Corea – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 6: la crisi dell’ordine occidentale e la sua “naturale” soluzione https://www.carmillaonline.com/2022/03/17/il-nuovo-disordine-mondiale-6-la-crisi-dellordine-occidentale-e-la-sua-naturale-soluzione/ Thu, 17 Mar 2022 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71032 di Sandro Moiso

«Il 29 maggio 1453, Costantinopoli cadeva sotto l’assalto degli eserciti di Mehmed II. Solo se la Cristianità fosse subentrata all’impero in disfacimento rilevandone il potere e le funzioni, solo allora forse il destino di Costantinopoli e della Grecia avrebbe potuto essere diverso. Invece proprio in quelle otto settimane di assedio, la Cristianità rivelò di essere un puro nome, privo di contenuto reale, divisa com’era da lotte e rivalità fra stato e stato, fra città e città, priva di un ampio disegno continentale, tutta presa dai grossi e piccoli problemi delle varie nazioni» (Steven Runciman – «The [...]]]> di Sandro Moiso

«Il 29 maggio 1453, Costantinopoli cadeva sotto l’assalto degli eserciti di Mehmed II.
Solo se la Cristianità fosse subentrata all’impero in disfacimento rilevandone il potere e le funzioni, solo allora forse il destino di Costantinopoli e della Grecia avrebbe potuto essere diverso. Invece proprio in quelle otto settimane di assedio, la Cristianità rivelò di essere un puro nome, privo di contenuto reale, divisa com’era da lotte e rivalità fra stato e stato, fra città e città, priva di un ampio disegno continentale, tutta presa dai grossi e piccoli problemi delle varie nazioni» (Steven Runciman – «The Fall of Costantinople 1453»)

Nel corso delle ultime settimane una viscerale e sfegatata propaganda bellica ha visto tutti i media mainstream insistere sull’unità politica, militare e di intenti degli alleati occidentali di Washington, in generale, e dei paesi dell’Unione Europea, in particolare. Vedremo che così non è anche se, sempre nello stesso periodo, gli stessi strumenti di disinformazione hanno particolarmente insistito sulla provenienza “cinese” dell’idea di un nuovo disordine mondiale ovvero di una situazione in cui si può considerare quasi irreversibile il declino delle potenze economico-militari collocate a cavallo dell’Oceano Atlantico.

In realtà, però, la troppa attenzione prestata dai media e dai giornalisti embedded alla causa occidentale ha impedito loro di cogliere che la prima formulazione completa di tale idea, almeno sul piano economico-politico e finanziario, è stata sviluppata in maniera abbastanza compiuta proprio da uno degli organi più rappresentativi del general management statunitense, la «Harvard Business Review», che nel numero di agosto del 2003 titolò un suo articolo, redatto da Nicolas Checa, John Maguire e Jonathan Barney, proprio così: Il nuovo disordine mondiale (The New World Disorder qui).

Per intendere meglio di che cosa si parla, basti sapere che l’«Harvard Business Review» nacque nel 1922 come progetto editoriale della Harvard Business School, ma iniziò a spostare il suo focus editoriale sul general management dopo la seconda guerra mondiale, quando un crescente numero di manager cominciò ad interessarsi alle tecniche di gestione introdotte dalla General Motors e da altre grandi aziende. Nei successivi tre decenni, ha focalizzato la sua attenzione sulla formazione dei decision maker. Contribuendo ad un’idea di gestione manageriale del mondo che rivela tutta l’insopportabile prosopopea connessa alla pratica della privatizzazione e dello sfruttamento di ogni aspetto della vita e della riproduzione della specie.

Nell’articolo anticipato prima, la rivista riassumeva il percorso della globalizzazione a partire da quel 1° gennaio 1995 in cui, con una cerimonia a Ginevra ampiamente pubblicizzata, i rappresentanti di 76 paesi avevano apposto le loro firme alla carta dell’Organizzazione mondiale del commercio. L’OMC (o WTO, World Trade Organisation), fu l’ultima dei figli di Bretton Woods a diventare maggiorenne, mentre i suoi organi gemelli, tra cui il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, si erano formati tutti nel 1940.

Precedentemente l’OMC era stata per anni classificata come parte di un accordo commerciale temporaneo e il suo emergere finale come organismo sovranazionale pienamente potenziato sembrava riflettere il trionfo di quello che il primo presidente Bush aveva descritto come il “nuovo ordine mondiale”, dopo aver colto i frutti, elettorali ed economici, della reganiana “vittoria sul comunismo” e della Glasnost e della Perestroika avviate da Mikhael Gorbachev .

Quell’ordine era in gran parte basato su due presupposti: in primo luogo, che un’economia sana e un solido sistema finanziario creano stabilità politica, e in secondo luogo, che i paesi in affari insieme non si combattono a vicenda. La priorità numero uno della politica estera degli Stati Uniti era chiara: incoraggiare i paesi ex comunisti d’Europa e le nazioni in via di sviluppo in America Latina, Asia e Africa ad adottare politiche favorevoli alle imprese. Il capitale privato sarebbe fluito quindi dal mondo sviluppato in questi paesi, creando crescita economica e posti di lavoro. […] Come la gente amava dire, nessun paese con McDonald’s era mai andato in guerra l’uno con l’altro.

[…] Questo percorso di riforma, spesso chiamato Washington Consensus, ha comportato disciplina fiscale, liberalizzazione del commercio, privatizzazione, deregolamentazione e diritti di proprietà ampliati attraverso riforme legali. I promotori di queste riforme speravano che i cambiamenti avrebbero reso i paesi in via di sviluppo più attraenti per gli investimenti stranieri e avrebbero integrato ulteriormente quei paesi in una rete economica globale competitiva, ma pacifica. Nella sua forma più estrema, la visione divenne quella in cui questi paesi sarebbero diventati parte di un’economia mondiale liberale e aperta che promuoveva valori occidentali come la democrazia.
Per la maggior parte degli anni 1990, i paesi in via di sviluppo sono stati più che felici di accontentare tali propositi. Nell’agosto 2000, con l’adesione dell’Albania, il numero dei membri dell’OMC era quasi raddoppiato a 139.

La politica degli Stati Uniti di mettere il business al primo posto sembrava rendere il mondo un posto molto più semplice per i manager. Molti presumevano che l’esportazione di capitali dalle economie sviluppate verso i mercati meno sviluppati potesse essere sostenuta indefinitamente; non appena un paese sceglieva di essere integrato nella nuova economia globale, le sue istituzioni si adattavano sotto la stessa pressione implacabile che stava trasformando le imprese di tutto il mondo.

Per le aziende il tutto si riduceva sostanzialmente alle dimensioni: più grande è il paese, meglio è e più sicuro. Sembrava più pericoloso stare fuori dalle grandi economie in via di sviluppo che immergersi. Un miliardo di cinesi avrebbero potuto acquistare un sacco di auto, dentifricio o scarpe, mentre gli investitori finanziari tenevano un atteggiamento altrettanto spensierato.

Finché la valuta di un paese poteva essere scambiata liberamente e un mercato liquido era disponibile nel suo debito, l’economia di quel paese era considerata sicura. Quando il FMI si comportava come prestatore dell’ultimo, e in alcuni casi del primo, ricorso (anche se non ha mai affermato di esserlo), cosa importava se il sistema bancario di un paese era compromesso?
Sembrava troppo bello per essere vero, e così si è dimostrato. Il nuovo ordine mondiale di Bush padre e del suo successore, Bill Clinton, è stato sostituito dal nuovo disordine mondiale di Bush figlio.

Fu infatti alla fine degli anni ’90 che si ebbe il primo assaggio del rovescio della medaglia della globalizzazione finanziaria:

la crisi finanziaria della Thailandia del 1997 ne scatenò un’altra in Corea lo stesso anno. Il virus economico si diffuse in Russia l’anno successivo e, all’inizio del 1999, il Brasile fu costretto ad abbandonare la sua politica di tassi di cambio fissi. Questi paesi avevano poco in comune, eppure le crisi finanziarie si propagavano da uno all’altro come un virus a causa dei legami creati dalla nuova economia globale.
La ragione era semplice: sebbene le destinazioni degli investimenti diretti esteri fossero lontane e diversificate, la fonte di quel capitale non lo era. La banca occidentale che deteneva baht thailandesi deteneva anche real brasiliani. Il fondo che possedeva obbligazioni coreane deteneva anche banconote russe. Nella convinzione che il FMI, con gli Stati Uniti alle spalle, fosse disposto a salvare le economie che si trovavano in difficoltà a breve termine, molte di queste istituzioni avevano fatto incetta di titoli e valuta di quelle stesse.

[…] All’inizio, il FMI è intervenuto per aiutare, ma i costi dei ripetuti salvataggi multilaterali sono diventati sempre meno accessibili. Alla fine, il governo russo è andato in default, rendendo pressoché inutili i quasi 40 miliardi di dollari di debito pubblico interno detenuti dalle istituzioni finanziarie e più che dimezzando il valore di 100 miliardi di dollari delle azioni russe. Gli Stati Uniti hanno usato la loro influenza per costringere il FMI ad aiutare la Russia poco prima dell’agosto 1998; tuttavia, è riuscito ad acquistare meno di un mese di solvibilità aggiuntiva. Con il senno di poi, possiamo vedere che la convinzione degli investitori che gli Stati Uniti sarebbero rimasti indietro rispetto ai grandi paesi desiderosi di riforme aveva innescato una bolla speculativa in quelle economie che sarebbe scoppiata con il default russo.

[In realtà] Le forze della globalizzazione avevano cambiato le istituzioni russe così poco che un funzionario pubblico ha definito gli aiuti del settore pubblico alla Russia come “acqua versata su una lastra di vetro”. I programmi di privatizzazione hanno dimostrato di aver fatto poco più che arricchire le classi dominanti, anche se la gente comune ha pagato per la presunta liberalizzazione economica con il proprio lavoro. L’ostilità che questo ha generato tra gli elettori, spesso di recente diritto di voto, si è solo approfondita quando gli investitori stranieri hanno iniziato a chiudere i rubinetti.
Ironia della sorte, il secondo presidente Bush ha messo l’ultimo chiodo nella bara del nuovo ordine mondiale. Anche prima dell’11 settembre, l’amministrazione stava segnalando di avere una visione molto diversa dell’impegno internazionale da quella del suo predecessore, basata sulla sicurezza, non sulle preoccupazioni economiche. E la sicurezza era ora definita non solo negli stretti termini della Guerra Fredda di sicurezza dall’attacco di una superpotenza ostile, anche se stabile, ma molto ampiamente per includere la sicurezza dal terrorismo e dalle armi di distruzione di massa, così come gli input economici vitali come il petrolio.

Nel maggio 2001, la politica energetica nazionale del presidente Bush e del vicepresidente Cheney sottolineò che: “La sicurezza energetica deve essere una priorità del commercio e della politica estera degli Stati Uniti. Dobbiamo guardare oltre i nostri confini e ripristinare la credibilità dell’America con i fornitori esteri. Inoltre, dobbiamo costruire forti relazioni con le nazioni produttrici di energia nel nostro emisfero, migliorando le prospettive per il commercio, gli investimenti e le forniture affidabili”.
L’implicazione era chiara: la sicurezza, in questo caso la sicurezza energetica, era ora la considerazione principale nel commercio e nella politica estera degli Stati Uniti. La Strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti d’America pubblicata nel settembre 2002 mostra come il pensiero si sia sviluppato da lì. È diventato molto chiaro che il governo Bush definisva l’impegno internazionale in termini di relazioni bilaterali con alleati strategicamente importanti e confronto unilaterale con quasi tutti gli altri.

Ma è a questo punto che viene la parte più interessante dell’articolo, motivo per cui l’autore del presente chiede venia al lettore per le lunghe citazioni, che ha inizio con una dichiarazione decisamente spudorata:

Le aziende non possono giocare in difesa tutto il tempo; solo l’offesa mette punti sul tabellone. Dal momento che la globalizzazione è qui per rimanere.
Anche le economie sviluppate sono colpite, anche se in modo più sfumato, dal cambiamento epocale delle prospettive geopolitiche. È improbabile che l’acrimonia sollevata nel dibattito sull’Iraq si traduca in una guerra commerciale, ma avrà un piccolo ma percettibile effetto sul modo in cui gli Stati Uniti e l’Unione europea affrontano determinate questioni. Queste includono controversie commerciali, extraterritorialità legislativa degli Stati Uniti e regolamenti sulla concorrenza.
Ancora una volta, l’allontanamento tra gli Stati Uniti e i loro alleati europei è durato diversi anni, perché la nuova amministrazione è entrata in carica determinata a non lasciare che le alleanze esistenti limitassero la libertà d’azione dell’America. In effetti, il documento sulla strategia di sicurezza nazionale dello scorso settembre fa solo riferimenti di passaggio alla NATO e all’Europa occidentale.

E questo è il momento in cui si spiega, almeno parzialmente, il comportamento a dir poco ambiguo tenuto dalle istituzioni finanziarie e dalle diverse amministrazioni americane nei confronti della Russia.

Gli investimenti passati in Russia forniscono un caso di studio perfetto di questa dinamica. Gli investitori hanno commesso l’errore di interpretare la vittoria di Boris El’cin sul candidato del Partito Comunista nel 1996 come un segno che la Russia era sicura per gli affari. Dal momento che i comunisti erano cattivi, El’cin deve essere buono, giusto? Inoltre, gli Stati Uniti avevano un chiaro interesse per la stabilità (a quasi tutti i costi) della nazione perché la Russia era allora il più grande arsenale nucleare del mondo. A dire il vero, la natura capricciosa del sistema legale russo ha scoraggiato molti investimenti aziendali e ha impedito a molte aziende occidentali di farsi del male. Tuttavia, molti occidentali e capitali occidentali affluirono, rendendo Mosca una delle città più costose del mondo.
Dopo il default, la svalutazione e la moratoria del debito del 1997, la Russia è passata dall’essere percepita come l’opportunità di investimento più brillante del mondo ad essere la peggiore. La nuova percezione ha preso una presa così salda che gli investitori hanno quasi completamente perso la ripresa russa del 1999-2000. A quel tempo, l’aumento dei prezzi del petrolio, la nomina di Vladimir Putin a primo ministro nell’agosto 1999, la sua assunzione della presidenza nel gennaio 2000 e la sua successiva elezione alla carica nell’agosto 2000 si combinarono per trasformare il panorama economico e politico della Russia. Le agenzie di rating hanno notato il miglioramento solo verso la fine del 2000; Standard & Poor’s, ad esempio, ha aumentato il debito estero russo a lungo termine da SD (default) a C solo nel dicembre 2000. E il mercato azionario non ha preso atto della posizione molto migliorata della Russia fino al 2001.
Oggi (2003, NdA) la tentazione è quella di presumere che gli attacchi terroristici dell’11 settembre abbiano portato a un’inversione dell’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della Russia e, insieme ad esso, a una forte riduzione del rischio di fare affari lì. Sbagliato di nuovo, su entrambi i lati dell’ipotesi. Gli Stati Uniti vedevano la Russia come un partner strategico prima degli attacchi.
Nel maggio 2001, l’amministrazione ha pubblicato un report sulla politica energetica globale che implicava che gli Stati Uniti stavano cercando di diversificare le loro importazioni di energia per ridurre la dipendenza da regimi instabili in Medio Oriente. La Russia era chiaramente uno dei beneficiari previsti della nuova politica degli Stati Uniti.

Ma l’attacco dell’11 settembre e la successiva guerra con l’Iraq avrebbero reso la Russia strategicamente meno importante per gli Stati Uniti. Con la scommessa (poi persa) sulla rimozione dei talebani afghani e di Saddam Hussein, il governo degli Stati Uniti pensava che il Medio Oriente sarebbe diventato più stabile sotto il proprio controllo e che ciò avrebbe ridotto il fabbisogno statunitense di petrolio russo.

All’indomani dell’11 settembre, il governo russo si era saldamente allineato con gli Stati Uniti. Ma quell’allineamento è stato il risultato della frettolosa valutazione di Putin degli interessi economici e dell’influenza diplomatica della Russia, specialmente nella sensibile Comunità degli Stati Indipendenti, vicino all’Afghanistan. Alcune visite ai vicini dell’Asia centrale della Russia hanno mostrato al presidente russo che il suo paese non aveva abbastanza influenza per impedire che si sviluppasse una considerevole presenza americana mentre la guerra contro i talebani si avvicinava. Allo stesso tempo, il personale del Cremlino ha convinto Putin del valore economico di un rapporto migliore con gli Stati Uniti.
Gli storici arriveranno a riconoscere che l’allineamento era puramente temporaneo. Alla fine del 2002, i russi erano diventati ben consapevoli che la loro influenza sugli Stati Uniti sarebbe diminuita una volta iniziate le ostilità in Iraq, cosa che costituiva esattamente il motivo per cui erano così contrari alla guerra durante i negoziati delle Nazioni Unite all’inizio di quest’anno. Inoltre, il governo aveva poco da perdere, ma molto da guadagnare, dalla disapprovazione degli Stati Uniti.

Con l’affermazione di Putin, nelle elezioni presidenziali del 2000, erano «ormai lontani i giorni inebrianti di El’cin, quando l’Occidente in generale e gli Stati Uniti in particolare erano visti come la fonte del successo economico e della verità politica».
Se il cambiamento nella politica energetica degli Stati Uniti aveva creato nuovi incentivi per partecipare all’industria energetica russa nel 1999, con una legge costituita per incoraggiare gli investimenti stranieri nello sviluppo energetico russo proteggendo le società straniere in alcune joint venture dalle onerose tasse russe, i cambiamenti geo-politici successivi di fatto hanno decisamente ridotto la funzione degli accordi precedenti. Mentre, nel settore energetico, i passi successivi intrapresi dal governo russo su alcune questioni care agli investitori stranieri, in particolare, l’accordo di condivisione della produzione, avrebbe reso gli investimenti in quel paese «un gioco tutto o niente».

Il nuovo disordine mondiale si era già affacciato alle porte, dalle crisi latino-americane all’ondata di radicalismo islamico che avrebbe reso meno stabili le aree mediorientali, tanto da far sì che fin che Putin aveva condotto la seconda guerra cecena (1999-2009), conclusasi con il ristabilimento dell’ordine della Federazione russa in quell’area precedentemente resasi indipendente con il sanguinoso conflitto del 1994-1996, gli Stati Uniti e l’Occidente in genere ebbero ben poco da dire sui crimini commessi dalle forze russe e dai loro alleati in quell’area. Nonostante le denunce di una giornalista davvero coraggiosa e anti-putiniana come Anna Politkovskaja (1958-2006), poi freddata da diversi colpi di pistola nell’androne del palazzo in cui viveva nel 20061, avessero cercato di far aprire gli occhi sia su ciò che avveniva in quell’angolo del Caucaso che sulla corruzione imperante nel sistema economico-politico russo. Gravi silenzi di allora che rendono ancora più sospetta la forsennata criminalizzazione attuale di Putin e del suo regime2.

Ma, a ben guardare, fu proprio anche in quegli anni di “disinteresse americano per l’Europa” che si andò a definire la politica della Nato nei confronti dell’ex-Patto di Varsavia.
Esclusa infatti la DDR che sarebbe entrata nell’Alleanza Atlantica subito dopo la riunificazione tedesca, soltanto nel 1999 l’avrebbero seguita Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca3, nove anni dopo che, il 9 febbraio 1990, il segretario di Stato americano James Baker aveva promesso a Mikhael Gorbachev che, con la garanzia della Germania unificata, la giurisdizione della Nato non si sarebbe spostata di un pollice verso Est.

Come si rileva dall’editoriale dell’ultimo numero di «Limes»:

Un pollice sono 2 centimetri e 54 millimetri. Trent’anni dopo, l’Alleanza Atlantica è avanzata di circa cinquecento chilometri dall’Elba al Bug, quasi duemila se consideriamo l’intero fronte dal Mar Baltico al Mar Nero. Cammin facendo ha inglobato tre stati ex-sovietici – Estonia, Lettonia, Lituania (nel 2004) – che insieme a Norvegia e Polonia affacciano direttamente sulla Russia.
[…] Baker esprimeva il punto di vista prevalente a Washington sotto George Bush senior: impedire che la perdita dell’impero europeo comportasse la disintegrazione dell’URSS, con relativa dispersione di 35 mila testate atomiche a disposizione dell’Armata Rossa. L’ultimo difensore dell’Unione Sovietica è il presidente degli Stati Uniti. Lo testimonia il suo sferzante monito al parlamento ucraino, il 1° agosto 1991, in cui su suggerimento di Gorbachev denuncia «il nazionalismo suicida» degli ucraini (cosa che l’anno dopo gli costerà il voto etnico degli slavi americani e forse la rielezione).
[…] Come scriverà poco tempo dopo l’ambasciatore americano a Mosca, Robert Strauss, «l’evento più rivoluzionario del 1991 per la Russia potrebbe non essere stato il collasso del comunismo, ma la perdita di qualcosa che i russi di ogni parte politica considerano parte del proprio corpo politico, e molto prossimo al cuore: l’Ucraina»4.

E’ chiaro che con premesse del genere sarebbe stato in seguito buon gioco per Putin giustificare l’invasione di territori limitrofi, prima la Georgia nel 2008 poi l’Ucraina a partire dal 24 febbraio scorso, sventolando la rinnovata minaccia atlantica nei confronti della Russia, esattamente come aveva iniziato a fare fin dal 10 febbraio 2007 nel suo intervento alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, sintomo di una politica estera che, comunque, tra il 1991 il 2007, la potenza dell’Est, sia con Gorbachev che con El’cin e Putin, aveva condotto con la speranza di rientrare nel gioco europeo. A dimostrazione non soltanto di come le cose siano volte in altra direzione, ma anche del fatto che nello scontro attuale si sia di fronte ad una guerra tra due opposte fazioni imperialiste, prima ancora che a una per la libertà o meno del popolo ucraino.

Il quale, abbastanza spudoratamente, è stato incitato fino ad ora sia da i suoi governanti, che non hanno mai rifiutato di includere le milizie fasciste e neonaziste nei ranghi dell’esercito regolare, sia dai paesi europei e dagli Stati Uniti a combattere una guerra per procura, destinata a causare migliaia di vittime e milioni di profughi tra i civili, pur di riuscire ad intrappolare l’esercito e lo Stato di Putin in un pantano destinato, nelle intenzioni di chi lo ha pensato, a svolgere la stessa funzione di indebolimento che ebbe la guerra afghana per l’ex-URSS.

Progetto più facile a dirsi che a realizzarsi, poiché se è pur vero che le tecnologie e le tattiche belliche messe in campo dai russi appaiono, dopo due settimane e nonostante i lenti ma progressivi successi ottenuti sul campo, in difficoltà rispetto alle armi, soprattutto i missili portatili Javelin5 e Stinger, fornite dagli americani, con relativo addestramento e con largo anticipo rispetto all’esplodere della guerra in corso. I secondi, in particolare, autentico terrore per gli elicotteri, come hanno già sperimentato le forze della coalizione occidentale in Afghanistan, che proprio a causa di quest’ultima arma dovettero rinunciare quasi da subito alle missioni elitrasportate diurne. Armi che, inoltre, hanno messo in difficoltà anche le missioni aeree russe che, hanno spesso dovuto abbassarsi troppo per colpire gli obiettivi, pagandone la conseguenze in termini di perdite di velivoli6.

Detto questo, però, occorre ricordare che nel settore di un possibile scontro intercontinentale o nucleare le armi russe probabilmente risulterebbero oggi più avanzate di quelle a disposizione degli U.S.A. e della Nato7. Come dimostrato dall’utilizzo, per la prima volta, in Ucraina dei micidiali missili ipersonici Kinzhal che possono portare sia testate tradizionali (da 480 kg di esplosivo.) che nucleari. Da qui la scommessa su una “guerra di terra” convenzionale in cui gli alleati occidentali vorrebbero forse impantanare il gigante russo che, anche se su un territorio considerato patrio o nazionale si affida ancora a livello di movimenti di fanteria alle tattiche applicate dalle campagne napoleoniche fino a Stalin (tattica vincente non si cambia), in occasione di una guerra allargata potrebbe avere a disposizione un arsenale decisamente più moderno ed efficace.

Lasciando da parte le oziose discussioni sul fatto che l’avanzata russa voglia o meno risparmiare i civili, almeno in parte, occorre ricordare che fin dalle teorizzazioni del generale italiano Giulio Douhet, primo teorico della guerra aerea moderna intesa come guerra totale in cui gli obiettivi civili sono di fatto obiettivi militari a tutti gli effetti (aree industriali, infrastrutture, ospedali), sono state massicciamente applicate da tutte le forze aeree moderne e da quelle occidentali in primo luogo fin dalla seconda guerra mondiale, appare chiaro che si tratta di una pericolosa scommessa di cui è facile perdere il controllo.

Sia per un sempre possibile errore nella traiettoria di un missile o di un proiettile d’artiglieria oppure per una scelta di Putin che, vedendosi in decisiva difficoltà, potrebbe davvero alzare il tiro e la portata della posta in gioco. Motivo per cui non basta nascondersi dietro la scusa degli aiuti senza intervento diretto, soprattutto dopo che la Cina è stata minacciata, in caso di aiuti militari ai russi, di essere considerata cobelligerante. Affermazione statunitense e Nato che apre la porta ad un altro quesito tutt’altro che secondario in una situazione delicata come quella attuale: gli eventuali aiuti cinesi costituirebbero cobelligeranza, degna di essere non solo deprecata ma anche punita con pesanti sanzioni, e quelli europei o americani all’Ucraina no? Bel problema, purtroppo risolvibile più sul campo di battaglia economico e militare che in un’aula di tribunale internazionale.

Sia anche perché alcuni alleati, come si diceva in apertura, non sono troppo soddisfatti delle scelte adottate fino ad ora dagli Stati Uniti e dal Consiglio europeo. Come la scelta di Polonia, Slovenia e Repubblica Ceca di manifestare una più aperta solidarietà a Zelensky, che ha infastidito sia Germania che Italia e Stati Uniti (almeno apparentemente), ha dimostrato, senza contare la costante spinta britannica a ricostituire una sorta di protettorato militare sui paesi baltici così come già era avvenuto al termine del primo conflitto mondiale8. A conferma dell’ipocrisia del governo inglese, così ben disposto a fomentare e armare la guerra, ma che fino ad ora è stato quello che ha accolto il minor numero di profughi ucraini sul proprio territorio nazionale.

Innanzitutto dovrebbe preoccupare la proposta polacca di una missione di peace keeping internazionale in Ucraina, considerato che nella base militare ucraina di Yavoriv, pesantemente bombardata dai missili russi il 12/13 marzo, si custodivano armi e lavoravano istruttori militari e mercenari stranieri pur essendo la stessa definita come Centro internazionale per la pace e la sicurezza (Ipsc, nell’acronimo in inglese). Base militare dove a settembre si erano svolte le esercitazioni militari ucraine in coordinamento con la Nato, Rapid Trident- 2021. Manovre andate avanti fino al 1° ottobre9. Proposta polacca che, nella sua intima essenza, nasconde inoltre l’antica rivalsa di riconquista della Galizia, di cui la capitale sarebbe Leopoli oggi ucraina, da sempre rivendicata come parte del territorio polacco dai nazionalisti di Varsavia.
Mentre la vicina Ungheria, pur appartenente anch’essa alla Nato, ha rifiutato di far transitare sul suo territorio qualsiasi tipo di aiuto militare diretto all’Ucraina.

Senza allargare il discorso all’infinita frammentazione territoriale delle nazionalità racchiuse tra i confini dei paesi che vengono definiti centro-europei, ma che pencolano da secoli tra Est e Ovest, tra mondo slavo e mondo tedesco, occorre segnalare che a distanza di più di un secolo dalla Conferenza di Versailles, che sotto l’egida del presidente americano Woodrow Wilson ridisegnò gli assetti territoriali che erano precedentemente appartenuti agli imperi asburgico, guglielmino, ottomano e zarista, quei territori costituiscono ancora un esplosivo mix di nazionalità, odi, rivendicazioni, rivalità di cui le recenti manifestazioni in Serbia a favore dei serbo-bosniaci o dei serbi del Kosovo (qui e qui) non costituiscono altro che un pallido esempio ciò che potrebbe rivelarsi ben più catastrofico delle guerre balcaniche degli anni ’90.

Due guerre mondiali sono partite dalle rivalità mai sopite in quell’area e ancora una volta questo fattore potrebbe precipitare nel nuovo disordine mondiale come tragico elemento dirompente nel cuore dell’Europa.
In questo senso il riarmo tedesco e la circolare di allerta destinata pochi giorni or sono alle forze armate italiane affinché si tengano pronte e in completa efficienza in previsione di “esercitazioni di warfighting” e l’approvazione dell’aumento al 2% del Pil per le spese militari italiane oppure, ancora, l’affermazione di Emmanuel Macron secondo il quale la Francia dovrebbe prepararsi ad “una guerra di alta intensità che può tornare sul nostro continente”, non fanno certo ben sperare per il futuro.

Così come un’eventuale missione di peace keeping delle Nazioni Unite, come conseguenza della dichiarazioni sulle intenzioni e i comportamenti criminali di Putin e del suo “Stato canaglia”, portate aventi da chi, come Biden, rappresenta nazioni che hanno altrettanto le mani sporche da secoli del sangue di donne, bambini e innocenti, non rappresenterebbe altro che una scusa, nemmeno troppo occultata, per un intervento militare diretto sul campo. Con tutte le possibili conseguenze già elencate prima.

E sono tutte queste contraddizioni, più o meno sotterranee o più o meno aperte, che hanno anche ingarbugliato le diplomazie europee, ormai ampiamente fuori gioco e superate da quello di Israele, Turchia o di uno degli oligarchi più importanti della cerchia di Putin, Roman Abramovič, che ha continuato a volare da una capitale all’altra dei due paesi quasi affiancando l’operato di Lavrov su altri fronti diplomatici.

L’Europa procede in ordine sparso, tenuta insieme soltanto dal decisionismo americano che, dopo il disastro afghano e soltanto per ora, segna un punto a proprio vantaggio, costringendo all’angolo sia la diplomazia europea che l’iniziativa militare ed economica di Putin, ma senza raggiungere con certezza nessun altro obiettivo che quello di sfruttare ulteriormente un’alta guerra in favore dell’industria degli armamenti, mai secondaria nemmeno nei ragionamenti dell’articolo della «Harvard Business Review» con cui si è aperto questo lungo intervento.

Raytheon, una delle principali compagnie di difesa del mondo, ha scelto di strombazzare la sua identità americana piuttosto che minimizzarla. Raytheon ritiene che il successo sul fronte militare sia una buona notizia per l’azienda e i suoi prodotti: dal momento che gli Stati Uniti sono un vincitore, anche Raytheon, come naturale estensione della sicurezza degli Stati Uniti, sarà un vincitore. Questa tattica trasforma la potenziale responsabilità di far parte dell’odiato impero in una risorsa. Certo, sarebbe difficile per un’azienda come Raytheon de-americanizzare il proprio marchio. Ma unirsi alla squadra vincente è certamente una tattica praticabile per qualsiasi azienda la cui base di clienti includa i governi nazionali.10.

Sicuramente anche all’epoca della caduta di Costantinopoli qualcuno avrà affermato che la ruota della Storia o del destino stava tornando indietro, ma in realtà quell’evento modificò per sempre la Storia, indipendentemente da come giri e in quale direzione la grande ruota dell stessa (ammesso che esista). Il Mar Mediterraneo perse la sua centralità per i commerci e questi si spostarono decisamente verso gli oceani, creando le potenze marittime atlantiche e 118 anni dopo, a Lepanto, l’apparente vittoria cristiana sulla flotta ottomana non cambiò di una virgola il sistema che si era intanto andato affermando. Anzi furono proprio alcune nazioni europee a dovere allearsi con i Turchi per dirimere i propri contrasti. Esattamente come fece il regno di Francia per cercare di risolvere manu militari le rivalità con la Spagna.

Qualsiasi possano essere le ulteriori conseguenze del conflitto ucraino o gli accordi che lo rallenteranno o fermeranno, una nuova età di guerre allargate e radicali cambiamenti si è aperta e l’unico spiraglio per la salvezza della specie e per coloro che si oppongono a questo modo di produzione delirante, che ci ostiniamo a chiamare capitalismo, non potrà essere altro che quello rappresentato dall’opposizione ad ogni guerra e dall’appoggio fornito ai lavoratori, ai giovani, alle donne e ai disertori che si scontreranno prima di tutto con i loro governati per rovesciarne, in ogni angolo del mondo e in ogni paese, l’imperio e la fasulla e sanguinaria retorica nazionalista e guerrafondaia.
Poiché la nostra pace significa disertare la loro guerra.

(6 – continua)


  1. Di Anna Politkovskaja sono stati pubblicati in Italia: La Russia di Putin, Adelphi, Milano 2005; Per questo, Adelphi 2009; Diario russo 2003-2005, Adelphi 2007; Cecenia. Il disonore russo, Fandango, Roma 2006; Proibito parlare. Cecenia, Beslan, Teatro Dubrovka: le verità scomode della Russia di Putin, Arnoldo Mondadori, Milano 2007; Un piccolo angolo di inferno, Rizzoli, Milano 2008  

  2. Soprattutto in Italia, dove vale la pena di ricordare la fitta rete di interessi stabilitasi intorno al gas russo, in particolare durante il berlusconismo (qui)  

  3. Seguite nel 2004 da Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania, Slovenia e Slovacchia; nel 2009 da Croazia e Albania; nel 2017 dal Montenegro e nel 2020 dalla Macedonia del Nord  

  4. Il silenzio di Puškin, in La Russia cambia il mondo, «Limes» n° 2/2022, pp. 16-17  

  5. L’FGM-148 Javelinè un’arma anticarro portatile, in servizio nelle forze armate statunitensi. L’arma utilizza un sistema di guida automatica ad infrarossi, che permette all’operatore di cercare copertura immediatamente dopo avere sparato. Il sistema è composto da un lanciatore riutilizzabile (CLU, Command Launch Unit) e da un missile HEAT a combustibile solido, che è in grado di superare le difese e le corazze reattive dei moderni carri attaccandoli dall’alto, dove la corazza è più sottile. Il personale di lancio è di norma costituito da due persone, ma può essere lanciato anche da una persona singola. Il bersaglio viene individuato in fase di puntamento, ed è agganciato e seguito autonomamente dal missile, senza che siano necessari altri interventi da parte del personale che lo ha lanciato (“lancia e dimentica”) per mezzo del calore emanato dal bersaglio stesso; il puntamento è facilitato dall’elettronica dell’arma che, oltre ad una funzione di zoom, include anche una di visione notturna.  

  6. Anche se su tutti questi aspetti sarebbe comunque bene tener conto da quanto espresso qui dal Generale Fabio Mini  

  7. Si veda in proposito. Franco Iacch, La stabilità strategica USA-Russia vale più della crisi ucraina, in «Limes» n° 2/2022, cit., pp. 221- 229  

  8. Si veda in proposito: Evgenij Jurevič Sergeev, La Gran Bretagna e gli Stati baltici dal 1918 al 1922 in Davide Artico – Brunello Mantelli, Da Versailles a Monaco. Vent’anni di guerre dimenticate, UTET 2010, pp.14-34  

  9. Fonte: «La Stampa» 13 marzo 2022  

  10. The New World Disorder, op. cit.  

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Questi vigliacchi non so’ a scorda’ https://www.carmillaonline.com/2021/08/22/questi-vigliacchi-non-so-a-scorda/ Sun, 22 Aug 2021 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67588 di Luca Baiada

23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia. I tedeschi, guidati da fascisti italiani, commettono uno dei massacri più gravi e meno noti: 174 persone, la più piccola di quattro mesi. Malgrado i processi (tre dopo la guerra e uno in questo secolo), in concreto nessuno sarà punito e i parenti delle vittime non saranno risarciti. Resteranno a loro carico anche le spese per gli avvocati di parte civile, raccolte alla meglio in collette tra le famiglie. La strage, allora, le fece precipitare dalla [...]]]> di Luca Baiada

23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia. I tedeschi, guidati da fascisti italiani, commettono uno dei massacri più gravi e meno noti: 174 persone, la più piccola di quattro mesi. Malgrado i processi (tre dopo la guerra e uno in questo secolo), in concreto nessuno sarà punito e i parenti delle vittime non saranno risarciti. Resteranno a loro carico anche le spese per gli avvocati di parte civile, raccolte alla meglio in collette tra le famiglie. La strage, allora, le fece precipitare dalla condizione di modesti contadini a quella di lavoratori ancora più sfruttati, scaraventati in difficoltà ignote al loro mondo arcaico, lacerati da traumi che nel linguaggio dei loro giorni fuori del tempo non avevano neanche un nome.

Malgrado la vastità del crimine, il suo tratto particolarmente vigliacco (gli assassini girano intorno alla palude uccidendo nella zona di gronda, abitata da agricoltori e sfollati, ed evitando i partigiani), e il fatto che furono colpiti vari Comuni, ancora adesso pochi associano il nome di Fucecchio a questo fatto. Parlando di Fucecchio è più comodo pensare a Indro Montanelli, giornalista abile a sopravvivere in tutti i regimi, che nel ’47 seguì uno dei processi per il «Corriere d’informazione» e scrisse cose vaghe, per poi trascurare una vicenda che invece era rimasta impressa nelle carni di un’intera comunità.

Diceva bene Walter Benjamin, neanche i morti stanno al sicuro. La memoria è un arnese politico così ambiguo che è difficile ricordarsi quando sia arrivata, anche se è certo che non è sempre stata fra i numi tutelari, come oggi. Quei morti di Fucecchio, quasi tutti poveri (però c’erano la figlia di un gioielliere fiorentino di Ponte Vecchio, un paio di aristocratici e qualche possidente), negli ultimi anni sono diventati ombre cinesi manovrabili, protagonisti non interpellati di iniziative culturali, per lo più di dubbio gusto; sono finanziate con poca spesa dalla Germania, che si guarda bene dal risarcire i sopravvissuti e i familiari. Costa molto meno restaurare monumenti, fare discorsi, stampare libri come quello distribuito alla commemorazione due anni fa, con l’Ambasciata tedesca già in copertina, tanto per essere chiari.

Eppure ce ne sono ancora, di familiari: vivi e dolenti come allora, più di allora, perché un bambino conta su energie e aspettative che un anziano ha consumato. Un anziano ha visto prosperare gli eredi politici del fascismo, ha notato l’arricchimento dei collaborazionisti di allora, ha ascoltato le retoriche di circostanza di personaggi pubblici in cerca di un po’ di visibilità. Titolo felice, La tregua di Primo Levi; ma per le vittime delle stragi non è mai neanche cominciata, e i racconti dei più vecchi trascorrono ininterrotti dagli stenti della guerra alla strage e al peso di una vita, passando per le prepotenze dei fascisti da subito dopo la Liberazione.

Nel 2019 i familiari hanno creduto al presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. Proprio alla commemorazione di questa strage aveva ricordato la mancata giustizia da parte della Germania, e poi su un giornale: «L’Armadio della vergogna c’è. E il nostro paese non si è mosso come avrebbe dovuto. Perché le sentenze, contro i mandanti di quelle stragi, non sono state portate a esecuzione. È una vergogna, questa, che ci portiamo dietro, come Italia. E come Regione Toscana siamo disposti a fare ancora di più per arrivare a una degna conclusione. Lo dobbiamo alle vittime, ai superstiti e ai loro familiari». Ancora a fine 2019, su Facebook: «Metterò tutto il mio impegno per affiancare i familiari delle vittime delle stragi naziste nella loro richiesta di risarcimento alla Germania e verificare la possibilità di far costituire la Regione stessa. Ci incontreremo a breve per una risposta ufficiale». Bene per essersi accorto che l’Armadio della vergogna, l’archivio coi fascicoli sulle stragi rifrequentato a partire dagli anni Novanta, esiste; bene per la giustizia ancora possibile, quella economica. E quest’anno anche il nuovo presidente, Eugenio Giani, ha preso posizione.

Sempre nel 2019 un convegno in Senato, Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, aveva offerto qualcosa di inedito, in Italia: nel Palazzo un incontro per mettere sulla graticola le conseguenze di crimini sprofondati nel Novecento, per giudicare la storia. Le vittime erano venute in torpedone da lontano, col vestito buono, la cravatta che senza non ti fanno entrare. Il viaggio a Roma, tutto per loro. Lì, nella sala Koch che è di tutti, un presidente emerito della Corte costituzionale aveva parlato con una franchezza lontana dal linguaggio curiale dei pochi: «Tutte queste tecnicalità che sono state opposte alle aspettative, alle speranze delle vittime – le formule giuridiche non danno nemmeno il senso di quanto siano gravi queste atrocità – non vorrei dire sviliscono, ma mettono una luce abbastanza fredda su tutte queste cose». Quel giorno, l’ex presidente della Consulta aveva messo il dito nell’occhio all’ipocrisia, alla condiscendenza nei confronti degli interessi di Berlino, indicando un’evoluzione necessaria in Italia e nel mondo: «Di fatto c’è il riconoscimento, nella coscienza della comunità internazionale, del valore dei diritti fondamentali della persona in quanto tale, senza divisa, senza conto in banca. […] I diritti fondamentali sono cresciuti, nella coscienza civile della comunità internazionale complessivamente considerata».

Quel giurista senza peli sulla lingua, Giuseppe Tesauro, da qualche settimana non è più con noi. L’impegno continua anche nel suo nome, la strada che ha indicato è in salita ma percorribile. Passa da dove meno te l’aspetti. Quest’anno un tribunale della Corea del Sud ha condannato il Giappone a risarcire le comfort women, le schiave sessuali dei militari nipponici durante la guerra mondiale. Donne che hanno fatto causa personalmente, anni fa, raccontando storie spaventose; nel frattempo sono morte e i crediti sono passati agli eredi. Certi argomenti del Giappone per non pagare somigliano, pensa un po’, a quelli della Germania; esecrazione, propositi, accademia: «Ribadiamo la nostra ferma determinazione a non ripetere mai più lo stesso errore, scolpendo per sempre questi temi nella nostra memoria mediante lo studio e l’insegnamento della storia», dice Tokyo. Siamo alle solite. Ma la sentenza coreana cita proprio quella della Corte costituzionale italiana del 2014, l’ultima scritta da Tesauro. Possibile che il buon lavoro fatto a Roma lo intendano meglio a Seoul che qui? In Corea si è capito che il diritto può cambiare: «La dottrina dell’immunità statale non è permanente né statica. Si evolve continuamente secondo i cambiamenti dell’ordine internazionale».

Se non si fa giustizia sui crimini nazisti, come si può chiederla per altri delitti di Stato? Non è diatriba sul passato. Riguarda il presente: Andrea Rocchelli, Giulio Regeni, Daphne Caruana Galizia, Jamal Khashoggi. E riguarda il futuro: il mai più che fa scattare gli applausi alle commemorazioni – suono beffardo, mentre si sa che le democrazie sbiadiscono e il potere è sempre più irresponsabile – ha il sottinteso di un salvacondotto a ripetere, magari in dosi limitate, studiate per il delitto esemplare, per la pedagogia del sangue. Rocchelli non documenti, Regeni non studi, Caruana Galizia stia zitta e Khashoggi si faccia i fatti suoi.

Un’altra attesa ha un sapore toscano. A febbraio 2020, a Montecitorio, c’è la cerimonia conclusiva del premio Giustolisi «Giustizia e verità» edizione 2019. Franco Giustolisi era il giornalista che si batteva per far conoscere l’Armadio della vergogna, era una penna battagliera che cercava di spezzare il silenzio. Alla cerimonia di nuovo Enrico Rossi, ancora presidente, annuncia il trasferimento dell’archivio Giustolisi a Firenze a cura della Regione; si tratta di renderlo accessibile, riordinarlo e trasformarlo in un centro studi. Rossi indica la sede, il vecchio ospedale di San Giovanni di Dio. La cosa è importante, e Giustolisi è mancato nel 2014.

Chissà se l’anniversario 2021 della strage del Padule si lascerà dietro qualche altra amarezza. Forse discorsi come la memoria attiva, la memoria proattiva, il lenimento. Magari parole come quelle che Ursula von der Leyen, ex ministra della difesa di Berlino e oggi presidente della Commissione europea, ha detto lo scorso luglio a Fossoli, per l’anniversario di un’altra strage, quella di Cibeno, 67 morti. Niente sulla giustizia ma toni a effetto: gli accadimenti insondabili, il sacrificio, l’abisso del male, linguaggio vertiginoso che non costa nulla. E anche qualcosa di imbarazzante: «Invece di combatterci, come abbiamo fatto per secoli, ora ci sosteniamo a vicenda di fronte alle avversità. Il governo italiano ha dato vita a un solido piano di recupero con investimenti e riforme, e l’Europa lo finanzia con oltre duecento miliardi di euro. I primi fondi, raccolti dall’UE, sono arrivati in Italia all’inizio del mese».

Combatterci per secoli? Se la presidente si riferisce ai tanti conflitti europei, non si capisce cosa c’entri il debito tedesco verso le vittime di strage in Italia. Se si tratta dei rapporti fra Italia e Germania, sembra di sentire certe dottrine correnti nel Risorgimento. Per esempio Cesare Balbo, nel Sommario della storia d’Italia che piaceva a Giuseppe Giusti e Massimo D’Azeglio, poneva l’inizio delle guerre d’indipendenza nella vittoria di Teodorico su Odoacre. Forzature, ma spiegabili, al tempo in cui si costruiva una base politico-culturale per l’unità italiana. Adesso quella lettura della storia diventa pazzesca: avvicina la Seconda guerra mondiale (con la Resistenza, un fatto che divide nettamente i due paesi) a una serie plurisecolare di guerre qualsiasi, com’è tipico del revisionismo. Un atteggiamento coerente, in fondo: nel suo documento alla vigilia dell’incarico continentale, Un’Unione più ambiziosa: Il mio programma per l’Europa – dove la parola ambizioso insiste come un tic –, von der Leyen aveva prefigurato una visione del mondo rigida ma rassicurante come il salottino di Barbie. Sullo sfondo c’era il sapere formattato offerto dalla risoluzione del Parlamento europeo Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, uno scritto antistorico e insidioso dove facevano capolino la riconciliazione, la memoria, il mai più.

E poi, a Fossoli c’era proprio bisogno di far frusciare del denaro, commemorando una strage? Denaro, sì, ma non per gli aventi diritto, i familiari delle vittime; per l’economia italiana, da sostenere anche per il bene di quella europea, perché questo sta per quello, allo stragismo si rimedia con lo sviluppismo, e che si vuole di più. Denaro che non è tedesco, ma dell’Unione. Neanche David Sassoli, che accompagnava questa signora abile a mostrare una scarsella gonfia e non sua, ha fatto cenno ai risarcimenti; ha preferito un europeismo irenico, un compitino convenzionale. Sono un inizio esemplare del nuovo corso, un assaggio della Repubblica fondata sulla resilienza, von der Leyen e Sassoli alla loro prima visita insieme in Italia, proprio dove si commemora una strage di persone prelevate da un campo di concentramento; e fra loro c’erano antifascisti, partigiani, eroi.

Sentiamo ancora Tesauro nel 2019. Antefatto: a Trieste nel 2008 si svolse un incontro bilaterale Italia-Germania; c’era quella Merkel che adesso conclude un lungo periodo di brillante cancellierato, e c’era quel Berlusconi che ora vivacchia su glorie opache e che già nel 2008, arrivata la crisi, si affannava per restare in sella (dei due, i fatti dissero chi aveva più furbizia). Tesauro riassume: «Erano tutti a Trieste, a parlare di che cosa? Non si sa bene, però una cosa è certa: che hanno parlato anche di soldi, dati dalla Germania anche all’Italia». Il riparazionismo, cioè il finanziamento della memoria senza giustizia, lo smaschera senza riguardi: «Non dovete risarcire i danni alle singole vittime o ai loro eredi. Potete fare tutti i musei che volete, tutte le feste di paese e della memoria che volete, ma non dovete risarcire i danni alle vittime». Per lui è chiaro che questo non deve compromettere i risarcimenti e che qualcuno ha sbagliato: «Il governo italiano accettò in ginocchio e con entusiasmo questa soluzione, ma per le vittime non era una soluzione».

Aveva ragione Theodore Fenstermacher, uno dei pubblici ministeri a Norimberga, quando in una requisitoria sulla strage di Cefalonia, nel 1949 (The Hostages Trial), denunciò l’emotional fatalism. Fenstermacher, sui nazisti: « È questa filosofia del fatalismo emotivo che ha reso così vili e spregevoli le loro offerte di scuse della colpa individuale e collettiva». C’è chi ha espresso il concetto più alla svelta, e in musica. Dopo la guerra, in Valdinievole c’era un omino, faceva il barrocciaio. Non era istruito come Fenstermacher, girava col cavallo per i paesi e cantava una ballata trasmessa a memoria, Popolo se m’ascolti. Raccontava la strage: «Questi vigliacchi non so’ a scorda’…».

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Hard Rock Cafone #4 https://www.carmillaonline.com/2016/01/14/hard-rock-cafone-4/ Thu, 14 Jan 2016 20:00:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27782 di Dziga Cacace

hrc401The Doors, senza capo né coda Sarà stato per colpa dell’adesivo col logo classico del gruppo, appiccicato dietro ogni Golf che sgasava ribelle ai semafori, ma io ho sempre avuto un rapporto di amore e odio nei confronti dei Doors, la cui mitizzazione, da oltre quarant’anni, va al di là del reale valore musicale (intendiamoci, notevolissimo). Mentre io preferivo orrendi beautiful losers come Janis Joplin o Johnny Winter, tutti e soprattutto tutte perdevano le bave per Jim Morrison e i suoi poster, dove campeggiava seminudo come un Cristo [...]]]> di Dziga Cacace

hrc401The Doors, senza capo né coda
Sarà stato per colpa dell’adesivo col logo classico del gruppo, appiccicato dietro ogni Golf che sgasava ribelle ai semafori, ma io ho sempre avuto un rapporto di amore e odio nei confronti dei Doors, la cui mitizzazione, da oltre quarant’anni, va al di là del reale valore musicale (intendiamoci, notevolissimo). Mentre io preferivo orrendi beautiful losers come Janis Joplin o Johnny Winter, tutti e soprattutto tutte perdevano le bave per Jim Morrison e i suoi poster, dove campeggiava seminudo come un Cristo in croce. Avevo anche difficoltà a considerarlo un grande poeta, James Douglas, specie se mi capitava di leggere versi come “Non si può camminare attraverso specchi o nuotare attraverso finestre” o di incappare in rifritture liriche da liceale in fregola con la tragedia greca. Ma vabbeh, problemi miei. Salvo che i Doors continuavano e continuano – in un eterno presente – a riproporsi come una volgare peperonata all’aglio per perseguitarmi senza tregua. Del resto abbiamo i Queen senza Freddie Mercury, i Lynyrd Skynyrd senza Ronnie Van Zant e, l’anno scorso, i Faces senza Rod Stewart (che è un po’ come se fosse morto). L’utilizzo redditizio del brand e la fame di nostalgia non hanno stoppato i componenti della band rimasti, gli eredi e i discografici, nonostante l’identificazione univoca del gruppo con il suo estinto membro (non uso il termine “membro” a caso). I Doors morrisonless decisero di continuare fin da subito, sfornando due dischi sicuramente sinceri ma francamente imbarazzanti. Non indecentissimi, sia chiaro, pure con qualche ideuzza, però schiacciati dal confronto monumentale coi precedenti in quartetto, peraltro non tutti eccelsi (penso a The Soft Parade, per dire), ma al Mito non si comanda. Passo indietro: il panzuto e barbuto Jim era a Parigi in fase bohème, stanco di rock e incapricciato come un quindicenne di scapigliatura a base di droga. Forse fatale, chissà. Frequentava Agnes Varda e da lontano Bernardo Bertolucci che stava colà concependo un ultimo tango. L’ultimo per Morrison fu il 3 luglio 1971: da 40 anni circolano diverse ipotesi, tra cui quella più probabile della “fine dell’aragosta”, per la quale il collasso decisivo in vasca fu dovuto a temperatura eccessiva dell’acqua. In USA si stava già lavoricchiando a un nuovo disco ma il poetastro, comprensibilmente, a quel punto non si fa più vivo e i superstiti attoniti reagiscono registrando furiosamente, tanto che a neanche tre mesi dalla morte dell’enfio bardo, nell’ottobre 1971, pubblicano Other Voices. Voci che però non beneficiano del classico “effetto salma fresca” che renderà felici gli eredi di Hendrix, Marley e Mercury: l’album si vende poco ma gli orfani dello sciamano hanno le idee chiare come Bersani quando parla a più di cinque persone e danno sfogo a ulteriori voglie canterine con Full Circle. L’ulteriore prova discografica bordeggia prog e jazz rock ed esce nell’estate ’72: è una fetecchia ma se ne accorgono di nuovo in pochi. Sinché nel 1978, pensa che ti ripensa, i tre non azzeccano la giusta trovata, “47 morto che parla”: si suona infatti musica soffusa intorno alla voce registrata di Jim che recita tronfie poesiuole. Ne viene fuori An American Prayer, questo sì vendutissimo e ispiratore di altre operazioni extracorporee, tipo il duetto di Natalie Cole col papà secco o i Beatles che accompagnano la voce effettata del trapassato Lennon in Free As A Bird. Bene, gli avanzi dei Doors si mettono finalmente il cuore e il portafogli in pace? Macché: nel 2002 Ray Manzarek, all’organetto Bontempi, e Robbie Krieger, alla chitarra, tornano in concerto coll’ex cantante dei tamarrissimi Cult, Ian Astbury. Il batterista John Densmore, offeso, li diffida e la faccenda finisce in tribunale. Ma anche se non possono usare più il nome Doors, Manzarek, Krieger e Astbury sono ancora in tour per la gioia dei necrofili. Tiè. (Dicembre 2011)

hrc402Crimini galattici: i Rockets
Erano anni strani, quelli sul finire dei Settanta: ricordo un sedicente Actarus cantare Ufo Robot (quella dove Goldrake si ciba di insalata di matematica, per intenderci) a Superclassifica Show, tra il Telegattone e Maurizio Seymandi. Quest’Actarus era vestito proprio come il cartone animato, con la faccia celata dall’elmetto, modo geniale per fare il playback senza neanche la fatica del lip synch. E la canzone era suonata da Ares Tavolazzi (ex Area, poi con Guccini e tanti altri) e il grande Vince Tempera, mica cazzetti… Anni strani che premiavano in classifica cose così. O come i Rockets, un gruppo di zarri francesi che, visto il successo planetario dei Kiss, si dovevano essere detti: e noi chi siamo, i figli della serva? Per il look si affidarono a costumi spaziali, make up argenteo, inquietanti pelate mussoliniane e chitarre dal design futuristico. La musica invece abbondava di voci filtrate su ritmiche sintetiche; ma c’era pure qualche retaggio space rock e pinkfloydiano. Risultato? Personalmente abominevole, ma di grande successo: pezzi ipnotici lunghissimi, nonché ottimi tappeti da remixare in discoteca. E del resto i Kiss stavano giungendo alle stesse conclusioni con I Was Made For Lovin’ You. Il tutto era venduto in album con immagini e lettering degne di un Urania d’accatto. Il gruppo fece il botto e sfido a trovare qualcuno della mia generazione che non abbia ballato Galactica mimando le movenze di un robot. Il fenomeno poi sfumò malinconicamente e cominciò a circolare l’inverificabile ma suggestiva notizia che i Rockets fossero scomparsi dalle scene vittime del make up tossico, storia che faceva il paio con quella di Daniela Goggi ferita dall’esplosione in faccia dall’enorme bolla rosa di un Big Bubble (che – sempre per rimanere in ambito di leggende – si diceva fossero prodotti con grasso di coda di topo). Comunque la memoria è una brutta bestia e i Rockets hanno continuato ad avere accesissimi fan anche qui da noi e basta vedere in Rete i siti meticolosi che gli sono dedicati. E per omaggiare questi strampalati eroi, Elio e le Storie Tese nel 1996 hanno pure vinto il Festival di Sanremo (vinto eccome, c’è una sentenza) presentandosi sul palco conciati come loro. Beh, se avete nostalgia anche voi, gratificatevi con l’oggetto volante non identificato arrivato nei negozi di dischi questo inverno: un lussuoso cofanettone con l’opera omnia di ‘sti pazzi, assolutamente galattico. (Ottobre 2008)

hrc403Lucio Battisti: Amore e non amore
Comodo parlare di Battisti solo nelle feste comandate, attingendo alle stesse bio e dicendo sempre le stesse cose. Voglio vedere chi ricorderà questo mese i quarant’anni di Amore e non amore, un album oscurato da ciò che Lucio avrebbe prodotto dopo, col genio cantautorale pop dei Settanta e l’ermetismo gelido e avantissimo degli Ottanta. Ma senza quel Battisti lì, no Vasco, no Liga, no Zucchero e potrei andare avanti, includendo tantissimi altri, dai vari finto-indie fino a Marco Mengoni. Perché lui, Lucio, in fondo all’animo, era uno hippie di Poggio Bustone che in tivù cantava a squarciagola Let the Sunshine In da Hair (e di cui qualcosa avrebbe ripreso in Due mondi, su Anima latina) o Proud Mary dei Creedence Clearwater Revival, e che nel piano quinquennale 69/74, assieme a Mogol, ha fatto tanto rock, anche hard, pure cafone, sempre bellissimo. Psichedelico con tocchi di Doors e Led Zeppelin (il triangolo alla Rashomon de Le tre verità), hendrixiano (Insieme a te sto bene), jammato con la futura PFM (Dio mio no, Supermarket), bluesato (Il tempo di morire) o metropolitano (la misconosciuta e bellissima Elena no). E al fido Alberto Radius ha prodotto pure un disco di session unico in questo paese poco ritmico e molto melodico. In Amore e non amore ci sono quattro brani più o meno canonici (oltre alle storte Dio mio no e Supermarket, il rock alla Little Richard di Se la mia pelle vuoi e il r&b di Una) e poi quattro composizioni di musica pura, orchestrale ed intrigante, cui Mogol ha messo il marchio con titoli narrativi, tipo Una poltrona, un bicchiere di cognac, un televisore. 35 morti ai confini di Israele e Giordania. Sulla copertina agreste (cavallo e donna gnuda sullo sfondo) Lucio sfodera una tuba, dieci anni prima di Rino Gaetano e trenta prima di Capossela, ma è nella musica che trovate la modernità di questo capolavoro dimenticato. Comunque: gli hanno scassato la minchia perché era tirchio, per una foto negata o un autografo non firmato. E perché era sempre primo in classifica e perché lo volevano fascista, per quanto amico di Demetrio Stratos e di tutta l’Area musicale milanese sinistrorsa. Invece era un genio, magari burino e scontroso, ma un genio. Ho troppo poco spazio per dimostrarvelo, ma i dischi son lì, basta ascoltarli. Qualche critico, anni fa, non l’ha fatto e oggi lo dà per assodato, senza però sbattersi a capire perché o per ricordarvelo. Sciocco. (Luglio 2011)

hrc05Zio Ted
Ted Nugent, quale fantastico cialtrone! Chi vent’anni fa aveva vent’anni, se lo filò poco: in anni di cantautori impegnati e punk rockers nichilisti come dar retta all’istrionico chitarrista che si presentava a torso nudo sul palco, indossando pantacollant di lurex e coda di procione tra le chiappe? La sua chitarra macinava riff granitici urlacchiando dal Marshall a palla e l’ironia del Motor City Madman non era neanche vagamente considerata: per i giovani impegnati italiani quello era un’autentica bestemmia, un dannato yankee che professava il ritorno allo stato di natura, arrivava sul palco pendendo da una liana e predicando l’arte venatoria. Inoltre il nostro esibiva una capigliatura leonina, rifiutava droghe e alcol, si esibiva in pose machistiche trattando le donne (nelle canzoni e sulle copertine degli album) come minus habens in estatica adorazione e sfidava altri chitarristi in duelli che si concludevano immancabilmente con la sua vittoria. Il circo, né più né meno, e Nugent era il nuovo Buffalo Bill. Beh: passano gli anni, cadono gli steccati tra generi musicali, il metal si coniuga con il rap, si rimescola tutto, istanze poetiche e anche politiche: vuoi vedere che anche Nugent, con la maturità, è diventato potabile? Il recentissimo (e tutto sommato godibile) DVD Full Bluntal Nugity Live fuga ogni dubbio e speranza: il vecchio zio Ted non è cambiato per niente, anzi. Lo show parte con il nostro eroe a cavalcioni di un pacifico bisonte. Dopo aver liberato la scena dal ruminante bestione, Ted aizza la folla coi suoi proclami sulla natura virile del vero uomo nordamericano e si scatena massacrando il suo repertorio storico. Ma non è tutto: la mazzata finale arriva dal satellite. Su VH1 è in onda il reality show Surviving Nugent: sette partecipanti (apostrofati affettuosamente “monkey”) devono sopravvivere nel micidiale ranch Nugent vicino Detroit. Partecipano anche un vegetariano, un gay e una animalista, vittime predestinate dell’incorreggibile guitar man. Se però poi uno pensa ad Adriano Pappalardo sull’Isola dei famosi, conclude che, sì: in fondo il momento della rivalutazione di Ted Nugent è effettivamente arrivato, alla faccia del Guccini dei nostri vent’anni. Amen. (Gennaio 2004)

hrc04Lunga vita ai New Trolls
Non date retta a chi vi spaccia per dischi della vita quelli con protagonisti che hanno il solo merito di essersi accoppiati con una top model ed essere finiti in overdose, senza neanche il buon gusto di levarsi definitivamente di torno (siete voi che avete pensato a Pete Doherty, io non ho detto nulla). Il rock, quello buono, non ha età e capita che uno dei migliori dischi dell’anno venga da un gruppo con 40 anni di storia alle spalle, i New Trolls. L’impresa sembrava impossibile, ma i due leader storici Nico Di Palo e Vittorio De Scalzi hanno messo da parte vecchie ruggini e battaglie giudiziarie risibili per l’utilizzo del nome del gruppo e si sono impegnati a scrivere il definitivo Concerto grosso, erede dei primi due usciti negli anni Settanta. The Seven Season è il perfetto connubio di sapori antichi e sonorità moderne, con l’orchestra barocca diretta dal violoncellista hard Stefano Cabrera che accompagna, contrasta o risponde a un esuberante sestetto rock. Il risultato finale è una goduria e si sente che hanno lavorato “con lentezza” e grazie all’amore certosino dei produttori Iaia De Capitani e Franz Di Cioccio (instancabile, appena festeggiati i 35 anni della PFM ha anche licenziato un album degli Slow Feet, proprio con De Scalzi). Certo, io sarò parziale, ma non posso farci niente: se cresci ascoltando sul paterno vinile originale Nella sala vuota, improvvisazioni dei New Trolls registrate in diretta rimani indelebilmente segnato (era l’intero secondo lato del primo storico Concerto Grosso, scritto e diretto da Luis Enriquéz Bacalov). E poteva anche andarmi peggio perché mio padre aveva pure un Lp di Stephen Schlacks (a sua discolpa, era un regalo). Comunque oggi Vittorio e Nico sono in gran forma: li incontro e mi ricordano quando al Vigorelli nel 1971, prima che coi Led Zeppelin andasse tutto in vacca, presero i complimenti di Jimmy Page. E non solo: hanno suonato coi Rolling Stones, Nina Simone, Stevie Wonder e Fabrizio De André, hanno scritto pezzi commoventi come Una miniera, hanno sperimentato tempi dispari e voci alla Bee Gees, partecipando pure al film Terzo canale, un misconosciuto gioiello cinematografico flower-pop italiano: sono la nostra storia, insomma, e se quest’estate ve li siete persi dal vivo, è in uscita un Dvd registrato con orchestra a Trieste che documenta il tour che li ha portati in Messico, Giappone e Corea, con scene di tripudio imbarazzanti. Che dire d’altro? Questi ragazzacci che non vogliono smettere hanno un solo difetto: sono genovesi e tifano per una squadra di Sampierdarena. Ma tutto tutto non si può pretendere, no? (Dicembre 2007)

hrc06Il blues cacirro di Eric Sardinas
Pistoia Blues 2004. Metà pomeriggio della seconda giornata; sale sul palco tale Eric Sardinas e sembra un incrocio tra uno zombie, un cowboy e Slash. Primi mugugni nel selezionato pubblico di puristi cagacazzo che ricordano ancora la prima volta che hanno visto Mayall e sembrano non essersi ripresi, tanto da non tollerare alcuna innovazione. Dopo qualche minuto – in cui il suddetto Eric maltratta un dobro ricavandone note lancinanti e urla ferine, autentiche coltellate nella carne viva del blues – i cagacazzo cominciano ad interessarsi sinché si arriva in un amen alla chitarra flambée, trovata scenica sempre apprezzata, specie se la chitarra viene spenta e suonata ancora (è in metallo, non brucia. Scotta però) in un finale in tutti sensi incandescente. Pubblico conquistato. Bene, questo bel figuro lo incontro in una seratina gelida di marzo a Trezzo sull’Adda, nel nuovo locale Live che se ancora non l’avete visitato, merita: è una splendida roadhouse pensata per la musica da gente che la musica la ama e lotta in questo paese di caproni dove se dici “melodia” la gente pensa alla suoneria del telefonino. Con Eric chiacchiero amabilmente di blues, genere dato sempre per morto, relegato a bettole fumose eppure sempre pronto a rinascere. Negli ultimi anni lo han rivitalizzato il debordante Popa Chubby, i crudissimi Black Keys e anche i nostrani adorabili Bud Spencer Blues Explosion si son dati da fare. Sardinas, con stivale a punta, cappellaccio, boccoli neri e pizzetto luciferino, rinverdisce il mito dell’indimenticato John Campbell ed è l’ultimo erede della nobile arte dello scorticamento chitarristico tramite slide. Nei camerini il giovane è tranquillo, pacioso, sorridente, ma sul palco si trasforma in una belva e soggioga il pubblico dopo poche note, con un boogie blues urlato, demoniaco nell’inneggiare ad alcol e donne: un invito al deboscio generalizzato, col ghigno perverso e l’esagerazione istrionica di uno Screamin’ Jay Hawkins. Sponsorizzato da Steve Vai, Sardinas ricorda proprio il guitar hero come appariva nella fetenzia di film che era Crossroads, con l’incedere da sbulaccone e la chitarra puntata come un mitra. Torna da ‘ste parti a fine giugno al Torrita Blues festival e a Treviso e non me lo lascerei scappare: quando il blues torna alla sua verità nuda e cruda e viene giù come la grandine, ci fa dimenticare bluff come John Mayer – per dirne uno, presto scomparso – annebbiato da troppi soldi e showbiz. (Maggio 2010)

UNSPECIFIED - MARCH 01: Photo of DEEP PURPLE and Ritchie BLACKMORE; Guitarist with Deep Purple, smashing guitar against speakers on US tour, (Photo by Fin Costello/Redferns)Fumo sull’acqua e altre storie
Montreux è una ridente località elvetica, sul lago di Ginevra. Ha 22mila abitanti, è chiaramente ordinata e pulita e sulla passeggiata del lungolago è esposta una mostruosa statua di Freddie Mercury nano con a contorno una cafonissima scritta in metallo sbalzato lunga dieci metri: “Smoke on the Water”. Infatti nel dicembre 1971 i Deep Purple erano lì per registrare l’album capolavoro Machine Head, ma un petardo lanciato durante un concerto al casinò delle Mothers di Frank Zappa ridusse il locale in cenere. Smoke on the Water racconta con asciutto lirismo i fatti pari pari e venne inserita nell’album senza convinzione. Nessuno prevedeva il futuro da riff universale per qualunque aspirante chitarrista. Né, tantomeno, che sarebbe diventata la sigla di Lucignolo, il buco del culo di Italia1. Montreux, comunque, ospita da quarant’anni un jazz festival molto rock & roll e recentemente il patron Claude Nobs (il “funky Claude” citato nella suddetta Smoke) ha cominciato a licenziare in Dvd i concerti che hanno fatto la storia di questa manifestazione. Come quello appena uscito in cui i Deep Purple festeggiano i 25 anni del loro inno. Un Dvd splendido che fa finalmente giustizia, giacché i nostri hanno sempre avuto un rapporto bestiale con le immagini: hanno cominciato nel 1968, in tour in USA, finendo a esibirsi al Gioco delle coppie, giuro. In Rete una volta ho trovato poi un’altra apparizione televisiva incredibile, con Blackmore che, in playback, fingeva ostentatamente di suonare la chitarra sul legno, tenendola al contrario, con le corde sulla pancia. Ma la migliore Ritchie se l’era tenuta per la California Jam del 1974, concerto con mezzo milione di presenti e un cameraman un po’ invasivo. L’uomo in nero decise di saggiare la resistenza della telecamera e voi – in immagini ormai storiche – potete vedere in soggettiva l’effetto che fa il manico di una Strato dentro un obbiettivo. Poi anni di videoclip che facevano letteralmente cagare hanno portato i Deep Purple alla drastica decisione di affidarsi solo a riprese live e non sapere se l’imprevedibile Blackmore avrebbe tirato un gavettone o fatto un assolo rendeva ogni ripresa più saporita. L’ultimo scazzo con un cameraman è del 1993, quando il chitarrista lanciò bicchierate di birra e abbandonò il palco imbufalito. Da allora la frattura col gruppo è diventata insanabile: Blackmore si è felicemente smarrito in una fiaba dei fratelli Grimm e ha preteso che i superstiti non usassero la sua immagine nel merchandising. Fino alla prossima reunion, si spera. (Agosto 2007)

(Continua – 4)

@DzigaCacace usa Twitter come un tumblr

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Memento https://www.carmillaonline.com/2016/01/11/memento/ Mon, 11 Jan 2016 04:12:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27849 di Alessandra Daniele

bomba 1Da sempre, in guerra il corpo delle donne è considerato sia territorio di conquista che strumento di propaganda. Anche in questo l’attuale Scontro di Civiltà rimette in scena ancora una volta gli stessi schemi millenari. Ed è una grande occasione per gli imbonitori della Civiltà Occidentale quando il Nemico recita il suo ruolo in modo tanto diligente, quando sa corrispondere così accuratamente ai peggiori stereotipi. Alcuni degli aggressori di Colonia avevano addirittura in tasca un copione. A tutti in questa guerra è richiesto d’interpretare disciplinatamente il loro [...]]]> di Alessandra Daniele

bomba 1Da sempre, in guerra il corpo delle donne è considerato sia territorio di conquista che strumento di propaganda. Anche in questo l’attuale Scontro di Civiltà rimette in scena ancora una volta gli stessi schemi millenari.
Ed è una grande occasione per gli imbonitori della Civiltà Occidentale quando il Nemico recita il suo ruolo in modo tanto diligente, quando sa corrispondere così accuratamente ai peggiori stereotipi. Alcuni degli aggressori di Colonia avevano addirittura in tasca un copione.
A tutti in questa guerra è richiesto d’interpretare disciplinatamente il loro ruolo, e d’interpretarlo come se fosse la prima volta.
Ci vengono richieste obbedienza, e ignoranza.
“Chi dimentica i propri errori è condannato a ripeterli”, ed è esattamente sulla continua ripetizione in loop degli errori che è costruito il sistema.
È una macchina il cui motore è una ruota. Il criceto che c’è dentro siamo noi.
Perché la ruota continui a girare, e ogni loop si ripeta come il precedente, occorre cancellarne la memoria.
Carmilla nasce come supplemento a una rivista chiamata “Progetto Memoria”.

La cosiddetta Civiltà Occidentale s’è resa responsabile o corresponsabile della maggioranza dei peggiori crimini contro l’umanità della Storia.
Considerando solo l’ultimo secolo:
Il Colonialismo, con l’oppressione, la schiavizzazione, la deportazione, e il massacro delle popolazioni locali.
La Prima Guerra Mondiale.
Il Nazifascismo, con le persecuzioni, le deportazioni, e i campi di sterminio per ebrei, rom, comunisti, anarchici, omosessuali, disabili, testimoni di Geova, dissidenti e appartenenti a minoranze etniche e religiose in generale.
La Seconda Guerra Mondiale.
La distruzione totale con armi nucleari di due città, Hiroshima e Nagasaki.
Le centinaia di proxy war fomentate e combattute in tutto il mondo fra la Nato e il Patto di Varsavia del cosiddetto Blocco Orientale, dalla Corea all’Afghanistan.
Le dittature militari europee e latino americane sostenute dagli USA, responsabili di milioni di morti e desaparecidos.
Il sostegno diretto e indiretto alle non meno sanguinose dittature e alle guerre civili in Africa e Asia.
Il sostegno diretto e indiretto alle guerre civili successive al crollo del Patto di Varsavia, dalla Jugoslavia all’Ucraina.
Il sistematico saccheggio di tutte le risorse naturali e la devastazione dell’ambiente, con le conseguenti carestie causa principale dello sterminio per fame di intere popolazioni.
Il Neocolonialismo in Africa e Asia, direttamente responsabile della nascita dell’integralismo islamico armato, dai Talebani all’Isis, dell’agonia delle popolazioni palestinese e curda, della distruzione di almeno quattro stati, Afghanistan, Iraq, Libia, e Siria.
E dell’attuale guerra, per la quale anche la Russia, ex cosiddetto Blocco Orientale, responsabile o corresponsabile di crimini contro l’umanità come l’Imperialismo russo e sovietico, i progrom, lo Stalinismo, il sostegno a dittature e guerre civili, il massacro dei dissidenti, e le proxy war, s’è arruolata nell’Occidente.

Quell’Occidente che oggi fa la morale al mondo, stando immerso fino ai gomiti nel sangue che ha versato.
Memento.

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Il giro del mondo ( e dello spazio) in ottanta guerre https://www.carmillaonline.com/2014/07/03/giro-mondo-spazio-in-ottanta-guerre/ Wed, 02 Jul 2014 22:10:40 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15629 di Sandro Moiso

wars_on demandVicenza libera dalle servitù militari (a cura di), Wars On Demand. Guerre nel terzo millennio e lotte per la libertà, Agenzia X, Milano 2014, pp. 184, € 13,00

Gentlemen, non sono venuto in questo paese per perdere la Terza Guerra Mondiale, ho già perso la Seconda” (Walter Dornberger, capo del programma di sviluppo spaziale segreto di Hitler, davanti al Congresso americano) Non sono esattamente ottanta le situazioni di guerra potenziale esaminate dal libro in questione ma, sicuramente, ciò che consegue ad una sua lettura è, di fatto, l’inevitabilità strutturale della guerra, anche su scala allargata e mondiale, [...]]]> di Sandro Moiso

wars_on demandVicenza libera dalle servitù militari (a cura di), Wars On Demand. Guerre nel terzo millennio e lotte per la libertà, Agenzia X, Milano 2014, pp. 184, € 13,00

Gentlemen, non sono venuto in questo paese per perdere la Terza Guerra Mondiale, ho già perso la Seconda” (Walter Dornberger, capo del programma di sviluppo spaziale segreto di Hitler, davanti al Congresso americano)
Non sono esattamente ottanta le situazioni di guerra potenziale esaminate dal libro in questione ma, sicuramente, ciò che consegue ad una sua lettura è, di fatto, l’inevitabilità strutturale della guerra, anche su scala allargata e mondiale, insita nella logica stessa del capitalismo e della sua tendenza a sottomettere ai suoi principi di riproduzione ed accumulazione ogni aspetto della vita economica e sociale oltre che l’ambiente e lo spazio nel loro insieme.

Spazio che non va inteso soltanto come geografico, territoriale, terrestre, ma anche come spazio circostante la Terra e che può spingersi all’intero sistema solare, se non oltre, nel sempre meno inconfessato desiderio di dominare le comunicazioni mondiali e le risorse minerarie disponibili al di fuori della nostra atmosfera. Fantascienza di serie B? Fantasie di uno sceneggiatore transfuga di Avatar? No, semplice progetto di espansione dell’imperialismo, non solo americano, a dar retta ad uno dei saggi contenuti nel testo1

Controllo di uno spazio che comprende, anche, sempre più spesso il cyberspazio, sia per il controllo dei dati di milioni o miliardi di cittadini, sia per una guerra elettronica sempre più feroce sul piano finanziario e dello spionaggio tecnologico e militare. In cui l’arruolamento di hacker ingegnosi, tecnici, ingegneri, abili smanettoni e nerd console-dipendenti è diventato ormai per le strutture di difesa e attacco importante quanto l’arruolamento di soldati e killer ben addestrati.

Ma il testo, frutto di una collaborazione, nata in occasione della Global Conference tenutasi nel settembre 2013 durante il “Festival No Dal Molin” a Vicenza, tra giornalisti, ambientalisti e militanti anti-militaristi e a difesa dei diritti delle popolazioni locali di quasi ogni parte del mondo, si spinge fino a darci un panorama globale del rischio di una guerra reale sottesa all’attuale modo di produzione dominante e alla sua attuale crisi storica, economica e politica e, allo stesso tempo, delle forme di resistenza che le si oppongono

Tracciando una linea ideale che dalla pianura padana e dalle nostre valli alpine, corra attraverso i Balcani, l’Ucraina e l’Asia Centrale, quasi parallelamente ad un’altra che vada dalle coste meridionali del Mediterraneo verso il Medio Oriente ed Estremo Oriente, ci si può accorgere, leggendo gli interventi contenuti nel testo, di come le due linee finiscano con il convergere in un punto ideale situato nell’Oceano Pacifico, là dove la potenza declinante americana sta cercando di costruire un limite, insieme a Giappone e Corea, all’espansione economica, diplomatica e militare della Cina.

Una linea di faglia enorme, lunghissima e i cui effetti sismici possono ormai essere avvertiti in ogni parte del mondo, anche qui in Europa. Linea di faglia che, però, non ha solo rilevanza geopolitica e militare ma, soprattutto, sociale e ambientale, poiché, lungo il suo fin troppo prevedibile e catastrofico percorso, è destinata a sconvolgere sempre più l’ambiente e la vita della maggioranza dei cittadini del globo e delle società in cui vivono.

Qui sta l’interesse principale degli interventi. Spesso basati su esperienze di resistenza costruite dal basso: sia che si tratti di bloccare la costruzione e l’espansione della base aerea americana di Vicenza, sia che si tratti di bloccare l’ampliamento o la realizzazione di nuove gigantesche basi nelle isole di Guam e Jeju o nella baia di Subic, nelle Filippine, oppure di cacciare quelle già esistenti e devastanti di Okinawa, delle Hawaii o di Diego Garcia.

Salta subito agli occhi di chi legge che non soltanto i problemi sono gli stessi, ma anche che le pratiche e le esigenze socio-politiche ed ambientali che ne derivano tendono ad assomigliarsi in ogni angolo del globo2 e a far sì che gli attori delle proteste (associazioni, villaggi, territori, classi sociali) abbiano sempre più modo di intendersi e raccordarsi per azioni comuni, almeno per fini ed intenti.

Lo sguardo rivolto a chi taglia le reti delle basi americane in Estremo Oriente oppure verso chi cerca di impedire l’accesso di enormi gru e trivelle sui territori destinati ai nuovi impianti militari, oppure verso il sempre più stretto rapporto istituitosi, in ogni angolo del pianeta, tra taglio della spesa pubblica, peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro ed aumento della spesa militare e per le grandi opere, non può non spingersi a vedere, in tutto ciò, la possibilità di un nuovo internazionalismo.

Non più soltanto ideale, imposto da una scelta partitica o basato sull’autorevolezza di una singola classe, ma concreto nel suo svolgersi al servizio di esigenze reali, sentite e vissute dalla maggioranza delle popolazioni coinvolte. Toccate da una militarizzazione della società e dei territori che è destinata a far peggiorare sempre di più le condizioni di democrazia ancora esistenti e destinate, proprio per quello che accade, a risvegliarsi dal torpore prodotto dalle menzogne politico-mediatiche e ad aggregarsi in nuove forme di lotta ed organizzazione.

Raccontare o descrivere qui tutte le esperienze di lotta, le vittorie e le delusioni riportate, sarebbe troppo lungo e priverebbe il lettore del piacere della loro scoperta attraverso le pagine del libro; così come sarebbe inutile dilungarsi sull’aumentato pericolo insito in “un braccio di ferro dai toni animosi e irremovibili che paiono avere, come intento strategico, l’evocazione della guerra, sia pure solo a scopo di deterrenza. Un gioco pericoloso che accresce il rischio di un conflitto accidentale dagli effetti incontrollabili”.3

Certo è solo che, come afferma ancora l’intervento appena citato, si va affermando così “una fase in cui più mercato e più autoritarismo saranno le due facce di un’unica moneta”, non solo in Cina, cui è riferito, ma ovunque il nazionalismo tenderà a giustificare le spese militari e a compensare la miseria dell’esistenza quotidiana. Ma questo, come si è già detto, darà vita anche ad un antimilitarismo di tipo nuovo, che al contrario di quanto predicato anche dal nostro presidente della repubblica, potrebbe non essere soltanto il prodotto pernicioso di un generico e amorfo pacifismo, ma quello spontaneo e necessario delle contraddizioni indotte su scala globale dal capitalismo nell’ora della sua crisi più grave.

In un mondo in cui l’arruolamento potrebbe diventare sempre più spesso “il lavoro della povertà”: “Non c’è un manuale dettagliato che indichi i passi da compiere per sviluppare una consapevolezza che porti a vedere le lotte degli altri come proprie. Quando saremo capaci di vedere che le lotte altrui sono intimamente legate, e non in competizione, con le nostre? Può essere molto frustrante, per un attivista, aver a che fare con l’immaginario. Ma è assai stimolante pensare di poter contribuire a forgiarlo [… ] un immaginario comune, una proiezione mentale che contenga politica, strategia e speranza. Non semplicemente una mappa astratta ma qualcosa in cui credere, che viva e respiri da solo, che le persone possano sentire”.4

Un compito ed una necessità sempre più urgenti per chi voglia opporsi all’apertura delle porte di quell’inferno in terra che gli avvenimenti delle ultime ore, dalla striscia di Gaza all’Iraq, sembrano rendere, purtroppo, sempre più probabile e vicino.


  1. Bruce Gagnon, Guerre e colonie nello spazio, pp. 51 – 61  

  2. Basti pensare, per esempio, al problema rappresentato dall’asbestosi diffusa sia tra i lavoratori che hanno partecipato alle costruzioni delle basi americane del Pacifico come tra quelli di Casale Monferrato o tra coloro che sono dediti alla cernita degli stracci a Prato oppure, ancora, a Taranto e, forse, domani tra gli abitanti della Valle di Susa se i lavori di scavo per il TAV procederanno ancora a lungo  

  3. Angela Pascucci, Il triangolo fatale delle Diaoyu/Senkaku, pp.91 – 119  

  4. Michael Lujan Bevacqua, Isola di Guam. La punta di lancia dell’impero, pp.124 – 136  

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