crisi climatica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Squid game, o vinci o sei nulla https://www.carmillaonline.com/2021/12/03/squid-game-o-vinci-o-sei-nulla/ Thu, 02 Dec 2021 23:30:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69454 di Fabio Ciabatti

Ho iniziato a vedere Squid game incuriosito dal fatto che questa serie è diventata un grandissimo successo tra gli adolescenti e i preadolescenti. In realtà questo prodotto televisivo sudcoreano, disponibile su Netflix, si inscrive in un filone di survival game o death game che conta già molti esempi provenienti dall’estremo oriente (p. es. Alice in Borderland), ma anche dagli Stati Uniti (si veda The wilds o Panic). Quello che però colpisce rispetto a Squid game è che non si tratta di un prodotto pensato per un pubblico di adolescenti a differenza degli altri esempi citati o, per menzionare [...]]]> di Fabio Ciabatti

Ho iniziato a vedere Squid game incuriosito dal fatto che questa serie è diventata un grandissimo successo tra gli adolescenti e i preadolescenti. In realtà questo prodotto televisivo sudcoreano, disponibile su Netflix, si inscrive in un filone di survival game o death game che conta già molti esempi provenienti dall’estremo oriente (p. es. Alice in Borderland), ma anche dagli Stati Uniti (si veda The wilds o Panic). Quello che però colpisce rispetto a Squid game è che non si tratta di un prodotto pensato per un pubblico di adolescenti a differenza degli altri esempi citati o, per menzionare un grande successo cinematografico, della trilogia di Hunger games (attenzione il seguito dell’articolo contiene spoiler)

Il protagonista della serie sudcoreana è infatti Seong Gi-hun, un sottoproletario senza arte né parte di mezza età, indebitato con gli strozzini, lasciato dalla moglie, padre di una bambina nei confronti della quale non riesce a rappresentare una figura di riferimento. Aggiungiamo che vive ancora con l’anziana madre,  impossibilitata a curarsi da una grave malattia per mancanza di soldi, e il panorama delle disgrazie è completo. Si scoprirà nel corso della serie che le sciagure del protagonista nascono con il fallimento della fabbrica dove lavorava: per evitare il licenziamento collettivo si unisce agli altri operai nell’occupazione del posto di lavoro che viene sgomberato violentemente dalla polizia. Altri personaggi di rilievo della serie sono un rampante finanziere, amico d’infanzia di Seong Gi-hun, che ha truffato la sua stessa società, un anziano signore malato di tumore al cervello, una giovane borseggiatrice scappata dalla Corea del Nord in cerca di soldi per far uscire dall’orfanotrofio il fratellino fuggito con lei dal paese natale, un malvivente di mezza tacca violento e prepotente che i suoi complici vogliono uccidere, un immigrato clandestino pakistano.
Tutti questi personaggi fanno parte di un folto gruppo di reietti della società (in tutto 456) che partecipa ad un gioco di cui non sa alcunché salvo che la vittoria assicurerebbe una enorme vincita in denaro. Capiranno soltanto nel corso del primo gioco che chi perde viene ucciso: uomini in tuta rossa e volto coperto da una maschera sparano senza pietà ai poveri malcapitati. Dopo il primo massacro lo spettatore è inchiodato al teleschermo. Subito c’è un altro colpo di scena. Le regole del gioco prevedono che nessuno possa abbandonare individualmente la competizione, ma che la stessa si può interrompere solo se la maggioranza lo decide. Traumatizzati dall’eccidio cui sono appena scampati, ma ancora allettati dal montepremi, i giocatori superstiti si dividono sul da farsi. Prevale di un soffio il game over. Una volta tornati alle loro vite, però, i giocatori ripiombano nelle loro misere quotidianità prive di qualsiasi prospettiva. E quasi tutti decidono di rientrare. Mi fermo qua nella descrizione della trama per non rovinare il gusto della sorpresa. Aggiungo soltanto che le mortali competizioni cui assistiamo sono tutte basate su giochi per bambini. Si comincia con uno due tre stella e si finisce con il gioco del calamaro (squid game, appunto, vecchio passatempo dei bambini coreani a noi sconosciuto).

Da quanto detto, però, si può capire come il mondo descritto sembri assai lontano da quello degli adolescenti occidentali. Metteteci anche un tipo di recitazione che è molto distante dai canoni hollywoodiani cui fin da tenera età siamo abituati e il mistero del successo di questa serie tra le giovani generazioni si infittisce. Certamente c’è l’elemento del gioco, per di più infantile, che ci porta in un universo narrativo vicino a quello dei videogame. Non bisogna poi sottovalutare il livello raggiunto dall’industria dell’audiovisivo in Corea del Sud e la potenza di fuoco di una piattaforma come Netflix che si può permettere di proporre anche una quota di prodotti al di fuori del mainstream americano. Ma tutto ciò non mi sembra sufficiente. Ci sono prodotti ben più smaliziati che possono candidarsi al ruolo di serie cult tra i giovanissimi.
Questo tipo di problemi non se li pone certo chi ha cominciato una nuova campagna allarmistica. Si moltiplicano notizie di bambini che, emulando i giochi di Squid game, finiscono per picchiare chi perde. Si ripetono le denunce nei confronti della serie perché indurrebbe comportamenti violenti. Da più parti è arrivata la richiesta di oscuramento del programma.

Mi viene in mente Gianni Rodari che nel 1980 su Rinascita scrive un articolo dal titolo Dalla parte di Goldrake. Sembra assurdo che qualcuno possa aver considerato nocivo per i bambini un cartone animato che, a quarant’anni di distanza, appare una roba completamente innocua. Eppure è proprio così. Al di là della benefica relativizzazione del nostro punto di vista che questo esempio sollecita, alcune cose scritte da Rodari ci possono essere ancora utili. Egli sosteneva che vedere la televisione, anche per i bambini, non è mai un atto così passivo come si potrebbe pensare. C’è sempre un’attività di decodifica, di interpretazione, di coordinamento di immagini, suoni, rumori e voci. Il senso della storia non è dato in anticipo, va ricostruito. “I bambini si riappropriano dei materiali fantastici che la televisione ha offerto loro (e noi diciamo: li condizionano, li costringono, ecc.) e ne fanno quello che vogliono loro. La drammatizzazione è una riappropriazione spontanea: i bambini giocano a fare Goldrake perché non vogliono subire Goldrake, ma lo vogliono usare per sé stessi”. Invece di polemizzare con questo e altri simili prodotti televisivi, sostiene ancora Rodari, “Bisognerebbe chiedersi il perché del loro successo, studiare un sistema di domande da rivolgere ai bambini per sapere le loro opinioni vere, non per suggerire a loro delle opinioni”. Non deve certo sfuggire la differenza tra un prodotto televisivo come Goldrake e una serie Tv alla Squid Game. Né si può sottovalutare la differenza tra la socializzazione dei più giovani di quarant’anni fa e quelli di oggi. Ai giorni nostri l’insieme dei messaggi che arrivano attraverso gli schermi delle televisioni, dei computer, degli smartphone e delle playstation sono molto più pervasivi di quanto fosse la TV ai tempi di Goldrake. Eppure rimane il fatto che la fruizione di tutti questi media non è meramente passiva. Rimane il fatto che occorre interrogarsi più che condannare.

E allora torniamo a bomba. Perché un prodotto sudcoreano pensato per un pubblico adulto ha così successo tra giovani e giovanissimi del mondo occidentale? Sia ben chiaro, risposte definitive non ne ho. Ho solo un’ipotesi che mi piacerebbe fosse approfondita ben più di quanto io sia in grado di fare. Quello che Squid game drammatizza attraverso il meccanismo narrativo del death game è la traiettoria esistenziale che le giovani generazioni, magari confusamente, percepisco gli sia toccata in sorte: o vinci o muori. O diventi come Steve Jobs o sei destinato a consegnare pizze per pochi euro per tutta la tua vita. O eccelli o sei nulla. All or nothing, per utilizzare il titolo di una serie di documentari in tema sportivo. 
Cosa trasmette un genitore al proprio figlio quando non può accettare che abbia preso un brutto voto e se la prende immancabilmente con l’insegnante? Quale lezione può trarre un ragazzino quando un genitore si scaglia pesantemente contro l’allenatore che l’ha messo tra le riserve? Quale ansia da performance si trasmette a un bambino quando il suo tempo è riempito, sin dalla tenera età, con mille attività e corsi predisposti da genitori con cipiglio quasi manageriale? Quale messaggio arriva dall’eccessiva medicalizzazione di comportamenti di bambini in età scolare che, in molti casi, hanno solo il difetto di essere poco performanti? L’insuccesso è inaccettabile, non essere tra i primi è un dramma, migliorarsi in continuazione è una necessità vitale, non impegnarsi al massimo è patologico.
Di esempi se ne potrebbe fare ancora molti, ma a questo punto preferisco concedermi una breve parentesi autobiografica. Quando, molti anni fa, decisi di iscrivermi a una facoltà umanistica sapevo benissimo che da un punto di vista degli sbocchi lavorativi la mia scelta avrebbe potuto essere penalizzante. Pensavo però, con una certa incoscienza, che se non fossi riuscito a raggiungere il mio obiettivo primario, un piano B lo avrei escogitato. Un posto come impiegato l’avrei comunque trovato, magari attraverso qualche concorso pubblico del cavolo. Quanti giovani al giorno d’oggi potrebbero fare una scelta vocazionale con altrettanta leggerezza? I percorsi professionali devono essere pianificati in anticipo. Guai a non avere le idee chiare sin da subito. Intendiamoci, la mia non è un’invettiva contro i giovani privi di valori o di coraggio. È il nostro mondo ad essere cambiato in peggio. Precarietà diffusa, condizioni di lavoro oppressive, diritti sociali in via di liquefazione, distribuzione sperequata delle ricchezze e dei redditi, frammentazione sociale configurano una società ferocemente atomizzata e, al tempo stesso, polarizzata tra una minoranza sempre più esigua che ce la può fare e una maggioranza sempre più estesa che rischia di rimane esclusa da una vita decente. 

Se quanto detto fin qui ha un senso, non dovrebbe sorprendere il successo di una serie come Squid Game. Il tutto sta a capire come un certo tipo di contenuto viene interpretato e vissuto. Ci si limita a fare il tifo per il protagonista identificandosi con lui senza mettere in questione il meccanismo in cui è immerso? O la proiezione al di fuori di sé di un dispositivo ansiogeno che è stato introiettato può preludere a un suo possibile rigetto? Come ci si pone di fronte alla scelta del protagonista che a un certo punto deve decidere se sacrificare il suo amico d’infanzia è un prezzo che si può pagare per raggiungere la vittoria? Una risposta definitiva a queste domande suonerebbe a questo punto vuotamente retorica o moraleggiante. Mi limito a un’osservazione che può mantenere viva la speranza: le giovani generazioni, attraverso il tema della crisi climatica, stanno scoprendo che non ci si può salvare da soli. Di strada bisognerà farne ancora tanta. Enormi sono le forze in campo che spingono verso una strumentalizzazione e una neutralizzazione di questa protesta. Ancora deboli le voci di chi non si accontenta del solito bla bla bla. Ma un primo passo è stato fatto. Forse non siamo condannati a uccidere tutti i nostri concorrenti per non soccombere nella gara della vita.

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Estrattivismo, conflitti, resistenze https://www.carmillaonline.com/2021/02/19/estrattivismo-conflitti-resistenze/ Fri, 19 Feb 2021 09:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65034 [Il 20 febbraio verrà inaugurato il portale ECOR.network – Extractivism, COnflicts, Resistances. Di seguito ne anticipiamo l’articolo di apertura. Alexik]

ECOR.network  nasce come spazio di dibattito e approfondimento sull’aggressione del profitto contro i territori, e di informazione sui movimenti di resistenza. Si occuperà di tutte le forme di espropriazione attuate, in contesti rurali e urbani, in funzione dell’accumulazione del capitale, con tutti i loro annessi in termini di devastazione ambientale e sociale. Quella devastazione che avanza con la continua espansione dell’estrazione mineraria e dei combustibili fossili, con l’estendersi della frontiera agroindustriale, col proliferare della speculazione urbana, o [...]]]> [Il 20 febbraio verrà inaugurato il portale ECOR.network – Extractivism, COnflicts, Resistances. Di seguito ne anticipiamo l’articolo di apertura. Alexik]

ECOR.network  nasce come spazio di dibattito e approfondimento sull’aggressione del profitto contro i territori, e di informazione sui movimenti di resistenza.
Si occuperà di tutte le forme di espropriazione attuate, in contesti rurali e urbani, in funzione dell’accumulazione del capitale, con tutti i loro annessi in termini di devastazione ambientale e sociale.
Quella devastazione che avanza con la continua espansione dell’estrazione mineraria e dei combustibili fossili, con l’estendersi della frontiera agroindustriale, col proliferare della speculazione urbana, o con la costruzione di grandi reti infrastrutturali, funzionali alla spoliazione sia di comunità locali che di interi continenti.

Una rapina crescente delle risorse di tutto il mondo, che è necessità strutturale e condizione di esistenza di questo sistema di produzione. Lo accompagna fin dalla sua nascita – più o meno cinque secoli fa –  dai tempi in cui è iniziata l’espropriazione delle popolazioni rurali nella vecchia Europa e la depredazione di ogni terra che si trovasse malauguratamente sulle rotte delle aggressioni coloniali.
Procede oggi attraverso gli interventi militari o il ricatto del debito, i programmi di aggiustamento strutturale, gli accordi di libero scambio, le ondate speculative guidate dagli hedge funds. Ultimamente, anche seguendo le strade – solo apparentemente armoniose – della nuova via della seta.

La  profondità di questa rapina trova una parziale espressione nei dati dell’UN International Resource Panel sull’estrazione delle risorse del pianeta che ha raggiunto nel 2017 il livello insostenibile di 90 miliardi di tonnellate all’anno.

Il grafico rende evidenti le fasi di crescita dell’estrazione globale nell’ultimo mezzo secolo: quella degli anni ’80 e ’90 del novecento, indotta dalle politiche neoliberiste dettate dal ‘Washington Consensus’, che va a sommarsi, alla vigilia del nuovo millennio, all’enorme processo di accumulazione che ha proiettato la Cina sulla strada dell’egemonia nell’economia mondiale.
Un cambiamento epocale, quest’ultimo, che ha prodotto nel paese asiatico sconvolgimenti sociali ed ecosistemici inimmaginabili in un arco di tempo così limitato, e che ha richiesto, e continua a richiedere, quantità smisurate di materie prime, attraverso la crescita esponenziale sia dell’estrazione interna che delle importazioni.

Per dare un’idea della grandezza del fenomeno, nel 2018 il 79 % della lignite immessa sul mercato mondiale era destinata in Cina, così come il 94% del torio, il 71% dell’antimonio, il 64 % del cobalto, il 53% dello stagno, il 57% dell’alluminio, il 56 % della soia (e potremmo continuare).

Una pressione gigantesca sulle materie prime, che si addiziona a quella esercitata sia dai paesi emergenti che di vecchia industrializzazione, e che complessivamente va a gravare sui territori vittime di estrazione, sulla loro natura e sulle comunità umane che li popolano.
Sullo sfondo, foreste che bruciano, specie viventi che si estinguono, la temperatura del pianeta che sale.
Eppure l’inversione di tendenza non è all’ordine del giorno nemmeno a fronte dell’imminente catastrofe climatica, che diventa, al contrario, nuovo pretesto per il rilancio dell’accumulazione.

E’ di pochi giorni fa, infatti, la predizione di Goldman Sachs dell’inizio a breve di un nuovo “superciclo” delle commodities, cioè un forte aumento strutturale della domanda (e dei prezzi) delle materie prime, trainato dalla transizione energetica.
La green economy ha infatti un immenso bisogno di rame per “elettrificare il mondo”, di “critical raw materials” (dal litio, nichel e cobalto per le batterie, al silicio per il fotovoltaico), ma anche dei classici ferro, cromo, nichel per l’acciaio delle pale eoliche, del cemento per i plinti che le sostengono e di altro cemento per la costruzione delle grandi dighe, oltre a tutte le materie prime necessarie alla sostituzione dell’intero parco degli autoveicoli, e tanto altro. Tutta questa estrazione necessita a sua volta di energia.
Non è un caso che Goldman Sachs preveda un aumento della domanda e del prezzo del petrolio a breve e medio termine.

In pratica, proprio nel momento in cui dovremmo porre freno alle pressioni sul pianeta, la gestione capitalistica della transizione energetica spinge sull’acceleratore.
Genera una nuova fase di sviluppo dell’estrazione mineraria, del fracking, della costruzione di gasdotti (visto che il gas viene considerato come “combustibile di transizione”), che si accompagna all’estendersi del gigantismo idroelettrico, dei grandi campi di eolico e fotovoltaico, gestiti dalle multinazionali dell’energia.

Impianti anche a fortissimo impatto ambientale, costruiti per la produzione di un’ “energia rinnovabile” che, a giudicare dalle previsioni dell’OPEC fino al 2040, andrà ad aggiungersi, e non a sostituirsi, a quella prodotta coi combustibili fossili, all’interno di una tendenza complessiva di forte crescita per entrambe.

Parallelamente la retorica green non serve a fermare la produzione di normative a favore dell’agroindustria, adottate in gran parte del mondo in questi mesi di pandemia, dall’Unione Europea all’America Latina, nonostante l’impatto sul clima dell’agricoltura industriale e degli allevamenti intensivi sia universalmente riconosciuta. Il sospetto è che anche questo sviluppo possa essere soggetto a operazioni di greenwashing, visto che potenzialmente apre nuovi spazi per un aumento della produzione di biocombustibili e di biomasse, entrambi classificati fra le energie rinnovabili.
Vale a dire: nuova pressione sui suoli, sottratti alla produzione di cibo, nuova distruzione di biodiversità, nuova deforestazione.

Lungi dal condurci fuori dalla crisi climatica, la transizione energetica sembra studiata apposta per aggravarla, oltretutto in nome degli obbiettivi degli Accordi di Parigi (perché la via dell’inferno, si sa, è sempre lastricata di buone intenzioni).

Questa breve analisi tratteggia solo alcune caratteristiche del nostro futuro prossimo, prefigurando l’estensione dello sfruttamento dei territori e la violenza con cui verranno imposte nuove devastazioni.
Violenza che sta crescendo, sia nelle forme ‘ufficiose’, con l’aumento delle esecuzioni extragiudiziali di militanti sociali e ambientalisti di Asia, Africa e America Latina, sia nelle forme ufficiali della repressione di piazza, della criminalizzazione giudiziaria e del carcere per chi si oppone.
Questo rimanda al ruolo degli Stati come guardiani e garanti dell’accumulazione e come artefici delle strategie di pacificazione dei conflitti che ne derivano, dove per pacificazione si intende una funzione complessa, che alterna violenza e politica, al fine di ridurre le popolazioni conflittuali ad uno stato di ‘sottomissione pacifica’.

Su tutto questo occorre soffermarsi, per comprendere la portata mondiale dei fenomeni, conoscerli per contrastarli.
Occorre amplificare le voci di chi si oppone, creare legami internazionali, sostenere le lotte.
Lo faremo sulle pagine di ECOR, mettendo a disposizione  un catalogo virtuale che si arricchisce quotidianamente per facilitare l’accesso ad articoli, notizie aggiornate, saggi, documentari e dossier, prodotti a livello internazionale da movimenti e centri di ricerca, oltre ad analisi e materiali multimediali nostri.
Lo faremo promuovendo occasioni di dibattito. Vi aspettiamo il 24 febbraio per il nostro primo webinar:

Il dibattito, in lingua spagnola, si potrà seguire in diretta sulla pagina FB  di ECOR.Network,  e in differita all’indirizzo del portale.

 

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Le lancette ruotano avanti https://www.carmillaonline.com/2019/08/05/le-lancette-ruotano-avanti/ Mon, 05 Aug 2019 21:14:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53963 di Franco Pezzini

Visioni dell’apocalisse. L’immaginario cinematografico della fine del mondo, a cura di Stella Marega, pp. 278, € 24, Mimesis, Milano-Udine 2018.

Tanto tempo fa, in un mondo lontano lontano. Ossia Torino, metà anni Ottanta: un gruppo di giovani poco più che ventenni radunati attorno al futuro giornalista e scrittore Luca Rastello avvia una rivista, “L’Opera al Rosso”, destinata a produrre alcuni protonumeri, poi all’inizio del decennio successivo due numeri editi da Marietti – al tempo sotto la direzione di un provocatore culturale come don Antonio Balletto – e nel complesso un [...]]]> di Franco Pezzini

Visioni dell’apocalisse. L’immaginario cinematografico della fine del mondo, a cura di Stella Marega, pp. 278, € 24, Mimesis, Milano-Udine 2018.

Tanto tempo fa, in un mondo lontano lontano. Ossia Torino, metà anni Ottanta: un gruppo di giovani poco più che ventenni radunati attorno al futuro giornalista e scrittore Luca Rastello avvia una rivista, “L’Opera al Rosso”, destinata a produrre alcuni protonumeri, poi all’inizio del decennio successivo due numeri editi da Marietti – al tempo sotto la direzione di un provocatore culturale come don Antonio Balletto – e nel complesso un robusto archivio di materiali. Si tratta di volumi monografici, con saggistica, narrativa, schede connettive e grafica: e il numero-sfida con cui Marietti li mette alla prova (“Abbiamo un intero sgabuzzino pieno di prove di riviste, perché dovremmo pubblicare questa?”), da comporre in trentacinque giorni, per scelta del gruppo è sul tema di apocalittiche, millenarismi e parole sulla fine. Nei fatti, varata la collana, i volumi pubblicati trattano però d’altro. Quello sperimentale sulle apocalittiche viene infine ripreso in mano, completamente riaggiornato, per diventare il n. 3: e quasi in beffarda coerenza col tema finisce con l’essere nel segno della fine, travolto da un riassesto nell’organizzazione Marietti che taglia la collaborazione con don Balletto e falcidia le riviste, nonché dalle inevitabili ridefinizioni di vita dei giovani che portano alla chiusura quell’esperienza decennale.

È parso non inutile per almeno due motivi avviare con un preambolo su fatti lontani la presentazione di questo bel Visioni dell’apocalisse, pure a più voci, edito da Mimesis. Anzitutto perché ciascun tempo riflette sulla categorie della fine con linguaggi propri. Nella piccola esperienza dell’“Opera al Rosso” c’era la presa d’atto della fine degli anni Settanta – un mondo che si era chiuso, anche in modo traumatico – e della necessità di lavorare in forma nuova sulle parole importanti. C’era la scoperta di letterature che arrivavano allora in Italia dall’est europeo alla svolta di un’epoca (un est già fervente di suggestioni millenaristiche, e in un momento oltretutto in cui la dimensione dell’eskaton veniva fortemente riproposta da un papa polacco) ma anche dal mondo arabo, le une e le altre a far scoprire parole non ancora consumate da un logorio occidentale. E c’era il riemergere anche più diffuso di suggestioni sulla fine, dal famoso film televisivo The Day After di Nicholas Meyer, 1983, a quella Guerra del Golfo, 1990-91, nel cui contesto i giornali nostrani avevano riscoperto il linguaggio dell’apocalittica (uno studio sul tema, se non già presente, meriterebbe). Ragionare oggi in termini di parole sulla fine guarda a un quadro storico senz’altro diverso, dove gli scricchiolii di quell’epoca sono divenute esplosioni consumate, i punti fermi sono saltati tutti o quasi, all’ottimismo di almeno parte della popolazione è subentrato un pessimismo diffuso e greve.

Questo, si è detto, è un primo motivo. Rinviando per il secondo alle conclusioni, è però tempo di aprire il volume curato da Stella Marega – Ph.D. in Filosofia delle scienze sociali e comunicazione simbolica all’Università dell’Insubria e cultore della materia in Filosofia politica all’Università di Trieste, già Postdoctoral fellow presso la LMU di Monaco e Visiting Scholar all’Università di Belgrado – che al tema dell’apocalisse ha dedicato lunghe ricerche. Il testo, molto bello e ricco di spunti, di impressionante latitudine e virtuale “completezza” in termini panoramici – anche se ovviamente suscettibile di indefinite estensioni in opere future – è coronato da un saggio iniziale della curatrice, Scenari per una ricognizione dell’immaginario apocalittico. Che si sofferma su alcuni nodi essenziali alla base di qualunque trascrizione filmica sul tema, in chiave cronologica e tematica.

A partire da morte e rinascita: da un lato, se non possiamo sapere quando sia nata l’idea di fine del mondo, possiamo però ravvisare una dimensione “apocalittica” nell’elaborazione e ritualizzazione dell’evento morte; dall’altro esiste un bacino immaginale antichissimo che comprende i miti sul diluvio universale, l’idea di una lotta tra forze di luce e di tenebra, quella di cicli del tempo e relativa rottura. Altre accezioni implicate sono rivelazione, in rapporto particolarmente al libro biblico dell’Apocalisse e alle sue interpretazioni; rivoluzione, con forme di secolarizzazione in età moderna dell’escatologia cristiana; crisi, dove il significato originario di decisione presa in stato d’incertezza (ma che richiama anche la fase terminale di una malattia) viene recepito in genere con una sfumatura pessimista; catastrofe, dall’etimo di “rivolgimento”, con l’epoca del postmoderno delimitata

 

simbolicamente da due rovinosi crolli, la demolizione del complesso residenziale Pruitt-Igoe a Saint Louis, completato il 15 luglio del 1972, che ne segna ufficialmente la nascita, e il crollo delle Twin Towers a New York l’11 settembre del 2001, che ne sancisce la fine. Questa correlazione non è casuale: si può affermare anzi che esista una fitta e complessa rete di connessioni tra la dimensione apocalittica e la maggior parte delle logiche culturali che contraddistinguono la fase storica del tardo capitalismo.

 

E ancora visioni, una cifra che già annuncia idealmente l’esperienza filmica; e fine come categoria che, almeno questo sappiamo, giungerà alla Terra al più tardi con lo spegnimento del Sole…

Il testo si divide poi in quattro sezioni, significativamente titolate da suggestioni cinematografiche e precedute da riflessioni della curatrice, per otto contributi critici di ottima qualità, a passare in rassegna oltre un centinaio di pellicole e serie televisive.

Armageddon, la prima sezione, riguarda il tema del conflitto escatologico, e la curatrice ne traccia all’inizio una breve filmografia – comprensiva di riletture laicizzate – attenta a una varietà che non si esaurisce nel cinema “apocalittico” propriamente detto. Gli sviluppi offerti dai contributori la analizzano in chiave ontologica (Tommaso Gazzolo, Apocalypse (is) now?, che s’interroga sul qui e ora dell’apocalisse in riferimento all’orrore di ogni guerra sulla falsariga del film di Coppola) e di velleità egemonica in rapporto col trauma di un evento epocale (Diane Langlumé, La questione dell’egemonia nel discorso apocalittico delle serie televisive fantascientifiche statunitensi, con un esame puntuale ad ampio raggio di quelle prodotte dopo l’11 settembre). Questa sezione già prefigura l’impostazione del volume e l’intelligente originalità dei tagli monografici all’interno di un ampio inquadramento della curatrice.

The Day After è il titolo della seconda sezione, che porta l’analisi nello spazio di un già e non ancora della catastrofe, evocando scenari distopici e post-apocalittici. Si parte qui dall’immaginario apocalittico su Los Angeles – il richiamo stesso nel toponimo agli angeli pare interessante –, presentata in più produzioni filmiche degli ultimi trent’anni come teatro del conflitto ultimo al posto di città-simbolo quali Gerusalemme o Roma (Alfonso Pinto, Los Angeles e l’esperienza dello spazio e del tempo. Immaginari di una città senza futuro); e si prosegue con il tema delle prefigurazioni della catastrofe ambientale, che il cinema ha articolato nel confronto con un ampio ventaglio di istanze scientifiche, politiche e culturali (Davide Mana, Niente margherite nella Terra Promessa. Ecologia dell’apocalisse). L’ampiezza della panoramica e la qualità dell’analisi che dal cinema spazia in realtà verso aree molto diverse – il dibattito scientifico, la letteratura, il ruolo dell’ambientalismo… – rendono questi saggi non solo preziosi supporti per corsi universitari ma letture godibilissime.

They Live, la terza sezione, affronta il tema delle figure mostruose – zombie ma anche angeli, replicanti eccetera – associate alla crisi dell’umano. A partire dalla cifra del corpo come elemento che permette l’essere nel mondo: e la metafora della dissoluzione o riconfigurazione del corpo accompagna in forme diverse l’immaginario apocalittico e le sue declinazioni sull’orizzonte del fantastico. Come nel corpo decaduto degli zombie, mattatori dell’immaginario odierno che vedono stratificare una pluralità di tensioni etniche, politiche, economiche, ambientali (Zara Zimbardo, Specchi mostruosi della pandemia zombie); e continuando con i corpi potenziati di robot e cyborg, con particolare riferimento all’immaginario di quel Giappone la cui storia si è confrontata con catastrofi naturali o belliche emblematicamente apocalittiche (Gianluca Di Fratta, Anime dell’Apocalisse. Visioni di macchine e di corpi mutanti nel cinema di animazione giapponese).

Apocalypto, la quarta sezione, riconduce invece alle origini della paura o più in generale del sentimento della fine in rapporto a futuro, morte e relativi misteri. Lo spazio insomma delle apocalissi private, con focus su due opere cinematografiche senz’altro paradigmatiche. La prima legata alla riflessione di Bergman sul tempo, a partire da suggestioni sul suo termine (Fabio Pezzetti Tonion, Come in una danza di morte. L’attesa della fine ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman); la seconda a un’altra opera nordica nel segno della bile nera, sul percorso di danza nietzschiana che dall’Apocalisse giovannea conduce idealmente a Tarkovskij (Fabio Corigliano, Il principio e la fine. La “danza pastorale della metafisica” in Melancholia di Lars von Trier).

Certo, nonostante la vastità e – torno a scrivere – la virtuale “completezza” della panoramica, lucida è la rinuncia a pretese di esaustività: si tratta di una possibile mappa filmica che intende illuminare una serie di punti-chiave. Del resto, se ogni epoca è “apocalittica” e offre al relativo referente peculiari connotati, ogni epoca declina in modo diverso anche le relative paure.

Il che conduce in chiave di riflessione al secondo motivo della premessa. Nel dialogo sul ventaglio di possibili scenari della fine, a colpire i redattori dell’“Opera al Rosso” era emerso un modello teorico persino più allarmante di quello sulla chiusura traumatica di un tempo: la visione cioè di una società in cui la svolta di una crisi epocale, catastrofica ma potenzialmente aperta a un nuovo inizio, non sarebbe più avvertita come credibile. E dove tutto, semplicemente, si decomporrebbe in via indefinita in un presente protratto e sempre più putrido… Un modello teorico, è ovvio, ma che pro parte può far pensare a società concrete: e in termini di sentire diffuso, per esempio in Italia, l’odierna crisi della categoria-futuro – sorta di tempo verbale desueto per una quota significativa della giovane generazione, al di là di fenomeni clamorosi come Fridays for Future – sembra occhieggiare in quella direzione. Un presente gonfiato a dismisura, che nelle agende della politica vede solo tattica di piccoli interessi e mai strategia (appelli farlocchi a un futuro che non interessa realmente, richiami travisati a un passato che si fa in fretta a manipolare per cortezza diffusa di memoria); gente depressa che si sente minacciata da chi sta peggio, su cui scarica (tramite social, ronde, muri di gomma o di mattoni) un livore flirtante con la patologia… e i più disagiati che, stentando ad arrivare a stasera, possono – forse comprensibilmente – relativizzare ciò che accadrà tra qualche anno. Ecco servito quel che sembrava un modello astratto.

E mentre i piccoli uomini consumano il loro teatrino di distrazioni vittimismi sdegni, le lancette dell’orologio dell’apocalisse – quella climatica, e poi tutte le altre – ruotano silenziose avanti.

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