Cosimo Argentina – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 In un distopico XXIII secolo, quando la Puglia sarà una megalopoli infernale https://www.carmillaonline.com/2017/02/26/36752/ Sat, 25 Feb 2017 23:18:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36752 di Paolo Lago

le_tre_resurrezioniCosimo Argentina, Le tre resurrezioni di Sisifo Re, Meridiano Zero, Bologna, pp. 218, € 14,00

È una vera e propria visione distopica apocalittica quella che Cosimo Argentina ci offre con Le tre resurrezioni di Sisifo Re. Una scrittura rapida, frammentata, caratterizzata da una continua serie di impennate che mimano l’oralità e il parlato ci delinea – in uno stile postcyberpunk – quello che l’intera Puglia sarà nel XXIII secolo, Apuleia, una immensa megalopoli, una delle più grandi e importanti città del mondo:

La città è un’enorme striscia di terra una volta considerata una regione. APULEIA. Duemila chilometri quadrati [...]]]> di Paolo Lago

le_tre_resurrezioniCosimo Argentina, Le tre resurrezioni di Sisifo Re, Meridiano Zero, Bologna, pp. 218, € 14,00

È una vera e propria visione distopica apocalittica quella che Cosimo Argentina ci offre con Le tre resurrezioni di Sisifo Re. Una scrittura rapida, frammentata, caratterizzata da una continua serie di impennate che mimano l’oralità e il parlato ci delinea – in uno stile postcyberpunk – quello che l’intera Puglia sarà nel XXIII secolo, Apuleia, una immensa megalopoli, una delle più grandi e importanti città del mondo:

La città è un’enorme striscia di terra una volta considerata una regione.
APULEIA.
Duemila chilometri quadrati incluse le piattaforme su ben due mari e alcune isole coperte da tensostrutture che le fanno apparire dei circhi galleggianti.
La città è saldata alla crosta terrestre e artigliata al cielo. Lo spazio aereo è solcato da elicotteri, dirigibili, elicomobili e aerei a reazione destinati verso stazioni orbitanti e colonie del sistema solare e dello spazio interstellare (p. 19).

In questo spazio che ammicca alla Los Angeles di Blade Runner, si muovono i protagonisti della storia, i detective privati Sisifo Re, il cui volto è coperto da una maschera da clown e che, come i precox di Minority Report di Philip K. Dick (nonché, cinematograficamente, di Steven Spielberg), possiede la facoltà di prevedere i delitti e Oscar Orano, detto Oh-Oh, il narratore intradiegetico di buona parte delle avventure. I due vengono ingaggiati dalla bellissima Selina Corbeves per indagare sull’omicidio del proprio marito, che ancora dovrà essere commesso. Intanto, dopo la deposizione e l’uccisione del dittatore, ad Apuleia si è scatenata una micidiale guerra civile fra le due fazioni capeggiate dai figli del tiranno caduto, che miete vittime e distruzione nelle strade.

La città è rappresentata come uno spazio abnorme che disintegra gli stessi concetti della metropoli postmoderna: la mescolanza più ostentata di stili architettonici – grattacieli, edifici-cattedrali, enormi pale eoliche, «condomini uno uguale all’altro, un vero incubo di cemento armato grigio» costruiti «a ridosso di vecchie caverne neolitiche» (p. 51), piattaforme spaziali, circhi galleggianti, fabbriche abbandonate, una vecchia torre saracena – è resa uniforme e annientata, nei suoi stessi nuclei basilari legati all’estetica postmoderna, dalla distruzione, dal sangue che scorre a fiumi nelle strade, dal vero e proprio inferno che regna dovunque. Si legga, ad esempio, questa descrizione della città:

Quaranta milioni di esseri viventi che strisciano sul catrame bagnato leccando l’asfalto e mormorando preghiere laiche. Vermi sclerotizzati che sbavano sul calcestruzzo finendo nei rotori dei seduttivi elicotteri. Territorio come lastre funebri, tumuli di marmo venato di acrimonia. Quartieri saldati uno all’altro da un’architettura schizofrenica e dalle mani dei profanatori della madre terra (p.15).

La distruzione e l’orrore livellano e annientano quell’estetismo postmoderno che, secondo Fredric Jameson, appartiene alla «logica culturale del tardo capitalismo». L’autore, infatti, ci presenta gli orrori e le devastazioni, dipinte come in un fumetto fantasy-horror, come una deriva dello stesso meccanismo neocapitalista. Le distruzioni, le uccisioni, gli orrori vengono perpetrati solo e soltanto in nome di un potere che, grazie all’orrore e alla morte, riesce costantemente ad autogenerarsi: «Il potere genera potere, non lo abbatte. I figli del tiranno avranno carne e terra in abbondanza. Le corporation più importanti non vedranno diminuire i loro traffici interni ed esterni alla terra. Le colonie hanno paura e un po’ di paura non guasta» (p. 65). I figli del deposto dittatore seminano morte e distruzione per nuovo potere e nuovi affari:

Nessuno. Nessuno fermerà nessuno. L’esercito combatterà il minimo indispensabile e le forze in campo si distruggeranno a vicenda. I figli del tiranno appariranno quando sul terreno non ci sarà che morte finale e desolazione. Si mette in conto la distruzione della più grande città terrestre per una svolta, per la nuova era. Il tiranno aveva puntato su Apuleia, i figli del tiranno vivranno lontano da qui, avranno femmine nordiche o nere, commerceranno con il punto di Lagrange L1 e L2 e con le basi lunari. Le corporation fonderanno altre colonie e lì prolifereranno gli affari. Il sangue degli infetti abitanti di Apuleia sarà un vessillo da sbandierare in faccia a futuri moti insurrezionali. Tutti muoiono se osano ribellarsi al potere (ibid.).

Se il potere, in sé, non potrà essere abbattuto e continuerà a mietere vittime anche sulle colonie interstellari, i singoli esponenti del potere possono essere eliminati e trovare la morte, grottescamente, in mezzo ai simboli della loro ricchezza. Così accade, ad esempio, al potente Egisto Crovo che viene ucciso nel suo ufficio e il cui sangue bagna «gli incartamenti dei suoi lucrosi affari» (p. 74), mentre «il tronco del suo corpo è appeso al lampadario fatto di migliaia di gocce Swarovski» (ibid.).

All’interno di questo mondo devastato da lotte per il potere, Sisifo Re e Oh-Oh si muovono in varie dimensioni: se Sisifo sfugge all’orrore – un po’ come il Billy di Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut – viaggiando nel tempo grazie ad uno squinternato macchinario, Orano si catapulta in dimensioni parallele per mezzo di un trasmettitore tascabile i cui sensori sono innestati nella sua corteccia cerebrale. Nella dimensione parallela, non meno devastata dall’orrore di quella reale, Sisifo Re è un tenente di polizia, Orano un sergente, il suo assistente, mentre Selina Corbeves si trasforma addirittura nel capo della polizia. Nonostante queste ‘fughe’ nel tempo e nello spazio, l’orrore e la devastazione imperversano su Apuleia non meno delle bombe alleate sulla Dresda di Vonnegut. Sulla megalopoli e sui vari quartieri periferici – ribattezzati con neologismi, in alcuni casi legati a luoghi reali, come Brundisium o Otrantown – si è scatenata una vera e propria ridda di demoni, di zombie, di spettri, di «gnomi deformi» e «nani pazzi», di stregoni «dauniani», di «stigiani», creature infernali il cui nome rimanda al fiume dell’Ade, lo Stige, di divoratori di cadaveri. Fin dalle prime pagine del libro gli scenari di un orrore splatter si ripetono in attoniti sipari infernali. Ad esempio:

Bagliori, fuochi, insegne in innaturale esplosione, gruppi armati che si scontrano nella notte. La zona sudoccidentale in mano alle bande di fedeli al tiranno. Donne crocifisse agli angoli delle strade. Bambini incandescenti. Tutti che fuggono da tutto. Le case forzate, le porte sventrate. I primi piani dei palazzi, vuoti: abbandonati. Sangue a secchiate (p. 24).

Diversi sono, nel testo, i diretti riferimenti all’Inferno. Per esempio, in uno dei suoi viaggi nella dimensione parallela, Oh-Oh compie una vera e propria catabasi, una discesa all’inferno, nel «regno dei morti del Corvisea» (p. 67), mentre durante la loro fuga finale, i due protagonisti si ritrovano in un «tetro girone dantesco» (p. 213). Una vera e propria ‘cattedrale’ infernale è l’istituto di psichiatria e bioantropologia, divenuto un gigantesco obitorio dove regnano incontrastati il professor Guglielmo Federico Zoro, «l’ultimo dei lombrosiani sulla terra» (p. 29) e il suo assistente, il gobbo Roald Amundsen (che ha lo stesso nome dell’esploratore norvegese del Polo Sud). Dal professor Zoro, Sisifo e Oh-Oh si recano per avere consigli riguardo alle loro indagini.

Il pastiche e la mescolanza sembrano essere i punti di forza del romanzo di Argentina; oltre alla già citata mescolanza architettonica ed estetica che investe anche le descrizioni degli interni degli edifici – come lo stesso istituto del professor Zoro o l’ex sanatorio di San Bartolomeo – la città di Apuleia è presentata come uno squinternato melting pot di razze e culture differenti, in un curioso ibrido fra antichità e modernità: «Polacchi, dervisci, ugonotti, lettoni, turcomanni, afrogiamaicani, ittiti, siberiani… li puoi trovare tutti se osservi bene e se conosci un po’ di etnologia» (p. 45). La stessa lingua è oggetto di ardite mescolanze: a neologismi e vocaboli inglesi si alternano riferimenti al mondo classico e citazioni dall’epica, come «Cantami o diva», o «arma virumque cano».

Questo stile rapido, incline al pastiche e all’ibridazione grottesco-carnevalesca, racchiude, nel profondo, un cuore triste e malinconico: Sisifo, non a caso, nel nome rimanda direttamente al personaggio della mitologia greca condannato da Zeus a trascinare sulla cima di un monte una pietra destinata in eterno a ricadere giù. Nel libro, infatti, vi sono diversi riferimenti al mito, al fatto che anche Sisifo Re sta continuamente trascinando una pietra, la pietra di un dolore personale che non lascia tregua. Sotto il trucco da clown si cela un personaggio martoriato, oppresso dalla stanchezza e dalla depressione, ferito di fuori e di dentro, nella seconda parte della storia ostinatamente deciso a trascinare con sé il cadavere di un bambino ucciso durante gli scontri di Apuleia. Sisifo con in braccio il piccolo cadavere diventa un po’ l’emblema del dolore degli uomini oppressi da un potere violento che infligge guerre e distruzioni in nome del denaro e delle ricchezze. Anche Oh-Oh è presentato come un derelitto alla deriva in quel mondo apocalittico, soprattutto nelle parti in cui vengono narrate le sue avventure nella dimensione parallela: allora appare perennemente tormentato e martoriato dalla ricerca della sua amata Dori, perduta e mai più ritrovata. I due si muovono come nuovi picari nell’inferno metropolitano di Apuleia – che potrebbe benissimo rappresentare una metafora della nostra attuale società distopicamente rivisitata – insieme a una massa di esseri umani che hanno letteralmente toccato il fondo dell’abiezione e del dolore. E, una volta toccato il fondo, forse, i nostri personaggi non possono fare altro che risalire: forse, in fondo al baratro dell’odio e del dolore brilla ancora qualche barlume di speranza.

]]>
Abate, Cacciatore, Argentina: il noir è vivo https://www.carmillaonline.com/2014/11/26/abate-cacciatore-argentina-lunga-vita-noir/ Wed, 26 Nov 2014 22:10:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19040 di Girolamo de Michele

Cacciatore_DifferenzaSo it seems in the end / Is this what we’re all living for today? (Queen, Is this the word we created?)

A proposito di: Francesco Abate, Un posto anche per me, Einaudi Stile Libero, Torino 2013, 226 pp., € 17.50; Giacomo Cacciatore, La differenza, Meridiano Zero, Bologna 2014, 170 pp., € 12.00; Cosimo Argentina, L’umano sistema fognario, Manni, Lecce 2014, 184 pp., € 17.00

Non finirà mai di stupire, la vitalità del noir: senza bisogno di costruirci sopra una metafisica o una teoretica, basta prendere atto di come, [...]]]> di Girolamo de Michele

Cacciatore_DifferenzaSo it seems in the end / Is this what we’re all living for today? (Queen, Is this the word we created?)

A proposito di: Francesco Abate, Un posto anche per me, Einaudi Stile Libero, Torino 2013, 226 pp., € 17.50; Giacomo Cacciatore, La differenza, Meridiano Zero, Bologna 2014, 170 pp., € 12.00; Cosimo Argentina, L’umano sistema fognario, Manni, Lecce 2014, 184 pp., € 17.00

Non finirà mai di stupire, la vitalità del noir: senza bisogno di costruirci sopra una metafisica o una teoretica, basta prendere atto di come, ogni volta che sembrano suonate le sue campane a morto, il noir si rigeneri trovando al proprio interno l’elemento a partire dal quale fiondarsi in avanti – il passato è forse il potenziale elemento di un futuro anteriore?
Così, nel momento in cui il genere sembrava sommerso dal ritorno dello sbirro “buono” – sia come personaggi che come autori –, e le maniglie di una deprecabile pancetta riformista arrotondano il girovita di autori un tempo affilati e taglienti, ecco qui tre libri diversi che ci dicono che il noir è ancora possibile, per la semplice ragione che ha ancora e sempre qualcosa da dirci.

Perché ci piacciono i sociopatici

In un suo aureo libretto di due anni fa sulle serie televisive nel “tardo capitalismo”1, Adam Kotsko ha identificato la figura del sociopatico come chiave di lettura di molte serie televisive. Il sociopatico di Kotsko non è uno psicopatico, non necessariamente è un serial killer – ed anzi, spesso gli si oppone. Kotsko nomina Homer Simpson, Eric Cartman (South Park), Tony Soprano, il gangsters Stringer Bell e il tossico Marlo di The Wire (ma avrebbe potuto aggiungere anche il detective Jimmy McNulty), Don Draper di Mad Men, Dexter, il dr. House; Jason Read aggiungeva all’elenco Walter White: oggi potremmo senz’altro inserirvi Lisbeth Salander, Ryan Hardy (The Following), la coppia di True Detective Rust Cohle e Marty Hart (il secondo dei quali palesemente ispirato a diversi detective interpretati da Al Pacino, con più di una citazione rivelatrice), e la coppia di House of Cards Frank e Claire Underwood, versione tardomoderna degli shakespeareani Riccardo III e Lady Macbeth.
Abate_un_posto_anche_per_meIl sociopatico è incapace di trovare il proprio ruolo all’interno della struttura relazionale e comunicativa del mondo attuale: «Il sociopatico è un individuo che trascende il sociale, che non è vincolato da esso, in nessun modo e che può quindi utilizzare il sociale come un mero strumento». La sua personale visione delle cose «rappresenta un tentativo di sfuggire alla natura inevitabilmente sociale dell’esperienza umana», e reagisce a una situazione di disagio (Awkwardness) nella quale le regole sociali sanno dirci che quello che facciamo è sbagliato, ma non sono capaci di argomentare in modo persuasivo qual è la cosa giusta che dovremmo fare. In un precedente libro, intitolato appunto Awkwardness (John Hunt Publishing, 2010) Kotsko ha sostenuto che la risposta a questa situazione kafkiana potrebbe essere quella di assumere la situazione di disagio, piuttosto che cercare di evitarla: «If the social bond of awkwardness is more intense than our norm-governed social interactions, it also has the potential to be more meaningful and enjoyable» (se il vincolo sociale del disagio è più intenso delle norme che governano le nostre relazioni sociali, allora esso ha la possibilità di essere più desiderabile e significativo). Assumere il disagio come condizione ordinaria ha il costo di sacrificare confort e prevedibilità: ma chi dice che confort e prevedibilità siano sempre desiderabili, dopo tutto?
Il sociopatico, insomma, ci attrae per la sua possibilità di aprire un mondo possibile nel quale, come lui, possiamo scivolare a lato della gabbia di relazioni sociali (mostrandocene al contempo la falsità) nella quale siamo sempre rinchiusi. La sua posizione sociale è alternativa tanto al serial killer psicopatico – la cui pervasività sta gradualmente minando le serie noir – quanto ai gruppi sociali: il colpo di genio della prima serie di The Following era proprio la contrapposizione tra il solitario Ryan Hardy e la capacità di tessere relazioni sociali del serial killer Joe Carroll; così come l’intuizione iniziale di Criminal Minds era la contrapposizione tra una posse di profiler sociopatici e la psicopatia negativa dei serial killer. Ambedue le serie sono poi naufragate nell’ossessiva reiterazione dei serial killer, scivolando in un’estetica del soft-gore (con punte di franco ridicolo) che ha contribuito, assieme alle derive fascisteggianti di Frank Miller, a preparare l’avvento gore-youtube delle start up del twitter-islamismo ( Quadruppani): il boia in nero che parla nel video puntando il coltello verso lo spettatore e tenendo per il collo la vittima occidentale rimanda, per rovesciamento, al serial killer che viene a introdursi a casa tua, titilla la tua paranoia e ti induce ad accettare il comando negativo della governance sociale in cambio di una promessa di sicurezza.

Il ritorno del noir

In questo momento, le librerie ci offrono tre libri italiani nei quali possiamo ritrovare la figura del sociopatico fotografata da Kotsko, all’interno di una struttura narrativa noi. Nei quali non ci sono né il serial killer psicopatico, né il “poliziotto buono” in stile law & order. Nei quali, soprattutto, il noir è dato dalla tonalità, dall’ambiente nel quale i personaggi si muovono. Non dimentichiamo che il noir è, salvo rare eccezioni, anche il racconto di una città, di come viene vissuta, attraversata, calpestata: e se in Un posto anche per me e in L’umano sistema fognario i personaggi si muovono lungo le direttrici che collegano le periferie alla città, in La differenza l’attraversamento porta a condensare la città in un solo luogo – un rione, e al suo interno un appartamento.
Tre romanzi, tre personaggi. Peppino, il primo, è un’anima in pena che vaga sugli autobus e nelle periferie romane, diverso – o diversamente abile – nella propria incapacità di costruire relazioni di causa-effetto ordinarie, ma capace di una visione ingenua e sognata – idiota, nel senso dostoevskijano del termine – del mondo: in qualche modo perseguitato da un passato che con molta lentezza, goccia a goccia, ci si rivelerà. Con Peppino, Francesco Abate riprende un discorso sulla diversità – sulla quotidiana diversità che ci insegnano i condannati ad essere “diversi” – intrapreso in Chiedo scusa: Peppino vive in una sorta di prigione itinerante – «Era stato deciso per la morte. Poi mi hanno dato questo ergastolo», tra il ghetto e la Roma-bene: una vita nella quale «ci hanno sempre imposto di imparare come andare da un punto A fino a un punto B. Ma non ci hanno mai spiegato che è nel viaggio fra questi due punti il succo della vita».
Mario Ombra, uno sbirro che decide all’improvviso di regolare a modo suo i conti col killer della mafia che riconosce in una ordinaria fila in farmacia – una versione sporca di Un borghese piccolo piccolo, nella quale non c’è la lenta discesa all’inferno del piccolo-borghese, perché nell’inferno Mario abita già da tempo, forse per un trauma psicologico di cui sapremo lo stretto necessario, e forse neanche quello: un inferno del quale la chiave di lettura è l’incontro tra un bambino e un gruppo di cartari che potrebbero essere tanto mafiosi quanto sbirri in camuffa – «Tutti, anche al bar all’angolo, gli sembrano schifosamente amici. O infidamente nemici»: la sottigliezza, per non dire la porosità del confine tra ordine e devianza, è la vera sfida, la camminata del funambolo sul filo, di questo libro.
Emiliano Maresca, uno dei tanti sociopatici che Cosimo Argentina ci ha raccontato, da Maschio adulto solitario a Per sempre cannibale, impegnato un una delirante difesa del proprio spazio vitale – l’appartamento e la pensione della madre morta e schiaffata nella ghiacciaia delle birre – e una vendetta cui finalizzare l’odio verso il padre che non ha avuto, invischiato in una città merdosa nella quale «il sole è un copertone incendiato mollato lì, sul ciglio dell’universo» e irretito da una socialità falsa e stereotipata – quella del tarro maschio testosteronico, che finisce col fare della propria sprezzante ironia una seconda natura  che lo ingabbia tanto quanto quella da cui vorrebbe, o forse no, evadere. Argentina ha una sorta di perverso talento nella creazione di figure sgradevoli, talora ripugnanti – in particolare nei loro fantasmi sessuali: ma è forse migliore, ciò che troviamo al di là e al di fuori del romanzo?
Roma (una certa Roma), Palermo, Taranto: tre luoghi dai quali sarebbe bene scappare, ma nei quali Peppino, Mario e Emiliano restano invischiati, con le suole delle scarpe incollate al bitume che si scioglie: il bitume di un mondo falso, sempre sulla lama di un equilibrio «che permette a una società, al limite del cinismo, di nascondere ciò che vuole nascondere, di mostrare ciò che vuole mostrare, di negare l’evidenza e proclamare l’inverosimile. L’assassino non trovato dalla polizia può essere ucciso dai suoi a causa degli errori che ha commesso, e la polizia può sacrificare dei suoi a causa di altri errori, ed ecco che questa compensazione non ha altro scopo che la perpetuazione di un equilibrio che rappresenta l’intera società nella più alta potenza del falso» ( Deleuze). Il ruolo della città è, in questi tre romanzi, decisivo: i processi di soggettivazione, di creazione in movimento dei protagonisti – non nature immutabili, ma prodotti della storie e della trama – sono gli stessi processi, regole, dinamiche sociali della metropoli tardomoderna: la falsa natura della metropoli è un artefatto, ma al tempo stesso è l’artefice di quella falsa natura che è il protagonista della trama – al quale, ai quali solo la possibilità di aderire alle proprie derive, di fare dell’inadeguatezza l’unica possibilità di adeguamento del sé a se stesso, può offrire una via di fuga. Il punto non è che Peppino, Mario, Emiliano siano a proprio agio nella propria esistenza come Bruce Chatwin nel deserto: il punto è se arriveranno a chiedersi “che ci faccio io qui?”. E la scrittura, diversa ma convergente, dei tre autori, che ad ogni passaggio sottrae al lettore elementi che possano permettergli di sollevare lo sguardo al di là della soggettiva del protagonista, s’ingegna nel prolungare l’attesa per lo scioglimento del dubbio: Cacciatore procede per paratassi, con violente elisioni e volute spigolosità, Argentina per accumulo manieristico di metafore che schermano il futuro in un presente senza uscita, Abate con una lingua solo in apparenza semplice, costruita con cura a misura di Peppino. Tocca ancora ripetere che gli autori di noir sono capaci, oltre che di narrare, di scrivere?

argentina_sistemaLa regola del noir

In questi tre romanzi vale una regola – forse la regola – fondamentale del noir, enunciata con chiarezza da Manchette: «il noir è caratterizzato dall’assenza o fiacchezza della lotta di classe, e dalla sua sostituzione con l’azione individuale (necessariamente disperata). Mentre i delinquenti e gli sfruttatori detengono il potere sociale e politico, gli altri, gli sfruttati, la massa, non sono più il soggetto della Storia, e ricoprono per lo più “ruoli secondari”, socialmente marginali. Qui però la lotta di classe non è assente come nel romanzo poliziesco a enigma; semplicemente, gli oppressi sono stati sconfitti e sono costretti a subire il regno del Male». Collassa sul Regno del male la scena del noir, e lo svela come tale: una scena catastrofica, sulla quale la catastrofe non è un incidente della storia, ma un fatto sociale. In qualche modo, i tre personaggi sono schiacciati dalla pesante ombra di una catasttrofe interiore, un evento passato – la figura di Marisa per Peppino, la perdita della figlia per Mario, l’assenza del padre per Emiliano –, e costretti in un mondo senza apparente via d’uscita, nel quale l’impossibilità di trovarsi a proprio agio trasforma l’evento passato in un destino: come se ciò che accade, ciò che noi lettori vediamo svolgersi, sia pre-determinato, pre-significato e pre-giudicato da un passato al quale non si può sfuggire. Ma è la stessa condizione di inadeguatezza – e l’impossibilità, per il lettore, di un’identificazione catartica senza residui – a lasciare aperta la possibilità, tanto nella trama quanto nel reale cui le narrazioni fanno segno, a un futuro diverso.
«Il destino esiste, ma a posteriori: il noir ne presuppone non l’eternità, ma la sua creazione» ( De Michele). Il mostro d’acciaio che sovrasta e sovradetermina Taranto, le periferie romane, i quartieri popolari di Palermo esistevano ed esisteranno al di là dei brevi momenti in cui dalle cronache locali sbucano sulle prime pagine.
Nulla, di questi microcosmi metropolitani, merita di essere salvato.
Che in queste città marcescenti dimori l’eventualità del sogno di una cosa è possibile, che questo sogno possa essere costruito è il problema all’ordine del giorno: This is the word we created.


  1. Adam Kotsko, Why we love sociopaths. A guide to late capitalist television, Zero Book, 2012; l’essenziale del libro è stato pubblicato come estratto sul “New Enquiry Magazine” n. 3; un suo interessante sviluppo, come commento a Breaking Bad, è Jason Read, Essere il capo di sé stessi: Breaking Bad e l’Imprenditore, “uninomade”, agosto 2012. 

]]>