crisi ucraina – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 25 Apr 2025 13:14:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 19: First Strike? https://www.carmillaonline.com/2022/11/04/il-nuovo-disordine-mondiale-19-first-strike/ Fri, 04 Nov 2022 21:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74620 di Sandro Moiso

Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile. La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai. (George Orwell)

Boom! Scoperta e ‘dichiarata’ l’acqua calda: gli Stati Uniti, nell’ultima versione della loro dottrina militare (detta, in onore dell’attuale presidente, “Biden”), potrebbero usare per primi l’arma nucleare. E questo, secondo alcuni commentatori disattenti alla storia militare e politica dell’ultimo secolo, potrebbe costituire soltanto ora il detonatore per una Terza guerra mondiale.

[...]]]>
di Sandro Moiso

Non si tratta di stabilire se la guerra sia legittima o se, invece, non lo sia. La vittoria non è possibile.
La guerra non è fatta per essere vinta, è fatta per non finire mai. (George Orwell)

Boom! Scoperta e ‘dichiarata’ l’acqua calda: gli Stati Uniti, nell’ultima versione della loro dottrina militare (detta, in onore dell’attuale presidente, “Biden”), potrebbero usare per primi l’arma nucleare.
E questo, secondo alcuni commentatori disattenti alla storia militare e politica dell’ultimo secolo, potrebbe costituire soltanto ora il detonatore per una Terza guerra mondiale.

Ancora una volta occorre dunque sottolineare e ricordare ciò che, da più di un decennio, l’autore va affermando in testi, articoli e interventi sulla questione della guerra: elemento ineliminabile di una società fondata sullo sfruttamento di ogni risorsa ambientale e umana, sulla concorrenza più spietata sia a livello economico che sociale e sulla spartizione imperialistica del mercato mondiale e dei territori di importanza strategica (sia dal punto di vista geopolitico che economico-estrattivistico).

Tanto da spingerlo a rovesciare, come già aveva fatto con largo anticipo Michel Foucault nel corso degli anni ’70, la celebre affermazione di Karl von Clawsevitz nel suo contrario, ovvero che sarebbe proprio la politica a costituire nient’altro che la continuazione della guerra con altri mezzi1. Con buona pace di chi ancora oggi, pur proclamandosi antagonista e antimperialista, pensa che le logiche della politica istituzionale possano (o almeno dovrebbero) sfuggire alle logiche della guerra e dei suoi sfracelli.

Certo non ha colpa chi si accorge del precipitare delle situazioni create da conflitti ritenuti locali in guerra mondiale soltanto attraverso le dichiarazioni ufficiali, dopo anni, se non decenni, di totale disattenzione per le logiche profonde dell’imperialismo e, forse soprattutto, per la “questione militare” e la sua “arte”, mai sottostimata invece dai teorici autentici del pensiero rivoluzionario: da Marx a Lenin, da Engels a Trotzkij fino alla Sinistra Comunista (nelle figure di Jacques Camatte e Roger Dangeville) e a Guy Debord.

Dinamiche di sottovalutazione legate sia ad una superficiale convinzione dell’avvenuto superamento delle contraddizioni interimperialistiche, scaturita sia dalle predicazioni liberal-democratiche che da un certo estremismo di maniera che ha fondato le sue valutazioni di classe sulle analisi del SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali) originatesi dalla riflessione di alcune formazioni armate a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Solo apparentemente confermate dai processi di globalizzazione economica degli ultimi decenni.

Ma questa disattenzione, chiamiamola così, affonda le radici anche in un rifiuto dello studio di quella che abbiamo qui chiamato “questione militare”, legato sia in un’imbelle concezione pacifista dell’antimilitarismo di stampo cattolico che a una concezione, di tale questione, iniziata con lo stalinismo che, proprio nella figura del piccolo padre di tutte le Russie, fin dallo scontro sulla campagna polacca dei primi anni ’20, si era opposto all’utilizzo degli specialisti militari sia nell’esercito rosso, fortemente voluta invece da Trotzkij per rafforzare l’armata rossa durante la guerra civile 1918-21, che nelle scuole di formazione dei quadri militari, per dare maggior spazio ai commissari “politici” e ai rappresentanti del partito2.

Cosa che, all’epoca dei grandi processi di Mosca (1936-37), costò la decapitazione dello stato maggiore sovietico, soprattutto con il processo per tradimento e l’eliminazione di Michail Nikolaevič Tuchačevskij (Smolensk, 16 febbraio 1893 – Mosca, 12 giugno 1937) autentico innovatore del pensiero militare della guerra di movimento moderna, supportata da truppe corazzate, aviotrasportate e meccanizzate3, con i conseguenti disastri militari subiti dall’Armata rossa nel corso della fase iniziale dell’Operazione Barbarossa ovvero dell’invasione nazista del territorio russo.

Questi due fattori, riassunti qui fin troppo sinteticamente, hanno quindi grandemente contribuito allo sviluppo di una tradizione politica che ha per troppo tempo eluso il problema della “centralità della guerra” nel sistema di relazioni economiche, sociali e politiche internazionali. Un’analisi che troppo frequentemente ha scambiato la dominazione di stampo coloniale e neo-coloniale esterna come l’unico settore in cui l’Occidente avrebbe dovuto e potuto ancora dispiegare la sua potenza militare. Condividendo perciò, anche se indirettamente, la stessa concezione degli apparati militari ad effettivi “ridotti ma professionalizzati”, messa in pratica da gran parte degli eserciti dei paesi più avanzati.

Ancora una volta con il plauso del ‘pacifismo’ che vedeva nell’abolizione degli eserciti di leva un passo avanti verso un mondo privo di guerre o, almeno, lontano da quelle di portata planetaria. Cadendo così in una duplice ed egoistica contraddizione che mentre da un lato si rassegnava ad una sorta di guerra in permanenza fuori dai territori delle metropoli imperialiste per mantenere i privilegi economici di queste ultime, dall’altro vedeva nell’abolizione della leva una riduzione del militarismo all’interno delle società in cui questa fosse stata abbandonata.

L’anticolonialismo perdeva così la concezione internazionalista per rifugiarsi tra le sottane del pietismo solidale, mentre la storica questione dell’armamento delle masse sfruttate attraverso la formazione militare universale (o almeno maschile), difesa dal socialismo radicale fin dai tempi di Friedrich Engels, veniva accantonata a favore di eserciti professionali di stampo pretoriano, in cambio dei sempre corruttibili “diritti individuali”. Che, oltretutto, non ledevano affatto i diritti degli Stati di contribuire allo sviluppo e all’ampliamento del settore militare dell’economia industriale. Settore in cui, a differenza di tanti altri, l’Italia è sempre stata ai primi posti a livello mondiale.

Oggi, tra guerra in Ucraina e dichiarazioni del neo-ministro della difesa Guido Crosetto sulla necessità di provvedere ad un aumento del numero di soldati a disposizione della ‘nazione’, il risveglio è stato piuttosto brusco, seppur ancora confuso. Oltre a tutto ciò, la notizia della dottrina del diritto al First Strike dichiarata apertamente dal presidente americano ha certamente contribuito a seminare ulteriormente la paura di una guerra aperta, diffusa e devastante tra i grandi schieramenti militari e le grandi potenze economiche, fino ad ora, per alcuni, inconcepibile. Eppure, eppure…

Non è certo il quadrante centro-europeo a far dichiarare, per ora, agli Stati Uniti la necessità dell’uso per primi dell’arma nucleare. Sul fronte ucraino le forze della Nato, seppur con vaste contraddizioni al proprio interno, hanno trovato il modo di far combattere e soffrire, in nome dei propri interessi strategici, prima di tutto i militari e i civili ucraini. Mentre tutto intorno all’area interessata direttamente dal conflitto, per vecchi e mai sopiti odi e interessi nazionalistici, altri stati, come la Polonia e gli stati baltici, potrebbero contribuire con il sangue dei propri soldati e la parziale devastazione dei propri territori a mantenere a lungo il conflitto in una dimensione di dissanguamento progressivo dell’esercito russo.

E’ possibile fare questa affermazione poiché ciò che l’attuale conflitto ha rivelato fin dai primi giorni è di aver dato inizio ad una nuova guerra di grandi eserciti, in cui i corpi specializzati (mercenari occidentali, della Wagner o corpi speciali britannici [qui]) possono svolger un ruolo soltanto se attorno ad essi esiste una fitta e ampia rete logistica di supporto, oltre che il paravento di un gran numero di corpi di soldati e di civili sacrificabili. Su entrambi i fronti del conflitto.

Il sogno di una guerra lampo oppure “altamente tecnologica”, con risparmio di vite e militari impegnati nei combattimenti è andato via via dissipandosi, lasciando al suo posto le immagini e lo svolgimento di una guerra convenzionale fatta di artiglieria, fanteria, truppe corazzate, avanzamenti e ripiegamenti che richiedono un gran numero di soldati impegnati e tempi estremamente lunghi per il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Qualunque essi siano e da qualsiasi parte in conflitto siano essi stati, o meno, dichiarati.

La propagande deve fare i conti con le necessità di una guerra il cui compito non è soltanto quello del search and destroy cui, da diversi decenni, si erano abituati i commentatori e gli spettatori, interessati o meno, come nel caso di tanti, e comunque fallimentari, interventi della Nato o degli USA e delle forze armate occidentali, in aree del mondo esterne al cuore dell’Europa o delle metropoli imperialistiche, ma anche, e soprattutto, quello di conquistare, mantenere e occupare vaste porzioni di territorio, urbano o meno, compreso all’interno di aree densamente popolate, industrializzate e ricche di impianti e investimenti agricoli, industriali, minerari e quant’altro.

Uno scenario che non si vedeva dalla fine del secondo conflitto mondiale e che per forza di cose, nonostante le promesse e le illusioni sul superamento delle modalità di quello e delle contraddizioni che lo avevano causato, rinvia a quello nelle modalità, terribili e distruttive, di svolgimento.
Per anni infatti ci si è interrogati, a livello militare e politico, tattico e strategico, sulla possibilità di lasciar definitivamente da parte i grandi apparati bellico-militari che avevano rappresentato la più tipica caratteristica delle forze armate nazionali degli Stati moderni.

Per anni le scrivanie dello studio ovale o degli altri centri di potere occidentali sono state inondate di proposte di apparati difensivi, e quindi immancabilmente offensivi alla faccia di tutte le anime belle che pensano di poter separare la difesa dall’offesa o viceversa, miranti a diminuire il numero dei militari impiegati in servizio attivo, attraverso la formazione di corpi d’élite o unità destinate alle operazioni speciali, altamente addestrate e appoggiate da tecnologie particolarmente avanzate sul piano della sorveglianza elettronica dei territori e delle forze nemiche oppure destinate a colpire con estrema precisione gli obiettivi nemici (singoli individui, unità o basi militari che siano).

La guerra intelligente, che tale non è mai stata come hanno dimostrato le stragi di civili in Palestina, Libano, Siria, Iraq e Afghanistan, senza dimenticare le guerre balcaniche successive alla riunificazione tedesca, si è però rivelata utile ed efficace, se non si contano le vittime reali e i danni collaterali in cui rientrano solitamente, nei confronti di paesi che non potevano porsi sullo stesso piano militare e tecnologico di Stati Uniti, Israele, Europa Occidentale, ma che, allo stesso tempo, potevano riuscire a mettere in difficoltà i più forti aggressori attraverso tattiche e tecniche di guerriglia che hanno fatto sempre più propendere anche le forze armate più importanti verso forme di guerra asimmetriche e non convenzionali.

Ma sulla distruttività della guerra moderna, fin dagli albori del XX secolo, in ambito civile si è già parlato diffusamente negli articoli precedenti di questa serie per rispondere all’idiozia formale dei “crimini di guerra” (come se già questa non costituisse di per sé stessa un crimine); mentre è sul gran numero di soldati necessari per condurla, quando si tratti di confronti militari tra potenze di “pari grado”, che è necessario soffermarsi per comprendere dove sta il rischio reale dell’utilizzo dell’arma nucleare.

Truppe relativamente poco numerose, con grande uso di tecnologie sofisticate e dell’arma aerea, in mancanza di necessità o possibilità di mettere gli stivali per terra (boots on the ground), hanno relativamente funzionato nella “guerra al terrore”, senza però mai ottenere risultati decisivi, come il ritiro dall’Afganistan ha in seguito dimostrato. Un modello di guerra “coloniale tecnologicamente avanzata” che il conflitto in Ucraina sta testando in profondità.

Se c’è un elemento evidente del conflitto attualmente in corso è infatti quello dell’uso di tecnologie avanzate a fianco delle tattiche militari classiche derivate ancora dal secondo conflitto mondiale: largo impiego di artiglieria, fanteria (meccanizzata e non), truppe corazzate, lanciarazzi/missili multipli, sommergibili, aviazione e…droni. Soprattutto questi ultimi costituiscono la novità più rilevante, quella che, sia a livello di rilevamento della posizione degli avversari che della distruzione localizzata e precisa degli obiettivi, ha messo maggiormente in difficoltà le forze armate di Putin fino ad ora.

Ma che ha anche rivelato, almeno nell’ultimo periodo, come, pur costituendo una tecnologia innovativa e perniciosamente precisa, anche un paese non propriamente all’avanguardia come l’Iran può produrre su vasta scala e con risultati di poco inferiori a quelli ottenuti con quelli prodotti dalla Turchia o in area occidentale. Un gap tecnologico facilmente aggirabile e capace di rivoltarsi nel suo contrario. Ovvero una tecnologia dal costo non elevatissimo che anche chi non appartiene ai settori della difesa della Nato e dei suoi satelliti può facilmente procurarsi (ed utilizzare pericolosamente).

Ora diventa evidente, e chi scrive l’ha affermato fin dai primi giorni del conflitto, che le armi nucleari accumulate per decenni negli arsenali dell’Est e dell’Ovest, oltre che in quelli di svariati altri stati (allineati e non), non sono affatto armi giocattolo o spaventapasseri con cui minacciare gli avversari senza però aver la reale intenzione di utilizzarle. Tutto sommato nemmeno durante la Guerra Fredda fu del tutto così, anche se allora i margini per una trattativa erano molto più ampi di quelli odierni. Inoltre Nagasaki e Hiroshima stanno lì, ancora adesso, a dimostrare che l’impero americano non è disposto a fermarsi, se lo ritiene necessario, davanti a nulla. Cosa cui, con evidente facilità, si sono adeguati anche i suoi principali ed ‘imperialistici’ avversari: Russia e Cina. Come ha affermato Cechov nei suoi scritti sul teatro: “se un’arma da fuoco compare in scena nel primo atto di un’opera, sicuramente avrà sparato prima dell’ultimo”.

Ora siamo vicini se non all’ultimo, almeno al penultimo atto del decorso storico dell’imperialismo occidentale e, soprattutto, americano. Sicuramente non è tanto la Russia di Putin a rappresentare la prima minaccia economica e militare per gli Stati Uniti, ma lo sono sicuramente la Cina e la situazione di rifiuto del comando statunitense (e della sua moneta) sviluppatasi non soltanto nell’ambito dei BRICS, ma in ogni continente esterno alla porzione occidentale del mondo.

Scontro, ipotizzabile su scala mondiale e dalle alleanze contraddittorie e non ancora del tutto date, che oltre a costituire il vero epicentro del terremoto economico e militare attuale, di cui la campagna ucraina di Putin potrebbe rivelarsi soltanto come un modo (parzialmente fallimentare) di saggiare il terreno avversario dopo il disastro afgano (qui e qui), sta alla base dell’inevitabile terzo o quarto conflitto mondiale (dipende soltanto dai punti di vista)4 ormai prossimo (almeno sulla scala del tmpo storico), se non già in atto.

Conflitto in cui il numero di soldati necessari potrebbe ampiamente sopravanzare le disponibilità di arruolamento statunitensi ed europee e, soprattutto, la disponibilità al sacrificio e alla sofferenza delle popolazioni occidentali e del loro dispendioso stile di vita e che richiederebbe sicuramente la necessità di anticipare le mosse dell’avversario, si pensi alla caldissima questione di Taiwan e del controllo del Mar della Cina e del Pacifico Orientale, con un primo e “decisivo”(?) lancio di testate o bombe nucleari.

Situazione drammatica, ma da tempo ampiamente prevedibile anche senza il recente annuncio del presidente dormiente.

(19 – continua)


  1. Si veda: Sandro Moiso, Warzone ovvero da Flint a Flint: la guerra come condizione di esistenza, introduzione a S. Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismo, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2019, pp. 11-15  

  2. Spesso inseriti con il compito di controllare e indirizzare tutte le scelte militari sulla base delle tattiche e alleanze elaborate o concordate con altre forze dalla direzione del Partito, anche nell’ambito della guerra partigiana come avvenne durante la Resistenza, più che di fornire un’effettiva ed adeguata formazione politica ai militari e ai combattenti.  

  3. Cui la strategia della “guerra lampo” di Erwin Rommel, e degli altri generali della Wermacht nel corso della prima parte del secondo conflitto mondiale, si ispirò invece totalmente.  

  4. Si veda ancora in proposito: S. Moiso, War! e Yankee Doodle Goes to War in S. Moiso, La guerra che viene, op. cit., pp. 28-39  

]]>
Il nuovo disordine mondiale /2: Tamburi di guerra https://www.carmillaonline.com/2022/03/02/il-nuovo-disordine-mondiale-vol-2-tamburi-di-guerra/ Tue, 01 Mar 2022 23:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70699 di Jack Orlando

Il primo proiettile sparato da un tank di Mosca, non ha colpito il suolo d’Ucraina, o un suo soldato, ma è andato a impattare dritto contro la supponente quanto ingenua arroganza dell’Occidente nel credersi il padrone del mondo.

Ha mandato in frantumi quella certezza della NATO che nessuno, al di fuori di essa, può permettersi il lusso di invadere un paese sovrano e ridisegnarne gli scopi. La fine di quella certezza ha lasciato posto prima al panico, subito dopo al livore e si è messo in moto un ingranaggio [...]]]> di Jack Orlando

Il primo proiettile sparato da un tank di Mosca, non ha colpito il suolo d’Ucraina, o un suo soldato, ma è andato a impattare dritto contro la supponente quanto ingenua arroganza dell’Occidente nel credersi il padrone del mondo.

Ha mandato in frantumi quella certezza della NATO che nessuno, al di fuori di essa, può permettersi il lusso di invadere un paese sovrano e ridisegnarne gli scopi. La fine di quella certezza ha lasciato posto prima al panico, subito dopo al livore e si è messo in moto un ingranaggio pericoloso, alimentato a piombo e mania di onnipotenza.

Un intero mondo di musi gialli, di sporchi arabi, di dannati negri sta guardando il terribile sovrano occidentale schiaffeggiato sulla soglia di casa. Il rischio che i tremori europei si propaghino oltre il Vecchio Continente, decretando la fine definitiva del sistema-mondo a egemonia atlantica e dando il via a nuovi tentativi di disgregare l’ordine, è un rischio reale e gli amministratori della potenza occidentale non possono in alcun modo permetterlo.

Una vittoria della Russia, non sarebbe solo una sconfitta in Ucraina, sarebbe la fine di un primato di potenza e l’inizio di un mondo che le sfugge dalle mani.

È per questo che si continua a ripetere ossessivamente “Putin deve fallire”. È una questione di vita o di morte o, quanto meno, di irreversibile declino .

E non è diverso per il capo del Cremlino, ora che ha imboccato una via a senso unico contendendo alla NATO il monopolio dell’espansione imperialista: le alternative sono tra una vittoria militare con un conseguente (quanto difficoltoso ad oggi) cambio di status del paese invaso o di un compromesso vincente, oppure di un tragico tracollo per la Russia, ridimensionata definitivamente nel suo ruolo di potenza e relegata, bene che vada, ad un ruolo di subordine nello schema globale.

Gli attriti in moto da ormai lungo tempo sono arrivati ad un punto di frizione drammatico e l’unico punto che si può dare per assodato è l’aprirsi di una fase di instabilità profonda dagli esiti difficilmente prevedibili.

I colloqui di pace appena iniziati1 sembrano aprirsi sotto pessimi auspici, tra due forze che cercano di mostrarsi in posizione di forza ma entrambe infelicemente fragili.

Gli ucraini cercano di far valere l’inaspettata resistenza messa in atto e il supporto dei partner occidentali ma con una condizione sul campo assai difficile dove le possibilità di conflitto si riducono alla battaglia urbana casa per casa con un costo umano e materiale enorme; i russi si fanno forza di una potenza di fuoco decisamente superiore per quanto non ancora schiacciante, ma iniziano a dissimulare con difficoltà il pericoloso isolamento in cui versano.

Una impasse in cui NATO e UE si sono inseriti aggravando la situazione e rischiando di far deflagrare del tutto la situazione.

Nelle scorse settimane era stato il presidente Biden a tenere alta la tensione alimentando una isteria mediatica sull’invasione russa, cui però non faceva effettivamente eco una Unione Europea molto più prudente nel mettere a rischio sé stessa. Una mossa che ben oltre la deterrenza verso la Russia puntava a stringere di nuovo e con più forza a sé i vassalli europei e freddarne le spinte verso una politica comune e indipendente da quella americana, costringendoli in sostanza a inseguire le accelerazioni imposte al dibattito dalla Casa Bianca.

È sulla sua spinta che l’UE si è decisa sulle sanzioni, escludendo però sulle prime una risposta più massiccia, sempre sulla sua spinta si è superata quella soglia e ci si è spinti a sanzioni più drastiche fino all’esclusione dal sistema SWIFT e all’accettazione passiva delle ricadute economiche sugli stessi paesi europei. Ancora nel segno americano ci si è spinti alla chiusura dello spazio aereo, allo spostamento di truppe ad est, all’erogazione di un fiume di capitali al governo ucraino per finanziarne la difesa e ci si è impegnati nel fornire armi, munizioni e perfino aerei da combattimento (verrebbe qui da chiedersi, a questo punto, se questi caccia opereranno da aereoporti ucraini, i pochi rimasti agibili o non in mano ai russi, oppure da un paese terzo, e se alla guida ci sarà un pilota ucraino o meno).

Putin deve fallire. Questo è il motto su cui si sono serrati i ranghi, e lo si continua ad abbaiare con la bava alla bocca a favore di ogni telecamera.

Fintanto che pareva una guerra lampo, destinata a consumarsi in una manciata di ore con un imbarazzante ma tutto sommato accettabile nuovo assetto geopolitico del continente, si era restii ad andare oltre la minaccia; ora che i carri russi hanno rallentato la loro avanzata, impantanandosi nel fuoco e nel fango, l’Occidente riprende coraggio e si spinge in avanti.

Così avanti da dare luogo a scivoloni rischiosi, dalla Von Der Leyen che dichiara “L’ucraina fa parte dell’Europa e la vogliamo con noi” al cancelliere Scholz che alza vertiginosamente e di colpo la spesa militare del suo paese, alla rottura di storiche neutralità nazionali, fino al sostanziale accoglimento della chiamata alle armi di Zelensky che punta alla costruzione di una legione di combattenti internazionali.

Lettonia, Danimarca e Gran Bretagna sono le prime ad aderire, non saranno le ultime, mentre già emergono voci circa un gruppo di veterani tedeschi e inglesi preparati in Polonia da militari americani, pronti per combattere sotto bandiera gialloblu.

La guerra si sta già allargando. E nelle parole dei capi di Stato, la Pax Europaea è già bella che morta, forse addirittura solo una pia illusione del passato. La spinta in avanti ha luogo su un terreno scosceso e instabile, meno di una settimana fa si tentennava sulle sanzioni, oggi si mettono in campo armi e combattenti irregolari e si richiamano in patria i connazionali sul suolo russo.

Putin deve fallire. Ma non lascerà il campo con la coda tra le gambe, lo dimostra l’azzardo sulla messa in allerta del sistema di deterrenza nucleare, mossa che non rimarrà senza risposta.

L’ingranaggio della guerra imperialista si è messo in moto ed è improbabile che si fermi, perché nessun pretendente può più abbandonare il tavolo, a costo di restarci secco lui e tutti gli altri.

Noi, ancora una volta, siamo in ritardo sul nostro tempo. E questo è forse il dato più scontato e drammatico di tutti, che segna l’assenza totale dell’unica forza in grado di sabotare l’ingranaggio bellico: la forza del conflitto sociale organizzato. L’incapacità, o peggio il disinteresse, trascinatisi per anni, verso la costruzione di una strategia e una organizzazione delle possibili avanguardie antagoniste in grado di fronteggiare i dispositivi politici del capitale, ci mette in condizione oggi di subire passivamente questo nuovo fatale passaggio di fase.

Dal primo giorno delle ostilità si è osservato il fiorire delle mobilitazioni per la pace un po’ ovunque, un sussulto della ormai sopita società civile. Ma, a tagliare con l’accetta, sono due le tensioni che si esprimono in modo forte nelle piazze e che vengono contemporaneamente alimentate e rimbalzate dai media: nazionalismo e umanitarismo. Entrambe vanno sovvertite.

Sul nazionalismo c’è poco da discutere: tutto l’arsenale retorico diffuso a piene mani a mezzo stampa sulla difesa della civiltà europea, sulla resistenza all’invasore, la Patria in pericolo e della Fortezza Europa, nonché della mitopoiesi in atto rispetto alla resistenza ucraina (sì, animata anche da cittadini di ogni tipo e da un genuino slancio di coraggio, ma politicamente e militarmente egemonizzata da formazioni fascisteggianti e spesso apertamente naziste); va in direzione di una richiesta esplicita di un intervento NATO e/o di una adesione alla missione bellica con un largo coinvolgimento di possibili volontari per la chiamata alle armi di cui sopra; l’evergreen dello scontro di civiltà sembra aver perso il suo connotato etnico/religioso per adattarsi al profilo caucasico. È una tendenza che porterà ad un rinnovamento delle posizioni e strutture della destra, ad un compattamento collettivo attorno alla ragion di Stato e che costituirà un ovvio e potente carburante per le prossime spinte belliciste; un nemico di cui occorrerà tenere conto.

Sull’umanitarismo invece è necessario soffermarsi un momento in più: perché è una trappola in cui molto serenamente si spingono anche non pochi presunti rivoluzionari, perché è la posizione della borghesia progressista che ha le leve del comando, perché è in grado di legarsi tanto a un nerbo nazionalista quanto a un melenso democraticismo dei diritti umani.

È necessario ricordare, specialmente a quegli imbecilli che dicono “è tornata la guerra”, che la difesa dei diritti umani e della democrazia è stato il grido di battaglia con cui l’Occidente ha bombardato, bruciato, ucciso, torturato e umiliato milioni di persone, non cento anni fa, ma praticamente ogni giorno degli ultimi ottant’anni.

Ogni volta in difesa della vita umana, si è corsi a mettere a ferro e fuoco case di civili e rovesciare governi, passando come cavallette e lasciando distruzione e morte. Lo si chieda in giro a Belgrado, a Tripoli, Kabul, a Baghdad o a Damasco, tanto per restare a un tiro di schioppo da casa e non sfogliare troppo l’album dei ricordi.

E ogni volta il popolo della sinistra, i cui rappresentanti benedicevano la crociata di turno, tirava fuori la bandiera della pace e si dichiarava contro la guerra, ma con una certa attenzione a sottolineare anche la propria distanza dal mostro, dal tiranno di turno da cui comunque bisognava salvare il malaugurato popolo finito nel mirino della democrazia.

Una equidistanza ipocrita e criminale che lava la coscienza delle anime democratiche e lascia che siano gli altri a contarsi i morti; che si compiace, in fondo, di aver portato un po’ di civiltà moderna ai popoli arcaici e poco importa se nessuno di quegli zotici provasse un qualche minimo interesse verso la nostra democrazia.

Oggi la difesa della vita umana e della civiltà democratica è ancora in mano alla NATO. Ed è su questo liso copione che si sta preparando la prossima guerra. Con la differenza, che a finire con le bombe sulla testa, potrebbero esserci gli stessi europei per primi.

Le attuali manifestazioni per la pace che attraversano l’Europa tutta, o si riescono ad articolare contro i mandanti di questa pace e di queste guerre, contro il modo di produzione che le sottende ed alimenta, oppure finiranno per esserne complici.

Condannare la guerra di Putin nelle piazze russe significa attaccare quella forma del potere e i suoi diretti mandanti, significa essere contro la guerra e il sistema che la genera, offrire a sé stessi uno spazio di ribaltamento. Condannarla da noi e limitarsi allo sventolare la bandiera della pace non solo non salva alcuna vita, ma significa accodarsi alle nostre borghesie criminali, per la quale anche le cosiddette misure economiche hanno un sapore esplicitamente offensivo e perverso: umiliare la Russia-paese bandendola da ogni piattaforma, evento o manifestazione culturale per annichilirla, sanzionarne selvaggiamente l’economia per metterla in ginocchio, per portarne la popolazione alla fame. Violenza estrema si, ma politically correct.

Vogliamo essere più chiari: ogni umanitarismo adesso è un surrogato dell’atlantismo, ergo una complicità nella preparazione della guerra ventura; un crimine che non ci si può permettere. Si parte ancora una volta da una posizione di debolezza, ma non si può deflettere da questo punto.

Quello su cui è inderogabile concentrare l’attenzione è ancora una volta l’opposizione alla NATO, in quanto strumento di comando statunitense sulla agenda politica dei nostri paesi e in quanto generatore di sciagure molto più che di sicurezze. Specialmente l’Italia, all’interno dello schema atlantico finisce per essere poco più che una colonia e poco meno che uno scudo dell’interesse americano.

Non a caso, in questo momento, la classe dirigente italiana ha oggi anteposto una sconquassata agenda bellica al suo stesso interesse nazionale, domani chiederà a noi di pagarne il conto, con un tributo di lacrime e sangue sul terreno dell’economia e magari anche su quello di battaglia; e non fanno alcuna eccezione gli altri paesi europei, tirati per la giacca in questa spirale.

La critica oggi dobbiamo basarla sulle ricadute, immediate e di medio termine, di questa politica kamikaze. Opporsi alle misure delle sanzioni e della proliferazione delle armi che, lungi dallo stemperare il conflitto, hanno portato a paventare un olocausto nucleare.

Iniziare da questo, individuando ed evidenziando i nostri nemici diretti, e prepararsi ad affrontare lo scontro interno, quando le ricadute arriveranno sul serio con ulteriori aumenti delle materie prime e delle risorse energetiche, traducibili con l’inasprimento ulteriore del carovita, coi fallimenti delle imprese e i licenziamenti, con l’acuirsi di una condizione invivibile. Opporsi alla guerra vuol dire, immediatamente, opporsi agli interessi capitale nella loro dimensione local-nazionale.

E questo andrà fatto tenendo conto della dimensione continentale del fenomeno: mai come ora è stato necessario e fertile stabilire una connessione con i movimenti dei paesi vicini, articolare una strategia anticapitalista ed antimilitarista transnazionale è il presupposto non solo per avere una possibilità di influire sugli eventi attuali ma, in prospettiva, per arrivare alla possibilità di deviarne il corso.

Al cementarsi dei blocchi imperialisti va contrapposta la costruzione di un blocco sociale antagonista e internazionale, alla loro tensione alla guerra va risposto con una ritrovata conflittualità sociale.

Quali che siano i rivolgimenti sul terreno ucraino nei prossimi giorni, anche scampando al rischio di una nuova guerra mondiale, è certo l’aprirsi di una stagione di instabilità sistemica ad ogni livello; quasi esattamente due anni fa, al sorgere della pandemia, da queste stesse pagine (qui) scrivevamo che la regola del momento è saper abitare la catastrofe per coglierne il campo delle possibilità. Oggi sentiamo forte l’urgenza di confermarlo.

1 È bene specificare, dato il rapido evolversi delle cose, che queste righe sono state scritte a un paio d’ore dall’inizio dei negoziati tra Ucraina e Russia in quel del confine con la Bielorussia.

(2 – continua)

]]>
Occidentali’s Karma https://www.carmillaonline.com/2022/02/28/occidentalis-karma/ Mon, 28 Feb 2022 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70671 di Giovanni Iozzoli

E adesso parliamo un pò di sovrastruttura, che tra gas e swift non se ne puo più! (scherzo, eh: senza parlare di gas non si capisce niente dell’Ucraina; l’importante è non fermarsi a quello…)

In ogni teatro di guerra – mai definizione fu più pertinente, perchè ogni conflitto bellico è anche un grande allestimento scenico –, la costruzione retorica dei due campi avversi, quello glorioso e nobile dell’alleato e quello mostruoso e barbaro del nemico, è operazione bellica di primissimo piano. E questo fin dall’antichità – quando narratori, poeti, teologi e artisti venivano arruolati sui due fronti, come [...]]]> di Giovanni Iozzoli

E adesso parliamo un pò di sovrastruttura, che tra gas e swift non se ne puo più! (scherzo, eh: senza parlare di gas non si capisce niente dell’Ucraina; l’importante è non fermarsi a quello…)

In ogni teatro di guerra – mai definizione fu più pertinente, perchè ogni conflitto bellico è anche un grande allestimento scenico –, la costruzione retorica dei due campi avversi, quello glorioso e nobile dell’alleato e quello mostruoso e barbaro del nemico, è operazione bellica di primissimo piano. E questo fin dall’antichità – quando narratori, poeti, teologi e artisti venivano arruolati sui due fronti, come oggi lo sono gli operatori dell’informazione e della “cultura”. Le menzogne e le mitizzazioni diventano un elemento naturale del racconto e gli addetti ai lavori presidiano i rispettivi campi come trincee: è così che il TG2, in un eccesso di zelo, manda in onda la clip di un videogioco spacciandola per i cieli di Kiev; e se qualche eroico “partigiano” del battaglione Azov inalberasse uno stendardo con la svastica, il pudore giornalistico certo si rifiuterebbe di mostrarlo; così come le vittime russe o russofone del Donbass appartengono, dal 2014, ad una umanità minore, non degna di racconto, nè di tutela, automaticamente arruolata d’ufficio nel campo della nemicità.

In questi termini, l’odierna ondata di russofobia, malcelata dietro una semplice ostilità anti-Putin, ha qualcosa a che vedere con l’islamofobia vista all’opera negli ultimi vent’anni per giustificare le guerre americane in medio oriente: il nemico come altro assoluto, infido, dal sistema valoriale assurdo, arcaico, capovolto, sempre pronto a versare l’innocente sangue democratico. Il russo – pur se biondo e cristiano – si adatta oggi a rivestire i panni dell’antagonista perfetto, di cui l’occidente sente un disperato bisogno. Senza nemici il blocco “della civiltà e delle democrazie” deperisce, si sfianca, smarrisce le sue ragioni, travolto dalle proprie crisi materiali e di consenso. E’ nella perenne competizione con l'”altro” – il socialismo, il sovranismo, l’islamismo o qualsiasi altra rappresentazione simbolica del male – che l’occidente sembra recuperare un pò di vitalità.

Curioso, ma nè la Cina nè la Russia, sembrano avvertire questa spasmodica necessità di contrapposizione; quando si muovono lo fanno sempre per reazione a una qualche “rivoluzione colorata”, tipo la maledetta Maidan, che mina i loro confini e sposta sotto il loro muso la minaccia di destabilizzazione. I barbari starebbero bene anche senza guerra. E questa è la storia della Nato post-89: la più straordinaria macchina da guerra mai accumulata dall’umanità – mai sazia, mai appagata del suo potere, sempre in costante espansione e fibrillazione, a caccia di nemici grazie ai quali giustificare la propria stessa esistenza.

Verso i russi c’è però un “di più” di rabbia e rimpianto. I russi hanno profondamente deluso pensatori, politici, intellettuali e strateghi del mondo libero; e questo non sarà mai perdonato loro. Perchè diciamo ciò? Perchè dopo il 26 dicembre 1991, ammainata l’esangue bandiera rossa sul Cremlino, mentre a Washington, Londra, Parigi e Berlino si celebrava la riunificazione dei mercati mondiali e il sogno di un potere imperiale monocratico, enormi aspettative covavano nei confronti del popolo russo, giovane, vitale e affamato di libertà e mercato. I russi tornavano nella comunità dei paesi civili e venivano accolti a braccia aperte, come figliuoli prodighi e necessari. Certo, in cambio avrebbero dovuto accettare la svendita a prezzi di saldo del patrimonio industriale del paese, delle sue immense risorse naturali (allora ancora non pienamente sfruttate), nonchè diventare serbatoio di forza lavoro per l’industria globale che guardava ad est con l’acquolina in gola. Qualche prezzo da pagare c’era: ma vuoi mettere la soddisfazione del Mac Donalds sulla Piazza Rossa e il presidente ubriaco che balla il twist sul palco di un concerto rock?

Ecco, Boris Eltsin era una buona approssimazione di ciò che l’Occidente si aspettava dalla Russia: un simpatico alcolista, un orso bonaccione e ammiccante, pronto a vendere anche sua madre, sbruffone nei modi ma tremendamente realista nella valutazione dei rapporti di forza. Il leader di un paese a pezzi in cui con l’ammainabandiera era bruscamente calata anche l’aspettativa di vita – una grande nazione che si consegnava mani e piedi al “mondo libero” dichiarando la propria bancarotta etica, la fine di ogni alterità, la disponibilità ad una omologazione irreversibile.

E invece cosa ti combinano, questi russi ingrati? Resistono. Resistono a questa azione di conquista. Dapprima in modo passivo, con gli strumenti di cui la gente semplice dispone – tipo la riscoperta della religione o la silenziosa ripulsa verso “la decadenza occidentale”; e poi attivamente, rimettendo in piedi un apparato industriale e militare e ricostituendo uno Stato che nel volgere di un ventennio ridiventa grande e imprescindibile attore gobale. Putin non è il demiurgo di questi processi: ne è il prodotto storico. Putin è il figlio (repellente ma legittimo) della rinascita dello Stato Russo nel ventunesimo secolo. Dargli del pazzoide dittatore è facile, ma lui le elezioni le ha sempre vinte – a differenza di quel che succede nel nostro paese, dove tra l’instaurazione dei governi e il processo democratico, si è da tempo persa ogni connessione.

Lo ricordava la buonanima di Giulietto Chiesa: i russi non sono occidentali, non si sono mai sentiti tali. Hanno una storia e una cultura propria. Basta aver letto qualche buon romanzo, per averne contezza. E’ il primo paese al mondo dove si è realizzata una rivoluzione proletaria, la matrice di un popolo capace di sacrifici inenarrabili per spezzare la schiena della belva nazista. Certo, le sirene del consumismo occidentale hanno avuto un fortissimo impatto sulla gente comune, ma non l’hanno mai pienamente convinta circa la bontà assoluta dell’american way of life.

E qui il discorso diventa complesso e scivoloso e non mi azzardo – si rischia sempre di scivolare nel politicamente scorretto. Ma qual’è il sistema di valori che noi “occidente” rivendichiamo come essenziale, per distinguerci dalla barbarie russa? Che là ci sono gli oligarchi e da noi no? Libere elezioni? Sono poi così libere, le nostre? E se alle prossime presidenziali Ghennadi Zyuganov battesse Putin, il giudizio del “mondo libero” cambierebbe – o diventerebbe ancora più istericamente ostile? I russi alla stregua dei cinesi, degli indiani e della maggior parte dei paesi di cultura musulmana, non hanno mai assimilato integralmente il “pacchetto occidente” – l’offerta speciale dell’estremismo liberale, piena di caramelline, cotillons e veleni. La stragrande maggioranza del mondo si ostina a coltivare un immaginario in cui l’iper-individualismo borghese, l’ideologia dell’apogeo capitalista, riguarda solo alcune ristrette elite economiche o cuturali. Può piacere o meno: ma questa è la cruda verità. In Russia, a trent’anni dalla caduta del muro, il nichilismo d’occidente non è riuscito a far innamorare di sè i 147 milioni di abitanti di questo gigante orgoglioso e malinconico. In qualche recesso della loro anima, sentono di non appartenere del tutto a questo tipo di modernità e recalcitrano al destino a binario unico, che era stato scritto per loro. Non si sono rassegnati ad uscire in buon ordine dalla storia – l’ombra dell’impero che fu, si allunga sul presente e rende pallido e stinto il sogno occidentale.

La faccenda dello “spirito di un popolo” può sembrare una romanticheria vagamente reazionaria. Eppure nel dibattito all’interno del movimento socialista, soprattutto ai suoi albori, era naturale discuterne. Bakunin e Marx si accapigliarono anche su questo. La “educazione spirituale della classe operaia” doveva essere nell’agenda di ogni vero partito socialista: era il riconoscimento che non di solo pane, vive il proletario; il socialismo era una visione del mondo, mica solo una faccenda di forze produttive. Certo, oggi chi accetterebbe di farsi “educare”? Ci crediamo già “educati”, mentre siamo solo formattati. L’occidente ha sparato, nell’ultimo trentennio, tutte le sue cartucce – non solo metaforiche – per convincere i popoli ad aderire alla sua ideologia. Non c’è stato verso. Il mondo non sopporta la riduzione ad uno; così come la vera analisi politica non sopporta la “riduzione ad Hitler”, come argomento di critica alle politiche di questo o quell’avversario dell’atlantismo.

E’ questo che fa impazzire tutti, ad Ovest del Donbass. Solo vent’anni fa si discuteva a Pratica di Mare, di una possibile integrazione della Russia dentro il sistema Nato. Oggi Biden parla della terza guerra mondiale come di uno scenario possibile. E questo in assenza di qualsiasi contraddizione reale basata su modi di produzione alternativi. Il capitalismo ha fallito la sua missione universalista, la folle pretesa di rendere gli uomini e le donne del ventunesimo secolo una massa amorfa di consumatori soddisfatti. Il nazionalismo riemerge ovunque come sottoprodotto della crisi. Il mondo è ferocemente ingovernabile, visto dalle stanze ovattate degli strateghi geo-politici. Certo, mancano all’appello gli “strateghi del popolo”, quelle intelligenze – collettive – che dovrebbero dire alla povera gente tutta – da est a ovest – che le guerre vanno sabotate e le baionette vanno rivolte contro il nemico interno. Ma tutto ciò, al momento, appare ancora molto lontano, guardando gli 800 km, desolati e infuocati, che separano Kiev da Mosca. Oggi, siamo ancora immersi nello scontro fittizio Oriente/Occidente, l’ultima droga che può suscitare un pò di adrenalina nel corpo esausto del capitalismo gobale.

P.S. I nostri giornalisti sono riusciti ad esaltarsi anche per quella specie di corso popolare di costruzione delle molotov, tenuto in una piazza ucraina e trasmesso in pompa magna da tutti i tg. Prudenza, amici dell’informazione: la gioventù vi guarda…

]]>
La carica dei 600 https://www.carmillaonline.com/2014/03/06/13250/ Wed, 05 Mar 2014 23:10:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13250 di Sandro Moiso

balaclava 1

“A furia di incidenti, di guerre provocate ad arte, di primavere improbabili, come quella fasulla in Libia, o come in Egitto dove ora comandano i militari dopo un colpo di Stato nel silenzio più assoluto delle cosiddette democrazie, a furia di nazioni usate come terreno di scontro di interessi internazionali a colpi di bombe e di disinformazione, come in Siria, la situazione potrebbe sfuggire a tutti di mano. Potrebbe scoppiare un incendio che brucia la casa come può succedere a un bambino che gioca con i fiammiferi. Andò così nel 1914, Sarajevo fu solo una scintilla” di Sandro Moiso

balaclava 1

“A furia di incidenti, di guerre provocate ad arte, di primavere improbabili, come quella fasulla in Libia, o come in Egitto dove ora comandano i militari dopo un colpo di Stato nel silenzio più assoluto delle cosiddette democrazie, a furia di nazioni usate come terreno di scontro di interessi internazionali a colpi di bombe e di disinformazione, come in Siria, la situazione potrebbe sfuggire a tutti di mano. Potrebbe scoppiare un incendio che brucia la casa come può succedere a un bambino che gioca con i fiammiferi. Andò così nel 1914, Sarajevo fu solo una scintilla”1. Per una volta Beppe Grillo non ha postato soltanto un’ennesima boutade, ma si è avvicinato ai fatti con una certa precisione. Diamogliene atto. Anche se, dal punto di vista dell’antagonismo di classe, la questione rimane un po’ più complessa.

D’altra parte ciò che scrive sul suo blog era già stato precedentemente affermato qui, su Carmilla, proprio a proposito della Siria2. E oggi, come allora, lo scontro politico in Ucraina potrebbe sia fermarsi, e rimanere tale, sia svilupparsi in un conflitto più allargato. Ciò che conta però è la tendenza e questa rimane sicuramente, e soprattutto da parte statunitense, indirizzata verso una situazione di guerra diffusa, destinata a minare gli equilibri e gli interessi europei nel Mediterraneo e nell’Europa Orientale. Come le code di giovani nazionalisti ucraini pronti ad arruolarsi a Kiev, dopo la visita di Kerry, fanno purtroppo presagire.

Anche se qui da noi si fa a gara, nei mezzi di informazione, nel far vedere chi è più ignorante di cose ucraine3 e di tutto ciò che riguarda la storia recente e passata , dovrebbe essere chiaro che l’Ucraina e, in particolare, la penisola della Crimea costituiscono nei rapporti con la Russia un nodo sicuramente delicato, spinoso e pericoloso. Un autentico terreno minato per la politica, la diplomazia, la geopolitica e l’economia.

Qualsiasi studente che abbia terminato la quarta classe degli istituti superiori dovrebbe, infatti, sapere che uno dei conflitti più sanguinosi della metà dell’ottocento fu proprio quello che vide coinvolte Gran Bretagna, Francia e Impero Ottomano da un lato e Impero Zarista dall’altro per il controllo della penisola della Crimea e di Sebastopoli. Peccato che, troppo spesso, non si spieghi il perché di quella guerra che vide schierate su fronti opposti due potenze che dal congresso di Vienna in avanti avevano costituito il cuore politico e militare della Santa Alleanza ovvero Russia e Gran Bretagna.

Unite nella reazione e nella controrivoluzione, ma nemiche negli scopi di espansione imperiale. Unite nel reprimere qualsiasi sollevazione rivoluzionaria in Europa, ma nemiche giurate dal Caucaso all’Hindu Kush e dal Mare Mediterraneo agli oceani e ai mari del nord. Ma una domanda ancora più difficile sarebbe, per gran parte del giornalismo italiano e per gli insegnanti di storia, chiedere quali fossero, e ancora siano, i porti principali per le flotte russe e quale la loro dislocazione.

Sì, perché il rapporto della Russia, in ogni sua forma statuale (Impero, Sovietica o attuale), con il mare è stato da sempre problema di non poco conto. Impero o nazione dal territorio immenso, ma scarsamente dotato di sbocchi al mare o, per lo meno, di sbocchi al mare utili sia dal punto di vista commerciale che militare. Non per nulla fu proprio lo czar Pietro I detto il Grande a cercare di sviluppare una prima flotta russa a partire dalla fondazione di San Pietroburgo, che per quello czar avrebbe dovuto costituire lo sbocco verso il mare, e l’ammodernamento del paese, in chiave anti-svedese e di politica di potenza sul Baltico ed oltre.

Infatti uno dei motivi della cronica arretratezza dello sviluppo russo aveva, sicuramente, ed ha avuto, anche in epoca sovietica, origine nella scarsità di accessi al mare. Infatti da Atene a Roma, dal Portogallo alla Spagna e dall’Olanda alla Gran Bretagna fino agli Stati Uniti, la libertà di accesso al mare e agli oceani e il loro dominio ha sempre costituito non solo un motivo di potenza ma, anche, di sviluppo. Mentre la Russia, sicuramente imponente come potenza continentale, si è sempre vista invece relegata a pochi altri porti oltre a quelli sul Baltico, mare chiuso e talvolta gelato:

– Primi tra tutti i porti sul Mar Nero e, in particolare, oltre a quello di Odessa, in Crimea. Sostanzialmente chiusi in un mare il cui controllo sta però nelle mani della Turchia (da lì l’insanabile conflitto politico e militare tra le due nazioni di cui si è avvantaggiata da sempre la NATO), attraverso il Bosforo e poi attraverso i Dardanelli.

– Il porto di Vladivostock, in Siberia, nell’estremo oriente del paese, che costituisce il più importante (quasi unico) accesso diretto della Russia all’Oceano Pacifico, ma chiuso tra Cina, Corea del Nord e Mar del Giappone ed estremamente isolato dal resto del paese (come si dimostrò durante la guerra civile quando fu occupato da truppe canadesi, cecoslovacche, americane, giapponesi ed italiane), di cui costituisce la stazione finale della ferrovia transiberiana.

– Arcangelo, posto sul Mar Bianco e scelto nel 1693 dal solito Pietro il Grande come sede dei cantieri navali russi. Idea che fu poi superata dalla fondazione nel 1704 di San Pietroburgo poiché il porto di Arcangelo rimaneva bloccato dai ghiacci per almeno cinque mesi all’anno. Proprio questa impossibilità di navigare per lunghi periodi sul Mare di Barents e sui susseguenti Mar di Kara e sul Mar Glaciale Artico fino al Mare della Siberia Orientale e al Pacifico, spinse l’Unione Sovietica alla costruzione di navi rompighiaccio sempre più grandi e potenti, fino alle attuali a propulsione nucleare. Anche, se in anni recenti, il riscaldamento globale ha permesso alle navi russe di navigare lungo tutte le coste settentrionali fino all’Oceano per tutto l’inverno. E questo costituirà ben presto per gli americani un vero e proprio problema “ambientale”.

– A tutto ciò va poi aggiunto che se la più grande nazione del mondo è sostanzialmente sotto-popolata e la sua popolazione è principalmente concentrata nella Russia europea, ciò è dovuto alla scarsa abitabilità di un territorio, come quello siberiano, in cui la presenza del permafrost 4 impedisce la presenza di qualsiasi forma di agricoltura, con una densità media di popolazione di 2 abitanti per kmq.
BALACLAVA-2
Tutto ciò dovrebbe rendere chiaro che l’accanimento politico-mediatico e militare occidentale attuale nei confronti di territori strategici per la Russia (in Siria, è già stato precedentemente detto, vi è l’unica base navale russa nel Mare Mediterraneo), non potrà essere tollerata né da Putin né da qualsiasi altro gerarca russo (compreso quel vecchio ubriacone di Boris Eltsin cui l’Occidente poté chiedere qualsiasi cosa, ma che non avrebbe mai ceduto la Crimea).
Senza contare, poi, che l’Ucraina, oltre che importante per la sua posizione geo-strategica, è anche fondamentale per la sua produzione agricola, che ne ha fatto per secoli l’autentico granaio d’Europa e della Russia.

Chi spinge, oggi, in direzione della secessione sta cercando la guerra economica e mediatica oppure, domani, guerreggiata oppure, ancora, la semplice sottomissione della Russia alle pretese americane di dominio. Non vi sono altre scuse. Dimenticando, però, che la Russia di Putin sembra poco propensa a piegarsi ai voleri della NATO e dell’Occidente, così come ha già dimostrato in Siria e col sorprendente recupero di posizionamento politico in Egitto.

Certo, la Russia può essere vista come un gigante militare dai piedi economici d’argilla, come è provato ancora in questi giorni dalle difficoltà del rublo e della borsa russa, ma il controllo dei rifornimenti di gas, dai suoi enormi giacimenti verso l’Europa, concede ai suoi governanti un significativo potere di contrattazione, anche se la crisi economica mondiale ha finito col pesare sul valore delle sue riserve di materie prime. Ma la crisi pesa anche sugli Stati Uniti che, nonostante la fasulla retorica obamiana, hanno ben poco da proporre (un miliardo di dollari di aiuti all’Ucraina quando questa ha bisogno di decine di miliardi) se non lo spettro delle sanzioni economiche e militari. Di fatto le stesse modalità operative rimaste nelle mani del leader del Cremlino.

Chi scrive sicuramente non parteggia per la Russia di Putin e, tanto meno, ha mai parteggiato per la retorica “socialista” della Russia staliniana o brezneviana, ma le scuse addotte oggi per un possibile intervento ricordano troppo il pianto sui luoghi santi non rispettati dai russi che gli inglesi usarono in preparazione della guerra di Crimea. Oggi sostituito dal solito cordoglio per la solita generica libertà offesa, dalla lotta all’omofobia o dal sabotaggio delle Olimpiadi di Sochi e del G8 ivi convocato e dal pianto di Papa Francesco per i poveri ucraini.

Come nei riti feciali dell’antica Roma, la colpevolizzazione del nemico diventa allo stesso tempo rituale e fondamentale nella preparazione della guerra. “Attraverso una vera e propria «litis contestatio», alla quale veniva chiamato, come testimone tutto il creato (dei, piante, animali, uomini, magari passanti ignari) […] e segna un momento essenziale nella vicenda di rottura tra tempo di pace e tempo di guerra5 .

Oltre a tutto ciò va ricordato che l’Ucraina ha una lunga, drammatica e contraddittoria storia: sede della prima Rus’ nel medio Evo vichingo; parte della presenza svedese in Russia in età moderna; residuo parziale (proprio in Crimea) del khanato dell’Orda d’oro; protagonista della resistenza anarchica alle truppe bianche e rosse durante la guerra civile; testimone della più grande carestia europea del ‘900 durante gli anni trenta, di grandi massacri di popolazione ebraica durante l’avanzata nazista e dei trasferimenti forzati di molti suoi abitanti di origine tedesca e tatara verso la Siberia dopo il secondo conflitto mondiale.

Ma oggi tutto questo ha poco a che fare con le rivolte e gli interventi militari. Al massimo ne costituisce lo sfondo confuso da cui è possibile trarre ogni tipo di giustificazione. Per l’uno e l’altro fronte. Quello che conta davvero è che la Crimea per la Russia è irrinunciabile e qualsiasi tentativo di strapparla alla stessa (dalla guerra del 1853 e degli anni seguenti fino alla guerra civile, quando fu sede delle armate bianche di Denikin e Wrangel) è di fatto considerato da quella nazione come una minaccia alla propria sicurezza..

Certo, la rivolta di Kiev affonda le sue radici nella corruzione dell’esecutivo e nella crisi economica e Viktor Yanukovich non ha nessun carattere in grado di suscitare la minima simpatia o giustificazione per il suo operato, ma lì i gruppi di sinistra sono stati malmenati, minacciati e costantemente allontanati dalle piazze dagli appartenenti ai gruppi paramilitari di estrema destra. Proprio là dove, come tutti ricorderanno, la “Rivoluzione arancione” di Yulia Tymoshenko aveva già costituito il modello per tutte quelle che sarebbero state le rivoluzioni telecomandate via social network che sarebbero poi diversamente esplose sulle sponde del Mediterraneo, con i risultati che tutti, oggi, possono avere facilmente sotto gli occhi. Là dove i rivoltosi di Kiev, anche quando armati di fucili di precisione sono stati compianti come vittime quasi inermi, mentre qui, in Italia, chi incendia una betoniera è accusato di terrorismo. No, c’è qualcosa che non funziona…c’è del marcio in Danimarca6 .
balaklava_3
L’assenza di precisi riferimenti di classe e la presenza “importante” sulla piazza di un partito di estrema destra come l’Unione Pan-Ucraina “Libertà”, meglio conosciuto come Svoboda, e il fatto che questo abbia superato nelle elezioni del 2012 il 10% dei voti, non fa presagire niente di buono e fa intravedere risvolti e collegamenti politici internazionali certamente inquietanti. E non può bastare a giustificare ciò il fatto che per decenni l’ideologia del potere nell’URSS, prima del suo disfacimento, fosse stata quella del socialismo di stato.

Si tratta forse di dover parteggiare per la Russia? Ancora, dopo l’esperienza dello stalinismo e dell’espansionismo di stampo sovietico? Sicuramente no, ma non va accettata la retorica con cui si paragona la presenza militare russa in quella penisola con le invasioni dell’Ungheria, della Cecoslovacchia o delle altre nazioni europee definite all’epoca, da Stalin e dai suoi successori, come repubbliche sorelle.

Quelle invasioni rappresentavano la sostanziale continuità politica con la Santa Alleanza ottocentesca. Solo che, dopo Yalta, gli Stati Uniti avevano sostituito la Gran Bretagna nel gioco imperiale europeo e avevano comunque visto di buon occhio, e senza muovere un dito, la repressione violentissima delle rivolte operaie di Berlino Est del 1953, di Budapest del 1956 e dei successivi moti cecoslovacchi e polacchi. Là dove occorreva schiacciare l’iniziativa autonoma di classe erano le due super-potenze ad essere davvero sorelle.

Il conflitto rimaneva e rimane sui mari e sugli altri territori, esattamente come nell’ottocento. Ma la crisi, oggi, su uno sfondo in cui la Cina si va affermando come prima potenza economica, spinge i vecchi antagonisti della guerra fredda a bluffare in maniera sempre più pericolosa, creando una situazione di tensione, cui potrebbe bastare un nonnulla per trasformarsi in un autentico conflitto. Che per gli americani risolverebbe non pochi problemi economici, soprattutto se combattuto, ancora una volta, fuori dai propri confini e, magari, nelle vesti di una guerra civile appoggiata dall’esterno. Esattamente come successe nei Balcani a partire dal 1991.

Obama ha promesso pochi giorni or sono di voler ridurre la spesa militare a quella che era prima del secondo conflitto mondiale per destinare risorse allo sviluppo della società; peccato, però, che da più di un secolo per l’economia statunitense sviluppo e guerra coincidano perfettamente. Un conflitto alle porte dell’Europa e con la Russia, o anche solo la minaccia di una sua eventualità, avrebbe come risultato immediato quello di irrigidire e precarizzare i rapporti economici tra Russia ed Europa e tra Russia e Germania, in particolare, e finirebbe con l’indebolire ulteriormente la fragile economia europea e la sua inconsistente unione politica. Tutto a vantaggio del dollaro e delle imprese americane.

Non a caso, mentre la Francia , proprio come nell’ottocento, si è schierata da subito contro la Russia, Italia e Germania tentennano. Soprattutto l’Italia che, dalla rivolta anti- Mubarak in poi, ha perso terreno in Egitto (dove era il secondo partner economico), in Libia (dove era il primo beneficiario del petrolio e del gas libico) e ora in Ucraina ( dove, ancora una volta, è il secondo partner economico). Anche se, come sempre, la classe politica più vile del mondo occidentale alla fine si schiererà con chi saprà fare la voce più grossa.

Infine, una guerra, guerreggiata o anche solo pesantemente minacciata, servirebbe ancora una volta a dividere le società europee ed i lavoratori delle stesse attraverso il peggior sciovinismo nazionalista. Per questo occorre non cadere nella trappola dello schierarsi con le forze e le potenze in campo. Tutte egualmente ambigue.
Il capitale, di qualsiasi e colore e tendenza, è nemico non solo dei lavoratori ma di tutta la specie umana, come le recenti statistiche della rivista scientifica americana Lancet, sull’aumento del 43% della mortalità infantile in Grecia dovuto alle manovre e ai tagli dettati dall’austerità europea, ben dimostrano.

Nostra patria è il mondo intero, ma il capitale ci è nemico ovunque, comunque e soprattutto in casa nostra. Perché, nonostante le convinzioni dei pacifisti integrali, il capitale significa guerra e la società capitalistica è una società costantemente in guerra: tra le imprese, le nazioni, gli imperi e, last but not least, le classi. Per questo non possiamo far altro che augurargli la fine della brigata di cavalleria leggera inglese a Balaklava, la carica dei seicento7 appunto, durante la guerra di Crimea. Fu distrutta. Amen e così sia.


  1. 1914 Sarajevo – 2014 Sebastopoli, Il blog di Beppe Grillo, 01/03/2014  

  2. War! editoriale del 10 settembre 2013  

  3. Basti pensare che Maidan Nezhaleznosti ovvero Piazza Indipendenza è ripetutamente nominata dai nostri media come Piazza Maidan, là dove “maidan” in Ucraina già significa “piazza”  

  4. Un terreno gelato tutto l’anno anche fino a 1500 metri di profondità  

  5. Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli 1966, 1970 e 1988, pag.40  

  6. William Shakespeare, Amleto, atto I, scena IV  

  7. Celebrata in un bellissimo film antimilitarista di Tony Richardson del 1968, I seicento di Balaklava e in un album di folk rock antimilitarista dei Pearls Before Swine di Tom Rapp, sempre del 1968, intitolato Balaklava  

]]>