Corso Traiano – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 24 Apr 2025 16:16:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Avanti barbari!/2 – Estranei al centro https://www.carmillaonline.com/2024/08/14/estranei-al-centro/ Wed, 14 Aug 2024 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83235 di Sandro Moiso

Amico, sono selvaggio e urlo ounga wawa Ounga ounga, la mia Glock punta la spia Ounga ounga, nigga wawawawa Ounga ounga, basta che non facciamo cazzate So di non essere integrato Cerco il mio interesse (PNL, Différents, Que la famille, 2015)

Mentre qualche commentatore si ostina a parlare di una convinta partecipazione dei giovani delle banlieue alla recente tornata elettorale con cui la Sinistra è riuscita a riconsegnare nelle mani di Macron il ruolo di ago della bilancia del governo, ignorando per altro che una percentuale di elettori arrivata al 67% degli aventi diritti al voto lascia [...]]]> di Sandro Moiso

Amico, sono selvaggio e urlo ounga wawa
Ounga ounga, la mia Glock punta la spia
Ounga ounga, nigga wawawawa
Ounga ounga, basta che non facciamo cazzate
So di non essere integrato
Cerco il mio interesse

(PNL, Différents, Que la famille, 2015)

Mentre qualche commentatore si ostina a parlare di una convinta partecipazione dei giovani delle banlieue alla recente tornata elettorale con cui la Sinistra è riuscita a riconsegnare nelle mani di Macron il ruolo di ago della bilancia del governo, ignorando per altro che una percentuale di elettori arrivata al 67% degli aventi diritti al voto lascia qualche perplessità sulla “grande mobilitazione popolare antifascista”, si è deciso di pubblicare qui di seguito un estratto da una delle due postfazioni poste a chiusura del testo di Gioacchino Toni e Paolo Lago, Spazi contesi, cinema e banlieue, edito da Milieu, 2024.

***

[…] Il conflitto moderno, almeno a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, si è sviluppato a partire dai quartieri periferici per terminare poi con occupazioni momentanee o assalti dei centri amministrativi e commerciali delle metropoli. Basti pensare all’importanza che ebbe la battaglia di corso Traiano a Torino, nel luglio 1969, nel determinare in seguito non solo lo sviluppo delle lotte operaie e delle avanguardie politiche interne al ciclo dell’auto e non della sola FIAT, ma anche le modalità della conduzione delle lotte stesse. Il ghetto degli immigrati recenti, il quartiere Mirafiori, si era trasformato nel centro della lotta e delle rivendicazioni, non solo operaiste o di fabbrica, che avrebbero caratterizzato gli anni successivi (occupazione di case, richiesta di servizi alle autorità amministrative locali e nazionali, ricostruzione di un tessuto sociale che, seppur distrutto nel Sud da cui molti partecipanti a quelle battaglie avevano dovuto allontanarsi per trovare lavoro, si era ricostituito su nuove e più moderne basi nelle periferie delle grandi città del Nord).

[…] Ciò che abbiamo visto, e vediamo avvenire, nelle attuali banlieue non è, tutto sommato, molto diverso, anche se con protagonisti e modalità nuove oltre che in un panorama politico, economico, nazionale e internazionale molto cambiato.

[…] Le illusioni dei padri e dei nonni degli attuali giovani banlieusards sull’integrazione attraverso il lavoro o la lotta sindacale, nonostante il conflitto coloniale franco-algerino che si era macchiato di crimini orrendi anche in terra di Francia, sono finite con la disoccupazione, il razzismo dilagante anche tra le classi lavoratrici francesi, la crescita demografica di algerini e magrebini che da sempre spaventa le classi medie, e non solo, bianche.

Ecco allora che il centro-città può essere soltanto più lo scenario per scorrerie “vandaliche” in cui, come è accaduto sempre più spesso negli ultimi anni, da Torino a Londra; durante le quali i giovani si appropriano della merce esposta nei negozi di lusso, rendendo esplicito ciò che Amitav Ghosh ha affermato, nel suo romanzo L’Isola dei fucili, a propositi del nuovo rapporto istituitosi tra nuovi migranti, o discendenti di tali, e Occidente.

I giovani migranti che avevo conosciuto non erano stati trasportati da un continente all’altro per diventare una rotella in un ingranaggio gigantesco che, come nel caso delle piantagioni, esisteva al solo scopo di appagare desideri altrui. Gli schiavi e i coolie lavoravano per produrre beni – la canna da zucchero, il tabacco, il caffè, il tè o la gomma -destinati alla madre patria dei colonizzatori. Erano i desideri, gli appetiti delle metropoli a spostare le persone da un continente all’altro. Allo scopo di sfornare a getto continuo le merci più richieste. In tale meccanismo gli schiavi erano produttori, non consumatori; per loro era impossibile concepire gli stessi desideri dei padroni.
Adesso invece ragazzi come Rafi, Tipu e Bilal volevano le stesse cose di chiunque altro: smartphone, computer, automobili. Né avrebbe potuto essere altrimenti: fin dall’infanzia, le immagini più allettanti che avevano visto non erano i fiumi o i campi che [un tempo – NdR] li circondavano, bensì gli oggetti sullo schermo dei loro cellulari.
Ora capivo perché i giovanotti arrabbiati sulle imbarcazioni intorno a noi avevano tanta paura di quel miserando barcone di rifugiati: quella minuscola imbarcazione simboleggiava il ribaltamento di un progetto secolare, decisivo per il formarsi dell’Europa. […] quel piccolo peschereccio simboleggiava il venir meno del secolare progetto che aveva garantito loro enormi privilegi. Dentro di sé sapevano che quei privilegi non gli sarebbero più stati garantiti dalle persone e dalle istituzioni in cui un tempo confidavano.
Il mondo era cambiato troppo, e troppo in fretta; i sistemi attualmente in vigore non obbedivano più ad alcun padrone umano, ma, imperscrutabili come demoni, seguivano imperativi tutti loro1.

Aggiungendo poi ancora nelle stesse pagine:

Fin dagli albori della tratta degli schiavi, le potenze imperiali europee avevano intrapreso il più grandioso e crudele esperimento di rimodellamento planetario che la storia avesse mai conosciuto: in nome del commercio, avevano spostato le persone fra i continenti su una scala quasi inimmaginabile, finendo per cambiare il profilo demografico dell’intero pianeta. Ma pur ripopolando altri continenti, avevano sempre cercato di preservare la bianchezza dei territori europei.
Adesso quel progetto veniva sovvertito: i sistemi e le tecnologie – dagli armamenti al monopolio delle informazioni – che avevano reso possibili quei giganteschi interventi demografici avevano ormai raggiunto la velocità di fuga, e nessuno li controllava più2.

Questa citazione letteraria serve a focalizzare l’attenzione sul tema vero che è sotteso alla narrazione delle rivolte delle banlieue oppure dell’azione urbana dei banlieusards: quella della scomparsa del centro. Inteso qui sia in senso urbanistico che politico-economico e geopolitico. Vediamo come e perché.

Mentre gli intellettuali a la Tomaso Montanari di turno piangono ancora sullo scempio delle città d’arte come Firenze ad opera del turismo digitalizzato di Airbnb, […] la distinzione classica tra centro e periferia è saltata definitivamente.
E’ fallita a livello geopolitico, in un mondo in cui la centralità dell’Occidente rispetto al resto del mondo si è andata lentamente, all’inizio, e poi sempre più rapidamente sgretolando come le cronache militari, politiche ed economiche degli ultimi anni (dal ritiro dall’Afghanistan fino alla guerra in Ucraina e alla crisi militare e umanitaria di Gaza) confermano quasi quotidianamente.

E’ fallita a livello tecnologico ed economico, in un mondo in cui lo sviluppo delle nuove tecnologie, soprattutto quelle digitali, non ha più un centro preciso di riferimento poiché tale produzione necessita di terre rare spesso in possesso quasi esclusivo di paesi terzi rispetto a quello che fino a pochi anni fa era ancora ritenuto il centro mondiale dell’innovazione tecnologica e scientifica, mentre gli sviluppatori delle stesse spesso si trovano in continenti posti “fuori” dal fortino bianco di provenienza dei marchi. Mentre gli stessi marchi occidentali sono ormai subissati in tutti gli ambiti da quelli di origine asiatica. Senza tener conto della rapida obsolescenza cui sono condannate tutte le novità proposte per tener vivo e competitivo il mercato delle stesse.

E’ fallita a livello statale, nel momento in cui ogni decisione dei parlamenti deve sottostare, soprattutto qui in Europa, a decisioni emanate da organismi sovranazionali e sovraparlamentari che rendono quasi inutili le farse elettorali e le inutili scelte tra destra, sinistra e novelli populismi. Tutti, una volta giunti al governo, egualmente ricattabili con la scusa della necessità di rispondere a parametri stabiliti sovranazionalmente.

E’ fallita a livello urbano, là dove la rivendicazione al diritto alla città ha perso negli anni un reale peso specifico, poiché ogni parte della città si è trasformata in ghetto. Ghetto per i turisti il centro urbano antico o d’arte, trasformato ormai in vetrina per merci di diverso valore, dal lusso alle miserie di H&M; ghetto per i ricchi nei quartieri residenziali sempre più esclusivi e separati dal resto della città; ghetto per le classi disagiate o medie impoverite tutto il resto.

Ma allora ha ancora senso parlare di ghetto, quando tutta la città, per un’infinità di motivi che sarebbe ancora qui troppo lungo elencare, ma in cui la mancanza di lavori regolari e regolarmente retribuiti gioca un ruolo fondamentale di trasformazione sociale, si è trasformata in un insieme di “ghetti”?

E in questa perdita di “centro” ha ancora senso parlare di “classe operaia” e della sua centralità?
Sono questi i temi sui quali il miglior cinema della banlieue obbliga a ragionare, avendone anticipato tempi, temi e sguardo sul “reale”.

In fin dei conti, nel film Athena, l’assedio e l’assalto militare della polizia al quartiere difeso dai giovani, che per primi avevano preso l’iniziativa assaltando le stazioni di polizia dopo l’ennesimo omicidio di un giovane magrebino, non ha forse anticipato simbolicamente tutto quanto è successo nella striscia di Gaza dopo il 7 ottobre 2023 e l’irriducibilità degli abitanti della Striscia?

E questa presa di coscienza, dei giovani protagonisti dei film citati, della distanza e della estraneità incolmabile che li separa dal centro urbano, economico e politico delle città in cui vivono, non produce forse una forma di identitarismo collettivo più ampio di quello caratterizzato dall’etnia, dalla politica oppure dalla religione che spinge milioni o miliardi di abitanti del cosiddetto Sud globale ad odiare sempre di più il Nord e il suo centralismo perduto?

Non sono forse questi “nuovi barbari”, tutt’altro che semplicemente ghettizzati come vorrebbe la pietà di stampo cristiano e liberal, i nuovi vampiri, come nel romanzo di Richard Matheson Io sono leggenda, destinati consapevolmente ad ereditare e contemporaneamente distruggere il vecchio ordine del mondo?

Un mondo in cui, ormai, centro e periferia si confondono anche in ordine di importanza, ma che non è capace di fare altro che continuare a mostrare la propria autentica barbarie, spesso travestita da ecumenismo, e il proprio autentico vampirismo nei confronti degli altri “mondi”, oggi decisamente più giovani e motivati nella loro furia e dal loro desiderio di riscatto.


  1. A. Ghosh, L’Isola dei fucili, Neri Pozza Editore, Vicenza 2019, pp. 307-309.  

  2. A. Ghosh, op. cit., p. 308.  

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É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 7 https://www.carmillaonline.com/2023/09/17/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-7/ Sun, 17 Sep 2023 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78432 di Emilio Quadrelli

Nichelino come Watts, Mirafiori come Detroit

Qui si apre una parentesi veramente interessante e di una straordinaria freschezza in quanto, negli articoli de “La classe” sul proletariato in pelle scura o su ciò che verrà chiamato operaio multinazionale, si ritrovano temi e argomentazioni che sembrano essere il frutto di analisi del presente. L’attenzione nei confronti del proletariato nero statunitense, degli operai meticci britannici, nord africani presenti in Francia o turchi in Germania non è secondaria e, sulla scia di ciò, l’individuazione di tratti spiccatamente neocoloniali all’interno del punto più [...]]]> di Emilio Quadrelli

Nichelino come Watts, Mirafiori come Detroit

Qui si apre una parentesi veramente interessante e di una straordinaria freschezza in quanto, negli articoli de “La classe” sul proletariato in pelle scura o su ciò che verrà chiamato operaio multinazionale, si ritrovano temi e argomentazioni che sembrano essere il frutto di analisi del presente. L’attenzione nei confronti del proletariato nero statunitense, degli operai meticci britannici, nord africani presenti in Francia o turchi in Germania non è secondaria e, sulla scia di ciò, l’individuazione di tratti spiccatamente neocoloniali all’interno del punto più alto del ciclo di accumulazione capitalista. Con ciò si pone una pietra tombale all’edulcorata visione gradualista e riformista la quale, nello sviluppo delle forze produttive capitaliste, intravvede in prima istanza un principio di civilizzazione per rimettere al centro quel lato cattivo della storia sul quale non poco si era soffermato Marx nella sua “Miseria della filosofia”. Del resto questo proletariato in pelle scura mostra non poche affinità con il proletariato locale che è andato a sedimentare la nuova composizione di classe, a ben vedere gli operai che vanno a posizionarsi intorno alla catena di montaggio sono soprattutto operai meridionali ossia prodotti diretti della colonia interna italiana 1.

Esattamente qui, contro tutte le retoriche risorgimentali care al movimento operaio ufficiale, si delinea un discorso storico–politico che non fa sconti sul tratto coloniale che sta alla base dell’unificazione italiana e che non poche ripercussioni finisce con l’avere sul presente. Molto realisticamente la monarchia sabauda è colta nella sua realtà ossia quella di una tra le monarchie più reazionarie in vena di conquiste e annessioni e non è secondario rilevare come, proprio da ambiti interni a “La classe”, prenderà forma una contro narrazione anche sul mito garibaldino il cui tratto conquistatore e coloniale sarà irrimediabilmente marchiato a fuoco riportando alla luce il massacro di Bronte2. Per altro verso sempre da ambiti interni o affini a “La classe” prenderà forma una rivisitazione storica sul brigantaggio meridionale come forma di resistenza al dominio coloniale della monarchia sabauda3.

La lettura che “La classe” dà del nuovo operaio deportato nelle metropoli industriali del nord è una lettura sostanzialmente coloniale, da qui la facile affinità con tutti quegli spezzoni e segmenti di classe operaia i quali, pur con storie diverse, respirano la medesima aria di famiglia. In ciò vi è una drastica e radicale rottura con tutta la narrazione socialdemocratica e riformista sullo sviluppo del capitalismo e sulle modalità dei suoi cicli di accumulazione4. Nella narrazione classica del movimento operaio ufficiale sullo sviluppo del capitalismo il colonialismo non è mai stato osservato come tratto essenziale dell’accumulazione. Le colonie sono sempre state considerate una appendice dello sviluppo capitalistico, sicuramente importanti per quanto concerne l’accaparramento di materie prime essenziali ma del tutto prive di interesse per quanto riguarda l’estrazione di plusvalore. Le colonie sono state considerate importanti per i materiali grezzi presenti ma non per come il capitalismo metteva a profitto il corpo dell’indigeno anzi, sotto questo aspetto, il colonialismo è spesso stato osservato come un doloroso ma necessario passaggio poiché, proprio grazie al colonialismo, i popoli colonizzati avrebbero potuto accedere ai fasti della modernità. In sostanza si è finito per ignorare bellamente l’importanza che il colonialismo e il coevo modello coloniale hanno avuto per l’accumulazione capitalista.

“La classe” non solo si emancipa da queste pastoie, ma indica una lettura, che solo molti anni dopo diventerà moneta corrente, non poco innovativa a proposito dello sviluppo capitalista. L’attenzione che il giornale riversa verso il proletariato in pelle scura, le sue lotte e le sue forme organizzative ne sono una non secondaria esemplificazione. Prima di chiudere su questo aspetto pare importante rilevare come, proprio a partire da ciò, per “La classe” l’unità operaia è, in prima istanza, unità di quei settori operai i quali poco o nulla hanno da guadagnare nel rapporto con il capitalismo. Si evidenzia, cioè, come “La classe” non sia attratta dal mostro sacro dell’unità (indistinta) della classe ma focalizzi interesse e attenzione su determinati comparti operai. In Italia, proprio in virtù della colonia interna rappresentata dal Meridione, la spaccatura dentro la classe operaia non avrà tratti macroscopici ma, se volgiamo lo sguardo verso un paese come gli USA, è facile comprendere come questa contrapposizione dentro la classe assuma contorni di ben altra natura. Negli Stati Uniti la classe operaia bianca di ceppo anglosassone ha sempre giocato un ruolo avverso nei confronti sia dei neri, sia del proletariato immigrato identificandosi quasi integralmente con le politiche imperialiste del governo, di ciò l’appoggio alla guerra contro il Vietnam ne ha rappresentato qualcosa di più che un semplice esempio.

Veniamo ora a un altro tema che caratterizza il giornale: gli studenti e il rapporto con il movimento studentesco. Agli studenti il giornale dedica un certo spazio compiendo con ciò una non secondaria rottura con la tradizione operaista. Per l’operaismo che abbiamo definito classico e/o tradizionale gli studenti non rappresentavano alcun interesse. Considerati genericamente piccola borghesia potevano riscuotere un qualche interesse se, come singoli, decidevano di approdare alla militanza operaista, ma gli studenti in quanto tali erano considerati del tutto estranei e inutili alla lotta operaia. Ciò accade, ovviamente, prima del ’68 dopo di che, nulla sarà come prima.

Non lo sarà perché si modifica radicalmente l’analisi sulla composizione di classe della scuola e in particolare sulla figura del tecnico il quale, come più volte “La classe” riporta, è artefice nella fabbrica di lotte non secondarie, anche perché, nelle punte avanzate del capitalismo, ciò è soprattutto vero per quanto riguarda le grosse fabbriche del milanese dove la ristrutturazione capitalista poggia esattamente su una dilatazione e massificazione del tecnico il quale, dentro questo passaggio, perde velocemente il suo ruolo di comparto privilegiato per farsi classe operaia a tutto tondo. La scuola, attraverso l’inaugurazione della scuola di massa5, ha cambiato volto e si è adeguata alle istanze e alle esigenze del neocapitalismo.

La proletarizzazione del corpo studentesco è un dato di fatto che non può essere ignorato e su ciò “La classe” si spende non poco. Il legame operai-studenti ha ormai perso quel tratto ideologico in cui tendevano a rinchiuderlo tanto il riformismo quanto le varie anime dell’ortodossia comunista e che riduceva questi ultimi simili a una sorta di boy scout, proni a farsi missionari davanti alle fabbriche. Con ciò veniva anche meno quella funzione sociale che riformisti e ortodossi vari avevano prefigurato per gli studenti dentro i quartieri poiché, per “La classe”, questi non sono un supporto ideologico esterno agli operai ma parte dello stesso fronte di lotta. La loro proletarizzazione li rende del tutto interni o almeno affini alla lotta operaia benché nessuno si sogni di mettere in discussione la centralità e la direzione operaia. C’è un altro aspetto sul quale, però, vale la pena di soffermarsi: ossia le contaminazioni che il mondo operaio subisce dal e attraverso il mondo studentesco.

Abbiamo detto, parlando del maoismo, di quanto l’indicazione dello sparare sul quartier generale abbia fatto presa su questa tipologia operaia e di come l’antiautoritarismo sia un tratto indelebile della lotta operaia ma abbiamo anche detto come questa classe operaia si caratterizzi per il rifiuto del lavoro e per il volere tutto. È una battaglia di potere e di libertà che caratterizza questo soggetto operaio il quale ha nelle corde non il mito soviettista dell’operaio assunto a simulacro, ma semmai la sua negazione, sulla scia di Marx è la classe, non per sé ma contro di sé. Poteva una classe operaia simile rimanere immune dalle suggestioni libertarie del ’68 delle quali il movimento studentesco era stato l’alfiere? Poteva questa classe operaia tutta protesa a liberare il tempo dal lavoro per vivere, non venire in qualche modo attratta dagli stili di vita che il ’68 aveva inaugurato? Questa classe operaia ha rotto con la tradizione comunista a trecentosessanta gradi e non diversamente dagli studenti è alla ricerca di qualcosa d’altro.

Liberare il tempo dal lavoro significa sperimentare possibili rotture con l’alienazione della condizione operaia, rompere con gli schemi esistenziali entro i quali il rapporto sociale capitalista ha confinato gli operai. Si tratta, allora, di coniugare la lotta in fabbrica con l’avventura della vita; da lì, quindi, anche uno strappo generazionale con la famiglia e gli orizzonti quanto mai ristretti che le fanno da sfondo. Questo sarà ancora più vero per le donne, quelle operaie in particolare, le quali dentro quella stagione possono porre in atto una duplice liberazione: la lotta contro la schiavitù del lavoro salariato, ma anche la lotta contro il loro ruolo sociale. Per le donne, ancora più che per gli operai maschi, liberare il tempo dal lavoro significa rompere tutte le gabbie in cui non solo il lavoro salariato e il comando le ha imprigionate ma fare i conti con il patriarcato e tutte le sue derive. Per le donne la lotta significa iniziare a riappropriarsi di sé stesse, a esistere come soggetto autonomo, a parlare in prima persona a non essere più appendici di qualcosa, tutti temi, questi, che erano stati propri del ’68 che trovano non pochi consensi tra le donne in fabbrica6.

Sulle donne “La classe”, in realtà, si mostra ben poco attenta e se sulla razza e il colonialismo anticipa temi la cui attualità oggi è a dir poco dirompente, sul genere si mostra ben poco innovativa anche se non del tutto ignara e questo, a conti fatti, è forse il vero e proprio rimprovero che le può essere fatto. Con ciò chiudiamo la parentesi sull’astratto per tornare a calarci nella concretezza delle lotte e del dibattito che intorno a queste si va sviluppando. Arriviamo così a Corso Traiano e all’epilogo de “La classe” provando, al contempo, a gettare un corposo sguardo sul presente.

Il 3 luglio 19697 segna un passaggio decisivo per il movimento dell’autonomia operaia, quella che è stata chiamata la battaglia di Torino anticipa ciò che, di lì a poco, diventerà la normalità del conflitto operaio e studentesco e dà obiettivamente il la, alla anomalia italiana degli anni settanta. Corso Traiano è una svolta dalla quale non è possibile tornare indietro, una accelerazione che finirà con lo scompaginare la stessa “La classe” a riprova di come non si possano separare le questioni organizzative da quelle politiche e come le strutture formali possano vivere ed esistere solo se in grado di stare sul filo del tempo del partito storico. Corso Traiano conferma, ancora una volta, come la dialettica marxiana prassi/teoria/prassi sia la sola e unica stella polare alla quale affidarsi e come, fuori da ciò, vi sia solo sclerotizzazione burocratica, in altre parole corso Traiano mostra come Lenin avesse ancora una volta ragione. I fatti sono abbastanza noti, pertanto ci si limiterà a riportarli in maniera estremamente sintetica.

Il 3 luglio il sindacato ha indetto uno sciopero e una manifestazione contro il caro affitti e la questione abitativa mentre, da parte sua, “La classe” ha indetto una manifestazione per il pomeriggio indicando la porta 2 di Mirafiori come luogo del concentramento. Si tratta di una decisione che ha suscitato non poche perplessità anche all’interno dell’assemblea operai–studenti poiché, non pochi, considerano l’iniziativa prona all’avventurismo con possibili ricadute nefaste per il livello repressivo che sicuramente comporterà, con la conseguenza di un vero e proprio azzeramento di tutto il lavoro politico svolto dall’assemblea e dal giornale negli ultimi mesi. Una parte dell’assemblea obietta che un conto è la forza che si è in grado di esercitare dentro la e le fabbriche, ma ben altra cosa è riversare questa forza fuori dalla fabbrica; lì la partita cessa di essere focalizzata sul padrone e si sposta immediatamente sullo stato, lì il terreno in parte consolidato della violenza operaia in fabbrica va a misurarsi su un terreno in gran parte sconosciuto, il che potrebbe comportare una disfatta con conseguente annichilimento di tutto quel tessuto di avanguardie di fabbriche che un lavoro certosino aveva costruito nei mesi precedenti.

Si tratta di dubbi più che legittimi e sensati ma che, per altro verso, mostrano come, anche inconsciamente, in non pochi casi la struttura organizzata tenda a privilegiare la conservazione di sé stessa piuttosto che arrischiare l’incognita del salto politico. Se pensiamo, infatti, a come, in un contesto ben più drammatico, a ridosso dell’insurrezione sovietica, Lenin si trovò contro una buona fetta del partito bolscevico, diventa abbastanza evidente come la decisione sia sempre un momento drammatico, ben poco lineare e come, in aggiunta, sia sempre un grano di azzardo quello che finisce con l’accompagnarla. Siamo al momento dell’audacia, dell’audacia e ancora dell’audacia, il che, per forza di cose, non può fare affidamento su troppe certezze. Alla fine, soprattutto per la spinta proveniente dalla componente operaia che evidentemente aveva maggiormente il polso degli umori interni alle fabbriche, la decisione per la manifestazione autonoma è presa, davanti alla porta 2 di Mirafiori si deciderà il destino delle lotte operaie.

Il corteo non riuscirà mai a partire perché immediatamente caricato da polizia e carabinieri, ma la sorpresa arriva esattamente in quel momento poiché dopo un attimo di sbandamento il corteo si ricompatta e inizia a reagire, mentre pressoché in contemporanea, dal Lingotto e da altre fabbriche, approdano altri cortei operai verso la porta 2 di Mirafiori e stessa cosa fanno gli studenti. In brevissimo tempo gli scontri si allargano a macchia d’olio finendo con il coinvolgere non pochi quartieri operai tanto che la battaglia di Torino si protrarrà sino a notte inoltrata e troverà nel quartiere operaio di Nichelino il suo epicentro. Polizia e carabinieri sono in rotta, la classe operaia ha vinto, questo ridefinisce per intero i rapporti di forza tra le classi in città ma non solo, poiché quanto accade alla Fiat è qualcosa che ha ripercussioni immediate sui rapporti di forza generali finendo con il porre in crisi gli stessi assetti governativi. Tutto ciò obbliga anche a un ragionamento ex novo per quanto riguarda il terreno dell’organizzazione politica e la messa in campo di adeguate strutture militari in grado di farsi carico del livello di scontro che spontaneamente la lotta operaia ha posto all’ordine del giorno e, come la dinamica stessa della battaglia di Torino ha evidenziato, si pone il problema, non più rimandabile, del rapporto tra lotta di fabbrica e lotta dentro la metropoli. Una quantità di questioni che investono direttamente tutta l’esperienza portata avanti da “La classe”, una accelerazione che va ben oltre gli orizzonti che, prima di corso Traiano, questa aveva ipotizzato.

Ben prima di corso Traiano “La classe” si era attivata per cercare di far compiere un salto all’organizzazione autonoma operaia e per fine luglio aveva convocato a Torino un convegno dei comitati e delle avanguardie operaie, una operazione che aveva il duplice scopo di iniziare a tirare le somme di ciò che si era andato sedimentando in termini di lotte, esperienze, progettualità e dibattito dentro la sempre più diffusa area dell’autonomia operaia e, a partire da ciò, delineare i necessari passaggi politici organizzativi in grado di aggredire e affrontare le nuove scadenze a partire da quella decisiva dei contratti dell’imminente autunno. “La classe”, quindi, è pienamente cosciente che la sua funzione, almeno in quella forma, è giunta al termine e che occorre andare oltre quella pur fondamentale esperienza, in tutto questo, comunque, immagina di attivare questo passaggio in continuità con quanto posto a regime sino a quel momento, il convegno dovrebbe mirare esattamente a ciò ovvero chiudere l’esperienza de “La classe” e dalle sue ceneri far sorgere un soggetto politico capace di farsi carico complessivamente dell’organizzazione operaia. Le cose, però, andranno diversamente.

Le due anime che avevano convissuto dentro il giornale, adesso più di prima, acutizzano le loro differenze e in ciò la battaglia di Torino ha sicuramente giocato un ruolo non secondario. Come si è detto non vi era stata unanimità dentro al giornale sull’indire una manifestazione autonoma, una diversità che rimandava, per lo più, alle due posizioni presenti nel giornale. L’ala prettamente operaista, che di lì a poco darà vita a Potere Operaio, aveva mostrato le maggiori perplessità sulla manifestazione mentre l’ala che si costituirà in Lotta Continua era stata quella che maggiormente aveva spinto perché la manifestazione si facesse. In ciò emergono e in maniera neppure troppo sottile le differenze sul modello di organizzazione che le due componenti de “La classe” hanno a mente. Per i futuri militanti di Potere Operaio l’organizzazione è organizzazione di quadri operai con funzione di avanguardia e direzione delle lotte e, in piena coerenza con ciò, il problema dell’organizzazione operaia è strutturarsi in maniera tale da prendere la testa del movimento inoltre, per questi militanti, la centralità della fabbrica rimane pressoché assoluta, è lì, senza farsi distogliere da alcuna sirena di lotta metropolitana che va concentrato e focalizzato tutto il lavoro delle avanguardie operaie. In questo senso, pur con tutte le tare del caso, coloro che daranno vita a Potere Operaio si mostrano in più di un tratto, interni alla tradizione comunista.

Molto diversa l’impostazione che fa da sfondo ai militanti che daranno vita a Lotta Continua. Anche per loro il nodo dell’organizzazione è centrale ma tendono ad affrontarlo in maniera assai diversa dai primi. Per chi andrà a formare Lotta Continua, è la lotta e le sue forme che costruiscono l’organizzazione e proprio per questo l’organizzazione non deve porsi il problema di prendere la testa del movimento ma deve, invece, essere la testa del movimento. Due ipotesi che rimandano a idee e concezioni abbastanza diverse sul senso che assume l’autonomia operaia. Ciò che diventerà Lotta Continua avrà un ampio seguito operaio e alla FIAT potrà vantare a lungo una egemonia incontrastata, cosa che obiettivamente non si può dire di coloro che perseguono l’ipotesi di Potere Operaio nonostante l’area che si coagula intorno a Lotta Continua non sia per nulla fabbrichista ma, al contrario, fautrice di una socializzazione della lotta operaia nella la metropoli il che diventerà quanto mai esplicito poco tempo dopo, quando lancerà il programma “Prendiamoci la città”8.

Questa area non rinuncerà certo alla centralità operaia, anzi, e questo era già evidente all’interno dell’esperienza de “La classe”, ma allarga il suo raggio d’azione verso la complessità delle figure proletarie che animano la metropoli. Era stata quella a rompere con gli schemi rigidi del vecchio operaismo, in parte presenti anche nel nuovo, in merito agli studenti e al ruolo giocato da questi nei nuovi scenari del neocapitalismo; non per caso proprio questa area politica fu in grado di farsi egemone soprattutto tra gli studenti medi dei tecnici e dei professionali e in più, sempre quest’area, iniziò a lavorare, frutto di un non secondario radicamento all’interno dei quartieri operai e proletari, con il proletariato extra legale e prigioniero del resto, ancor prima che lo scontro in fabbrica si radicalizzi e vada in scena la battaglia di Torino, l’11 aprile proprio Torino aveva visto la battaglia delle Nuove, quando i detenuti si erano ribellati e avevano distrutto la prigione. Ben difficilmente, a partire da queste non secondarie differenze, le due ipotesi possono convivere e pensare, per di più, di compiere insieme quel salto qualitativo politico–organizzativo che corso Traiano ha reso quanto mai urgente.

Il Convegno, di fatto, non approda a nulla. Le due principali anime che stavano dentro a “La classe” tendono a polarizzare le loro differenze ma, con ogni probabilità, non si tratta solo e semplicemente di questo, bensì del fatto che tutto quello che “La classe” poteva dare, aveva dato e questo non è stato certo poco. Corso Traiano non era stato, come gli avvenimenti dell’autunno saranno lì a dimostrare, un fulmine al ciel sereno e neppure un falò tanto intenso quanto effimero, ma il corposo incipit di una nuova e durissima stagione di lotta. L’offensiva operaia non lascia spazi a interpretazioni di altro tipo, è il salto alla guerra. Dentro tale scenario “La classe” non poteva più svolgere il ruolo che, con non poco merito, aveva svolto nei pochi mesi della sua attività, un passaggio politico si mostrava tanto urgente quanto necessario e, con ogni probabilità e proprio in virtù di ciò, più che la nascita di una organizzazione monolitica a dover sbocciare erano cento fiori. Siamo di fronte a un passaggio sicuramente complessivo ma anche complesso, passaggio che ben difficilmente può essere perimetrato in un unico contenitore. Le due aree de “La classe” rimandano a questioni reali e per nulla effimere, l’aver ipotizzato e tentato strade affini ma diverse sembra essere stato qualcosa di obbligato e imposto da una situazione materialisticamente determinatasi, più che il frutto di cattivi ideologismi.

( 7continua)


  1. Cfr. A., Serafini, L’operaio multinazionale in Europa, Feltrinelli, Milano 1974.  

  2. Su questa vicenda si veda, P. Iaccio, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di scuola non hanno raccontato. Un film di Florestano Mancini, Liguori, Napoli 2002.  

  3. Tra l’immensa pubblicistica inerente a questo fenomeno si può vedere, F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1966. 

  4. Su questo aspetto si veda l’ottimo testo di S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Ombre Corte, Verona 2008.  

  5. Cfr. G. Decollanz, Storia della scuola e delle istituzioni educative. Dalla Legge Casati alla riforma Moratti, Edizioni Laterza, Roma–Bari 2005.  

  6. Su questa tematica si veda in particolare: E. Bellé, L’altra rivoluzione. Dal sessantotto al femminismo, Rosemberg & Sellier, Torino 2021.  

  7. D. Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di corso Traiano (Torino 3 luglio 1969), Edizioni BFS, Pisa 1997.  

  8. Al proposito si veda, «Lotta continua», Prendiamoci la città. II Convegno nazionale, Bologna 24 luglio, Anno III, N. 12, Milano 1971.  

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Per una critica della società dell’Apocalisse permanente https://www.carmillaonline.com/2021/09/22/per-una-critica-della-societa-dellapocalisse-permanente/ Wed, 22 Sep 2021 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68263 di Sandro Moiso

Francesco “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’utopia capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia (nuova edizione riveduta e accresciuta), Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 176, 15,00 euro

Costoro sono nati per una vita che resta da inventare; nella misura in cui hanno vissuto, è per questa speranza che hanno finito con l’uccidersi (Raoul Vaneigem, Banalità di base)

Tornato per un momento dall’esilio sull’isola di Patmos e costretto a posare i piedi nella realtà attuale, l’evangelista Giovanni si stupirebbe certamente nel [...]]]> di Sandro Moiso

Francesco “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’utopia capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia (nuova edizione riveduta e accresciuta), Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 176, 15,00 euro

Costoro sono nati per una vita che resta da inventare; nella misura in cui hanno vissuto, è per questa speranza che hanno finito con l’uccidersi (Raoul Vaneigem, Banalità di base)

Tornato per un momento dall’esilio sull’isola di Patmos e costretto a posare i piedi nella realtà attuale, l’evangelista Giovanni si stupirebbe certamente nel constatare come l’umanità contemporanea si sia assuefatta a vivere, anche se sarebbe forse meglio dire sopravvivere, in una apocalisse continua: climatica, economica, politica, militare, sanitaria, sociale e ambientale.
Un autentico inferno che, colui che è ancora rappresentato nell’iconografia cristiana come l’aquila, per la sua lungimiranza e profonda capacità visionaria, non avrebbe saputo anticipare nemmeno nei suoi incubi più terribili.

Questa Apocalisse terrena, che non si è ancora sviluppata in alcuna lotta definitiva tra il Bene e il Male, anche se nel corso dei secoli milioni di persona sono morte a causa di crociate politico-militari e religiose che promettevano, da vari e contrastanti punti di vista, il trionfo del primo sul secondo, ha avuto, però e fin dai primi anni Settanta del ‘900, un suo anticipatore, seguito da un ristretto numero di seguaci, in Giorgio Cesarano.

Come afferma Francesco “Kukki” Santini nel riassumerne l’opera di Giorgio Cesarano (1928-1975) intitolata, appunto, Apocalisse e Rivoluzione (con Gianni Collu, come attestava il frontespizio del manoscritto, Dedalo, Bari 1973):

Secondo Cesarano, i tempi delle contraddizioni capitalistiche si stanno facendo stretti, ed è necessario che la dialettica rivoluzionaria incalzi il processo catastrofico in cui il capitale si scontra con i limiti termodinamici della biosfera, preparando esiti apocalittici.
Tutte le contraddizioni storiche si assommano per disegnare la prospettiva dello scontro ultimativo che oppone il capitale – giunto a colonizzare non solo l’estensione fisica del Pianeta ma la stessa interiorità dei suoi schiavi – alla specie umana. Stiamo vivendo le prime fasi della “rivoluzione biologica”, risposta della corporeità vivente contro il pericolo di annichilamento e superamento dei limiti di tutte le rivoluzioni “storiche”.
Nel suo movimento, il capitale realizza il processo di reificazione inaugurato, fin dalla remota origine della specie, dal combinarsi subalterno del corpo biologico – debole e indifeso di fronte alla natura terrifica e ostile – con l’utensile-protesi. Da questa primaria alienazione in poi, l’utensile-protesi ha continuato a svilupparsi a scapito della corporeità e della sensibilità della specie, divenendo l’UT che subordina a sé tutto lo sviluppo “storico”. L’antica alienazione del “senso” della vita, di cui tendono ad appropriarsi le caste dominanti religiose e militari, genera l’accumulazione di segni e simboli che formano la lingua, separata dal corpo della specie e dalle sue necessità di comunicazione. La lingua sequestrata produce a sua volta l’Ego separato dall’inconscio, dal rimosso, dal desiderio “istintuale”, come rappresentante del dover-essere e della normativa sociale, propri di un vissuto storico collettivo fondato sul lavoro e sulla sofferenza1.

Fermiamoci per un momento, soltanto per svolgere alcune osservazioni su quanto è stato qui appena citato.
Quello che sarebbe diventato uno dei manifesti della critica radicale italiana2, accompagnato dal successivo Manuale di sopravvivenza (Dedalo, Bari 1974 e Bollati Boringhieri, Torino 2000), raccoglieva già al suo interno vari stimoli provenienti dall’opera di Jacques Camatte sulla specie-gemenweisen e il capitale totale, dall’idea del linguaggio come virus tratta dall’opera di William Burroughs e dalle catastrofiche previsioni contenute nel rapporto commissionato dal Club di Roma al MIT e pubblicato nel 1972 con il titolo I limiti dello sviluppo.

Senza farsi imprigionare dal pensiero contenuto nell’opera dei due autori oppure dei ricercatori americani autori del Rapporto, Cesarano provocava e apriva la riflessione in direzione di vie ancora inesplorate dal pensiero rivoluzionario tradizionale. Così è possibile cogliere oggi, in quelle poche righe, le radici delle successive elaborazioni del primitivismo di John Zerzan oppure le elaborazioni che si sarebbero succedute in seguito sul passaggio di consegne dalla classe operaia alla specie umana nel suo complesso dei compiti della lotta contro il capitale e il suo pestifero e mortifero sviluppo.

Anticipando però, già allora, una critica al catastrofismo di stampo capitalistico che, eludendo il problema dello scontro di classe, ineliminabile dai rapporti di produzione e dalle scelte di utilizzo delle risorse, sarebbe poi giunto, ai nostri giorni, alla riproposizione del green capitalism e del recupero del nucleare come energia “pulita”.
In fin dei conti, proprio nel corso degli ultimi giorni, la denuncia del ministro alla Transizione Ecologica del possibile aumento del 40% dei costi dell’energia elettrica non ha fatto altro che prolungare l’allarmismo securitario cui si sono affidati da anni, in un autentico susseguirsi epidemico di emergenze continue, i governi per mantenere, con la paura, il proprio potere sui governati, senza mai dover mettere in discussione il modo di produzione che causa davvero disastri e sprechi insostenibili per la specie e il pianeta. Anzi, semmai colpevolizzando la specie nel suo complesso attraverso le formulazione della teoria dell’Antropocene, evitando invece di parlare, più correttamente, di Capitalocene3.

La rivoluzione, come tradizionalmente l’alta magia e la religione, affronta il nemico esterno per mezzo della vera guerra. Questa non può prescindere dallo scontro con tutte le immagini del Sé, che lo riproducono a somiglianza del capitale come quantità di valore in processo, simbolo, ruolo, funzione della vita assente, inserito nella società in cui circola e si realizza (o si devalorizza) come merce immateriale e veicolo della lingua.
Il capitale, invece, condivide con la religione i contenuti della penitenza e del millenarismo: da un lato minaccia l’apocalisse, dall’altro chiama a sé a specie come gregge della sopravvivenza, inquadrato dalle nuove ideologie neocristiane del dubbio, del problema, dell’autocritica.
La produzione di persone di nuovo tipo è parte integrante del progetto planetario della carestia: trasferimento del grosso della produzione di merci materiali alla periferia del mondo capitalista e sua sostituzione con la colonizzazione dell’interiorità e la creazione di nuove merci corrispondenti (ruoli sociali, farmaci, comunità terapeutiche, servizi)4.

Santini scriveva decenni or sono di un libro apparso nel 1973, ma basterebbe aggiungere all’elenco i social media, che oggi hanno letteralmente colonizzato la mente e l’immaginario della specie, per avere un quadro completo dell’Apocalisse in atto e della necessità di superare la mera sopravvivenza con una svolta rivoluzionaria. Anche se, per ora, lontana dal venire.

All’epoca, la stessa scelta “armata” sembrava proiettare ancora i militanti all’interno del mondo della Carestia5, poiché in tal modo la vera guerra veniva sostituita con l’autovalorizzazione per mezzo del sacrificio sanguinoso e dell’eroismo ritualistico, ma, sempre secondo Cesarano, la prospettiva del capitale di assoggettare definitivamente la specie, facendola parlare con la propria stessa voce, stava per fallire.

Il movimento della rivoluzione, pur col ritardo necessario ma non inevitabile degli infortuni della passione, pur con le perdite causate dalla disperazione e dalla solitudine dovute all’esigenza di inverarsi immediatisticamente e di non recede dai livelli di radicalità raggiunti, si appresta a disvelare la menzogna del mondo fittizio in cui ogni corpo è strappato all’essere e abolito, e, trapassando tutte le ideologie e i travestimenti dell’inorganico fattosi uomo, si avvicina allo scontro ultimativo e alla vittoria6.

Il dramma che sorge dalla lettura dell’antologia di testi di Francesco Santini, proposta dalle sempre stimolanti e attente Edizioni Colibrì, sorge però dal fatto che a fronte di tanta determinazione critica e politica i principali protagonisti di quella stagione (Eddy Ginosa nel 1971, Giorgio Cesarano nel 1975 e lo stesso Santini nel 1996) decisero tutti, in maniera decisamente ultimativa, di non piegarsi alla mediocrità del momento, esattamente come Guy Debord, uno dei loro principali ispiratori, avrebbe fatto nel 1994.

Il Je mange pas de ce pain-la di Benjamin Péret, diventava un imperativo assoluto, tale da far sì che la spasmodica attesa dell’evento rivoluzione finisse, a causa della sua prolungata assenza, col coincidere con la stoica decisione di rinunciare a una non-vita, il cui unico valore, per chi la viveva consciamente, poteva essere costituito soltanto dalla depressione e dal senso di impotenza. Non resa dunque, ma estrema affermazione di alterità nei confronti di un mondo ancora non pronto a recepire la radicalità di un messaggio che, in compenso, la borghesia dell’epoca aveva già percepito e represso attraverso arresti e accuse di coinvolgimento nelle sue trame più oscure, proprio nei confronti degli ambienti anarchici e proletari in cui la critica radicale, pur rivendicandosi comunista, aveva trovato maggior ascolto e accoglienza.

Tra i testi ripubblicati, oltre a quello già contenuto nella Cronologia della vita e delle opere che introduceva il terzo volume delle opere complete di Giorgio Cesarano, pubblicato con il titolo Critica dell’Utopia Capitale per conto dell’associazione culturale «Centro d’iniziativa Luca Rossi», sono compresi vari contributi di Santini apparsi sulla rivista «Insurrezione» e in altri contesti. Tra questi il più importante è proprio quello che dà il titolo al libro e in cui l’autore, prendendo le mosse dal suicidio di Cesarano, traccia una storia delle origini e degli sviluppi della critica radicale italiana, indicandone le radici nel movimento ’68, nell’Internazionale Situazionista e nelle correnti più lucide del pensiero comunista, consigliare e anarchico, anche se, a ben vedere, la critica radicale si differenziò da tutte queste.

Non soltanto storia, però, ma anche necessario bilancio critico di un’esperienza che perso in gran parte l’appuntamento decisivo con quello che avrebbe potuto costituire l’affermazione materiale delle sua anticipazioni, ovvero il movimento del ’77, finì, secondo Santini, troppo spesso col rinchiudersi su se stessa, inaridendosi. Come scrive ancora:

Verso la fine del’76, mentre i piccoli nuclei di «radicali» presenti in varie città d’Italia tendevano a prendere un atteggiamento di vuota superiorità che li avrebbe resi incapaci di realizzare qualsivoglia intervento efficace, esistevano occasioni di incontro con i Circoli del Proletariato Giovanile e l’incipiente Autonomia.
[…] A partire dalla fine del ’76, con l’esperienza dei Circoli del Proletariato Giovanile, preannunciata dagli scontri della primavera del ’75,la situazione italiana si riaprì rapidamente tornando a offrire ai rivoluzionari ricche occasioni di comunicazione col sociale.
La comparsa sul palcoscenico della politica dell’Autonomia Operaia non costituì in sé una novità. Infatti l’Autonomia può essere giustamente considerata nient’altro che una forma di militantismo di sinistra conseguente. La spiegazione del successo dell’Autonomia sta essenzialmente nella chiara scelta da parte sua della pratica dell’illegalità e della violenza. Lo scompiglio provocato nel quadro politico dai gruppi autonomi aprì un varco entro cui poterono irrompere i selvaggi delle metropoli.
[…] I grandi movimenti di Roma e Bologna nei primi mesi del ’77 realizzavano il sogno delle grandi rivolte armate fuori e contro i racket politico-sindacali covato dai radicali per tanti anni. Il ’77 non ebbe la portata, la profondità sociale e la durata del movimento precedente del ’67-’69; tuttavia determinò una situazione ancora più favorevole per il comunismo radicale.
Intanto, questa volta la politica militante dei gruppettari – che per tanti anni aveva costituito un freno e un blocco con cui, volenti o nolenti, i rivoluzionari avevano dovuto fare i conti – fu investita subito dalla critica feroce e irridente di un movimento che esprimeva come proprio presupposto l’esigenza di lottare per sé, per la vita di ciascuno, contro il sacrificio, la noia, il lavoro, per cambiare immediatamente se stessi, affrontando nel contempo a viso aperto l’assedio del mondo delle merci. Inoltre, stavolta, il blocco staliniano PCI-CGIL venne identificato come il nemico; si schierò subito apertamente contro il movimento e,per la prima volta, perse completamente il controllo della piazza7.

Per Francesco Santini, così come lo era stata per la critica radicale prima e per la rivista «Insurrezione» sul finire degli anni Settanta, l’ago magnetico della bussola politica rivoluzionaria doveva essere sempre rivolto in direzione degli episodi insurrezionali, di violenza e illegalità (come confermano ulteriormente gli scritti sul comontismo), che si caratterizzavano per il proprio essere di massa e spesso spontanei, quasi sempre con il proletariato giovanile metropolitano nei panni del principale attore protagonista.

Una concezione che vedeva nel rivoluzionario colui che sapeva cogliere e seguire con attenzione (se impossibilitato alla partecipazione diretta) tutte le possibili anticipazioni della Rivoluzione a venire, per momentanee e caduche che fossero, al fine di stilare un autentico atlante delle città insorte e del cammino verso la liberazione della specie dall’attuale modo di produzione dominante. Fatto che, come ci insegnano i nostri giorni, potrebbe rendersi ancora necessario nel nostro immediato futuro, in ogni angolo del mondo e in ogni frangente riconducibile allo scontro tra specie e capitale.

L’Italia di Roma e Bologna del ’77 si aggiungeva, come nuovo laboratorio insurrezionale, a Detroit, Stettino, Danzica, Belfast, Oakland, la Torino di corso Traiano, Parigi del maggio e tante altre città in rivolta, così come oggi Minneapolis, Beirut, Santiago del Cile, Barcellona, Hong Kong, le città francesi invase dai gilets jaunes e dai giovani delle banlieues, e altrettante ancora segnano e segneranno puntualmente il cammino sull’atlante stradale della rivoluzione. Che non potrà essere, per forza di cose e sempre di più, che anonima e tremenda.

Anche soltanto per questo il testo qui proposto dovrebbe essere letto da chiunque si voglia porre sul lato giusto delle barricate di oggi e domani. Nella certezza che soltanto la promessa di sviluppo infinito del capitalismo costituisce in sé un’illusoria utopia, al contrario di quanto molti servitori della sua causa hanno sempre voluto far credere al fine di segare le gambe all’immaginario e alla materialità della concretezza rivoluzionaria.


  1. Francesco “Kukki” Santini, Esposizione sintetica degli scritti teorici e d’intervento di Giorgio Cesarano, Appendice 1 a F. “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza, Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 90-91  

  2. Della quale si è parlato già qui su Carmilla  

  3. Come suggerisce invece Jason W. Moore in Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Ombre Corte, Verona 2017  

  4. F. “Kukki” Santini, op. cit. pp.91-92  

  5. Sulla critica radicale all’esperienza della lotta armata si veda ancora Parafulmini e controfigure, numero speciale della rivista «Insurrezione», maggio 1979 qui oppure l’intero opuscolo, contenente estratti da Terrorismo o rivoluzione di Raoul Vaneigem (1972) e da Apocalisse e Rivoluzione (1973), ripubblicato con lo stesso titolo dalle Edizioni Anarchismo nella collana «Opuscoli provvisori» con il n° 28 e giunto alla sua terza edizione nel novembre 2013  

  6. F. K. Santini, Esposizione sintetica degli scritti teorici e d’intervento di Giorgio Cesarano, Appendice 1, op.cit., p. 92  

  7. Francesco “Kukki” Santini, La grande occasione del’77, in Apocalisse e sopravvivenza, op.cit., pp. 73-74  

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L’estate del 1964 ( o giù di lì e oltre) – 2 https://www.carmillaonline.com/2016/01/21/lestate-del-1964-o-giu-di-li-e-oltre-seconda-parte/ Thu, 21 Jan 2016 22:07:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27926 di Sandro Moiso

Wild Bunch 1Torniamo, però, ancora al 1964. Quando arrivò pure il primo western di Sergio Leone: “Per un pugno di dollari”. Vietato ai minori di 14 anni, ma mio padre, approfittando del fatto che ero abbastanza alto, garantì per me alla cassa del cinema. Sempre sia lodato, per il suo amore per il cinema western, mica per la sua liberalità. Negli anni avrei prima o poi rimesso in discussione tutto, da Marx a Lenin passando per Bordiga, ma Leone e Peckinpah mai.

Il discorso sulla violenza e il sangue fatto prima per la narrativa odierna vale altrettanto per [...]]]> di Sandro Moiso

Wild Bunch 1Torniamo, però, ancora al 1964. Quando arrivò pure il primo western di Sergio Leone: “Per un pugno di dollari”. Vietato ai minori di 14 anni, ma mio padre, approfittando del fatto che ero abbastanza alto, garantì per me alla cassa del cinema. Sempre sia lodato, per il suo amore per il cinema western, mica per la sua liberalità. Negli anni avrei prima o poi rimesso in discussione tutto, da Marx a Lenin passando per Bordiga, ma Leone e Peckinpah mai.

Il discorso sulla violenza e il sangue fatto prima per la narrativa odierna vale altrettanto per il cinema. Ma quei due, per i quali il West era solo un pretesto per parlare di anarchia e di rivoluzione e di uso delle armi per riparare ai torti dei potenti, furono un’altra cosa. Dei maestri. Che aprirono la strada ad un breve periodo in cui i pistoleri dell’Ovest sembravano avere le fattezze dei rivoluzionari cubani e latinoamericani. Soprattutto quando ad interpretarli erano chiamati Gian Maria Volonté o Warren Oates.

Nell’autunno del 1964 entrai nella scuola media unica, che era stata avviata con la riforma scolastica entrata in vigore il 31 dicembre 1962 con effetto dall’anno scolastico successivo. Grazie a ciò, nel giro di pochi anni raddoppiò il numero degli allievi frequentanti le scuole medie superiori. I numeri valgono più delle ideologie per spiegare i fenomeni sociali. Anche per il’68.
Che ci trovò, per così dire, pronti.

Pochi venivano da un inquadramento partitico o da un indottrinamento politico.
Sicuramente leader e leaderini avevano seguito quel percorso, ma furono pochi e grande era il disordine che regnava sotto il cielo di quei giorni.
Tutti si buttarono a pesce per abbrancarci e molti di noi sfuggirono a stento alle sirene che volevano richiamarci verso il PCI o verso i marxisti-leninisti dalle varie linee nere e rosse.

Ma quando ci avvicinarono noi avevamo già assaggiato le carezze dei calci dei moschetti, dei manganelli o delle catenelle delle manette. Sparate dritte sulla faccia o sulla testa. Oppure, se ci era andata bene, soltanto sulla schiena.
Ma eravamo incoscienti e piuttosto ostili a quella disciplina che volevano inculcarci, a tutti i costi, a calci in culo. L’unica cosa che ci interessava davvero era render pan per focaccia. A fascisti e polizia.

La teoria arrivò più tardi, mica subito.
L’azione precede la parola e poi ne richiede l’uso per spiegarla.
E le parole precedono le idee. Le parole spiegano l’azione e, in seguito, le idee che ne derivano creano il mondo. Anzi, creano la visione del mondo.
Ma nella materialità del mondo è l’azione che fa la differenza. Tutto il resto arriva dopo.

Marx affermò chiaramente che la classe operaia o lotta o non è.
Insomma la classe si fa tale in quanto agisce. Soltanto dopo pensa e riordina le sue azioni e le sue strategie. Quei teorici del partito che volevano portarci la coscienza da fuori, non si rendevano nemmeno lontanamente conto che il fenomeno era in realtà completamente rovesciato. Infatti potevano intravedere la coscienza grazie all’azione esercitata dalla classe e soltanto così innamorarsene.

Allo stesso tempo cercare di definire la classe o l’appartenenza ad essa in termini politici a partire da elementi non biografici, ma esclusivamente economici e sociali rischia di far cadere in un realismo sociologico che può forse funzionare per i grandi numeri, ma non per i percorsi individuali o generazionali.

In realtà per capire a ritroso la storia di una scelta complessa come quella di diventare militanti rivoluzionari occorre, un po’ come fece Walter Benjamin con la sua ricostruzione dei passages parigini, ricercare corrispondenze, collezionare ritagli casuali e tracce; giungendo cioè a creare quella che il filosofo tedesco chiamò una “fantasmagoria dialettica”, in cui quelle scarse e sparse testimonianze e ricordi, opportunamente assemblati e giustapposti possono, soli, rendere l’immagine della tempesta personale che fu scatenata da eventi tra i più disparati e che avrebbe accompagnato e prodotto avvenimenti meglio indirizzati una volta raggiunto un diverso ordine interiore.

giù la testa Gli avvenimenti, i più diversi tra di loro, ci possono avviare verso un percorso rivoluzionario prima di averne piena coscienza. Soltanto dopo questo primo passo sarà possibile razionalizzare le scelte e indirizzare gli sforzi verso un comune obiettivo. Vale per l’individuo e vale per l’azione di classe o di un partito rivoluzionario o preteso tale. Che non può esistere se non è preceduto dall’azione spontanea dei movimenti sociali. Dopo li potrà comprendere, anticiparne alcune scelte e, magari, guidare momentaneamente, ma non li potrà mai e poi mai creare.

Quei movimenti non si possono inventare. Sono la manifestazione fenomenica di un inconscio collettivo profondo. Nutrito di sogni, bisogni, parole, suoni, desideri, istinti, inconsapevole a se stesso fino a quando non si presenta un elemento scatenante: una crisi, un licenziamento, una promessa non mantenuta, una speranza infranta, un maltrattamento inaspettato o di troppo. E ciò avviene in un momento preciso, lungo come il decennio dal’68 al ’77 oppure brevissimo, come il tempo di uno sparo.

Ma in quel momento tutto si illumina, tutto diventa chiaro, tutto risplende di luce propria anche se chi cercherà di prenderne la testa vorrà appropriarsi di quella stessa luce, finendo col risplendere di una luce riflessa. Come un satellite che gira intorno ad un astro vero. Paradossalmente attratto dal moto di rotazione del corpo celeste di superiori dimensioni e allo stesso tempo, presuntuosamente, convinto di determinarlo. Mentre la fine del movimento e della rotazione costante di quel corpo ne segnerà l’inevitabile caduta o dispersione nell’immensità del cosmo.

Ed è per questo che ciò che fa scoppiare una rivolta o una rivoluzione una prima volta può non funzionare una seconda. Ed è ancora per questo che i partiti che sopravvivono all’esperienza che li ha generati sbagliano sempre nel comprendere i fenomeni successivi.
Si aspettano ciò che è già stato e non capiscono che, molto probabilmente, non si ripeterà più. Almeno con la stessa intensità, violenza e determinazione.

Ed è infine per questo che i partiti rivoluzionari di un tempo sono destinati a diventare i partiti della conservazione, se non addirittura della controrivoluzione nelle successive stagioni della storia.
Così, spesso, hanno finito col barattare i principi generali a cui si ispiravano pensando che fossero quelli ad essere sbagliati; senza rendersi conto, invece, che era la loro attesa che aveva tempi diversi da quelli del treno della storia. Che pur sarebbe prima o poi passato, ma non per quella stazione e con quegli orari.

Ho scritto da altre parti che eravamo come giovani treni lanciati in corsa.
Noi eravamo saliti su quel treno, lo avevamo acchiappato al volo; eravamo diventati quel treno.
Ne eravamo contemporaneamente i passeggeri e la locomotiva e continuammo a correre.
Fino a quando deragliò o fu fatto deragliare.
Dal treno potevamo vedere o intuire la destinazione, ma non potevamo controllare i binari.

mexican train Mi vengono in mente le immagini dei treni durante la rivoluzione messicana. Stracarichi di armati, donne, bambini, cavalli.
Come al solito quelle immagini ci erano giunte mediate dal cinema di Leone e di Peckinpah. Su quei treni là gente ci viveva, non viaggiava soltanto.
Intorno a quei treni si combatteva, si moriva, si vinceva e si perdeva.
Forse da lì mi è venuta l’idea di quella nostra definizione. Che mi piace ancora.

Mi piace soprattutto l’immagine di quei treni fermi, ma con le locomotive sbuffanti.
Esprimono ciò che è ancora solo in potenza e non ancora in essere; anche se lo fanno già prevedere.
Oggi mi sento ancora sullo stesso treno, ma forse ha imboccato un binario morto.
Oppure i passeggeri sono scesi tutti o quasi e hanno deciso di prenderne un altro. Forse a quella stazione di cambio ero addormentato oppure guardavo distrattamente da un’altra parte.

Eppure, eppure…
Ricordo che, quando quel treno era in corsa, nelle ultime fermate ci eravamo scontrati fermamente con il PCI. Il vero garante dell’ordine. Democratico si diceva allora.
Ed oggi vedo giovani dei centri sociali e precari e lavoratori scontrarsi con gli eredi di quel partito e con il loro governo. Anche oggi si chiamano “democratici” o, tra poco, Partito della nazione.

Superata questa immagine del treno?
Dovrei parlare di rete o di reti? In fondo in rete scrivo ed invio i miei messaggi in bottiglie di byte.
Ma ho i capelli bianchi e nel mio immaginario quei binari che si perdono verso l’orizzonte, sui quali si corre trascinati da una macchina pulsante, mi affascinano di più.
Anche se, quando parlo con i miei allievi, mi accorgo che non possono più vivere le stesse mie emozioni. Ed io le loro.

Ma il problema posto dal superamento di questo modo di produzione orrendo permane.
E una parte della teoria già prodotta potrebbe ancora servire.
A patto di sapere dove si cela la classe oggi, quali sono i suoi comportamenti, quali le sue azioni.
Autentiche e non scimmiottate.
Dove trovare l’equivalente della classe operaia quando questa, qui in Occidente, è stata ridotta ai minimi termini, dispersa, convogliata verso rivendicazioni miserabili ed egoiste?

Gli operai che trovavo alle porte della FIAT negli anni settanta avevano, quasi sempre, la stessa mia età. Avevamo molti gusti in comune e lo stile di vita non era così distante. Come sarebbe stato possibile non intenderci, al di là del volantino o del giornale distribuito davanti ai cancelli?
Anche loro erano già stati dipinti come teppisti. Prima in piazza Statuto poi in corso Traiano.

Il giovane rivoluzionario è sempre dipinto come un teppista o un delinquente.
Oppure come un terrorista, anche se ha contribuito soltanto al sabotaggio di una betoniera.
E’ facile perdere la fiducia dopo una certa età.
E’ facile scoraggiarsi e rinunciare.
Non è vero che si continui a credere per auto-consolazione, sarebbe più facile lasciar perdere.
Guardare scorrere le immagini del film del mondo staccando l’audio.
Oppure non guardarle proprio, rivolgendo lo sguardo ad uno schermo grigio di cui abbiano preventivamente sabotato ogni funzione.

Ma c’è un demone, un virus che ci ha infettato il sangue. Tanto tempo fa.
Che non ci permette di guardare da un’altra parte.
Che ci obbliga a cercare di capire, ancora. E ancora. E ancora.
Chissà se si sentivano così quei vecchi compagni della sinistra dissidente che, in pochi, cercarono di trasmetterci l’odio per lo stalinismo e la grande truffa dei socialismi nazionali?

wild bunch 3 Chissà se sentivano così quei vecchi partigiani che prendevano la parola alle manifestazioni anti-fasciste dei primi anni settanta?
Erano mica più vecchi di noi adesso, eppure sembravano così anziani e, talvolta, lontani.
Si sentiva così mio padre quando, dopo anni di diverbi con me per le mie scelte politiche, prese una sera il telefono per minacciare il vice-questore di Torino che, a sua volta mi aveva minacciato insieme a mia madre?

Come si sentiva mia nonna quando si ricordò, durante la ristrutturazione della casa di campagna, di fare sparire da un camino in disuso le armi che mio padre si era portato a casa dopo la Resistenza?
Quelle stesse con cui lei, donna di campagna ma dallo sguardo fermo e deciso, aveva minacciato il negoziante borsanerista che cercava di arricchirsi sulle spalle dei compaesani subito dopo la fine del conflitto, mostrandogli gentilmente la bomba a mano che portava nelle tasche del grembiule?
Cosa di cui, quest’ultima, mia madre, donna di tutt’altra pasta, si vergognò sempre tantissimo.

Abbiamo provato tutti le stesse cose, in tempi e forme diverse?
Siamo tutti anelli di una stessa catena?
Di cui, secondo i periodi, cambia soltanto la forma e la forgiatura?
Abbiamo sempre gli stessi nemici, dal volto cangiante ma dagli stessi modi e comportamenti?
Come diceva il titolo di un film di vampiri capitalisti dei tardi anni settanta: Hanno (solo) cambiato faccia?

hannocambiatofaccia A volte si rischia veramente di sentirsi come criceti destinati a far girare all’infinito la stessa ruota.
Forse, una volta spogliati degli orpelli ideologici, intellettuali e politici , lo siamo davvero. Tutti.
Vittime di una invisibile e superiore “livella” che ci condanna, ancor prima di morire, ad un personale inferno di ripetizioni di atti, gesti, parole e pensieri. Tutti apparentemente così importanti, tutti quasi sicuramente futili. Come maschere di un teatro e di un copione che neppure Pirandello avrebbe osato o saputo immaginare.

Comunque il passato era poco più che un sogno e il suo influsso sul mondo era ampiamente esagerato. Perché il mondo veniva rinnovato ogni giorno ed era solo l’attaccamento degli uomini alla sua svanita esteriorità che poteva fare del mondo un’ulteriore esteriorità […] Vedere le cose come stanno è uno sforzo. Cerchiamo dei testimoni ma il mondo non ce li fornisce. E’ questa la storia, la storia che l’uomo costruisce da solo con ciò che gli viene lasciato. Rottami. Qualche osso. Le parole dei morti. Com’è possibile costruire un mondo da tutto questo?” (Cormac McCarthy)

(Fine seconda parte – continua)

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Senza chiedere permesso https://www.carmillaonline.com/2015/02/19/senza-chiedere-permesso/ Thu, 19 Feb 2015 21:30:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20768 di Sandro Moiso

senza chiedere permessoIl documentario di cui sto per parlare, almeno formalmente, non è ancora stato distribuito, ma costituisce sicuramente una delle testimonianze più forti della memoria operaia della Detroit italiana, Torino. Una testimonianza diretta, autentica e documentata, da quel Fiat-Nam che sconvolse l’orgoglio padronale, la politica italiana e gli equilibri di classe tra l’autunno caldo e il 1980.

Si tratta di “SENZACHIEDEREPERMESSO” di Pietro Perotti e Pier Milanese e, probabilmente, per poter essere distribuito nelle sale o come DVD avrà bisogno anche dell’aiuto di chi sta leggendo queste righe. Ma procediamo con ordine.

Pier Milanese, da almeno un trentennio, [...]]]> di Sandro Moiso

senza chiedere permessoIl documentario di cui sto per parlare, almeno formalmente, non è ancora stato distribuito, ma costituisce sicuramente una delle testimonianze più forti della memoria operaia della Detroit italiana, Torino. Una testimonianza diretta, autentica e documentata, da quel Fiat-Nam che sconvolse l’orgoglio padronale, la politica italiana e gli equilibri di classe tra l’autunno caldo e il 1980.

Si tratta di “SENZACHIEDEREPERMESSO” di Pietro Perotti e Pier Milanese e, probabilmente, per poter essere distribuito nelle sale o come DVD avrà bisogno anche dell’aiuto di chi sta leggendo queste righe. Ma procediamo con ordine.

Pier Milanese, da almeno un trentennio, si occupa di produzione e post-produzione cinematografica (in pellicola e video) su un terreno di impegno militante in quel di Torino. Mentre Piero Perotti, oggi ufficialmente pensionato, è una delle memorie storiche della classe operaia piemontese e delle azioni sindacali e sociali, messe in atto per migliorarne le condizioni di lavoro e di esistenza e per contrastare le “bronzee leggi” del capitale, fin dagli anni sessanta.

Insieme e nel corso di diversi anni hanno raccolto una serie di materiali straordinari sulla lotta di classe a Mirafiori, fuori e dentro la fabbrica, tra il luglio del ’69 e l’autunno del 1980.
Molte immagini, collezionate all’interno del film, provengono dalla cinematografia militante di quegli anni, ma ciò che costituisce il cuore di questo documento audiovisivo è dato dalle immagini “rubate” dallo stesso Perotti alle manifestazioni operaie e ai cancelli dello stabilimento Fiat con la piccola cinepresa portatile che aveva deciso di procurarsi proprio a tale fine.

In un’età di tablet, smart-phone, telecamere portatili o miniaturizzate in qualsiasi cellulare e di selfie, ci si dimentica troppo facilmente quanto fosse difficile, qualche decennio addietro, documentare gli eventi. Anche quelli che, a differenza di quelli fin troppo documentati di oggi, erano destinati a cambiare il rapporto tra le classi a favore dei diseredati.

Tra il 1969 e gli anni settanta, la classe operaia di uno dei più grandi stabilimenti automobilistici del mondo cambiò le regole del gioco. Le immagini del film ce ne trasmettono tutta la potenza, la creatività, anche la violenza spesso sufficientemente espressa, quest’ultima, più in potenza che in atto. Fu, in quegli anni, la classe operaia torinese l’epicentro di uno scontro globale che fece tremare le fondamenta dell’edificio costruito sulla base dello sfruttamento di classe.

Per questo, più tardi nel 1980, avrebbe dovuto pagare un prezzo altissimo. Avrebbe dovuto essere spogliata della sua capacità di resistenza, organizzazione ed iniziativa, politica e sindacale, per essere restituita, nuda, alle sue condizioni iniziali di sottomissione e dipendenza dall’iniziativa avversaria.

Il film documenta benissimo, in maniera spesso commovente, soprattutto per chi ha vissuto quegli anni alle porte della FIAT, tutto ciò. La formazione di una coscienza, lo sviluppo delle lotte e della solidarietà di classe, la capacità di reagire uniti su richieste egualitarie ed unificanti e quella di reagire alle provocazioni messe in atto dall’azienda, dai crumiri, dai fascisti e dalla polizia. Una forza immensa era entrata nell’arena della Storia; sì, proprio quella con la S maiuscola.

Donne e uomini, immigrati meridionali e lavoratori piemontesi lottavano uniti, creavano uniti un nuovo modo di fare politica ed attività sindacale, marciavano uniti per le strade prima del quartiere, poi della città. Una città dormitorio che si risvegliava a se stessa, riscoprendo l’orgoglio della classe operaia del primo novecento, del Biennio Rosso, degli scioperi spontanei del ’43 e della lotta antifascista. La storia di quella Torino, operaia e socialista, che aveva contribuito alla formazione del pensiero di Gramsci e della nascita, insieme a Napoli, del Partito Comunista d’Italia.

Tutto questo, forse, molti di quegli operai l’avrebbero imparato dopo, eppure ripresero il cammino proprio là dove era stato interrotto dalle repressione antisindacale ed antioperaia, ancor prima che anticomunista, degli anni cinquanta. E che aveva visto un primo, selvaggio risveglio, fuori da qualsiasi direttiva partitica o sindacale, proprio nei fatti di Piazza Statuto del luglio 1962.

Molti di loro erano in fabbrica da anni, molti, forse i più, erano entrati alla Fiat in seguito alla recente emigrazione dal Sud o al rientro dalle fabbriche tedesche. Simili a una moderna creatura di un capitalismo novello dottor Frankenstein, avevano imparato ad odiare il proprio creatore e a combatterlo. Ovunque, dentro e fuori gli stabilimenti.

I cortei interni, le perquisizioni dei guardiani alle porte, i volantinaggi, i fuochi dei picchetti, gli studenti con i giornaletti dell’estrema sinistra, il blocco della produzione, gli scioperi spontanei: tutto è documentato con un ritmo serrato, accompagnato dalla narrazione personale e vivace di Pietro Perotti. Così che, ancora una volta, la memoria personale si mescola con la memoria di classe, rifondandola. Come quasi sempre accade.

Non nei testi accademici, non nelle tesi di Partito, non nelle logiche politiche e nelle strategie sindacali, ma nella voce narrante, ancor più che in qualsiasi forma scritta, noi ritroviamo la memoria e la Storia delle classi subalterne. Subalterne soprattutto sul piano della comunicazione. Soprattutto là dove la comunicazione è scritta, dove la sintassi è ancora un’arma del padrone e, ancor più, lo è lo strumento televisivo, o radiofonico come ai tempi del Duce.

Per questo il gesto di Pietro, comperare ed imparare ad usare una piccola cinepresa, diventa così grande ed importante. Non solo per noi che, ora, possiamo usufruire di quelle straordinarie immagini, ma anche per l’epoca. Un’altra barriera veniva abbattuta, appunto senza chiedere permesso, precedendo di poco la nascita delle radio libere. La lotta operaia, ancora una volta, inventava una nuova cultura e nuova comunicazione. Di cui Pietro si fece portatore anche negli anni successivi all’abbandono della fabbrica, attraverso i suoi manifesti e i suoi mascheroni che accompagnano ancora tante manifestazioni.

marx alle porteSuo era il grande ritratto di Marx che, appeso alle porte della palazzina di Mirafiori, avrebbe assistito, ammutolito e attonito, all’ultima battaglia degli operai della città-fabbrica. La più amara.
Quella in cui si consumarono, durante i 37 giorni dell’autunno del 1980, tutti i tradimenti sindacali e politici possibili. Quella con cui l’intera classe dirigente italiana , a partire dalla famiglia Agnelli fino al PCI di Berlinguer, aveva deciso di restaurare l’ordine e il comando sulla forza lavoro. Con un costo altissimo per tutta la classe operaia italiana.

E, sotto questo punto di vista, le immagini parlano e dicono più di ogni commento. Negli anni precedenti i lavoratori di Mirafiori avevano occupato il territorio. Erano diventati punto di riferimento per gli operai di tutto l’indotto Fiat e per quelli degli altri settori produttivi. Per gli studenti, gli operai, per i soldati inquadrati nei Proletari in divisa, per ogni settore della società. Avevano guardato fuori, al mondo e lo avevano fatto proprio.

Nei 37 giorni, tra il 10 settembre e il 16 ottobre 1980, gli operai che sono fuori dalle officine guardano verso l’interno della fabbrica. Un rovesciamento di prospettiva che prelude soltanto alla sconfitta. I grandi viali sono alle loro spalle e sono esclusi dalle officine. Guardano il balletto degli oratori, con capofila Berlinguer e i leader sindacali, che altro non fanno che illuderli e deviarli verso la resa. Che avverrà con una votazione truffa dopo la marcia dei quarantamila. Truffaldina anche quella, nei numeri e nei partecipanti.

I capi sono stati affluire da tutta Italia. In realtà non sono più di 10 – 12.000 (questa anche la prima cifra ufficiale della prefettura). Il corteo ha un carattere decisamente reazionario e antioperaio […] Nel pomeriggio,incontro Fiat -sindacati. Alle 22,30 la segreteria GGIL- CISL – UIL e la FLM vanno <<all’accertamento dell’ipotesi conclusiva>>. Tre ore di corteo di 12.000 capi sembrano valere di più per Lama, Carniti e Benvenuto, di 35 giorni di lotta di 100.000 operai e di milioni di lavoratori scesi in piazza al loro fianco in tutta Italia […] All’alba (giorno successivo) l’apparato del PCI è mobilitato ai cancelli per convincere i suoi militanti che bisogna accettarla1

La marcia dei 40.000, che nel 1980 segnò i destini della lotta dei 35 giorni alla Fiat si sarebbe potuta fermare, non farla neanche partire”. E’ quello che sostiene Pietro Perotti nel film. E probabilmente ha ragione, ma sarebbe occorso che gli operai della fabbrica più grande d’Italia tornassero a fare quello che avevano fatto nel decennio precedente, ogni volta che si era presentata l’occasione: occupare le strade e la città.

Ma in quel momento, una volta allontanati dalle officine, con gli arresti o i licenziamenti, tutti coloro che avevano guidato le lotte, i reparti non reagirono più allo stesso modo. La stanchezza e la sfiducia presero il posto del coraggio, della sfida e della lotta. Con una sapiente regia del sindacato e del Partito comunista. Soprattutto della federazione torinese del Partito che annoverava tristi figuri del calibro di Piero Fassino e di Giuliano Ferrara.

Le conseguenze si fanno sentire ancora adesso a Melfi, in quel che rimane degli stabilimenti torinesi, nel job act e nella spocchia di Marchionne e di Renzi. Quello fu un appuntamento storico e tutti i carnefici di adesso possono rallegrarsi ancora di quella sconfitta.
A noi rimangono la memoria di momenti gloriosi e di volti magnifici. Sconosciuti e conosciuti che, per chi ha avuto la fortuna di vivere quegli anni e quelle lotte, non possono non far spuntare lacrime di nostalgia, di tenerezza e di rabbia. Che ci accompagneranno sempre.

Il film, però, come si diceva all’inizio, per essere completato ha bisogno anche del vostro aiuto. Parzialmente finanziato dalla Fiom-CGIL, grazie alla disponibilità dimostrata all’epoca della sua ideazione da Giorgio Airaudo, ha oggi bisogno del soccorso di contributi in crowd funding.
Per questo gli autori vi chiedono di sottoscrivere la loro raccolta fondi inviando un bonifico all’Iban qua sotto, specificando nella causale:
SENZACHIEDEREPERMESSO, con il vostro nome e indirizzo mail
intestato a:
Cinefonie.
Banco Desio
IT28V0344001000000000490500

In ricordo di Rocco Papandrea, Raffaello Renzacci, dei militanti operai di Lotta Continua e di tutti gli altri 70.000 che fecero tremare il mondo per il solo fatto di esistere e lottare, coscienti e auto-organizzati.


  1. Con Marx alle porte. I 37 giorni alla FIAT, Nuove Edizioni Internazionali, Milano novembre 1980, pp. 41-42  

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