presta con solerzia alla medicalizzazione della pigrizia designandola come malattia da curare.

Già Rousseau, nel sottolineare come l’ineguaglianza degli esseri umani derivi dalla divisione sociale del lavoro e dal progresso della civiltà, esalta l’individuo non ancora “civilizzato” in quanto privo delle angosce dell’operosità. Contro le tesi espresse da Charles Fourier, circa la necessità di trasfigurare il lavoro in piacere, di fare del godimento il fine del lavoro, prende posizione Marx che, anziché preoccuparsi della diminuzione delle ore di lavoro (come fa Russell), si pone il problema di porre fine all’opposizione lavoro/riposo, fatica/svago, in modo da eliminare l’alienazione e permettere all’essere umano di «affermarsi come essere sociale libero e sicuro di sé grazie alla propria attività lavorativa». (p. 33)

Agli slogan inneggianti al diritto al lavoro, Paul Lafargue risponde con Il diritto alla pigrizia (1883): proclamare il diritto dell’essere umano al lavoro significa introiettare l’ingannevole morale diffusa e proposta come universale dal cristianesimo e dal capitalismo. «Che vi sia l’obbligo di lavorare solo tre ore al giorno, di fannullare e di fare bisboccia per il resto della giornata e della notte». I lavoratori, sostiene Lafargue, dovrebbero fare propria la pigrizia che contraddistingue la borghesia e la loro voracità consumistica: il lavoro, in sostanza, deve essere proibito, non imposto o autoimposto.

Le cose, sappiamo, sono andate diversamente da come auspicato: il lavoro non è diminuito, il consumo è divenuto un obbligo sociale e la ricchezza ha finito per concentrarsi sempre più nelle mani di pochi. Non è andata meglio all’idea marxiana circa la necessità di porre fine all’opposizione fra lavoro e tempo libero: tutto si è trasformato in lavoro, anche lo spazio del leisure. Negli sviluppi successivi del sistema capitalista si è giunti a una società dei consumi in cui a produrre identità è l’atto stesso del consumo. Il loisir, la bisboccia, il tempo libero hanno finito per coincidere con il consumo e con il lavoro.

Il fancazzismo non è (più) l’esito triste della disoccupazione, una condizione che occorre necessariamente subire, ma un modo d’essere morale e civile rivendicato come una soluzione possibile, nemmeno così angosciosa. E la pigrizia, tutt’altro che diritto condiviso, diviene rivoluzionaria. O almeno da molti viene considerata tale. Da un altro lato, però, quella che è stata chiamata società della prestazione continua risucchiare al suo interno qualsiasi forma di attività, lavorativa o ricreativa. (pp. 39-40)

Marrone puntualizza come concetti come lavoro, ozio e pigrizia necessitino di una contestualizzazione culturale, oltre che storica: non in tutte le culture operosità e inoperosità assumono lo stesso valore, così come gli stessi concetti di progresso, tempo libero, sussistenza e opulenza non vengono significati nello stesso modo. A riprova di ciò lo studioso si sofferma su un paio di casi derivati da culture non occidentali.

Kenkō Yoshida in Tsurezuregusa (Ore d’ozio o Momenti d’ozio, 1330-1332) non contrappone l’ozio al lavoro o al negotium ma alla noia della quotidianità, esplicitando così un rifiuto per la società vissuto dall’interno. Lin Yutang, nel suo Importanza di vivere (1937), confronta il tradizionale distacco dalle cose terrene della cultura cinese con l’american way of life palesando come l’ozio nella prima venga vissuto, ben diversamente che in Occidente, come vivere alternativo al fare; non si tratta di una contrapposizione a un mondo su cui si vuole incidere ma di una particolare immersione in esso per coglierne le potenzialità.

Nel passare in rassegna le definizioni di pigro e pigrizia proposte dai dizionari, Marrone si sofferma su alcune dimensioni che vi si ritrovano: “estesica” (la pigrizia viene associata con la mancanza efficienza, con la lentezza, il torpore); passionale (il pigro è svogliato, indolente, apatico); cognitiva (la pigrizia ha a che fare con la mancanza di volontà, curiosità e interesse); pragmatica (pur essendo lento, apatico e svogliato, il pigro è tutt’altro che inoperoso: egli fa di tutto per non far nulla. Il pigro, pur scansando il lavoro, è a suo modo un gran lavoratore).

Il pigro, che può anche manifestarsi come attore collettivo, non fa quello che gli altri si aspettano da lui, non adempie agli impegni e ai doveri che la società gli impone rinnegando così il suo essere sociale. A scontrarsi sono due sistemi morali: l’azione di resistenza dispiegata dal pigro attraverso il suo non-voler-fare e non-voler-essere nei confronti della società del dover-fare e del dover-essere, «è tanto più potente quanto più è legata alla coscienza dei valori sociali cui egli si sta opponendo, del lavoro che sta a tutti i costi evitando» (p. 62).

Stando ai dizionari, rispetto alla pigrizia, l’ozio sembra aver più a che fare con una chiusura in se stessi che non con una resistenza ai doveri sociali. A differenza dei termini pigrizia e pigro, ozio indica tanto una “condizione”, una “disposizione” d’animo che un lasso di tempo (“prendersi un periodo di ozio”). L’ozio è indicato, inoltre, come inclinazione posseduta dal soggetto prima di ogni situazione intersoggettiva o tendenza sociale che rimanda alla ricerca indiscriminata del piacere che non può che condurre alla dissolutezza. Il termine può riferirsi anche all’inattività e all’inoperosità imposte dall’esterno a scopo punitivo, come nel caso della prigionia, oppure, in accezione positiva, a una situazione di inoperosità vacanziera.

Nel caso del termine accidia, i primi riferimenti proposti dai dizionari rimandano al peccato capitale, pertanto, in questo caso, l’indolenza non è rivolta ai doveri sociali e agli impegni intersoggettivi ma piuttosto al bene nella sua accezione etico-religiosa. A differenza dell’ozio, che può essere circoscritto a un periodo limitato (assumendo valore negativo o positivo a seconda dei casi), l’accidia, il disinteresse per il fare il bene, non è circoscritta nel tempo.

Prendendo in esame il folklore europeo, Marrone nota come questo sia intessuto di disapprovazione nei confronti della pigrizia. Nei modi di dire e nei proverbi, risulta evidente un’inclinazione moralistica volta a ribadire le conseguenze nefaste dell’inoperosità. D’altra parte, si tratta di massime scaturite da un universo contadino che percepisce il lavoro come strumento indispensabile al proprio sostentamento quotidiano, come destino indiscutibile e il sottrarsi a esso comporta sicura sciagura. Al di là delle convinzioni calviniste e dell’efficientismo capitalistico, anche il mondo delle fiabe, soprattutto russe,  è attraversato da un’ideologia utilitarista votata all’operosità in cui si sostiene l’idea di un’esistenza votata alla realizzazione di sé attraverso il buon superamento delle prove che la vita presenta.

In risposta all’ideologia fattiva e avventuriera della fiaba russa il saggio di Morrone propone un approfondimento dell’Oblòmov di Gončarov che rappresenta la rivincita di «chi non si limita a opporre una pigrizia positiva al dinamismo negativo, ma decostruisce pezzo per pezzo l’ideologia su cui tale attivismo si appoggia, mostrandone i limiti, la violenza costitutiva, la malafede» (p. 84). Il protagonista del romanzo di Gončarov non intende sostituire il sistema valoriale con un altro; semplicemente, e radicalmente, si limita a decostruire quello esistente. «È qualcuno che, conservando strenuamente i propri spazi di felicità, ha additato la banalità del fare. La sua è una pigrizia fattiva, una malinconia euforica, una nostalgia del futuro.» (p. 108)

Se di Oblòmov il lettore finisce per conoscere parecchio della sua complessa interiorità, non altrettanto si può dire di Bartleby di Melville, personaggio che non palesa alcuna volontà di non-fare; semplicemente esprime una preferenza: «I would prefer not to». Si tratta di un grado debole di volontà che lascia il lettore di fronte alla sua testarda indeterminatezza che però non cela alcun mistero. Ed è proprio l’assenza di una motivazione profonda ad affascinare e inquietare.

Ecco una nuova versione politica della pigrizia: non, alla Lafargue, la rivendicazione di un programmatico non-lavoro di contro al lavoro alienato del modo di produzione capitalistico, né il dolce far niente di chi del lavoro se ne infischia perché non ha bisogno, né, ancora, l’idea di un ozio creativo di contro al fare meccanico della modernità. Nulla di radicalmente oppositivo, insomma. Nessun volere, nessun controvolere. Piuttosto, l’esasperazione estrema di una preferenza tanto irragionevole quanto caparbia, di un progressivo ritiro dalle cose del mondo, dai suoi valori, dalle sue necessità e dai suoi piaceri. Non è pigrizia? Probabilmente no: è più che altro desiderio di santità, di ascesa all’ascesi, condotta angelica, emulazione di Cristo. Ma comunque, sotto sotto, alla pigrizia assomiglia parecchio. (pp. 111-112)

Nell’esaminare la figura del pigro nei fumetti – Arcibaldo, Mafalda, Garfield, Andy Capp, Homer Simpson… –, Marrone si concentra sulle specificità della pigrizia di Paperino, ben diversa da quella di altri personaggi disneyani, e su quella di Snoopy. Paperino è un pigro che, pur detestando il lavoro, nelle sue storie non fa altro che lavorare nella speranza di poter tornare alla sua amata amaca. «Il riposo è l’oggetto di valore, l’oggetto cercato o al quale vuol tornare; il lavoro lo strumento per ottenerlo, per tornarvi.» (p. 126)

Se per Paperino la pigrizia è un traguardo o un gesto di resistenza rispetto a chi intende farlo lavorare, per Snoopy è invece uno stato acquisito. Il personaggio di Charles Monroe Schulz poltrisce e basta, non ha doveri da scansare, è un pigro puro che avendo tanto tempo a disposizione lo impiega fantasticando: la sua pigrizia risulta produttiva, stimola l’immaginazione che lo porta a vivere mille vite attraverso meccanismi di assimilazione e identificazione. «Né apocalittico né integrato. Forse eroe decadente, ma – inaspettata forma di pigrizia – con lo sguardo rivolto al futuro.» (p. 140)

Nell’ultima parte del volume, Marrone riprende alcune riflessioni di Roland Barthes in cui passa in rassegna varie forme di pigrizia. Secondo il francese il tempo libero non può essere visto come vera e propria pigrizia, come ozio, in quanto esso presuppone il tempo del lavoro. Pigrizia e ozio dovrebbero esser sganciati da ogni presupposizione sociale. «Per ritrovare la pigrizia occorre piuttosto fuoriuscire dalla coercizione del tempo libero, e prospettare un tempo neutro e un’attività a sé stante: […] “a meno che – precisa Barthes – non si sia presi dal desiderio di finire il lavoro”» (pp. 146).

Il francese propone l’esempio del lavoro a maglia nel suo darsi come gesto puramente intransitivo. Altro esempio di pigrizia riuscita è, secondo Barthes, il restare al letto dopo essersi svegliati senza giustificazione, nemmeno di tipo fisiologico. In alternativa a queste pratiche antisociali si può pensare a uno sconvolgimento quotidiano del ritmo dell’esistenza, al frantumare il flusso abituale del tempo attraverso diversivi del tutto gratuiti, improduttivi.

Tuttavia, una per una vera e propria pigrizia, secondo l’autore di Miti d’oggi, ci si potrebbe rifare allo Zen, al suo mirare al dissolvimento del soggetto. «Nella pigrizia, ci dice lo Zen, non c’è più il conflitto perché spariscono, prima ancora che le ragioni del contendere, i soggetti stessi che dovrebbero contendersele» (pp. 148-149). O ancora, continua il francese, per innescare una pigrizia risuscita, si potrebbe ricorrere alla via letteraria: legare il non far nulla alla pratica della scrittura, sul modello di Marcel Proust.

«Essere pigri, secondo questa prospettiva, è appunto, per riprendere la metafora proustiana, essere come la madeleine che si disgrega lentamente nella bocca, che, in quel momento, è pigra. Il soggetto si lascia disgregare dal ricordo, ed è pigro. Se non lo fosse ritroverebbe una memoria volontaria» (p. 149). Da questo punto di vista, la pigrizia durerebbe il tempo della preparazione del romanzo, poi, a questa, succede il tempo della scrittura, del lavoro e lì la pigrizia è obbligata a farsi da parte.

A  proposito di ozio e pigrizia, in conclusione vale la pena far riferimento a un bel saggio di Pablo Echaurren (Duchamp politique, Postmedia Books 2019) dedicato all’artista francese in cui l’autore argomenta come l’ozio praticato da Duchamp sia interpretabile come forma elaborata di rifiuto del lavoro e di rigetto della società capitalistica. Attraverso il suo oziare, appartarsi dalla scena artistico-mediatica, rifugiarsi nel gioco degli scacchi, Duchamp opera una rivolta nei confronti dell’accumulazione. La sua proverbiale inoperosità non è però fine a se stessa ma coincide con la critica di un modus operandi, di un amore per il lavoro che ha intaccato anche il mondo dell’arte, ormai pienamente compromesso con i processi di ottimizzazione tayloristi votati al denaro e a ciò il francese risponde con la sua inoperosità. «Preferisco vivere, respirare piuttosto che lavorare».

Insomma, a maggior ragione in questi tempi di pandemia, in un contesto in cui mentre vengono mandate sugli schermi personalità dello spettacolo per invitare la gente a restare chiusa in casa per evitare il contagio, solerti capitani d’impresa richiamano la nazione al posto di lavoro, sottrarsi alla società della prestazione è un lavoraccio che forse vale la pena di fare con impegno.

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Dylan il trasfigurato https://www.carmillaonline.com/2018/02/01/dylan-il-trasfigurato/ Wed, 31 Jan 2018 23:01:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43025 di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume I (1961 – 1978). Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione, Àncora Editrice 2017, pp. 378, € 26,00 e La Bibbia di Bob Dylan, Volume II (1978 – 1988). Il “periodo cristiano” e la crisi spirituale, Àncora Editrice 2017, pp. 332, € 26,00

E’ un’opera monumentale quella cui ci troviamo di fronte con il lavoro di Roberto Giovannoli da poco pubblicato dalla casa editrice Àncora. E lo è ancora di più se si considera che dovrà essere completata da un terzo volume, previsto per la primavera di quest’anno, dedicato [...]]]> di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume I (1961 – 1978). Dalle canzoni di protesta alla vigilia della conversione, Àncora Editrice 2017, pp. 378, € 26,00 e La Bibbia di Bob Dylan, Volume II (1978 – 1988). Il “periodo cristiano” e la crisi spirituale, Àncora Editrice 2017, pp. 332, € 26,00

E’ un’opera monumentale quella cui ci troviamo di fronte con il lavoro di Roberto Giovannoli da poco pubblicato dalla casa editrice Àncora. E lo è ancora di più se si considera che dovrà essere completata da un terzo volume, previsto per la primavera di quest’anno, dedicato agli anni compresi tra il 1988 e il 2012, che si intitolerà “Un nuovo inizio e la maturità” e comprenderà al suo interno gli indici delle canzoni, degli autori citati, dei temi, dei simboli e dei personaggi oltre a quelli delle Scritture citate in tutti e tre i volumi.

Più ancora che di fronte a un testo sulla presenza della Bibbia nell’opera del premio Nobel per la letteratura, ci troviamo davanti ad un’autentica Bibbia sull’opera di Bob Dylan, poiché per portarla a termine Giovannoli, ricercatore indipendente nel campo dei cultural studies ed autore di numerosi studi sul rapporto tra cultura popolare e cultura “alta”, ha osato fare ciò che nessun altro studioso aveva osato fare: analizzare l’intero corpus dylaniano sia mettendolo in rapporto con le sue radici popolari e dotte, sia andando ad identificare ogni possibile riferimento (frasi, canzoni, testi sacri) da cui il menestrello di Duluth ha tratto spunto per i suoi testi.

Una simile operazione era stata svolta in maniera sistematica soltanto da Greil Marcus nel suo Invisible Republic –Bob Dylan’s Basement Tapes nel 1997,1 che però si occupava esclusivamente delle circa 130 canzoni, scritte o rielaborate da Dylan e dai membri della Band durante il primo allontanamento dalle scene nel 1967, da cui sarebbero state poi tratte quelle che avrebbero dato vita nel 1975 all’omonimo album: The Basement Tapes.

Sempre Greil Marcus aveva scavato a fondo in una singola canzone di Dylan, Like a Rolling Stone, in un altro suo testo,2 ma nonostante le numerose opere dedicate all’autore americano, in Italia e all’estero, nessuno aveva mai osato spingersi così lontano e così in profondità nell’esegesi dell’opera dylaniana.

Come afferma Alessandro Carrera, un altro importantissimo studioso dell’opera di Dylan, 3

“Questo libro di Renato Giovannoli […] è una cosmologia di riferimenti, agganci, colpi di sonda, esplorazioni, ipotesi e dimostrazioni che stringono l’intera opera di Dylan in un solo covone, legato troppo bene per essere portato via da qualunque colpo di vento. Tante introduzioni sono possibili a Dylan; musicali, poetiche, sociologiche, politiche. Ma la Bibbia è l’accesso privilegiato, e questa mia premessa alla più generale introduzione articolata da Giovannoli non ha altro scopo se non inquadrare la religione secondo Dylan nel contesto dell’immaginazione spirituale della sua terra, in relazione ai tempi e al clima culturale che lo hanno formato come artista. Per l’esplorazione vera e propria, avrete a disposizione la mappa/territorio che Giovannoli ha approntato – un’opera unica, mai tentata finora in nessun’altra lingua, e che sarà molto difficile, se non impossibile, eguagliare.”4

Non a caso Carrera incrocia immaginario americano e religione, poiché se vi è una cultura che fin dalle sue origini, nel bene e nel male, sia a livello popolare che “colto”, è stata influenzata dalla narrazione biblica questa è stata sicuramente quella dell’America Settentrionale. In cui la data più appropriata per indicare simbolicamente il tempo dell’arrivo delle Sacre Scritture sembra essere quella dell’11 novembre del 1620, quando i Padri Pellegrini imbarcati sulla Mayflower, una nave partita da Plymouth in Inghilterra due mesi prima, sbarcarono erroneamente sulle coste del Massachusetts, essendo in realtà diretti verso la prima colonia del Nord America, Jamestown in Virginia fondata nel 1607.

Si trattava di rigidi puritani che si proponevano di purificare il culto della chiesa ed erano del parere che non bastasse separarsi dalla Chiesa di Roma, ma che si dovesse eliminare ogni traccia del cattolicesimo romano.
Perseguitati sia sotto il regno di Giacomo I Stuart che, successivamente, in Olanda, dove inizialmente avevano trovato rifugio, decisero di lasciare l’Europa e di iniziare una nuova vita in Nord America. Da qui è facile comprendere come il discorso biblico della Terra Promessa, e successivamente del Popolo eletto, avrebbe finito con l’influenzare le comunità che andarono istituendosi lungo le coste dell’Atlantico.

Anche se tale discorso finì troppo spesso col costituire una giustificazione per le prevaricazioni e le violenze nei confronti dei nativi americani, delle donne, degli schiavi africani là deportati e di tutti i rappresentanti delle ondate migratorie successive non appartenenti al gruppo WASP (White-AngloSaxon-Protestant), va però compreso come tale promessa di realizzazione collettiva ed individuale in una terra libera dalle catene dell’Ancien Régime finisse col tracimare all’esterno della cultura “bianca” e benestante dei commercianti e dei possidenti terrieri ispirati dal calvinismo, per cui l’accrescimento delle ricchezze collimava con il progetto divino di premiare i migliori, e riversarsi anche nell’immaginario degli strati più umili e non solo bianchi della popolazione.

Il gigantesco serbatoio mitopoietico della narrazione biblica, costituito da eroi, profeti, re, fughe dalla schiavitù, malvagi, guerre, traditori, donne dissolute, popoli in cammino nel deserto, vendette, punizioni divine, sacrifici, fede, promesse di salvezza, demoni, sepolcri, cadute dal Paradiso terrestre, redenzioni, diluvi e visioni apocalittiche ed ultramondane fornì quindi un materiale immenso per le narrazioni, le poesie, le canzoni, le ballate e gli insegnamenti per un popolo ancora disperso lungo le pianure del Midwest o della Valle del Missouri. Dalle Montagne Rocciose al Mississippi e alle piantagioni del Sud dove, spesso, padroni e schiavi, privati della loro iniziale identità culturale, finivano con l’attingere ispirazione dalla stessa fonte. Motivo per cui ancora oggi i membri del Tea Party e gli afroamericani appartenenti alle differenti congregazioni religiose possono far riferimento, da sponde opposte e con obiettive diversi, agli stessi inossidabili versetti.

Così mentre i contenuti illuministici della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione americana sembrarono rimanere relegati alla Costa orientale, lungo la quale si erano diffusi tra i nuovi ceti borghesi, la Bibbia accompagnò gli spostamenti verso Ovest in un contesto in cui la cultura era ancora prevalentemente orale e le forme giuridiche della società traevano ancora spunto dalla consuetudine più che dal diritto scritto. In un contesto naturale e geografico in cui l’uomo bianco cristiano sarebbe andato incontro ai suoi demoni e a quelli suscitati in lui dalle poche letture che si sarebbe portato dietro.

Che poi, di volta in volta, il testo delle Scritture e il significato stesso delle parole potesse essere piegato o storpiato per motivi di interesse o di scarsa comprensione (talvolta anche e banalmente linguistica) non impedì al testo biblico di liberarsi dall’esegesi di carattere religioso per farsi carne e sangue di una cultura umile, rigida e condivisa in cui, probabilmente, a trionfare fu spesso il dio vendicativo del Vecchio Testamento più che quello della salvezza dei vangeli. Motivo per il quale, nella stessa, rimase costante la presenza della morte, del castigo e della lontananza, forse dell’impossibilità, del perdono e della salvezza se non per i pochi predestinati. Una visione drammatica del destino individuale di cui molte canzoni popolari statunitensi costituiscono ancora la testimonianza.

Forse anche per questo, come ebbe a dire D.H. Lawrence: “Nella sua essenza, l’anima americana è dura, solitaria, stoica e assassina. Finora non si è mai ammorbidita”. Lo prova tutta la grande letteratura statunitense. Dal capitano Achab di Melville ai fantasmi di Edgar Allan Poe (rispetto ai quali i fantasmi europei di Horace Walpole sembrano i personaggi di un innocuo racconto per ragazzi), fino alle inquietanti storie di Nathaniel Hawthorne e ai mostri di H.P. Lovecraft oppure al vitalismo impregnato di morte di Hemingway e alle violente, e prive di speranza, storie western di Cormac McCarthy.

Ma anche nella popular music, da Hank Williams a Elvis Presley, dagli spiritual a Johnny Cash, dal gospel e dal blues a Bob Dylan, dalla musica soul alle murder ballads dell’Ottocento e del Novecento, non vi è ambito che non sia stato in qualche modo investito da quella tradizione. Motivo per cui Dylan, come autorevole rappresentante della cultura americana del ‘900, non ha potuto né tanto meno si è mai sognato di sfuggire a quel pressante imperativo della cultura popolare.

Bob Dylan, vero nome Robert Allen Zimmerman, è come tutti sanno di origini ebraiche ed è chiaro che per molti versi la narrazione biblica del Vecchio Testamento appartiene forse più a quella cultura che non a quella cristiana, ma più che questa supposta, e mai chiarita, vicenda dell’influenza religiosa sulla famiglia Zimmerman,5 certo è che fin dai suoi primi anni il giovane futuro poeta e cantore è stato immerso nella cultura proletaria e provinciale della piccola città del Minnesota che gli ha dato i natali, dove ancora nel 1920 erano stati linciati tre afroamericani accusati dello stupro di una donna bianca (con successiva e relativa vendita della cartolina ricordo dell’evento qui riprodotta). L’incontro non ancora ventenne con la musica di Leadbelly e successivamente dei neri americani e dei folk singer bianchi ha poi fatto il resto. Di cui il lettore potrà trovare tutti i percorsi e le tracce nella dettagliatissima ricerca e ricostruzione filologica condotta da Giovannoli.

Se questa costituisce la parte più copiosa e rimarchevole del testo, ce n’è un’altra, che si sviluppa proprio a partire dalla sua “conversione” dichiarata al cristianesimo evangelico, altrettanto utile per comprendere ed inquadrare quella che è e rimane una delle figura più contraddittorie e sfuggenti della musica e della cultura, non più soltanto popular, americana.
Ed è ancora una volta Carrera ad introdurla quando, ricordando le stesse parole di Dylan a proposito della sua repentina, conversione alla fede cristiana, parla di trasfigurazione ovvero di rinnovamento totale, spirituale e fisico, del neo-convertito. Che dopo essere stato battezzato nel gennaio del 1979, si iscrisse ad un corso trimestrale di lettura biblica in una chiesa di Reseda, in California. “Avevo sempre letto la Bibbia, ma per me era letteratura. Non ero mai stato istruito in maniera tale che per me divenisse significato”, avrebbe ancora affermato in seguito.6

La trasfigurazione nel discorso biblico ha direttamente a che fare che la rivelazione del carattere divino di Gesù agli Apostoli, ma serve anche benissimo a chiarire, credo sinceramente e una volta per tutte, il vero segreto del peregrinare musicale e personale di Dylan. Dal suo incontro col rock’n’roll di Buddy Holly quando non è ancora diciottenne ai dischi di Leadbelly che lo condurranno verso Woody Guthrie e gli altri eroi del folk americano; dalla scoperta del comunismo attraverso la famiglia militante di Suze Rotolo (la ragazza fotografata insieme a lui sulla copertina del suo secondo album Freewheelin’ Bob Dylan) alla rinuncia al suono acustico a favore di quello elettrico che lo farà andare incontro alle ire di Pete Seeger e dei suoi fan tra il 1965 e il 1966. Dalla riscoperta della country music di Nashville attraverso l’amicizia con Johhny Cash alla zingaresca carovana della Rolling Thunder Review che lo vedrà andare ancora in tour con Joan Baez, Ramblin’Jack Elliott, Allen Ginsberg e Sam Shepard (solo per citare alcuni dei comprimari di quella storia) in una sorta di riscoperta dei Medicine Show dell’Ottocento e del vagabondare dei Beat degli anni cinquanta. Dalla riscoperta della musica nera, in tutte le sue forme o quasi, all’attuale passione per il grande American Songbook degli anni Trenta e Quaranta e la senile passione per l’interpretazione delle canzoni di Frank Sinatra.

All’interno di questa storia di continue, vertiginose e inaspettate mutazioni, la vicenda della conversione religiosa tra il 1978 e il 1981 è sicuramente centrale. Da questo punto di vista il cofanetto di 8 cd recentemente pubblicato dalla Sony nella Bootleg Series, di cui costituisce il tredicesimo volume, è particolarmente utile per comprendere l’impeto, la passione, la forza creativa con cui Dylan affrontò questa ennesima e centrale trasformazione. Poiché è proprio attraverso le riprese dei concerti dal vivo tenuti in quel periodo, contenute nel film-documentario Trouble No More che accompagna il cofanetto dallo stesso titolo, è possibile vedere, sentire , comprendere quella autentica energetica e vitale trasfigurazione che accompagnò quel momento.

“Dylan ha attraversato una fase di attivismo predicatorio nel biennio 1979-1980, quando i suoi spettacoli erano diventati una successione di canzoni, prediche e invettive nella più pura tradizione dei preacher afro-americani degli Stati del Sud, che sono pastori e performer allo steso tempo.[…] Il quietismo non è mai stato parte di ciò che Dylan è, qualunque cosa Dylan sia, ma molte altre fasi sono seguite, caratterizzate da un uso a volte confuso ma sul lungo periodo sempre più consapevole, sottile, spesso poeticamente e teologicamente polivalente, delle fonti bibliche e del loro uso nella tradizione musicale americana. E’ qui che abbiamo bisogno dell’aiuto di Renato Giovannoli” 7

Giovannoli ci guida infatti in un’autentica Biblioteca di Babele folk-rock-blues-gospel in cui il fraseggio biblico si accompagna alle voce delle coriste afro-americane che accompagnarono Dylan durante le tournée di quegli anni e al fraseggio delle chitarre elettriche che sottolineavano brani come Solid Rock oppure al suono dell’organo Hammond che sottolinea i versi di Slow Train o Gotta Serve Somebody.

E allora si comprende che tutto il percorso di Dylan è il frutto di una continua trasfigurazione, in cui tutto cambia: le canzoni, la voce, l’aspetto fisico dell’ex-menestrello. Non per calcolo, ma per autentico cambiamento, in cui il protagonista è trascinato da una forza più grande, che di volta in volta si manifesta sotto forma di autentica passione: per il rock’n’roll, la musica nera, il folk, la spiritualità del gospel e del soul, la voce di Sinatra o le parole di Woody Guthrie, ma che ogni volta Dylan deve fare completamente sua per poi esaurirla e passare ad altro. Like a Rolling Stone, come una pietra che rotola.

Ecco allora anche la spiegazione del suo rifiuto di interpretare sempre le stesse canzoni e allo stesso modo (magari quello desiderato dai fan), la sua noia nei confronti dei giornalisti, dei critici e di tutti coloro che lo vorrebbero inquadrato una volta per tutte in un clichè. Da cui rifugge da sempre non come poseur, per snobismo o per amore della trasgressione, ma per semplice desiderio di ricerca e di cambiamento. Mai sazio. Mai finito. Mai definitivamente soddisfatto.

Conscio, come si coglie ancora dal testo in questione, di avere un destino da compiere. Come Dylan stesso ha affermato in un’intervista rilasciata a Ed Bradley della CBS, il 5 dicembre 2004: “E’ la sensazione si sapere di sé stessi che nessun altro sa, di sapere che quell’immagine di te che hai mente si realizzerà. E’ una cosa da tenere per sé, perché è una sensazione fragile, Se la si mette in mostra, qualcuno la ucciderà”8

Verrebbe da dire di Dylan ciò che Glenn Gould, altro genio sfuggente, ebbe a dire di Richard Strauss: “un uomo che arricchisce la propria epoca perché non le appartiene e che parla per ogni generazione perché non si identifica con nessuna”.9 Mentre questa sua inafferrabilità lo avvicina ai personaggi del Mito, che lui stesso ha per così tanto tempo impiegato e rimaneggiato nelle sue canzoni, sempre inavvicinabili e mai completamente comprensibili se non per un simbolo forte e sempre riconoscibile: nel suo caso la canzone popolare in tutte le sue possibili declinazioni.

Vorrei, alla fine di questo excursus, ringraziare sinceramente non soltanto l’autore ma anche la casa editrice Àncora per la coraggiosa scelta di pubblicare un’opera fino ad oggi impensabile, mettendo a disposizione del pubblico una ricerca utilissima per tutti coloro che non solo vogliano avvicinarsi al “mistero” Dylan, ma più in generale ad una migliore, meno superficiale e meno scontata conoscenza della cultura americana. Popolare e non.


  1. Tradotto in Italiano come Bob Dylan. La repubblica invisibile, Arcana Editrice 1997  

  2. Greil Marcus, Like a Rolling Stone. Bob Dylan at the Crossroad, 2005, tradotto in Italia come Like a Rolling Stone, Donzelli 2005  

  3. Alessandro Carrera è professore di Italian Studies e di World Cultures and Literatures all’Università di Houston, in Texas, e ha tradotto per Feltrineli tutte le canzoni di Dylan nel monumentale Lyrics in tre volumi (2004 – 2016 – 2017), il primo volume delle Chronicles (2004) e revisionato la traduzione di Tarantula (2007) sempre di Dylan, pubblicati dalla stessa casa editrice, oltre ad aver pubblicato, sempre per Feltrinelli, La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America (2001). Ha inoltre curato un’antologia di articoli e saggi, Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan, pubblicato da Interlinea Edizioni nel 2008 e l’edizione italiana della Nobel Lecture di Dylan ancora per Feltrinelli nel 2017  

  4. Alessandro Carrera, Bob Dylan e la religiosità americana, saggio introduttivo a Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan, Volume I, pp. 7- 8  

  5. Lo stesso Dylan avrebbe affermato in un’intervista rilasciata nel 1978: “Non mi considero né ebreo né non ebreo. Non ho una formazione ebraica. Non prendo partito per nessun atto di fede. Credo in tutti e in nessuno”. Cit. in A.Carrera, Bob Dylan e la religiosità americana, pag. 10  

  6. Cit. in A. Carrera, op. cit. pp. 11-12  

  7. Alessandro Carrera, op. cit. pag.19  

  8. Citata in A. Carrera, op. cit. pag. 8  

  9. cit. in Mario Bortolotto, Equivalenze puritane, prefazione a Glenn Gould, L’ala del turbine intelligente. Scritti sulla musica, Adelphi 1988 (ottava edizione 2013), pag. XXII  

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Silence, di Martin Scorsese: perché!? https://www.carmillaonline.com/2017/01/26/silence-martin-scorsese-perche/ Wed, 25 Jan 2017 23:03:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36192 di Mauro Baldrati

SilenceSi dice: la fede. Qui nessuno si sogna di mancare di rispetto alla religione, cattolica, ebraica o islamica che sia. Ma un conto è la preghiera, la trasfigurazione dell’energia attraverso il mantra (anche le preghiere cattoliche dei vespri sono un mantra), un altro è usare la religione per la guerra e il terrorismo. E un conto è prendere la religione per girare un film come questo. Leggiamo qua e là che Silence è un’opera complessa sulla religione affrontata da varie angolazioni: il dubbio della fede, una certa arroganza [...]]]> di Mauro Baldrati

SilenceSi dice: la fede. Qui nessuno si sogna di mancare di rispetto alla religione, cattolica, ebraica o islamica che sia. Ma un conto è la preghiera, la trasfigurazione dell’energia attraverso il mantra (anche le preghiere cattoliche dei vespri sono un mantra), un altro è usare la religione per la guerra e il terrorismo. E un conto è prendere la religione per girare un film come questo. Leggiamo qua e là che Silence è un’opera complessa sulla religione affrontata da varie angolazioni: il dubbio della fede, una certa arroganza di chi si considera depositario della Verità, il coraggio di fare una scelta che esuli da se stessi per cercare il bene altrui.

Con la tecnica della scrittura giornalistica non è difficile trovare variabili e dinamiche in un film, o in un testo. Qualche forzatura nei punti più deboli, il gioco dei simboli, colpi di luce negli angoli bui e la recensione è pronta. Un film debole si carica di forza, un altro piatto e noioso diventa ricco di sorprese e di metafore. C’era uno scrittore che si divertiva a confezionare due recensioni di una stessa opera: una positiva e una negativa. Entrambe erano credibili. Si chiama mestiere.

Così, giocando su elementi perlopiù teorici, si può parlare di Silence come di un film di tutt’altra natura rispetto a quella reale: quando invece si tratta di un pachiderma che schiaccia lo spettatore sotto una cappa di prediche, di dialoghi teologici, di sacrificio per la fede, di voglia di essere punito, di “perdonami perché ho peccato”. Anche la mimica è pedante e scontata: i giapponesi cristiani si commuovono quando vedono i “padri”, con lacrime, mani giunte, suppliche di essere confessati e assolti. Così dobbiamo contemplare questi lunghissimi, primissimi piani di devoti che guardano il cielo e piangono, mentre i due frati li consolano, li accarezzano.

La trama è nota, come per tutti i blockbuster: nel ‘600 due frati gesuiti partono per il Giappone alla ricerca di un confratello, che è stato il loro maestro, del quale si sono perse le tracce. O meglio, pare che sia diventato un apostata, ovvero che abbia rinnegato la fede cristiana. Arrivano nella terra misteriosa, un’isola chiusa al mondo (a parte il commercio con gli olandesi, gli unici ammessi) e per tutto il film cercano di sfuggire alla persecuzione contro i cristiani. Le autorità imperiali infatti vogliono estirpare le radici stesse del cristianesimo, perché non attecchisca nella loro terra. Seguono scene di esecuzioni, torture, tutto per obbligare i fedeli ad abiurare, calpestando un’immagine sacra.

Le sequenze sono girate con maestria, (e come potrebbe essere il contrario con Scorsese), ma quanta poca tensione, persino nei roghi, negli annegamenti, quanto controllo filtrato dall’unica esigenza che pare muovere il regista: dichiarazioni di fede, sofferenza cristiana, invocazioni a Dio perché metta fine al suo silenzio, per poi concludere che “è nel silenzio che riposa la Tua voce.” Fino ad arrivare in una delle ultime sequenze, quando il padre, messo di fronte all’immagine sacra da calpestare, dilaniato dal dubbio se farlo per salvare altre vite o restare coerente fino alla morte (sua e degli altri), riceve finalmente un messaggio di Dio. Cioè, Dio gli parla con voce umana, gli dice cosa fare, come in Don Camillo. Senza scherzi.

Viene da chiedersi perché Scorsese abbia girato un film come questo. Una conversione? Oppure, come è probabile, è sempre stato un cattolico fervente? Nulla di strano, ma perché imporre con un tale integralismo la propria fede in un’opera, sacrificando ogni stile, ogni ritmo, ogni tensione? Ci chiediamo se il regista produttore del magnifico documentario sul blues sia la stessa persona. Viene da arrabbiarsi, anche con se stessi, perché di questi tempi nei quali l’avventura e la fiction possono transitare bruscamente nel manierismo e nel didascalico senza mediazioni, non è più possibile, per lo spettatore, affrontare un’opera senza documentarsi prima con puntiglio, per evitare il “pacco”, che è sempre in agguato, anche da parte di autori che stimiamo.

All’inizio, quando parte il viaggio alla ricerca del padre apostata, è inevitabile evocare Apocalypse Now. Il padre scomparso come Kurz. Ma quando finalmente avviene l’incontro, quanta poca tensione, quanta epica sbrigativa.

Beh, forse evocare il film di Coppola in fondo non è del tutto sbagliato: infatti è davvero l’apocalaypse, qui e ora; ma dello spettatore.

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Agonia di una civiltà https://www.carmillaonline.com/2015/02/28/plaidoyer-pour-la-france/ Fri, 27 Feb 2015 23:01:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20898 di Sandro Moiso

Cioran-sulla-FranciaEmil Cioran, Sulla Francia, Voland 2014, pp. 110, € 13,00

Non è un autore molto frequentato Emil Cioran, soprattutto negli ambienti della sinistra antagonista. Ed è facile capirne il perché: amico di personaggi come Mircea Eliade aveva fatto parte, negli anni che avevano preceduto il secondo conflitto mondiale, della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, un movimento anti-semita, filo-nazista e ultra-reazionario che si era sviluppato tra gli anni venti e trenta nel suo paese d’origine, la Romania.

Però, il libro in questione, prima traduzione italiana a cura di Giovanni Rotiroti di un manoscritto del 1941 dimenticato per [...]]]> di Sandro Moiso

Cioran-sulla-FranciaEmil Cioran, Sulla Francia, Voland 2014, pp. 110, € 13,00

Non è un autore molto frequentato Emil Cioran, soprattutto negli ambienti della sinistra antagonista.
Ed è facile capirne il perché: amico di personaggi come Mircea Eliade aveva fatto parte, negli anni che avevano preceduto il secondo conflitto mondiale, della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, un movimento anti-semita, filo-nazista e ultra-reazionario che si era sviluppato tra gli anni venti e trenta nel suo paese d’origine, la Romania.

Però, il libro in questione, prima traduzione italiana a cura di Giovanni Rotiroti di un manoscritto del 1941 dimenticato per decenni tra le carte depositate presso la Bibliothèque Jacques Doucet, può rivelarsi molto interessante ed utile per rivedere alla luce di un suo importante teorico la teoria della decadenza della civiltà e coglierne tutte le subdole conseguenze ideologiche e politiche. Soprattutto1 in momenti, come l’attuale, in cui i rischi connessi all’esplodere di crisi economiche e militari sempre più virulente e devastanti sembrano aver messo in crisi gli equilibri raggiunti nel secondo dopoguerra e l’opulenza e la sicurezza delle società europee.

Una nazione raggiunge la grandezza solo se guarda al di là delle sue frontiere, odiando i propri vicini e volendo soggiogarli. Essere una grande potenza significa non ammettere valori paralleli, non sopportare vita accanto a sé, imporsi come senso imperativo e intollerante […] Un tempo, dai villaggi francesi scaturivano energie debordanti, forze avide di gloria… Oggi, l’aratro è noioso, le fattorie intorpidite, il lavoro senza fascino” (pp.79-80)

Mentre scriveva queste righe, Cioran si trovava a Parigi, che aveva raggiunto nel 1937 ufficialmente con una borsa di studio per approfondire gli studi su Bergson, e nella primavera del 1941 aveva fatto parte della Legazione romena di Vichy. Tra il 1940 e il 1941 era anche ritornato tempestivamente in patria per onorare alla radio di Bucarest la memoria del “Capitano” Codreanu, ucciso dal governo di re Carlo II di Romania nel 1938.2

Da un anno le truppe tedesche avevano invaso e sottomesso la Francia, marciando per i viali di Parigi nel giugno del 1940. E’ chiaro il raffronto che passa nella testa del trentenne Cioran: le nazioni giovani e forti sono quelle che invadono e sanno soffrire, che sanno donarsi ad una causa. Come affermerà nella sua “esaltazione di uno scettico” in memoria di Codreanu: “Dinanzi al Capitano nessuno restava indifferente. Il paese era stato attraversato da un nuovo brivido […] La sofferenza diventa il criterio della dignità e la morte quello della chiamata. In pochi anni la Romania ha conosciuto una tragica pulsazione, e la sua intensità ci consola della vigliaccheria per mille anni di non storia”.3

Sacrificio, morte e rigenerazione stanno alla base del pensiero di Cioran e dove questi elementi non convivono allora, sembra dire, non vi è che il non senso e la decadenza. Non ci sono alternative: conquista e morte oppure decadenza e mancanza di vitalità. Ipotesi che avvicina il pensatore rumeno non soltanto ai fanatici del sacrificio e del massacro operanti nell’ISIS, ma un po’ a tutti coloro che nel sacrificio per la nazione, sia essa borghese o socialista o nazionalsocialista, vedono l’unica possibilità di rigenerazione della società.

Ma, anche, a coloro che, come Michel Houellebecq, guardano con timore alla perdita di identità della Francia o dell’Europa a favore dei nuovi venuti, di religioni diverse e culture altre che non tengono conto dei valori affermatisi nel vecchio continente fin dalla Grande Rivoluzione e dalle conquiste (guarda caso) napoleoniche. “Due volte – nella sua storia- la Francia ha raggiunto la grandezza: all’epoca della costruzione delle cattedrali e al tempo di Napoleone” (pag.31)

Le basi della Grandeur per Cioran stanno tutte lì: nel cristianesimo e nelle conquiste territoriali. Religione ed espansione. D’altra parte anche Codreanu, prima di dare vita alla sua Legione, aveva contribuito a fondare, nel 1923, la Lega per la Difesa Nazionale Cristiana. Il sogno nazionalista è già tutto racchiuso in quei due fattori.

La veduta delle grandi dissoluzioni ci intossica e ci indurisce. Il veleno abbatte la nostra fiera costituzione, ma la volontà di non perire provoca la reazione” (pag.87) Così che gli avversari di oggi o di ieri assomigliano sempre di più ad immagini specularmente rovesciate e riflettentisi l’una nell’altra. Ed è proprio questo che si tarda a capire, da troppo tempo. Anche se un’attenta lettura del breve testo di Cioran ci può aiutare a comprenderlo un po’ di più.

Il compianto del filosofo rumeno, ancora fresco di ferree emozioni, per una Francia che successivamente gli permise di riciclarsi negli ambienti esistenzialisti ed intellettuali, sta quasi tutto all’interno del pensiero borghese, perbenista e nazionalista, che rimpiange le proprie origini “eroiche”. Così, prima di procedere oltre, almeno questo occorre rilevare: Céline fu odioso per il suo antisemitismo, ma mai smise di denunciare, anzi di gridare, il suo odio per la guerra, il militarismo, il colonialismo e la doppiezza della borghesia e della sua presunta cultura ed intellettualità. Mentre Cioran, nel compiangere il tramonto di una civiltà e di una cultura ne esalta sia le forme accademiche e distaccate che il ben più rozzo sogno militarista di conquista .

Il primo non fu mai perdonato, pur essendo uno dei più grandi scrittori francesi del ‘900, mentre il secondo, insieme ai suoi compari, poté facilmente riciclarsi, nella cultura della Francia dei decenni successivi, in qualità di “filosofo del tragico”. Una questione, insomma, non solo di di forma, ma anche, come spesso accade, di sostanza.4

Si confronti “Cosa ha amato, la Francia? Gli stili, i piaceri dell’intelligenza, i salotti, la ragione, le piccole perfezioni. L’espressione precede la Natura. Siamo di fronte a una cultura della forma che ricopre le forze elementari e che, sopra ogni impulso passionale, stende la vernice elaborata della raffinatezza” (pag.24) con “Napoleone […] ha saputo dare un contenuto imperialista alla loro vanità, chiamata anche gloria” (pag.33). Ecco il rimpianto vero per la Francia: quando sapeva e poteva essere imperialista.

E l’impressione è che, ancora oggi, nelle pagine del libro ultimo di Houellebecq come nelle piazze d’oltralpe del dopo Charlie, la questione vera sia quella, così come per l’identità vera di cui buona parte dei francesi che votano per Marine Le Pen sente l’assenza. “La decadenza non è altro che l’incapacità di creare ancora, nella cerchia di valori che la definiscono” (pag.33) I valori borghesi su cui la Francia ha costruito la sua identità nazionale e perciò formale non trovano più riscontro nella realtà. Si finge che siano altri a negarli, quando in realtà si sono negati da sé…ammesso che siano mai stati davvero universali.

L’eguaglianza formale sul piano del diritto, la generica libertà individuale…già i cartisti inglesi del primo ottocento, preceduti da Rousseau, avevano capito che tali diritti non sarebbero mai stati di sostanza finché fosse sussistita la diversità sostanziale tra chi ha e chi non ha. Discorso saltato a piè pari oggi sia da chi afferma l’unità della umma5 come da chi dà per scontato che i diritti siano già uguali per tutti (di parola, di stampa, di espressione, di lavoro, di scelta, etc.), là dove manca l’uguaglianza reale: quella economica.

Inoltre “La Francia – come l’antica Grecia – […] sono gli unici due paesi che hanno utilizzato il concetto di barbaro, come caratterizzazione negativa dello straniero – esprimendo, in fondo, nient’altro che il rifiuto di una civiltà ben definita di aprirsi al nuovo” (pag.34) Qui Cioran, probabilmente, vuole sentirsi barbaro, così come lo dovevano sentirsi orgogliosamente i conquistatori dell’antica Roma o di Parigi nel giugno del 1940. Ma ciò non toglie che quel sentimento faccia parte, in questo caso per i francesi e dei loro ammiratori e sostenitori, della nostalgia per l’identità perduta. Quella che permetteva di distinguersi dai barbari appunto.

Decadenza significa […] non avere più anima. E’ il caso della Francia” (pag.48) Qui è ancora il barbaro Cioran, fascista tutt’altro che pentito, che guarda alla patria di Cartesio e si compiace della sua decadenza, a favore della novella barbarie nazista. ”Dopo aver verificato l’utilità o l’inutilità dei principi della Rivoluzione, quale nuovo contenuto potrei ancora attribuirle? […] La più grande rivoluzione moderna finisce come una paccottiglia dello spirito […] Potrebbe ancora servire alla patria? ” (pag. 46)

Una rivoluzione che non serva alla patria è inutile. Ecco il punto. Per questo i senza patria non hanno nulla a che spartire con le rivoluzioni che esaltano gli stati, le religioni e i partiti nazionalisti; anche con quelle che volevano costruire il socialismo in un solo paese, trasformando così anche il sogno proletario in una nuova e categorica religione nazionale. Forse è giunta l’ora di abbandonare l’ideale rivoluzionario statalista e giacobino, che ha erroneamente fondato tutte le rivoluzioni socialiste del ‘900, trasformandole, tutte indistintamente, in null’altro che ripetizioni, spesso mal riuscite, della rivoluzione nazionale borghese.

Cosa che ci costringe a riflettere su un’altra questione: se saltano i valori borghesi e della rivoluzione che li ha fondati esiste davvero solo la decadenza? Oppure la specie umana dovrà promuovere valori altri, rispetto a quelli fondati dalle religioni, dai nazionalismo, dagli imperialismi, dal capitale e dalla sua classe dirigente? Non dovrà forse il comunismo o l’organizzazione sociale futura distruggere anche i valori del pensiero e della società borghese, promuoverne e curarne la decadenza, per liberare davvero l’umanità intera?

Per un reazionario nichilista ed ultra-conservatore come Cioran la fine dei valori della società borghese per una nazione come la Francia, una volta finita l’epoca “eroica” delle conquiste, poteva significare soltanto due cose: l’ergersi all’orizzonte di una nuova potenza (la Germania di Hitler) oppure la decadenza e la fine della civiltà, in una visione totalitaria e tutt’altro che dialettica del divenire storico.

Mentre per chi crede nel superamento della società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’accumulazione di profitti, anche il superamento del diritto formale borghese e delle sue illusioni, comprese quelle religiose, è inevitabile e necessario. Cosicché spiarne l’agonia significa anche individuare i fattori del suo tramonto.

Poiché, per la maggior parte dell’umanità e sempre più per i lavoratori, oggi non esiste ancora libertà d’espressione. Non esiste uguaglianza davanti alla legge (basta confrontare i procedimenti giudiziari contro chi lotta con quelli a carico di coloro che hanno contribuito ad uccidere, come nel recentissimo caso della Eternit, migliaia di lavoratori). Non esiste sicurezza del lavoro, della proprietà e del futuro per i propri figli. Non dobbiamo scegliere tra uno e l’altro o l’altro ancora dei contendenti attuali. Dobbiamo scegliere un mondo altro e forme altre di espressione e di lotta, perché, come Rosa Luxemburg ci ha insegnato ormai da più di un secolo, la scelta futura non sarà tra civiltà (borghese) e barbarie, ma tra barbarie e socialismo. Hic Rhodus, hic salta.

C’è però da dire che , almeno, l’ambiguo o sincero Cioran del 1941 sapeva ancora riconoscere due cose: “La Rivoluzione del 1789 ha fatto il suo tempo, e la borghesia pure […] Essa ha solo una riserva sociale: il proletariato. E una sola formula: il comunismo” (pag.54) e “La vita esiste solo in banlieue. Una Francia proletaria è ormai l’unica possibile” (pag.79). Con buona pace di chi oggi volesse ancora soltanto demonizzare tout court i casseur o i loro sottoprodotti politici e militari.

In realtà Cioran non dava troppo credito a tale ipotesi. Anzi, la utilizzava proprio come paradosso per dimostrare l’irreparabile decadenza della società borghese francese, ma almeno aveva ancora la capacità di porla sul piatto, mentre oggi nel dibattito intellettuale e, anche se non lo vorrei dire, soprattutto a sinistra la lotta di classe e le sue conseguenze sono ormai totalmente rimosse a favore di discorsi che tengono conto dell’etica e delle idee, ma non della effettiva realtà sociale e di tutte le sue esplosive e spesso terribili contraddizioni.

In questo senso, leggere e riflettere sul piccolo testo di Cioran può essere utile. Non solo perché contiene al suo interno ancora numerosi altri spunti,6 ma anche perché, a volte, ci “insegna” di più un nemico sicuro che un alleato incerto e, proprio per questo, potenzialmente infido. Cosa che il testo rivela, mostrando la sottile o quasi invisibile linea di demarcazione che separa il pensiero conservatore, se non reazionario, da quello genericamente progressista, là dove l’autonomia politica di classe viene a mancare per appiattirsi invece sulle formule più scontate del pensiero dominante.


  1. Come ha già sottolineato Mario Andrea Rigoni, anche se con finalità diverse da chi scrive, in una recensione comparsa sul Corriere della sera: Cioran anticipò Houellebecq, 16 gennaio 2015  

  2. Sul “passato” fascista di Cioran, Eliade e sul più che contraddittorio Ionesco si consulti Alexandre Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, UTET 2008  

  3. cit. da Giovanni Rotiroti nella sua introduzione a Cioran, Sulla Francia, pp.9-10  

  4. Anche se l’antisemitismo di Cioran, pur non manifestandosi in maniera violenta negli scritti francesi come in quelli rumeni prima del suo arrivo a Parigi, si manifesta sporadicamente ed incontenibilmente anche nel corso del testo qui trattato. Un esempio per tutti: “Tutti i paesi falliti hanno qualcosa dell’equivoco del destino giudaico; sono erosi dall’ossessione dell’implacabile incompiutezza” (pag.71) Là dove, per l’appunto, l’essere ebrei coincide con l’essere individui o popoli incompiuti, non completi, mancanti di qualcosa, sostanzialmente inferiori.  

  5. Nell’Islam è la comunità dei fedeli, al di sopra delle barriere sociali e nazionali  

  6. Basti per tutti, in un’epoca di cuochi televisivi e ricette gastronomiche presenti in ogni dove, la seguente riflessione: “Il fenomeno della decadenza è inseparabile dalla gastronomia [… ]l’atto di mangiare si è elevato al rango di rito. Ciò che è rivelatore, non è il fatto di mangiare, ma di meditare, di speculare, di intrattenersi per ore e ore su questo argomento”(pag.67)  

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Futuro Breve IX https://www.carmillaonline.com/2007/12/21/futuro-breve-ix/ Fri, 21 Dec 2007 02:22:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=2481 di Alessandra Daniele

Pantocrator.jpgPANTOCRATOR

Trevis mollò una gomitata al collega. — Siamo nella Palestina del primo secolo d.C, piantala di fischiettare canzoni che non sono ancora state scritte! Sidney grugnì. — Ma cos’è che avevano già scritto in quest’epoca di merda? – La Bibbia. – Che faccio, fischietto la Bibbia? Con un’altra gomitata Trevis zittì il collega, poi gli indicò un uomo di spalle davanti a loro. – Eccolo — bisbigliò — L’abbiamo trovato! È solo, prendiamolo! I due si avventarono sull’uomo armati d’un paio di siringhe. Lo stordirono, e lo trascinarono via. Quando si risvegliò era legato a bordo del [...]]]> di Alessandra Daniele

Pantocrator.jpgPANTOCRATOR

Trevis mollò una gomitata al collega.
— Siamo nella Palestina del primo secolo d.C, piantala di fischiettare canzoni che non sono ancora state scritte!
Sidney grugnì.
— Ma cos’è che avevano già scritto in quest’epoca di merda?
– La Bibbia.
– Che faccio, fischietto la Bibbia?
Con un’altra gomitata Trevis zittì il collega, poi gli indicò un uomo di spalle davanti a loro.
– Eccolo — bisbigliò — L’abbiamo trovato! È solo, prendiamolo!
I due si avventarono sull’uomo armati d’un paio di siringhe. Lo stordirono, e lo trascinarono via.
Quando si risvegliò era legato a bordo del Time Runner, veicolo sperimentale della NASA per il viaggio nel tempo, ideato — e poi rubato — dal dottor Horatio J. Trevis, e dal collega, Sidney.
– Qualsiasi cosa stiate cercando di farmi sarà inutile. In verità, vi dico…
Trevis si voltò di scatto dai comandi, e gli puntò un dito contro.
– Non ci provare. Non sperare di fregarci con le tue cazzate.
L’uomo sospirò, appoggiandosi allo schienale per quanto glielo consentivano le cinghie.
— Avete intenzione di uccidermi?
– Ti piacerebbe, vero? — Ghignò Trevis — Faremo molto di più — fece una pausa a effetto — noi ti cancelleremo dalla Storia. — Si girò verso il collega — Sidney, spiega al signore dove lo stiamo portando.
– Beh, in realtà non sappiamo esattamente dove – cominciò Sidney Un’occhiataccia di Trevis gli fece correggere il tiro — Ti stiamo portando nel futuro, ma non nel futuro dal quale noi proveniamo. Quello già non esiste più, perché lo abbiamo cambiato togliendoti dal passato dal quale derivava. Ciò che troveremo sarà un mondo futuro diverso, sviluppatosi senza Cristianesimo, quindi probabilmente migliore…
Sicuramente migliore — lo corresse Trevis.
– Sicuramente migliore di quello che abbiamo lasciato. Laggiù, dopo aver controllato, potremmo anche lasciarti andare, perché in una società ad alto sviluppo culturale e scientifico non potrai fare più alcun danno.
L’uomo scosse la testa, con un mezzo sorriso.
– Siamo arrivati — annunciò Trevis trionfante — Adesso vedrai.

– Non è possibile, non è possibile! — Ripeteva Trevis sconvolto, aggirandosi per la cattedrale — Non siamo riusciti a cambiare niente! — Strinse i pugni e urlò — Come diavolo ha fatto?
Stavolta fu Sidney a tirargli una gomitata per zittirlo.
– Calmati, o ci scopriranno.
– Lo abbiamo portato via — continuò Trevis, rauco — È ancora di là, legato nella cabina del TimeR, come cris… come ha fatto a impedirci di cambiare la Storia?
– Beh, magari è davvero…
– Stronzate! — Tornò a urlare Trevis. Poi crollò a sedere su una panca — Qual’è il trucco, com’è possibile che sia tutto assolutamente uguale a come l’avevamo lasciato?
– Non proprio tutto — disse il collega, indicando l’imponente mosaico sulla volta — Quando siamo partiti il Cristo Pantocrator lassù aveva i capelli — ridacchiò.
Trevis alzò la testa, come folgorato. Poi afferrò Sidney e lo trascinò nel TimeR nascosto in sagrestia.
– Che succede? — Chiese tranquillo l’uomo che li aspettava legato.
– Si riparte.
– E dove si va?
– A prelevare anche il tuo complice — ghignò Trevis. — Il pelato che ha preso il tuo posto e il tuo nome.
L’uomo sorrise.
— Fatelo pure. Un terzo lo sostituirà. E poi, se sarà necessario, un quarto, un quinto, un sesto…
– Quanti siete?
– Centinaia… non potete fermarci tutti. Ci prepariamo da anni, tutti per interpretare lo stesso ruolo. Altri hanno già provato a fermarci, molti di noi sono stati uccisi. Ma alla fine almeno uno di noi ce la farà — Tornò ad appoggiarsi allo schienale — E potrebbe anche essere uno che non ha la mia pazienza — aggiunse con uno strano sorriso.

PERSISTENZA

Il primo Sovrintendente di Tisra e lo sconosciuto stavano seduti davanti a due bicchieri di glab liscio. Tra di loro galleggiava l’ologramma d’un sistema stellare.
– Tre mega crediti. Ti auguro che la tua informazione li valga.
– Non basterebbero tutti i megac del tuo disgraziato pianeta a pagarmela quanto vale.
– Perché “disgraziato”?
– Interessa ai terrestri.
Il sovrintendente trasalì.
– Provamelo.
Lo sconosciuto allungò le sottili propaggini sulla piastra incastonata al centro del tavolino, e subito l’ologramma si modificò disegnando il tracciato d’una rotta interstellare, affiancato da una colonna di calcoli esplicativi.
– Sacro Jestra! — Mormorò il Sovrintendente — I terrestri! Cosa vorrebbero fare di Tisra?
– Quello che hanno fatto del loro pianeta madre — rispose lo sconosciuto, scolando il suo glab — “Fottimadre” è un tipico insulto terrestre.
Il primo Sovrintendente poggiò i tre megac sul tavolino. Lo sconosciuto li intascò rapidamente, e sparì.

– Com’è andata? – Chiese Hela, speranzosa.
– Bene — rispose Hen, rientrando nella sua navicella in orbita attorno a Tisra — Il Sovrintendente l’ha bevuta e m’ha pagato! — Fece rotolare i megac sotto gli occhi prismatici della sorella.
– E’ bizzarro, basta nominare i terrestri per suscitare il panico — ridacchiò lei — ma i terrestri non esistono!
– Beh, non più — precisò il fratello — Per fortuna si sono autodistrutti completamente ancora prima di mettere piede fuori dal loro sistema solare. Però le onde elettromagnetiche delle loro passate trasmissioni radiotelevisive continuano a propagarsi nella galassia. Da quelle molti hanno imparato a conoscerli come una minaccia orrenda, ed è nata la leggenda d’una loro misteriosa… persistenza.
– Ma come hai fatto a convincere il tisriano che i terrestri puntassero proprio sul suo sistema stellare?
Hen sorrise. S’avvicinò all’olopiastra incastonata sul muro e l’attivò sfiorandola con la propaggine sinistra.
– Vedi questo? Sembra il tracciato stilizzato d’una complicata rotta interstellare
– Da dove viene?
– Dalla terra. Compare in moltissime delle vecchie trasmissioni televisive terrestri, insieme ad altri undici simili. Li chiamavano Zodiaco. Uniscono una serie di stelle raffigurate come apparivano allora viste dalla terra. Questo tracciato in particolare è lo “Scorpione”, e qui in fondo comprende anche Thal, la stella di Tisra.
– Quindi forse i terrestri progettavano davvero di conquistarla — commentò Hela, stupita.
– A me importa solo che lo abbia creduto il Sovrintendente — Hen sorrise indicando i megac luccicanti.
Hela notò l’evanescente sagoma d’un insettoide sovrapposta al tracciato interstellare.
– Cos’è?
– Lo Scorpione, la forma di vita terrestre dalla quale questa rotta prendeva nome — rispose Hen — Era una bestiaccia tremenda, perciò i terrestri l’adoravano, e davano il suo nome a molte cose. Poteva uccidere con una sola puntura della sua coda avvelenata.
La navicella sussultò, le luci si spensero.
– Che succede?!
L’ologramma della rotta Scorpione venne bruscamente sostituito da uno del volto corrusco del Sovrintendente di Tisra.
– Spie dei terrestri, vi abbiamo immobilizzato, preparatevi a essere distrutti!
– Ma no! Noi non abbiamo niente a che fare con loro! — Urlò Hen nel buio.
– Come fate allora a conoscere i loro piani?
– Abbiamo soltanto elaborato i dati ricavati dalle loro trasmissioni radiotelevisive!
– Abbiamo mentito! — Aggiunse Hela.
L’ologramma del tisriano si contorse in uno strana smorfia.
– Siete venuti a estorcere denaro grazie a una minaccia. Non possiamo rischiare, dobbiamo comunque distruggervi preventivamente. Avete gli stessi metodi dei terrestri.
Un solo colpo a fusione centrò la navicella.
– Li avete anche voi — pensò Hen, prima di svanire disintegrato in un lampo silenzioso.

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