Cosa Nostra – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Stato, fuorilegge e giornalismo d’inchiesta nella Sicilia della strage di Portella della Ginestra https://www.carmillaonline.com/2017/09/13/40453/ Tue, 12 Sep 2017 22:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40453 di Giovanni Iozzoli

Tommaso Besozzi, La vera storia del bandito Giuliano (a cura di Enrico Mannucci), Milieu edizioni, Milano, 2017, pp. 206, € 15,90

Bene ha fatto Milieu Edizioni a riproporre oggi La vera storia del bandito Giuliano, uno dei libri che, a suo tempo, contribuì alla nascita del giornalismo d’inchiesta in Italia. Lo scrisse Tommaso Besozzi, inviato storico di «Epoca», e quel testo rappresentò una delle prime occasioni in cui una “controinchiesta” giornalistica smontò e sbugiardò la narrazione ufficiale di una vicenda dal grande rilievo nazionale e dalle forti ricadute politiche.

Nell’Italia [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Tommaso Besozzi, La vera storia del bandito Giuliano (a cura di Enrico Mannucci), Milieu edizioni, Milano, 2017, pp. 206, € 15,90

Bene ha fatto Milieu Edizioni a riproporre oggi La vera storia del bandito Giuliano, uno dei libri che, a suo tempo, contribuì alla nascita del giornalismo d’inchiesta in Italia. Lo scrisse Tommaso Besozzi, inviato storico di «Epoca», e quel testo rappresentò una delle prime occasioni in cui una “controinchiesta” giornalistica smontò e sbugiardò la narrazione ufficiale di una vicenda dal grande rilievo nazionale e dalle forti ricadute politiche.

Nell’Italia conformista degli anni ’50, quel libro coraggioso – che sfidava sul campo la versione di Stato, l’acquiescenza al potere, l’omertà diffusa, i pregiudizi e i luoghi comuni – diventerà un esempio per molte altre “controinchieste” (pensiamo a quelle su piazza Fontana) che con il tempo si consolideranno come una specie di genere  giornalistico. Nell’Italia appena uscita dal fascismo, nel clima da guerra fredda che si andava stringendo sulle coscienze, il giornalismo critico e indagatore che sbugiarda il potere, ha una sua dinamica dirompente e di forte pedagogia democratica: l’opinione pubblica italiana imparava timidamente che le istituzioni non sono ammantate di sacrale sincerità; possono mentire, depistare, deviare dalle loro funzioni. E coltivare il dubbio e il controllo sul loro operato, non è disfattismo ma sano scetticismo democratico.

Tanto Ferruccio De Bortoli nella prefazione, quanto il curatore Enrico Mannucci – «custode attento e non acritico dell’eredità besozziana» – ci raccontano molto sulla figura di questo vecchio cronista di strada, scorbutico, coraggioso, anticonformista senza esibizionismi, dal linguaggio sobrio ed efficacissimo:

Quello dei grandi inviati che non hanno bisogno di romanzare nulla perché sono in grado di descrivere tutto. Con serietà, con rispetto della realtà, che non piegano ai loro desiderata. Besozzi si mimetizza. Cerca di capire. Non è schiavo di pregiudizi nordici (p. 7).

Ma se lo scopo di questa riproposizione editoriale è celebrare la memoria del cronista e di un giornalismo che non c’è più, il bandito Giuliano non si accontenta di restare mero oggetto di indagine – reclama anch’egli il suo posto nella storia, al fianco di Besozzi, possiamo dire. Tanto che questi due archetipi narrativi – il fuorilegge inafferrabile e il giornalista d’assalto – quasi si rispecchiano l’uno nell’altro, dentro una comune vocazione al declino e al fallimento. Salvatore Giuliano finirà ammazzato per decisione della mafia e della politica, che prima lo utilizzeranno e poi ne disporranno l’esecuzione e Besozzi, il grande inviato, morirà solo, sucida e depresso, in un mondo giornalistico in rapida evoluzione in cui farà sempre più fatica ad inserirsi. Due vite sideralmente diverse, che incrociarono per qualche mese i loro destini nelle campagne siciliane e legarono per sempre i loro nomi.

Quando l’inviato di «Epoca» arriva in Sicilia, dopo Portella della Ginestra, è già un professionista stimato. Il bandito di Montelepre è al culmine del suo effimero potere e della sua notorietà, pesando come una minaccia internazionale «sul prestigio della Repubblica». Giuliano ruba, taglieggia, recluta truppe, spadroneggia su un vasto territorio – cinquemila km quadrati tra borghi e montagne – e trova anche il tempo di farsi intervistare dalla grande stampa estera e lanciare messaggi politici contraddittori – a seconda dei soggetti che lo assoldano o lo strumentalizzano. La strage di Portella segna il suo consapevole arruolamento tra le forze d’ordine – Cosa Nostra, agrari, DC – che combattono senza esclusione di colpi la battaglia anticomunista e antioperaia.

Besozzi fotografa subito il clima diffuso:

gli abitanti della zona erano assolutamente favorevoli a Giuliano, salvo rarissime eccezioni […] E in gran parte era stata proprio la polizia a creare quell’atmosfera, quel rancore, quello spirito di rivolta. Ha usato metodi spietati. Ancora una volta la repressione indiscriminata non aveva risolto nulla, anzi aveva raggiunto l’effetto contrario. La limitazione odiosa e assurda dell’erogazione dell’acqua, la chiusura dei negozi di alimentari che ha costretto donne e bambini a far la fame; le retate in grande stile che riempivano le carceri di Palermo, di Termini Imerese, di Trapani, di Cefalù; il ripristino del confino di polizia in seguito al quale migliaia di persone sono salpate verso le piccole isole (p. 74).

La povera gente condivide il mito fasullo dell’intrepido bandito, fino a non vedere – persino dopo il massacro di Portella – le collusioni e le complicità delle sue bande: forse questa gente preferisce il banditismo e il suo falso alone di riscatto, alla militarizzazione ad opera dei carabinieri, che si comportano come una truppa d’occupazione straniera. L’occhio del cronista è freddo e imparziale; non si autocensura – come tristemente tende a fare il giovane giornalismo contemporaneo -, non teme una narrazione cruda, critica, impietosa.

Il contesto politico della Sicilia post-bellica in cui si muove Besozzi è intricatissimo: i poteri della repubblica poco legittimati, la presenza americana incombente, le suggestioni indipendentiste, sapientemente stimolate da settori atlantici, le lotte sindacali e le occupazioni dei latifondi, il Comando Forze Repressione Banditismo che ha mano libera sul territorio, Cosa Nostra che lascia gli agrumeti e comincia modernizzare il suo business. E tutto un contorno pittoresco di vedove velate e addolorate, centinaia di morti ammazzati, procaci giornaliste americane che filtrano col bandito (e si scopriranno in rapporti con la Cia), la solidarietà di massa dei paesani, schiacciati tra omertà, paura e simpatia. In questi scenari esotici e romanzeschi, l’austero giornalista lombardo si muove con naturalezza, ignorando pericoli e schivando trappole:

Anch’io, naturalmente, ho tentato di raggiungere i briganti di Montelepre nel loro covo, sulla montagna. Ma non ho mai avuto fortuna. Non ho mai visto Giuliano […] pensavo che avrei potuto cercare anch’io di avere un colloquio con il brigante. L’impresa non era poi così rischiosa e difficile come, forse, il lettore si immagina; ma non era affatto spiccia. L’interessamento e la malleveria di personaggi autorevoli e rispettabilissimi mi avevano consentito di iniziare i primi approcci (p. 97)

Per quanto nella sua modestia Besozzi sminuisca il suo lavoro di scavo, quello significava allora fare il giornalista: entrare dentro una storia, andare per vicoli e montagne, sporcarsi le mani e portare a casa un pezzetto di verità in più, rispetto al già noto. Ma non è destino che il Cronista e il Bandito si incontrino in vita: è solo all’obitorio di Castelvetrano che il corpo crivellato di colpi di Giuliano finirà sotto lo sguardo indagatore di Besozzi.

Besozzi sta battendo le stradine di Castelvetrano e le campagne d’intorno, parla con la gente, interroga i possibili testimoni. Troppi particolari non tornano. La versione ufficiale non lo convince. A un certo punto non ci crede proprio più. Chiede tempo alla redazione, vuole controllare, confrontare le dichiarazioni, ripassare al microscopio la ricostruzione proposta dal colonnello Luca (p. 173).

Clamoroso è il titolo del reportage che esce su «L’Europeo» quattro settimane dopo: “Di sicuro c’è solo che è morto”; come a dire , “il caso non è chiuso, siamo pronti a mettere in discussione tutta la versione di regime”.

Il libro La vera storia del bandito Giuliano uscirà poco più tardi e la voce del giornalista, asciutta e disincantata, fotograferà impietosamente quell’Italia dove niente è come sembra: Giuliano non è Robin Hood, non è un eroe romantico ma un vanesio violento e velleitario che ha messo la sua fama al servizio della malapolitica; l’eroica Arma dei Carabinieri ha allestito una messinscena ingloriosa intorno al cadavere del bandito; l’uomo di cui più Giuliano si fidava, l’amico fraterno Pisciotta, lo ha ammazzato nel sonno. E per finire in bellezza, nel corso di un processo:

Gaspare Pisciotta, rivolgendosi al Presidente, aveva annunciato con fortissima voce, d’aver due lettere da consegnare all’autorità […] Vennero alla luce, infatti, due foglietti di carta velina coperti da una fitta scrittura. Erano indirizzate al Procuratore della Repubblica e al Presidente della Corte di Cassazione […] In entrambe Pisciotta diceva che sino ad allora era stato zitto per amor di Patria, su certe questioni, raccattando tre o quattro condanne all’ergastolo, ma nessuno poteva sperare che seguitasse in eterno; che aveva chiesto inutilmente di conferire con una “commissione” su faccende molto delicate; che era stufo di attendere: o qualcuno si decideva a venire da Roma, per ascoltarlo a quattrocchi, o avrebbe spifferato tutto davanti ai giudici e al pubblico. (p. 134)

Un mese dopo quest’episodio Pisciotta moriva all’Ucciardone, a causa di un caffè avvelenato. Chiosa Besozzi, col suo stile inconfondibile: «nello zucchero c’era tanta stricnina che sarebbe bastata ad ammazzare un toro» (p. 135).

Il grande giornalista finirà male – deriva professionale, depressione e infine suicidio: una parabola umana inspiegabile, o meglio spiegabile solo con la misteriosa singolarità delle esistenze individuali. Faceva sempre più a fatica scrivere, colto quasi da una progressiva inadeguatezza alle regole di un giornalismo che stava cambiando velocemente, come tutto il resto. Forse intristito anche da un crescente senso di estraneità per un paese in cui modernità, intrigo e opacità, marciavano di pari passo. Un’altra penna brillante e “antitaliana” – come quella, straordinaria, di Luciano Bianciardi – che si rivelava incompatibile con la nascente industria culturale del neocapitalismo nostrano.

Una manciata di anni dopo, il mito di Giuliano si converte in innocuo oggetto di narrazione turistica a Montelepre. Mentre Tommaso Besozzi, sucida, diventerà il modello di molti i giovani giornalisti di allora che – come lo stesso De Bortoli – pur non avendolo mai conosciuto, sognavano di ripeterne le gesta.

Come in ogni vicenda italiana che si rispetti, restano un mucchio di morti sullo sfondo, a partire dai braccianti di Portella della Ginestra, prime vittime dello stragismo politico-mafioso, sepolti con le loro bandiere rosse e il sogno di un Italia diversa.

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Mettere le mani nella merda https://www.carmillaonline.com/2016/07/28/mettere-le-mani-nella-merda/ Wed, 27 Jul 2016 22:01:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32155 di Sandro Moiso

coop connection 1 Antonio Amorosi, COOP CONNECTION. Nessuno tocchi il sistema. I tentacoli avvelenati di un’economia parallela, Chiarelettere editore, Milano 2016, pp. 290, € 16,90

Se non fosse che l’elegante espressione contenuta nel titolo è utilizzata da un rappresentante del “sistema” Coop per definire la capacità di certi dirigenti del PCI – PDS –PD, anche di alto e altissimo livello, di esporsi pur di fare gli interessi del Partito e/o della rete di attività economiche e finanziarie ad esso legate attraverso le Coop, ci sarebbe da dire che l’autore, per redigere il testo da poco pubblicato da [...]]]> di Sandro Moiso

coop connection 1 Antonio Amorosi, COOP CONNECTION. Nessuno tocchi il sistema. I tentacoli avvelenati di un’economia parallela, Chiarelettere editore, Milano 2016, pp. 290, € 16,90

Se non fosse che l’elegante espressione contenuta nel titolo è utilizzata da un rappresentante del “sistema” Coop per definire la capacità di certi dirigenti del PCI – PDS –PD, anche di alto e altissimo livello, di esporsi pur di fare gli interessi del Partito e/o della rete di attività economiche e finanziarie ad esso legate attraverso le Coop, ci sarebbe da dire che l’autore, per redigere il testo da poco pubblicato da Chiarelettere, ha dovuto immergere più che le mani in un intreccio di interessi ed attività che quasi mai è stato così potentemente indagato e scoperchiato.

Antonio Amorosi, coautore nel 2008-2009 del libro «Tra la via Emilia e il clan» sulla presenza della criminalità organizzata in Emilia Romagna, 1 è stato assessore alle politiche abitative del Comune di Bologna per la giunta Cofferati tra il 2004 e il febbraio 2006. Ruolo da cui si è dimesso dopo aver denunciato2 un sistema illecito nelle assegnazioni delle case popolari del Comune di Bologna. Da anni si dedica al giornalismo di inchiesta e collabora con diversi quotidiani, riviste e radio nazionali.

Occorre qui subito dire che, nel prendere in mano il libro, il lettore si troverà davanti a pagine dense (a volte fin troppo) di dati, nomi, fatti e cifre che rendono il testo paragonabile ad una sorta di Gomorra delle attività lecite o meno della struttura economico-finanziaria sviluppatasi intorno a quel sistema di governo che ha fatto dell’Emilia Romagna, soprattutto, la vetrina della proposta sociale e politica di quello che è stato, prima, il più grande Partito Comunista dell’Occidente e, poi, il successivo PDS-DS-PD.

L’analisi copre soprattutto il periodo che va dagli anni ’80 ai giorni nostri, ma per fare ciò l’autore non può esimersi dal lanciare uno sguardo sul mondo delle Coop rosse e bianche fin dal secondo dopoguerra e nel corso dei decenni successivi. Ricostruendo un percorso che inizia con la “conquista” di Legacoop da parte di Guido Cerreti, voluto alla sua presidenza dal Segretario del PCI Palmiro Togliatti nel 1947.

Cerreti, tra i fondatori del Partito comunista, decorato dall’Unione Sovietica con l’Ordine della bandiera rossa e la Medaglia della vittoria, è contemporaneamente presidente di Legacoop e parlamentare del PCI […], rimane ai vertici di Legacoop fino al 1962. Deputato fino al 1963, passa poi al Senato, dove resta fino al 1968, infine esce di scena […] Da allora fino ad oggi, può raggiungere i vetici di Legacoop solo chi ha avuto la tessera del Pci, Pds, Ds e Pd e quasi sempre ha fatto il parlamentare o il politico ad alti livelli” (pp. 76-77)

Quello che salta però agli occhi è che dall’iniziale controllo del Partito sulle Coop e le altre attività associate si è passati ad una sorta di controllo delle Coop sul Partito. Tanto che, ancora e soprattutto oggi, molte beghe interne al PD, travestite sapientemente da scontro tra dirigenza e minoranza, altro non sembrano riguardare che uno scontro tra differenti fazioni all’interno del mondo delle cooperative.

Un mondo che costituisce “uno dei cardini dell’economia italiana che pesa 151 miliardi di fatturato, l’8 per cento del Pil, e che dà lavoro a più di un milione e centomila persone. Un universo economico che vale più del Prodotto interno lordo dell’intera Ungheria […] Dove «fare il bene» è una dialettica commerciale che fa crollare qualsiasi muro e sa inglobare ogni cosa. Al punto che, come scrive Mediobanca, le coop guadagnano più dalla finanza che dalla vendita delle merci.” (pag. 7)

E’ chiaro che degli ideali socialisti e di mutuo soccorso che avevano accompagnato la formazione di cooperative di produzione e distribuzione all’interno del movimento operaio dell’Ottocento è rimasto poco o nulla. E quel poco e nulla rimane soltanto a livello di facciata, così come il richiamo ai valori della Resistenza. Questi ultimi, soprattutto, presenti se possono servire a dimostrare che qualche importante rappresentante (ad esempio Oscar Farinetti di Eataly) ha avuto rapporti famigliari e/o di Partito con protagonisti del mondo partigiano.

Se tutto questo, come dimostra in maniera ben documentata il testo, si limitasse ad una conseguente spartizione interna dei finanziamenti distribuiti dalle varie aziende del settore in occasione delle campagne elettorali dei vari esponenti del Partito ci sarebbe comunque da arricciare il naso, ma rientrerebbe nei canoni di una lobbystica che accompagna da sempre le logiche elettoralistiche del parlamentarismo borghese.

In realtà, però, lo scambio di favori tra aziende della grande distribuzione, banche di credito cooperativo, cooperative di servizi e cooperative di produzione (soprattutto del settore edilizio) e mondo politico ha finito quasi col determinare i programmi politici e le priorità economiche di quasi tutti i governi degli ultimi anni. Dalle Grandi Opere al Jobs Act, dalla gestione dell’”emergenza immigrazione” al salvataggio delle banche attraverso la rovina dei piccoli risparmiatori, dalla raccolta ed eliminazione dei rifiuti urbani e tossici all’organizzazione dei servizi alla persona, tutto sembra essere determinato da ciò che il modo della cooperazione ritiene prioritario.

C’è però anche un altro aspetto che Amorosi sottolinea con insistenza ed abbondanza di particolare e di dati: la stretta connessione, che l’inchiesta Mafia capitale sembra aver per la prima volta disvelato, tra attività svolte da cooperative e criminalità organizzata sul territorio, anche se le interconnessioni tra mondo delle coop e mafie sembrano risalire, a detta del testo in questione, almeno dalla fine degli anni ’50, soprattutto nel settore dell’edilizia.

Dall’Expo al Mose, da Mafia capitale alla Grande distribuzione, dai cantieri della Tav in Val di Susa sono troppi i casi in cui imprese targate coop, come Cpl Concordia, risultano inquinate da rapporti con la criminalità organizzata e dalla corruzione. La crisi economica li fa emergere nonostante lo storytelling della sinistra, l’affabulazione che ieri si chiamava propaganda di partito. Per non parlare dei risparmi di molti soci affidati alle coop e andati in fumo in seguito a spericolate operazioni finanziarie […] O dei contratti da fame e delle condizioni capestro cui sono costretti molti giovani lavoratori. Un «sottomondo» di schiavi invisibili, manovalanza dell’agroalimentare, nella logistica, nel facchinaggio. Schiavi anche grazie a un articolo del Jobs Act voluto da Renzi e dal ministro del Lavoro – l’ex presidente di Legacoop Giuliano Poletti – e passato nell’indifferenza generale, che abroga il reato di intermediazione fraudolenta di manodopera, il cosiddetto caporalato” (pp. 7-8)3

Ma a cosa è dovuta la forza dello storytelling teso a giustificare ogni scelta delle consociate di Legacoop? Sintetizzando,in una sorta di “noi siamo i buoni”, quelli responsabili, impegnati nel sociale, che agiscono soltanto in base a nobili principi e ideali. Quei “Buoni” che Luca Rastello, nel suo ultimo, straordinario romanzo di denuncia aveva così umanamente e lucidamente stigmatizzato.4 E il riferimento al libro di Rastello non è casuale poiché anche l’associazione Libera di Don Ciotti fa parte della galassia derivata dall’universo coop.

Un universo in espansione costante che dalla grande distribuzione dall’edilizia si è esteso alle banche, al mondo dei servizi di assistenza fino ai servizi legati alla sanità pubblica dove, dopo aver assunto la gestione dei servizi di pulizia di molti centri ospedalieri ha finito coll’ottenere spesso i contratti per la costruzione di nuove e faraoniche strutture ospedaliere oppure sostituire sul territorio i medici di base con strutture mediche in concorrenza con la sanità pubblica.

L’outsourcing, l’esternalizzazione di pezzi di attività ospedaliera, affidata a società che con propri addetti svolgeranno le mansioni, è il mantra del settore. Avviene in massima parte tramite cooperative di soci che lavorano per anni senza ferie, malattia, contributi e con uno stipendio mensile massimo di 600-800 euro per otto ore giornaliere.” Ma ” l’esternalizzazione e l’ingresso delle coop nella sanità non hanno ridotto costi e sprechi, che incidono sul bilancio dello Stato per 110 miliardi di euro annui.” (pag. 234)

Non è difficile cogliere, sfogliando le intense pagine del libro di Amorosi, come tutta una serie di narrazioni e programmi dell’attuale governo Renzi (ma che affondano le radici sia in quelli di centro-sinistra che di centro-destra successivi a Tangentopoli), così attenti al taglio della spesa pubblica, al risparmio e all’ottimizzazione dei servizi tramite la loro privatizzazione non facciano altro che seguire un cammino già tracciato all’interno del mondo coop.

Un mondo dove i legami politici, sia a destra che a sinistra, servono a garantire appalti e leggi tagliate su misura sulle necessità e sull’impellenze, ma soprattutto sulle pretese finanziarie, di una componente avida e spregiudicata dell’economia nazionale.

La criminalità organizzata insegue il denaro. E’ un fenomeno incapace di incepparsi e le grandi opere ne sono gli asset fondamentali. Il 75,5 per cento dei 285 miliardi di euro stanziati dagli ultimi governi arrivano nelle regioni del centro-Nord e solo il 24 per cento nel Mezzogiorno.[…] la mafia non è un fenomeno territoriale, non è un virus che invade un corpo sano. Non spunta dal nulla. E’ il frutto di un lavorio di anni.[…] Non va in qualsiasi luogo, ma ove c’è domanda di mafia e di ricchezza. Richiesta di organizzazioni che portino ammassi di denaro nero da riciclare, facile da reinvestire o da reimpiegare […] E non è neanche il prodotto di un’invasione del Nord Italia, di qualcuno che arriva dal Sud, ma uno scambio reciproco iniziato in un tempo ormai lontano” (pp. 164-186)

Un mondo in cui rappresentanti di Partito e sindaci di ridenti cittadine dell’Emilia Romagna devono presenziare a cerimonie religiose in cittadine calabresi come Cutro per accaparrarsi voti e appoggi necessari alle proprie aspirazioni politiche. Per poi dover rendere il favore o i favori difendendo e rielaborando i piani di grandi opere inutili come il TAV, fino al limite del ridicolo.5 Purché, là dove l’incrocio di interessi economici più disparati e un compromesso storico ante-litteram tra cooperative bianche e rosse hanno assunto da sempre il volto bonario di Don Camillo e Peppone, non si parli di criminalità organizzata.

coop connection 2Dagli anni Sessanta le regioni del Nord sono state preda chi di Cosa Nostra, chi della ‘ndrangheta, chi della camorra. In Emilia invece ci sono tutte e tre contemporaneamente. All’inizio le coop di peso si dividono le regioni del Sud che contano, partecipando agli appalti. Le bolognesi e le ravennati in Sicilia, le modenesi in Campania, le reggiane in Calabria. Uno scambio perfetto. Cosa Nostra arrivava a Bologna e Ravenna […], la camorra a Modena, la ‘ndrangheta a Reggio Emilia. Non si entra nelle medie e grandi opere del Sud senza sedersi ai tavoli della criminalità organizzata” (Pag. 180) Con buona pace di ogni narrazione pietistica e di slogan pubblicitari del tipo: “La Coop sei tu…che cosa vuoi di più?

Sarebbero tantissimi i tasselli del mosaico ricostruito da Amorosi che potrebbero ancora essere qui elencati ed esaminati, ma poiché il libro merita di essere apprezzato da chiunque non si voglia far abbindolare dallo storytelling renziano e perbenista del suo partito, a questo punto, vale la pena di suggerirne la lettura diretta e più attenta possibile. Ne vale davvero la pena.


  1. A. Amorosi, C. Abbondanza, Tra la via Emilia e il clan, Casa della legalità e della cultura, Genova 2010  

  2. Relazione tecnica dell’ass._Amorosi sul Sistema politico di assegnazione delle case del Comune di Bologna del 16/2/2005  

  3. Vale la pena qui di annotare che circa un anno fa, presso tutti i punti di distribuzione Coop, fu lanciata una campagna promozionale per mezzo della quale i soci potevano trasformare i punti accumulati con gli acquisti in “bonus” per incrementare il lavoro giovanile. Praticamente i soci Coop invece di trasformare i loro punti in sconti sugli acquisti o premi di vario genere potevano di fatto pagare i vaucher con cui la Coop avrebbe pagato gli stagisti operanti nelle sue attività. Il tutto, naturalmente, presentato come solidarietà nei confronti dei giovani potenzialmente disoccupati. Insomma, la Coop poteva finanziare il lavoro “quasi nero” dei propri dipendenti senza tirar fuori un soldo: un autentico capolavoro di buonismo sociale!  

  4. Luca Rastello, I buoni, Chiarelettere, 2014  

  5. Si consulti a tal proposito, e solo come esempio, l’ultima proposta del Ministro Del Rio per modificare costi e percorso del TAV in Val di Susa: http://ilmanifesto.info/torino-lione-il-governo-diventa-ni-tav/ oppure http://torino.repubblica.it/cronaca/2016/07/01/news/torino-lione_delrio_annuncia_stiamo_revisionando_il_progetto_useremo_di_piu_la_linea_vecchia_-143221243/  

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Uomini che sapevano tutto. Vite parallele di Giulio Andreotti e Elio Ciolini https://www.carmillaonline.com/2013/06/17/uomini-che-sapevano-tutto-vite-parallele-di-giulio-andreotti-e-elio-ciolini/ Mon, 17 Jun 2013 21:55:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6339 di Girolamo De Michele papa_nero A proposito di: Antonella Beccaria, Il faccendiere. Storia di Elio Ciolini, l’uomo che sapeva tutto, Saggiatore, Milano 2013, pp. 238, € 15.00; Michele Gambino, Andreotti. Il Papa Nero. Antibiografia del divo Giulio, Manni, Lecce 2013, pp. 216, € 16.00; Antonella Beccaria, Giacomo Puccini, Divo Giulio. Andreotti e sessant’anni di storia del potere in Italia, Nutrimenti, Roma 2012, pp. 288, € 14.00; Aldo Moro, “Memoriale” (Commissione Moro, 149-155, Commissione stragi, II, 360-380).

“È naturale che un momento di attenzione sia dedicato all’austero regista di questa operazione di restaurazione della dignità e [...]]]> di Girolamo De Michele papa_nero

A proposito di: Antonella Beccaria, Il faccendiere. Storia di Elio Ciolini, l’uomo che sapeva tutto, Saggiatore, Milano 2013, pp. 238, € 15.00; Michele Gambino, Andreotti. Il Papa Nero. Antibiografia del divo Giulio, Manni, Lecce 2013, pp. 216, € 16.00; Antonella Beccaria, Giacomo Puccini, Divo Giulio. Andreotti e sessant’anni di storia del potere in Italia, Nutrimenti, Roma 2012, pp. 288, € 14.00; Aldo Moro, “Memoriale” (Commissione Moro, 149-155, Commissione stragi, II, 360-380).

“È naturale che un momento di attenzione sia dedicato all’austero regista di questa operazione di restaurazione della dignità e del potere costituzionale dello Stato e di assoluta indifferenza per quei valori umanitari i quali fanno tutt’uno con i valori umani. Un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana. E questi è l’On. Andreotti, del quale gli altri sono stati tutti gli obbedienti esecutori di ordini”[Aldo Moro, 1978]

“La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato far credere al mondo che non esiste, e come niente… sparisce” [Keiser Soze, I soliti sospetti]

 

La morte di Giulio Andreotti è caduta a brevissima distanza tra la pubblicazione di due libri resi ancor più emblematici dal decesso del Divo: l’antibiografia dello stesso Andreotti ad opera di Michele Gambino, e la ricostruzione, col consueto taglio controinformativo e un’attentissima lettura delle fonti, di Elio Ciolini, uno dei più inquietanti inquilini del “Residence Faccendieri” in cui abita il peggio della storia della repubblica (senza ordinali) da parte di Antonella Beccaria, che pochi mesi prima, assieme a Giacomo Pancini, aveva pubblicato una rilettura della storia della Repubblica attraverso la biografia politica del sette volte presidente del Consiglio.

Tanta ricchezza informativa fa da contraltare all’incredibile “leggerezza”, al limite dell’elogio servile, con la quale gran parte della stampa italiana ha delicatamente glissato sulle peggiori pagine della nostra storia nel momento in cui, morto Andreotti, sarebbe stato imperativo un bilancio non formale della sua carriera politica. C’è voluto “Il Post” di Luca Sofri perché venisse ripubblicata – con scarsa cura per i refusi – la durissima pagina del Memoriale in cui Aldo Moro, dalla galera brigatista, tracciava un ritratto a lettere di fuoco della statura politica e morale dell’ex amico di partito.

Se Andreotti è persona nota, Elio Ciolini risulta invece ignoto ai più. E, come mostra il lavoro di Antonella Beccaria, resta ignoto anche a chi lo ha conosciuto.
Chi è davvero questo personaggio che sembrava saper tutto della strage del 2 agosto e della strategia stragista di Cosa Nostra nella primavera-estate del 1992? Un agente segreto infiltrato nell'”Organizzazione Terroristica” responsabile della strage alla Stazione di Bologna? E se sì, di quale servizio: italiano o francese? «Un guardaspalle di Gelli»? Un uomo talmente vicino a Stefano Delle Chiaie da condividerne alcuni segreti? «Un “delinquentello”, un po’ mitomane e megalomane, ma fondamentalmente onesto», iscritto alla Loggia Montecarlo? «Uno strano e pittoresco personaggio che andava gridando ai quattro venti: “So tutto della bomba” [della stazione di Bologna]»? «Un “pataccaro” che spaccia “patacche”»? (Faccendiere pp. 65, 92, 153, 197)

Forse tutte queste cose, forse nessuna. Sta di fatto che nel dicembre 1981 un presunto piccolo truffatore detenuto nel carcere di Champ-Dollon, in Svizzera, inviò al console italiano un primo memorandum sulla strage della Stazione, cui seguirono altre “rivelazioni” (il virgolettato è d’obbligo). In breve, esisteva, secondo Ciolini, un’organizzazione terroristica internazionale denominata OT, collegata alla Trilateral e diretta da una loggia massonica denominata “Loggia Riservata” che «non ha niente in comune con la loggia massonica “P2”, anzi è la vera P2». Al vertice di questa Loggia Riservata ci sarebbero stati i «fratelli fondatori»: Giulio Andreotti, Gianni Agnelli, Roberto Calvi (allora presidente del Banco Ambrosiano), Attilio Monti, il “cavalier Artiglio” proprietario di giornali e petroliere, Umberto Ortolani e Licio Gelli, e Angelo Rizzoli (ancora proprietario del “Corriere della Sera”).
In questo contesto era maturata la decisione, presa da Gelli, di un eclatante attentato terroristico alla stazione di Bologna, la cui esecuzione era stata affidata a Stefano Delle Chiaie, per distrarre l’opinione pubblica dalla scalata finanziaria all’ENI.

faccendiereSi trattò di una raffinata operazione di depistaggio. Ciolini infatti falsificava il quadro complessivo mescolando elementi veri, verosimili e falsi, e lanciava al tempo stesso messaggi obliqui. La Loggia P2 veniva ridimensionata nel momento in cui era stato scoperto l’elenco dei suoi affiliati, ma al tempo stesso veniva ipotizzata l’esistenza di una più alta Loggia. La strage veniva attribuita ai fascisti, ma a quelli “sbagliati”, facendo il nome di Delle Chiaie, che con la strage non c’entrava, ma era impigliato in una fitta rete di sospetti (e aveva avuto per qualche tempo al suo fianco, in Sud America, lo stesso Ciolini, presentatosi come ufficiale dei carabinieri). E soprattutto: dagli accertamenti bancari non emerse alcuno spostamento significativo di fondi destinati alla presunta scalata all’ENI. Ma le indicazioni fornite da Ciolini sfioravano in modo allusivo quel “Conto Protezione” aperto nel 1978 da Silvano Larini presso l’Union Banques Suisses di Lugano, il “tesoro” del Partito Socialista di cui nel 1981 non si aveva notizia, e che sarebbe emerso solo nel 1993 con l’inchiesta “Mani Pulite”; un conto – il n. 633369 – sul quale erano transitati «in più tranche anche i soldi dell’ENI diretti al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e tangenti varie. Di esso si parlava a bassa voce nei corridoi del potere italiano, e la sua presunta esistenza, per quanto sussurrata, avrebbe potuto costituire un fattore usato per condizionare l’andamento della politica italiana nel decennio che precedette Tangentopoli» (Faccendiere, p. 74). Un conto sul quale, nel 1989, stavano indagando Carla Del Ponte e Giovanni Falcone, al tempo dell’attentato all’Addaura.

Se le date hanno un significato, il memoriale-Ciolini compare a sette mesi di distanza da un celeberrimo editoriale vergato di proprio pugno da Bettino Craxi, nel quale il segretario socialista paragonava Gelli a «un attivissimo arcidiavolo, un Belfagor dalle mille risorse, dai mille contatti, intese, dossier, trappole e anche ricatti». Insomma, una specie di «grand commis dell’organizzazione, […] un uomo molto abile, una volpe, ma non un capo […]. Belfagor resta una specie di segretario generale di Belzebù. E se c’è Belzebù, ognuno se lo potrà immaginare come meglio crede, sforzandosi di dargli una fisionomia, una struttura, un nome» (Belfagor e Belzebù “Avanti!”, 31 maggio 1981; Divo Giulio, p. 139). Come se all’io so (l’identità di Belzebù) si volesse rispondere con un anch’io so (del conto aperto dal tuo uomo Larini a Lugano).
Anni dopo, alla domanda di Michele Gambino se ritenesse Andreotti essere Belzebù, Giovanni Falcone, con quella sua saggezza degna delle migliori creazioni letterarie di Leonardo Sciascia, rispondeva, con una battuta degna del Keiser Soze de  I soliti sospetti che «per quanto gli riguardava lui non poteva dire nemmeno se Belzebù, inteso come diavolo, esistesse o meno». Aggiungendo che «certe domande erano sbagliate, perché semplificavano argomenti complessi» (Papa Nero, pp. 75-76).

Ancor più interessante la vicenda della Loggia di Montecarlo, «un organismo super che la P2 al confronto deve considerarsi zero», dichiara Federico Federici, personaggio inestricabilmente legato a Ciolini, che si attribuisce la responsabilità («purtroppo», aggiunge) di averlo fatto entrare nella Loggia Riservata: «”al suo interno c’era anche ‘il grande babbo’ [che] è uno dei fondatori […], ma è tanto potente in Italia e all’estero che nessuno ha il coraggio di toccarlo”. Del resto, continuò ironico [Federici] alludendo chiaramente a Giulio Andreotti, “al grande babbo la gobba gli porta fortuna”» (Faccendiere, p. 99).
Una super-Loggia riservata? Bisognerà tenere a mente che personaggi come Licio Gelli, Francesco Pazienza, il generale Pietro Musumeci hanno costituito il “vero” servizio segreto attraverso la loro “infiltrazione” nei servizi di Stato. L’esistenza di una super-Loggia implicherebbe allora l’esistenza di un servizio segreto di livello superiore, quantomeno come ipotesi logica. E infatti Licio Gelli lo ammise: «Andreotti sarebbe stato il vero “padrone” della P2? Per carità… Cossiga aveva Gladio, io la P2 e Andreotti l’Anello» (Divo Giulio, p. 260; Papa Nero, p. 162).
Ma di questo a suo tempo.
Torniamo a Ciolini.

Passano dieci anni, e Ciolini è di nuovo al centro dell’attenzione. Di nuovo dall’interno di un carcere – questa volta Sollicciano, condannato per calunnia e truffa ai danni dello Stato – il Faccendiere torna a scrivere dell’esistenza di una struttura internazionale anticomunista con legami con la Chiesa cattolica. E il 4 marzo 1992, otto giorni prima dell’assassinio di Salvo Lima, in una lettera al giudice di Bologna Grassi, intitolata «nuova strategia della tensione in Italia», preannuncia che:

Nel periodo marzo-luglio avverranno fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come:
esplosioni dinamitarde intente [sic] a colpire persone “comuni” in luoghi pubblici
sequestro ed eventuale “omicidio” d’esponente politico Psi, Pci, Dc
sequestro ed eventuale “omicidio” del futuro presidente della Repubblica
Tutto questo è stato deciso a Zagabria – Yu – (settembre ’91) nel quadro di un “riordinamento politico” della destra e in Italia è intesa a un nuovo ordine “generale” con relativi vantaggi economico-finanziari (già in corso) dei responsabili di questo nuovo ordine-deviato-massonico politico culturale, attualmente basato sulla comercializzazione degli stupefacenti! La “storia” si ripete – dopo quasi quindici anni ci sarà un ritorno delle strategie omicide… (Faccendiere, p. 179)

Di nuovo mescolando il vero, il verosimile e il falso, Ciolini fornisce anticipazioni impressionanti: tra marzo e luglio Cosa Nostra salda i conti con Salvo Lima, assassina i giudici Falcone e Borsellino, e di fatto crea le premesse perché la candidatura di Andreotti alla presidenza della Repubblica sia irrimediabilmente compromessa: «Il sette volte presidente del Consiglio ha sempre attribuito alla strage siciliana la perdita della partita per il Quirinale, e probabilmente non ha torto: i processi per mafia e omicidio erano ancora di là da venire, e tuttavia nell’Italia ferita dalla morte di uno dei suoi eroi, l’elezione a capo dello Stato del protettore della “famiglia politica più inquinata della Sicilia”, come diceva Dalla Chiesa, era un boccone troppo grosso per l’opinione pubblica» (Papa Nero, p. 201).

Il diavolo ci mise la coda, facendo fare ad Andreotti la stessa fine di Moro (quasi certo prossimo presidente della Repubblica al momento del rapimento, e al quale si fa riferimento in modo neanche troppo velato col «ritorno delle strategie omicide»), pur senza il «sequestro e “omicidio”». Sembra quasi sentire un’eco (voluta?) del “commiato” di Moro ad Andreotti, al termine del “Memoriale”: «Le auguro buon lavoro, on. Andreotti, con il Suo inimitabile gruppo dirigente, e che Iddio Le risparmi l’esperienza che ho conosciuto, anche se tutto serve a scoprire del bene negli uomini, purché non si tratti di presidenti del Consiglio in carica». A questa precisa sequenza temporale va aggiunta – dislocata nel tempo, con il tipico movimento depistante di nascondere il vero nel falso – la consapevolezza dell’avvio della strategia stragista di Cosa Nostra del 1993.
All’elenco del Faccendiere manca solo l’appendice di settembre, l’uccisione di Ignazio Salvo: ma Ignazio Salvo era già, come si dice, “un morto che cammina”. Lima e Salvo erano i due “garanti” presenti, secondo il racconto dei pentiti, all’incontro tra Andreotti e Totò Riina, il 20 settembre 1987:

«Vero o falso, se questa storia fosse un film, l’incontro narrato dagli otto pentiti sembrerebbe quello che nel gergo degli sceneggiatori si chiama “punto di svolta”: il ministro incontra il mafioso per garantirgli un rinnovato interessamento ai guai giudiziari della cosca, alla presenza di due garanti. Il mafioso registra la promessa e la riferisce ai picciotti. Anni dopo, quando la promessa si rivelerà vuota, i due garanti presenti nella stanza con Riina e Andreotti – Salvo Lima e Ignazio Salvo – pagheranno con la vita la mancata promessa, secondo le regole di Cosa Nostra» (Papa Nero, p. 105).

Vero o falso (o verosimile) che sia l’incontro tra Andreotti e Riina, è un fatto che nel marzo 1992 un omicidio eccellente a Palermo era non solo possibile, ma atteso: si trattava solo di sapere se sarebbe toccato a Lima o a Mannino. E alla notizia dell’esecuzione di Lima, alcuni limiani provarono per qualche giorno l’esperienza – così comune tra i militanti della sinistra rivoluzionaria da piazza Fontana in poi – di non rientrare a casa, di dormire da qualche amico senza avvertire le famiglie, di rendersi irreperibili.

Ciolini voleva preannunciare o mettere in guardia? A chi lanciava segnali di così immediata decifrazione? Poter rispondere significherebbe poter rispondere alla domanda iniziale: chi è davvero Elio Ciolini? Resta che a distanza di vent’anni e dopo vicende giudiziarie e processuali non ancora concluse possiamo dire che le bombe – secondo il documenti-Ciolini già pianificate prima del 12 marzo, e non dopo la “reazione dello Stato” – «avevano uno scopo, recavano con sé un messaggio, “fare la guerra per fare la pace”, come disse Totò Riina […]. Ma il messaggio non era solo quello. Per usare un’espressione tributata ad altre stragi […], si voleva destabilizzare il paese per raggiungere un accordo che riportasse la calma» (Divo Giulio, p. 198-99). Un accordo che oggi è noto come “trattativa Stato-mafia”; una ben strana trattativa nella quale non è chiaro chi, e a che titolo, abbia rappresentato una delle due parti (per la mafia il delegato fu Vito Ciancimino): se a trattare non furono ministri o dirigenti delle forze dell’ordine, con chi avrà trattato Ciancimino? E soprattutto: di cosa e su cosa si trattava?

divo_giulioQuali che fossero le sue intenzioni, collegando Andreotti con i suoi referenti mafiosi, la mafia stragista e le lobby politico-massoniche, Ciolini forniva tutti gli elementi per ricordare l’intreccio Gelli-Sindona-Calvi-Andreotti ai tempi in cui Andreotti aveva «non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale [=Cosa Nostra] ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi» (sentenza 2001, Papa Nero, p. 121). Queste relazioni non si limitavano alla supervisione della corrente “Primavera” capeggiata da Salvo Lima, o agli incontri tra Andreotti e il capo della mafia Stefano Bontate, ma anche, come risulta dai documenti processuali, al sostegno alle candidature all’assemblea regionale di “uomini punciuti” quali Raffaele Bevilacqua (capo della famiglia di Barrafranca) e Giuseppe Gianmarino (inserito nei quadri di Cosa Nostra) (Divo Giulio, p. 198).

Sulla storia di Michele Sindona ormai sappiamo quasi tutto. Il “banchiere mandato dalla Provvidenza” ebbe accesso, grazie alla firma di Paolo VI, ai fondi vaticani, in particolare quelli dello IOR (Istituto Opere Religiose), con i quali mise in piedi un giro di scatole cinesi nelle quali entrarono anche le disponibilità liquide di Cosa Nostra provenienti dalla produzione e smercio di eroina. Con Cosa Nostra, peraltro, Sindona era in affari sin dai tempi del sacco di Palermo, all’indomani del famoso summit organizzato da Lucky Luciano all’Hotel delle Palme di Palermo nell’ottobre 1957, quando fu sancita la pax mafiosa tra le cosche palermitane, furono regolati i rapporti tra le famiglie americane e siciliane, regolamentato il traffico di eroina tra le due aree, e decisa l’eliminazione di Albert Anastasia a New York.

A Sindona, caduto in disgrazia, subentrerà Roberto Calvi, fino all’epilogo sotto il Ponte del Black Friars a Londra, al culmine di una vicenda nella quale chiunque fosse in possesso di informazioni moriva prematuramente: Boris Giuliano, le cui indagini avevano dapprima scalfito, e poi intersecato, Sindona; Giorgio Ambrosoli, liquidatore del Banca Privata Italiana di Sindona; l’ambiguo giornalista Pecorelli; gli stessi Sindona, avvelenato in carcere, e Calvi, impiccato a Londra; a cui si aggiunge Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano, scampato al tentato omicidio da parte di uno dei capi della banda della Magliana Danilo Abbruciati; e Aldo Moro, che nel suo “Memoriale” ricorda il ruolo avuto da Andreotti nell’ascesa di Sindona:

«Che cosa ricordare di Lei [on. Andreotti]? […] Ricordare la Sua, del resto confessata, amicizia con Sindona e Barone? Il Suo viaggio americano con il banchetto offerto da Sindona malgrado il contrario parere dell’Ambasciatore d’Italia? La nomina di Barone al Banco di Napoli?».

Sindona consulente finanziario del Vaticano e della Mafia palermitana, dunque; mentre Gelli, secondo quanto riferito al pentito Mannoia da Stefano Bontate, era l’uomo dei corleonesi: «Come Gelli faceva investimenti per conto di [Pippo] Calò, [Totò] Riina, [Francesco] Madonia e altri dello schieramento corleonese, Sindona faceva investimenti finanziati per conto di Bontate e Inzerillo» (Divo Giulio, p. 156).

Questo spiega perchè «la Chiesa ha sostenuto e protetto in molto modi l’uomo politico ad essa più fedele; in cambio Andreotti ha militato a tutti gli effetti nel mondo laico come un soldato della Chiesa, fin dall’inizio, quando da sottosegretario di De Gasperi faceva da ambasciatore tra il governo e la Santa Sede, e si occupava di censurare la produzione di Cinecittà e di polemizzare con i registi del neorealismo in nome della morale cattolica e del buoncostume». Come confermava Cossiga, Andreotti «è un grande statista del Vaticano. Il segretario di Stato permanente della Santa Sede, da Pio XII a Giovanni Paolo II… mai visto un uomo con tali capacità di governo. Crocianamente, per lui come per la Chiesa l’unica moralità della politica consiste nel saperla fare» (Papa Nero, p. 199).

Ma c’è un altro filo che collega Andreotti a Vaticano, Cosa Nostra e Loggia P2: l’anticomunismo.

«Se guardiamo bene, tutti i rapporti inconfessabili con cui si è sporcato le mani il sette volte presidente del Consiglio hanno la matrice comune dell’anticomunismo: la mafia con cui Andreotti “dialoga” fino all’omicidio Mattarella è la stessa cui gli americani si sono appoggiati dopo lo sbarco in Sicilia, la stessa che da Portella delle Ginestre in poi ha stroncato le gambe al movimento contadino, e ha portato voti spesso decisivi alla Dc, sottraendoli ai partiti di sinistra. I generali golpisti cui Andreotti ha fatto da sponda e da copertura tramano contro le istituzioni e contro i cittadini in nome del pericolo anticomunista, così come il Noto servizio, sorto nell’ombra intorno ad Andreotti, è formato da reduci della Repubblica di Salò dal dente avvelenato; la P2 è una congrega di arrivisti e affaristi che hanno in comune la fede anticomunista, e infatti gode nei suoi primi anni di un imprimatur e di appoggi anche finanziari della destra americana. Anche i rapporti con Sindona e Calvi, hanno al fondo una matrice “politica”: Sindona si muove come un agente degli americani su un territorio nemico, stringe patti con la mafia, vagheggia avventure separatiste in Sicilia. Calvi subentra nel ruolo a Sindona e prima di morire simbolicamente impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri compie il miracolo di reinvestire i soldi dei corleonesi di Pippo Calò nell’appoggio alle dittature sudamericane minacciate dai movimenti di liberazione e nel finanziamento a Solidarnosc, il movimento anticomunista polacco di Lech Walesa che in prospettiva storica è la prima crepa nel blocco dei Paesi della Cortina di Ferro» (Papa Nero, pp. 199-200).

operazione-via-appiaEd eccoci all’ultimo punto: il “Noto Servizio”, o “Anello”, un servizio segreto al di sopra dei servizi, creato e diretto da Andreotti sin dalla fine della guerra, poi evolutosi in Ufficio Zone di Confine nella Venezia-Giulia, una struttura coperta di cui Andreotti era a capo, e poi tramutatosi in Servizio Speciale Riservato, secondo la dizione che lo stesso Andreotti gli dà in un libricino in forma di romanzo, Operazione via Appia, pubblicato nel 1998.

Ricapitolando, in Italia ci sono stati tre servizi segreti, dei quali uno – SIFAR, SID o SISMI, a seconda delle epoche – al di sopra degli altri, e attivamente impegnato in ogni operazione sporca, dall’approvvigionamento clandestino di armi alla schedatura di politici, sindacalisti, giornalisti riconducibili all’opposizione, fino all’appoggio – quantomeno di suoi alti esponenti -, in forma di fornitura di armi, copertura o depistaggio, delle stragi di Stato o delle manovre golpiste. All’interno di questo servizio, in particolare negli anni del governo Andreotti-Cossiga-Berlinguer, esisteva un organigramma non ufficiale, che ridisegnava le gerarchie in funzione dell’appartenenza alla Loggia P2. Al di sopra di questo, il Noto Servizio che afferiva a Giulio Andreotti.

Ha ancora senso chiedersi se Andreotti fosse Belzebù, il vero capo della P2, o se esistesse una Loggia Montecarlo al di sopra della Loggia P2? O non è più sensata l’osservazione di Giovanni Falcone: che certe domande erano e sono sbagliate, perché semplificano argomenti complessi?

Decostruire gli apparati dello Stato, portare la luce negli uffici e negli archivi è opera fondamentale per giornalisti, magistrati, e ovviamente investigatori: su questo non ci piove.
Ma al tempo stesso, fare di questa decostruzione il fine ultimo di un’analitica del potere rischia di ridurre tutto a una dimensione spionistica o thrilleristica di second’ordine. Perché quello di fondamentale che rischia di essere perso è la funzione che questi dispositivi di potere hanno avuto, al di là degli organigrammi e dei funzionigrammi. Come scrive Gambino in conclusione del suo libro,

«Sarebbe stupido addebitare a Giulio Andreotti i mali del Paese, ma di essi egli è la più perfetta cartina di tornasole, per aver guidato l’Italia più a lungo di tutti, e per essere stato, tra tutti i politici italiani, il più influente e il peggiore. Forse senza di lui la storia del Paese non sarebbe stata migliore, ma certo sarebbe stata una storia più ricca di speranza e meno avvelenata dal cinismo» (Papa Nero, pp. 209-210).

Il cinismo, la sistematica distruzione di ogni moralità, l’individualismo implicito nella scorciatoia dell’appoggio politico e della raccomandazione, la prevalenza dell’economico su ogni altro valore, la corruzione inoculata in ogni angolo della società: questi metodi e strumenti di governo hanno contribuito a quella degradazione antropologica degli italiani che Pasolini indicava come uno dei crimini per i quali Andreotti e almeno una dozzina di dirigenti democristiani avrebbero meritato di essere trascinati sul banco degli imputati in un pubblico processo penale, in assenza del quale era «inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese» (Pier Paolo Pasolini, Bisognerebbe processare i gerarchi Dc, “il Mondo”, 28 agosto 1975; Perché il Processo, “Corriere della sera”, 28 settembre 1975). Questi metodi e strumenti di governo hanno contribuito a forgiare la coscienza dell’italiano medio attraverso la percezione d’impotenza di fronte ad apparati indecifrabili, coi quali conviene trovare un accordo o un modus vivendi

«Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, On. Andreotti, è proprio questo che Le manca. [Lei] durerà un po’ più, un po’ meno, ma passerà senza lasciare traccia», scriveva nell’ultima pagina del “Memoriale” Aldo Moro. Dimostrando di non aver compreso la vera natura del demonio, nel crederlo Persona.

Andreotti è passato, l’andreottismo no: la beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato far credere al mondo che non esiste, e come niente… sparisce.

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