Corea del Sud – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cavalieri erranti in un’apocalisse senza distopia https://www.carmillaonline.com/2023/06/14/cavalieri-erranti-in-unapocalisse-senza-distopia/ Wed, 14 Jun 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77717 di Paolo Lago

Già all’inizio degli anni Ottanta, Teresa De Lauretis, citando Foucault, scriveva che la fantascienza contemporanea si è ormai lasciata alle spalle il classico conflitto fra utopia e distopia, indirizzandosi invece verso l’eterotopia, verso la coesistenza di sistemi di significato fra loro apparentemente inconciliabili. Pochi anni dopo, il concetto è ribadito da Fredric Jameson secondo il quale, ciò che distingue la fantascienza contemporanea dalle sue versioni ottocentesche è che, invece di proporre scenari utopici (o distopici), rispecchia il nostro senso di straniamento di fronte alla rapidità dei cambiamenti in corso. Sotto [...]]]> di Paolo Lago

Già all’inizio degli anni Ottanta, Teresa De Lauretis, citando Foucault, scriveva che la fantascienza contemporanea si è ormai lasciata alle spalle il classico conflitto fra utopia e distopia, indirizzandosi invece verso l’eterotopia, verso la coesistenza di sistemi di significato fra loro apparentemente inconciliabili. Pochi anni dopo, il concetto è ribadito da Fredric Jameson secondo il quale, ciò che distingue la fantascienza contemporanea dalle sue versioni ottocentesche è che, invece di proporre scenari utopici (o distopici), rispecchia il nostro senso di straniamento di fronte alla rapidità dei cambiamenti in corso. Sotto il travestimento di futuri post-apocalittici, quindi, non vi è altro che la nostra difficile e contraddittoria contemporaneità. Penso che ciò possa valere anche per gran parte della fantascienza di oggi: dietro l’apparente distopia vi è invece l’eterotopia, uno “spazio altro” secondo la definizione di Foucault; una dimensione e un modo diversi per raccontare ciò che ci circonda. Quindi, la letteratura, il cinema, le serie TV, quando mettono in scena catastrofici scenari futuri, raccontano né più né meno che il mondo di oggi.

Ebbene, la post-apocalittica Corea del Sud del futuro raccontata in Black Knight (2023, sei episodi per una stagione), in onda su Netflix, non è altro il mondo di oggi, nel quale però vige un importante ribaltamento di prospettiva. Quello che nell’odierna società dei consumi è considerato come uno dei lavori più soggetti a sfruttamento e meno gratificanti, cioè il rider, il corriere (attività il cui ampio spettro racchiude sia l’immigrato sottopagato che consegna cibarie a domicilio in bicicletta o in motorino, sia il corriere che con il furgone si fa centinaia di chilometri al giorno sempre sotto stress per rispettare gli orari), nel futuro eterotopico di Black Knight si trasforma in un lavoro da eroe, da “cavaliere nero” (un termine che indica un personaggio ambiguo e misterioso e che rimanda all’immaginario del ciclo arturiano e, successivamente, alla ricezione romantica e gotica del Medioevo). I corrieri, infatti, garantiscono la sopravvivenza alle altre persone e si battono contro le ingiustizie sociali. A causa dell’impatto della Terra con una cometa, l’intera Corea del Sud si è trasformata in un immenso deserto e all’aperto c’è scarsità di ossigeno. I corrieri, al servizio della potente corporation Cheonmyeong Group, si spostano su enormi camion che solcano il deserto e consegnano a domicilio le scorte di ossigeno e viveri a una popolazione che ha trovato rifugio in veri e propri bunker, completamente separati dall’esterno. Fare il corriere vuol dire essere un salvatore dell’umanità, come il leggendario 5-8, una specie di vendicatore mascherato che, assieme a un gruppo ristretto di corrieri, cerca però di sabotare il sistema classista e discriminatorio della corporation. Quest’ultima appare assai più potente degli apparati di governo (lo strapotere delle corporation è molto presente nell’immaginario fantascientifico contemporaneo e ci è stato tramandato cinematograficamente da capolavori come Alien e Blade Runner, entrambi di Ridley Scott) e mantiene la società rigidamente separata in classi sociali. I più poveri sono i “rifugiati”, che vivono in baraccopoli improvvisate oppure all’aperto, costretti a portare una maschera di ossigeno, non possedendo neppure un codice QR che permette l’accesso ai più essenziali servizi sociali; poi ci sono i cittadini ‘normali’, rinchiusi nei loro bunker ‘a schiera’; infine, i ricchissimi, i più vicini alla Cheonmyeong Group, che conducono la loro vita in serre artificiali dove viene ricreata un’esistenza quasi normale, con tutti gli agi e i confort.

Sotto il travestimento distopico creato dalla serie TV intravediamo perciò un’eterotopia del nostro mondo e, soprattutto, della società contemporanea coreana, ma anche cinese o giapponese. Innanzitutto, il pervasivo e digitalizzato controllo sociale. Le classi abbienti possiedono tatuato sulla mano un codice QR che permette loro l’accesso a qualsiasi servizio. Se anche dalle nostre parti il controllo digitale dei cittadini sta aumentando sempre di più, sicuramente paesi come la Corea del Sud o la Cina possiedono livelli altissimi di digitalizzazione dell’esistenza quotidiana finalizzata a un controllo quasi invisibile. È quella che il filosofo Byung-Chul Han (non a caso, un altro sudcoreano) chiama “società della trasparenza”: un universo sociale in cui ognuno si consegna volontariamente al controllo tramite gli smartphone e le loro applicazioni; un universo che ha la peculiarità di eliminare l’Altro o l’Estraneo. L’alterità è negativa e disturba la piatta comunicazione dell’Uguale. Perciò, la corporation non trova niente di meglio che indire una gara per dare l’opportunità al vincitore di diventare un corriere, gara che serve in realtà per eliminare la popolazione più povera. Dal momento che alla competizione partecipa il giovane rifugiato Yoon Sa-wol, tutti i rifugiati fanno il tifo per lui e la potente azienda predispone dei maxischermi nelle zone delle baraccopoli con l’intento di riunire più persone possibile per ucciderle. Un altro sistema per eliminare i più poveri sono i vaccini: ai “rifugiati”, chiamati a raccolta – si direbbe oggi – negli “hub vaccinali”, viene inoculato un siero che dovrebbe proteggerli dalle malattie ma che in breve tempo li conduce alla morte. Capiamo subito allora che dietro allo scenario distopico raccontato nel film c’è ancora una volta la nostra società, con un preciso riferimento all’emergenza Covid. Maschere per l’ossigeno, vaccini, codici QR rimandano alle misure di controllo della popolazione allestite per arginare l’emergenza del virus. Ancora una volta, se guardiamo alla realtà di diversi paesi orientali, tra cui la Corea del Sud, capiamo subito come queste misure siano state più pervasive e digitalizzate di quanto sia avvenuto da noi. D’altra parte, non dobbiamo neanche dimenticare che si tratta di paesi in cui la pandemia ha colpito assai duramente. Non vengono risparmiati neppure i risvolti più complottisti della nostra contemporaneità: si scoprirà infatti che i macchinari del governo (cioè, ça va sans dire, della corporation) che dovrebbero diffondere ossigeno nell’aria contribuiscono invece all’inquinamento. Anzi, il presunto inquinamento dell’aria, per cui è necessario portare sempre la maschera per l’ossigeno, non sarà forse del tutto opera della potente e mefistofelica Cheonmyeong Group?

Dalla Corea del Sud arrivano perciò letture interessanti della nostra contemporaneità, sia da una prospettiva filosofica che da una più legata all’immaginario cinematografico. Possiamo ricordare anche Bong Joon-ho, regista di un film significativo come Parasite (2019), in cui la “trasparenza” si è diffusa ormai in tutte le fasce sociali, persino nelle più povere, per mezzo della pervasiva diffusione degli smartphone. Un altro importante film del regista sudcoreano (dal quale è stata tratta anche una serie TV) è poi The Snowpiercer (2013), in cui in un mondo futuro completamente ricoperto dai ghiacci (altra eterotopia della nostra contemporaneità), gli unici sopravvissuti vivono su un treno rigidamente diviso in classi sociali. Se negli ultimi vagoni incontriamo i più poveri, sottoposti ad angherie di ogni tipo, nella testa ci sono i ricchissimi, che trascorrono la loro esistenza in luoghi eleganti e sicuri. Non dovremmo dimenticare neppure Okja, del 2017, in cui una potente azienda alimentare incentiva l’allevamento di sensibilissimi “supermaiali” al solo scopo di confinarli in mattatoi (dipinti come lager) per poi trasformarli in cotolette e salsicce. A capo della corporation c’è Lucy Mirando, interpretata da Tilda Swinton, che presenta il suo progetto aziendale in una forma spettacolare e teatrale: lo spettacolo più gretto ed ostentato è ormai la forma privilegiata di comunicazione delle potenti lobby che controllano le economie degli stati. Ma anche questo ce lo aveva già insegnato un capolavoro degli anni Ottanta come Videodrome (1983) di David Cronenberg. Dalla Corea del Sud arriva anche la recente serie TV Squid Game (2021, 9 episodi per una stagione), in cui l’inferno dell’Uguale – come direbbe Byung-Chul Han – è dominato dal denaro, in nome del quale i più poveri e indebitati della società non esitano ad affrontarsi in giochi crudeli e mortali controllati dai più ricchi capi d’azienda del globo, nascosti dietro le quinte come macabri burattinai.

Pensare che quei mondi distopici, post-apocalittici, devastati da conflitti nucleari, da catastrofi naturali, che vediamo nei film e nelle serie TV di fantascienza contemporanee non sono altro che “eterotopie” per rappresentare il nostro mondo ci fa venire i brividi. Ma i brividi ci dovrebbero venire anche a vedere come è il nostro mondo, senza distopie o travestimenti: un mondo dominato dall’economia capitalistica più gretta e meschina, dalla guerra infinita (a sua volta intrecciata alla sfera economica), dalle discriminazioni, dai conflitti sociali, dall’inquinamento e dal cambiamento climatico, dalla distruzione selvaggia degli spazi naturali e dalla cementificazione incentivata dagli stessi governi e poteri, dalla pervasività del controllo digitale che irrompe anche nella sfera della medicina e della salute, dalle manipolazioni genetiche. La fantascienza e la distopia sono intorno a noi, basta guardare un qualsiasi telegiornale. Però, se abbiamo bisogno di un immaginario che possa funzionare anche come una resistenza (non solo passiva ma anche creativa) a questa distopia quotidiana, a questo lento affondare nell’irrealtà, affidiamoci allora alle eterotopie create dal cinema e dalle serie TV e, non da ultimo, a quella creata da questa interessante Black Knight.

]]>
Il volto di Marte e le sue forme. Note su guerra asimmetrica e guerra simmetrica / 5 https://www.carmillaonline.com/2022/10/22/il-volto-di-marte-e-le-sue-forme-note-su-guerra-asimmetrica-e-guerra-simmetrica-5/ Sat, 22 Oct 2022 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73978 di Emilio Quadrelli

Non – persone

Anni addietro, quando i migranti cominciavano a fare capolino in quantità considerevoli nei nostri mondi, a pochi veniva in mente che quelle figure “povere” e disposte ad accettare un lavoro a qualunque condizione prefigurassero, anche solo alla lontana, lo specchio di un destino possibile per una parte degli individui del vecchio Primo mondo. Erroneamente considerati “lavoratori marginali” appetibili solo per attività residuali e di poco conto, ben difficilmente facevano immaginare che quella condizione, attraverso un processo a cascata, avrebbe funzionato da apripista per cospicue quote del [...]]]> di Emilio Quadrelli

Non – persone

Anni addietro, quando i migranti cominciavano a fare capolino in quantità considerevoli nei nostri mondi, a pochi veniva in mente che quelle figure “povere” e disposte ad accettare un lavoro a qualunque condizione prefigurassero, anche solo alla lontana, lo specchio di un destino possibile per una parte degli individui del vecchio Primo mondo. Erroneamente considerati “lavoratori marginali” appetibili solo per attività residuali e di poco conto, ben difficilmente facevano immaginare che quella condizione, attraverso un processo a cascata, avrebbe funzionato da apripista per cospicue quote del lavoro subordinato locale. La convinzione e allo stesso tempo l’illusione, frutto di una visione storica evoluzionista, che i rapporti di forza tra capitale e lavoro salariato, stabilizzatisi pur con gradazioni diverse nel cosiddetto Primo mondo, avessero raggiunto un equilibrio non più “storicizzabile” e pertanto non soggetto a nuova negoziazione, era un credo condiviso dai più.

Le stesse retoriche sulle ricadute apportate dall’avvento del capitalismo globale apparivano, nel comune sentire, la semplice omologazione a modelli e “stili di vita” condizionati da mode e gusti sovranazionali. In altre parole, a un primo sguardo, la globalizzazione sembrava andare non molto oltre un’eccessiva presenza di hamburger e patatine fritte allo strutto sulle nostre tavole oltre a qualche cappellino da baseball di troppo. Nella peggiore delle ipotesi il massimo effetto nefasto che ci si potesse aspettare era l’andare incontro a una sorta di “imperialismo culturale”. Prospettiva che, a molti, più che criticabile si mostrava appetibile. Sia come sia, oltre all’hamburger e ai cappellini le ricadute che il capitalismo globale ci avrebbe riservato non sembravano molte di più. In tutto questo la figura del migrante c’entrava poco o nulla. Anzi, per molti versi, quella presenza “culturalmente” così diversa e in fondo pre – globale non faceva altro che rendere ancora più appetibile la globalizzazione. Era su di loro, infatti, che si sarebbero riversati i lavori e le mansioni tipiche della tarda modernità che, in qualche modo, continuavano a essere fastidiosamente presenti nei nostri mondi. Mentre le nostre società entravano nell’era cosiddetta del post – lavoro i suoi residui e cascami potevano essere tranquillamente appaltati alle popolazioni che, loro malgrado, continuavano a essere qualche passo indietro al “progresso”. Una visione fiabesca e idilliaca, repentinamente tramontata.

Abbastanza velocemente il capitalismo globale, senza rinunciare a invadere le mense di prodotti al limite della decenza, ha mostrato il suo vero volto, quello del mercato globale. Un mercato che, ancor prima che le merci, deve produrre i produttori e le condizioni in cui questi sono messi al lavoro. Si è così drasticamente “scoperto” che, il capitalismo globale, per essere tale non può fare altro che, in tendenza, trovare di fronte a sé una forza lavoro indifferenziata, malleabile, flessibile e continuamente sotto ricatto. Una condizione che, se nel lavoratore migrante trova la sua migliore esemplificazione, ha finito per modellare tempo ed esistenza di una parte considerevole delle popolazioni locali ascrivibili al mondo del lavoro subordinato. Per questo il richiamo a una attualizzazione del “modello coloniale”, come forma di governo delle società attuali, rischia di essere in parte fuorviante. L’ambito coloniale agiva all’interno di uno scenario dove era lo Stato/Nazione, nella sua evoluzione imperialista, a tenere in mano il pallino, una cornice da tempo andata in frantumi. Quindi, se di colonialismo o neocolonialismo è lecito parlare, e noi crediamo lo sia, occorre farlo tenendo a mente lo scenario determinato dall’avvento del capitalismo globale. A ben vedere nelle società attuali i “governi nazionali” non sono altro che attori locali, fortemente depotenziati, posti sotto controllo da agenzie multinazionali. In questo scenario, allora, i retaggi coloniali possono agire come “suggestioni” operative per i governi locali, all’interno però di logiche diverse.

Nel grande gioco del capitalismo globale una delle poste in palio decisive, come si è appena ricordato, è la continua produzione di produttori a basso costo posti nella condizione di non nuocere il che, per il management del capitalismo globale, molto prosaicamente significa scongiurare il manifestarsi di qualunque forma di resistenza organizzata da parte dei subordinati. È all’interno di tale obiettivo strategico che, allora, diventa possibile prendere in considerazione il discorso sul “modello coloniale”. Si tratta però, oltre il paradosso, di un colonialismo senza colonie e in fondo de – territorializzato ed è in questa prospettiva che la forza lavoro salariata delle metropoli diventa l’ambito coloniale di cui il capitalismo globale non può fare a meno.

Oggi, mentre per le nuove leve proletarie il mondo dei diritti e delle garanzie è qualcosa che appartiene al museo della storia, la ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro va a colpire tutte quelle sacche, più o meno corpose, di proletariato e classe operaia dove, i residui novecenteschi, giocavano ancora un qualche ruolo. A conferma di come, la storia, proceda sempre attraverso il suo lato cattivo assistiamo, con tempi e ritmi sempre più accelerati, alla disarticolazione di tutto ciò che resta della rigidità operaia e del potere che questa si porta appresso. Si consuma, in questo modo, un modello che, a partire dalla Grande rivoluzione, l’Europa aveva tenuto a battesimo. La popolazione e i suoi destini diventano inessenziali per le classi dominanti le quali, nei loro confronti, adottano il modello di governance la cui logica è del tutto subordinata alle procedure messe in atto attraverso le operazioni di polizia internazionale. Anche nei nostri mondi, tra proletariato e borghesia imperialista, va sedimentandosi una relazione che accantona ogni forma di eguaglianza per rimodellarsi sul piano dell’asimmetria.

Questo, come vedremo immediatamente, però è solo un aspetto della questione. La scena politica è ben più articolata e complessa di quanto, a prima vista, possa sembrare. Se, per tutta una fase storica, per l’imperialismo l’unica guerra da combattere era sembrata solo quella contro le popolazioni, esterne e interne, oggi alcuni tratti della guerra classica tornano a fare prepotentemente capolino sulla scena politica internazionale. La situazione si complica e aggroviglia.

Nelle pagine precedenti abbiamo focalizzato sguardo e attenzione sul tratto asimmetrico della guerra ma, tutto questo, non significa automaticamente che le forme più classiche e tradizionali del conflitto bellico si siano estinte. Sarebbe un errore, infatti, ipotizzare che, la fase imperialista globale, abbia definitivamente posto in archivio la guerra interstatuale tra blocchi imperialisti. Certo, nel corso di tutta una fase, quella inaugurata con la Prima Guerra del Golfo sino all’intervento in Libia a primeggiare è stato un modello che, del conflitto asimmetrico, aveva fatto il suo credo assoluto. Credo che poggiava sulla prosaica constatazione della pochezza politico – militare dell’avversario di turno. A partire da ciò il proliferare di tutta quella serie di interventi di stampo apertamente colonialista all’interno dei quali, per lo più, tra le diverse consorterie imperialiste a primeggiare sembravano essere più le affinità piuttosto che le contraddizioni.

In linea di massima si può affermare che la logica che governava i vari interventi di polizia internazionale trovava non poche assonanze con quella politica della “porta aperta” coltivata dalle potenze imperialiste nei confronti della Cina negli anni Venti del secolo scorso. In tali operazioni ognuno poteva ricercare il proprio tornaconto negoziando, volta per volta, la propria area di influenza. A conti fatti non c’era attrito o conflitto che non potesse essere risolto attraverso le normali relazioni politiche e diplomatiche.

La quantità del bottino a disposizione, del resto, era tale da sconsigliare eccessi di avidità. Certo, a differenza del passato, adesso, anche sul piano militare, la latente contraddizione tra il blocco imperialista statunitense e il nascente blocco imperialista europeo cominciava a farsi concreta e reale ma non a tal punto da provocare conflitti, nell’immediato, non mediabili. Tra Stati Uniti ed Europa il conflitto poteva essere tranquillamente posticipato anche perché, in apparenza, dopo l’89 sembrava che solo i Paesi Occidentali fossero in grado di operare sul piano militare tanto che, la conquista dell’intero pianeta, pareva cosa fatta. Come dire: piatto ricco, mi ci ficco, poi si vedrà.

Questa conquista finiva con il mettere tutti d’accordo coltivando, nel frattempo, l’ipotesi che, in un futuro prossimo si potesse giungere a un accordo, su basi maggiormente egualitarie, tra il vecchio drago americano e l’ipotetico nuovo leone europeo. Di ciò ne è in qualche modo testimone tutto il dibattito intorno alla NATO e alla sua funzione che le Cancellerie europee avevano da tempo posto all’ordine del giorno. Del resto la funzione della NATO, nata per “tenere fuori i russi e sotto i tedeschi”, nello scenario che si è delineato non è più in grado di assolvere a quella funzione. La dominanza germanica nella costituzione del polo imperialista europeo ha scompaginato per intero gli assetti geopolitici e geostrategici fuoriusciti dalla Seconda guerra mondiale. I cobelligeranti di oggi portano in loro i conflitti del futuro prossimo. Solo le rapine internazionali possono per ancora qualche tempo tenere insieme queste bande di gangster.

Un progetto di conquista e dominio variamente articolato attraverso operazioni militari dirette o, come nel caso delle innumerevoli “rivoluzioni colorate”, ponendo in atto piani di destabilizzazione politica al limite della guerra civile all’interno di tutte quelle entità politiche poco prone a sottostare ai diktat delle multinazionali e dei loro organi politici ed economici. A fronte di ciò un fatto è difficilmente oggetto di smentita: dopo l’89 tutti i potentati imperialisti hanno iniziato una continua e pressante campagna di conquista nei confronti di tutti quei territori non direttamente sottoposti alle imposizioni degli organismi economici internazionali. Una conquista che, per tutta una fase, non ha conosciuto ostacoli di sorta. All’interno di tale contesto sembrava essere stato accantonato in maniera definitiva quel conflitto interstatuale che tanto aveva pesato sulla storia del Novecento. Repentinamente tale scenario ha iniziato a modificarsi poiché, nel grande gioco geopolitico e geostrategico, potenze quali Russia e Cina sono intervenute pesantemente.

La Russia, forse troppo frettolosamente relegata a micro potenza regionale, ha mostrato di essere in grado di svolgere un ruolo centrale sulla scena internazionale mentre la Cina, che nel frattempo si appresta a diventare la prima potenza industriale del mondo, ha dimostrato di essere fortemente determinata a difendere le proprie aree di influenza non solo sotto il profilo economico ma anche politico e militare. L’entrata in gioco di queste due potenze ha ridefinito lo scenario geopolitico e geostrategico internazionale ma non solo.

Con l’entrata in gioco di queste la tendenza alla guerra propria di ogni crisi dell’imperialismo inizia ad assumere contorni diversi da quelli conosciuti tra la Prima guerra del Golfo e la disarticolazione dello stato libico. Quel tratto sostanzialmente coloniale che aveva accompagnato le varie operazioni di polizia internazionale è obbligato a modificarsi. Difficile, per non dire impossibile, svalutare e quindi ascrivere Russia e Cina nell’ambito dell’impolitico. Difficile relegare Russia e Cina a semplici realtà etniche. La loro forma politica e statuale non può essere posta in discussione, la presenza del nemico torna ad albeggiare con tutte le ricadute del caso. Di ciò diamo qui di seguito una sintetica ricapitolazione.

Le avvisaglie che qualcosa stava iniziando a cambiare si sono avute tra la notte del sette e dell’otto agosto 2008, quando la Georgia ha attaccato l’Ossezia del Sud. La reazione di Mosca, alleata dell’Ossezia del Sud, è stata immediata. Le truppe georgiane sono state immediatamente sconfitte e le truppe russe hanno occupato gran parte della Georgia la quale, immediatamente, ha chiesto l’intervento dell’alleato statunitense e della NATO. Intervento che non si è minimamente profilato lasciando la Georgia con il più classico dei pugni di mosche in mano. Nel momento in cui, USA ed Europa si sono trovati di fronte un avversario nei confronti del quale non era realisticamente possibile muoversi in maniera asimmetrica, questi Paesi hanno fatto un corposo passo indietro. Un piccolo incidente che, se isolato, non avrebbe significato più di tanto.

Quanto accaduto in Ossezia del Sud, però, si è ripetuto, e in maniera decisamente esponenziale, nel momento in cui Stati Uniti, Europa e Giappone hanno ipotizzato di attaccare la Siria. In quel caso non solo la Russia ma anche la Cina si è apprestata alla mobilitazione dichiarandosi pronta, in caso di intervento, a schierarsi militarmente al fianco di Damasco facendo seguire, a tali dichiarazioni, fatti quanto mai espliciti. Entrambi i Paesi hanno indirizzato verso il possibile scenario di guerra alcune unità della propria flotta attrezzate per contrastare e neutralizzare l’eccedenza tecnologica che le forze NATO potevano vantare nei confronti dell’apparato militare siriano. A quel punto, a differenza di quanto accaduto in Libia, il conflitto non avrebbe potuto giocarsi attraverso il dominio incontrastato dei cieli e del mare in modo da spianare, sul terreno, la via agli “insorti” di turno ma avrebbe comportato un coinvolgimento diretto, dagli esiti per lo meno incerti, di tutte le forze militari Occidentali. Uno scenario decisamente poco appetibile. Non per caso l’intervento diretto Occidentale è stato rimandato sine die e la guerra “appaltata” a forze locali che stanno dilaniando la Siria in un conflitto dai tratti sempre più endemici e con costi immani per le popolazioni. Nel frattempo, anche se forse poco osservato, vi sono stati tutta una serie di episodi, con protagonista la Corea del Nord, particolarmente degni di interesse.

La Corea del Nord, nonostante agli occhi dell’imperialismo Occidentale e giapponese vanti tutti i requisiti dello “Stato canaglia”, non è stata oggetto di alcun intervento eppure, la sua linea di condotta, lo avrebbe in più occasioni ampiamente sollecitato e meritato. La Corea del Nord, oltre alle continue scaramucce belliche con la Corea del Sud, la costruzione di un potenziale missilistico di media portata e la testazione di ordigni nucleari ha obbligato il Giappone a intraprendere alcune, per quanto limitate, operazioni militari difensive. Ve ne sarebbe abbastanza perché, almeno Stati Unti, Giappone e Corea del Sud, oltre a mai mancanti volenterosi compagni di merende del caso, intraprendessero nei suoi confronti un’operazione non troppo diversa da quella messa in atto in Iraq. Come è noto di ciò non si è mai avuto un qualche sentore. Pechino ha sempre dichiarato che un eventuale attacco alla Corea del Nord avrebbe comportato l’automatico coinvolgimento della Cina nel conflitto il che, per forza di cose, avrebbe ascritto l’intervento in Corea del Nord in qualcosa di ben diverso e distante dall’operazione di polizia. La presenza attiva della Cina avrebbe portato il piano del conflitto fuori dal modello coloniale, rendendo gli esiti della partita perlomeno incerti.

(fine quinta parte – continua)

]]>
Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 79 https://www.carmillaonline.com/2018/01/18/divine-divane-visioni-cinema-porno-79/ Thu, 18 Jan 2018 22:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42820 di Dziga Cacace

Se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato

918 – Pulgasari di Shin Sang-Ok, Corea del Nord, 1985 Ecco, io un film nord coreano non lo avevo mai visto. E per il mio esordio ossequiente al cinema sotto l’egida di Kim Jong-il non potevo che scegliere Pulgasari, nome leggendario che evoca in tanti cinéphile boccaloni travaglio ideologico e immensa sofferenza. Devo anche dire che in Rete si trova qualche originale che ritiene il film realmente interessante. Beh, la storia della sua realizzazione lo rende curioso, ma [...]]]> di Dziga Cacace

Se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato

918 – Pulgasari di Shin Sang-Ok, Corea del Nord, 1985
Ecco, io un film nord coreano non lo avevo mai visto. E per il mio esordio ossequiente al cinema sotto l’egida di Kim Jong-il non potevo che scegliere Pulgasari, nome leggendario che evoca in tanti cinéphile boccaloni travaglio ideologico e immensa sofferenza. Devo anche dire che in Rete si trova qualche originale che ritiene il film realmente interessante. Beh, la storia della sua realizzazione lo rende curioso, ma bello, beh… no. Ma neanche discreto, passabile, accettabile… proprio no: è una vera merdaccia di film come raramente mi è capitato di vedere, il grado ultimo della fecalità su pellicola, vi assicuro. Ma prendiamola larga: il regista è Shin Sang-ok, un coreano sbagliato, del Sud, che al paese suo godeva di gran fama (era detto l’“Orson Welles sudcoreano”…) ma doveva anche sfangarla continuamente con censura e problemi produttivi. Mai saprò dell’effettivo valore del cineasta perché se pensa, come ha detto, che Pulgasari sia il suo miglior esito posso immaginare quali badilate di letame siano gli altri suoi film. Kim Jong-il – morto l’anno passato – voleva adeguare la cinematografia del suo paese a quella prodotta su scala mondiale che tanto ammirava. Dall’alto della sua pratica cineteca con 15mila titoli, il figlio di Kim Il Sung scrisse poderosi saggi di cinema e, di fronte alla cronica latitanza di talenti e capacità produttive a nord del 54° parallelo, decise per le maniere forti: fece rapire Shin Sang-ok (come del resto l’ex moglie e attrice Choi Eun-hee) e, dopo opportuna rieducazione, gli diede carta bianca. Shin girò diversi film fino a questo Pulgasari dopo il quale, complice una trasferta a Vienna, riuscì a imbucarsi nell’ambasciata USA con dei nastri registrati da donna Choi che provavano come i due fossero sotto ricatto e non volontariamente in esilio come sempre sbandierato dal regime nordcoreano.
Pulgasari dura un’ora e mezza ma vi assicuro che il tempo percepito è di circa una settimana. È un kaiju eiga, cioè un film di mostri o qualunque cosa significhi. Siamo nella Corea dell’epoca feudale (1400, quasi 1500, boh) e la vita, alle pendici delle montagne, è grama, sotto il giogo di una monarchia insensibile. Inde è il capo dei ribelli: esibisce una rambesca bandana e, pur sembrando Drupi, gode dell’amore della virginale Ami. Tanto per cambiare è in atto una carestia e il governatore pretende armi e metallo e confisca tutti i beni del villaggio dove vive Inde. Ci scappano calci e pugni e pure il morto: tragedia! Inde e il padre di Ami, fabbro, vengono imprigionati e rifiutano orgogliosamente il cibo, al punto che il vecchio, prima di schiattare, usa una polpetta di riso per sagomare una figurina antropomorfa cui chiede di salvare il mondo. Dolore e stridore di denti, anche per le scelte registiche ributtanti: è quasi tutto girato in studio, con luci alla cazzo di cane, montaggio prescolastico e una musica infestata di synth atroci. Ami, ad ogni modo, recupera il pupazzetto che finisce tra i suoi attrezzi da cucito. La ragazza si punge e una goccia di sangue finisce sulla figurina che, voilà, prende vita e comincia a nutrirsi di metallo. La cosa non smuove minimamente nessuno: “È carino!”. Risate e si va a dormire, ma il mostricciattolo fugge e cresce a vista d’occhio, mangiandosi tutto quanto sia metallico: maniglie, lucchetti e serrature. E pure la spada del boia che avrebbe dovuto decapitare Inde, così come le sue manette, tutto sgranocchiato come appetitosi snack. Il mostro, sempre più grosso, viene battezzato Pulgasari, l’immortale, e diventa l’arma che consente ai ribelli di opporsi finalmente al brutale tiranno.
Da qui parte una sequela eterna di combattimenti tra ribelli e potere centrale. Il canovaccio è sempre lo stesso: i rivoltosi rischiano grosso, poi arriva Pulgasari e si vince. Il tutto tra scene di massa drammatiche (come impeto e come effetto sullo spettatore), con armi risibili come letali pietre di polistirolo o fischioni e altri fuochi d’artificio spacciati per prodigi bellici pirotecnici. Un cacamento di cazzo eterno e dolente, non potete immaginare, con questo Pulgasari che è un panzone mangiametalli con la faccia da coglione, mezzo toro e mezzo maiale, e che si ha il coraggio di definire pure “molto intelligente”. Tra l’altro si vede chiaramente il povero attore che si agita sotto il costumone in gommapiuma con la cucitura sulla schiena, un sarcofago che deve averlo fatto sudare come in un bagno turco.
Il re capisce che la chiave per incastrare il mostro è Ami: la cattura e attira Pulgasari in trappola, in una gabbia a cui si da fuoco. E secondo voi che fa il nostro eroe? Si libera e si riparte. Dal punto di vista drammaturgico siamo a livelli infantili. Le scene di battaglia sono girate in modo dilettantesco, con sganassoni e capriole alla Bud Spencer e Terence Hill, ed è tutto avvincente come una partita di shangai. All’ennesimo confronto una freccia propulsa da polvere pirica piglia Pulgasari in un occhio: comprensibilmente il mostro s’incazza vieppiù e sgomina l’esercito per l’ennesima volta. Allora si fa ricorso a una fattucchiera in deliquio che lo strega e lo fa cascare in un orrido (orrido, sì, ma non quanto il film) dove lo sotterrano con delle pietre. L’esercito attacca i ribelli e, con mio sommo godimento borghese, Inde viene impiccato coi capelli sciolti al vento come Geronimo: devono avere qualche problema di parrucchieria da quelle parti, comunque. Vabbeh. I governativi festeggiano e Ami, che s’è finta prostituta, va a versare il suo sangue nell’orrido e Pulgasari riemerge dalla terra. I contadini attaccano la capitale, ma il re ha l’arma totale: una specie di involtino primavera pieno di esplosivo che finisce in gola a Pulgasari che repente lo risputa, sfasciando tutto. Roba da non credersi, con un’effettistica (a cura della Toho, quella dei vari Godzilla) che sarebbe parsa infelice in un telefilm come Megaloman, per dire, e un sonoro di una povertà clamorosa, con il clangore delle spade che neanche in un videogioco del Commodore 64. A questo punto i ribelli entrano in trionfo nel palazzo reale ma Pulgasari ha fame e – Franza o Spagna, purché se magna – diventa intrattabile, pretendendo altro metallo. La pazientissima Ami realizza che qui si rischia la fine dell’umanità e allora si nasconde in una campana e si fa mangiare, implorando il mostro, col suo sacrificio, di annientarsi per il bene della Terra. E Pulgasari sgrana gli occhi e si sgretola: dai detriti riemerge un Pulgasari cucciolo che si smaterializza ricongiungendosi col corpo esanime di Ami. E io: BOH.
Pulgasari sembra aver conosciuto incassi record alla sua uscita in Corea del Nord (beh, immagino che fosse imposto in sala tipo I soliti idioti quest’inverno qui da noi). In Giappone arrivò nel 1998, non ho capito con quale accoglienza, e poi venne distribuito anche in Corea del sud e pure negli USA, immagino per riderne di gusto o per compiacere qualche coprofago.
È una metafora del Capitalismo, con la sua fame inarrestabile? Oppure l’irriconoscente regista Shin ha voluto rappresentare con Pulgasari Kim Il Sung, padre della rivoluzione e Grande Leader ormai ingestibile come presenza? O ancora – e qui saremmo al top – ci sta dicendo che la Rivoluzione mangia se stessa? E CHI CAZZO LO SA?! È tutto confuso ideologicamente e non vedo come il regista possa aver voluto dare una qualche lettura sovversiva a ‘sta cacata. Potete attribuire tutto quello che volete, a questa clamorosa puttanata, anche che sia una satira delle diete carnivore, ricche di ferro e povere di verdura. Io non azzardo interpretazioni, valuto solo i risultati: non ho mai visto un film così orrendo. (29/2/12)

919 – The Artist di Michel Hazanavicious, Francia 2011
Fresco vincitore di una carrettata di Oscar, eccovi il film amato dai critici e dal pubblico più snob. Rientro perfettamente nella seconda categoria e ammetto il divertimento: l’opera di Hazanavicious è un intelligente e riuscito omaggio al bel cinema di un tempo, quello di circa 80 anni fa, che tracopia mimeticamente e in maniera scintillante. Muto, in bianco e nero, in formato 4/3, con tutti i temi cari alla cinematografia di quel periodo: la commedia passionale e patetica, con rovinose cadute di carriera come incredibili ascese rags to riches. Mettiamoci poi il gioco metacinematografico, l’uso dissimulato e intelligente del sonoro, diversi attori splendenti che non fan rimpiangere alcun dialogo (compreso un superbo cagnolino), musiche enfatiche anche riprese da altri film, un buon ritmo e l’immancabile happy ending, dopo il classico suicidio sventato. Un’opera così non può che far godere i critici che sui testi sacri del muto hanno studiato e che qui ritrovano in ammiccante filigrana. Il pubblico snob – che magari queste cose le ha già viste, ma è molto più probabile che no – ha un comprensibile compiacimento da scoperta. Saremmo nel midcult se The Artist fosse più facilino o facilone, ma Hazanavicious mi pare più intelligente che furbo e alla fine, Oscar o meno, il film l’han visto mica in così tanti. Un giocattolo carino, molto, che fa tenerezza. E una recensione borghesissima, lo ammetto. (Dvd; 4/3/12)

920 – Rome di Aa.Vv., Gran Bretagna/USA/Italia 2005
Sarà che ho appena finito di lavorare con Pippo Baudo (…) e tornando a casa – chissà perché – mi viene una voglia di antichità, di Storia, che tosto soddisfo col cofanetto di Rome comprato anni fa. La prima serie l’abbiamo già vista nell’edizione televisiva italica, mutilata di violenza e sesso per non turbare gli spettatori Rai, ci mancherebbe. Questa è quella uncut e decidiamo di ripartire dall’inizio, tanto la memoria della prima visione è pressoché scomparsa, annebbiata tra pannolini, pappe e sveglie notturne per l’allora piccolissima Sofia. Rome racconta la vicenda di Giulio Cesare (interpretato da un indiano che pare Paolo Calabresi, il Biascica di Boris) attraverso le storie di due poveri diavoli che son sempre a mezzo e, con abili sottigliezze narrative, si evince che i fatti scatenanti siano sempre dovuti a loro, micce loro malgrado della dinamite romana. Lucio Voreno (Boris Becker, uguale) e Tito Pullo (uno yankee che più non si può) sono ovunque, ad Alesia come a Farsalo (scampando in mezzo a 5000 vittime alla tempesta che ha annientato la flotta di Marco Antonio) come nel letto di quella drogata di Cleopatra. Lucio Voreno è diviso tra ambizione e dovere, mentre Tito Pullo è tutta minchia e il suo ideale è combattere, razziare, scopare, bere e fumare (dice proprio così… ma ai tempi dei romani si fumava? Scopro di sì: salvia, alloro, erbette… pazzesco!). Di contorno il futuro Augusto, Ottaviano, una piccola merda di eccezionale intelligenza politica, e Ottavia, una poverina indecisa sessualmente, sempre pedina di altri. Tra i vari colpi di scena della puntata finale, Cesare ci rimane comunque secco, anche se non pronuncia lo storico tu quoque. L’esperimento narrativo e produttivo è interessante, la messa in scena sontuosa, le inesattezze storiche a go-go (documentate con perfidia da Wikipedia) ma chi se ne frega. La cosa che più lascia perplessi, però, è la teoria di facce WASP o le inaspettate somiglianze, come Marco Antonio che sembra Teo Mammucari, furbetto, zozzetto e amatissimo dai suoi soldati. Il plot storico è adattato e non ci vedo niente di male e l’unica attendibilità che sembra rispettata in pieno è quella della realtà spicciola e quotidiana: pensa un po’, anche gli antichi romani trombavano, tradivano e facevano le scritte sui muri. Ringraziamo che ci vengano risparmiate le dita nel naso, le palline fatte con le caccole e le scoregge liberatorie. Molta attenzione è dedicata poi alla religiosità e alla superstizione, con il fato come arbitro dei destini: guai ad andare contro la Fortuna! (Cosa che salva Voreno e Pullo infinite volte da Cesare). C’è anche dell’ironia con il ciccione che al Foro romano fa il telegiornale e alla fine annuncia che le notizie sono state offerte dallo sponsor. Che dire, in conclusione? Serie magnifica che però va un po’ perdendo colpi e diventa progressivamente oscura e lenta, seguendo la caduta verso la tragedia del Divo Giulio, quello originale. (Dvd; marzo 2012)

921 – Il mondo esploso di Crumb di Terry Zwigoff, USA 1994
Se i fumetti di Robert Crumb vi sono sempre sembrati strani, dovreste conoscerne l’autore. E se lui vi parrà un tipo completamente fuori di coccio, allora non avete idea di come stiano messi i suoi fratelli. Questo il succo di un documentario notevole, costato nove anni di fatica e realizzato da un altro matto, un regista spiantato, amico di Crumb, capace di comprendere ciò che stava riprendendo, cioè il frutto doloroso della società americana: una famiglia che definire disfunzionale è fargli un grosso complimento. Repressione, consumismo, plastic people, cultura underground, depressione, perversione, sublimazione: in Crumb c’è tutto, sia nel documentario che nella vita e nelle opere dell’artista che, grazie al successo della sua “visione”, ha condotto un’esistenza più o meno normale. Due matrimoni, diverse storie, due figli. La sua vita artistica e sentimentale è raccontata attraverso le testimonianze, spesso scostanti e uncomfortable di chi gli è stato vicino. Diversamente Max e Charlie, i due fratelli, sono andati in malora. Il primo è ritirato a San Francisco dove dipinge quadri folli e bellissimi e medita su un tappeto di chiodi. Giuro. L’altro, Charlie, non esce di casa da anni, rinchiuso in camera sua. Anche lui un talento grafico eccezionale, lui più degli altri disperato di fronte alla vita, tanto che a un anno da fine riprese si suiciderà. Robert Crumb è famoso da noi per Fritz il gatto, ma è anche l’autore della copertina di Cheap Thrills, l’album che fece di Janis Joplin una star. Divenne popolare alla fine dei Sessanta, con le sue storie schizzate, perfette per l’epoca drogata e ribelle, e poi, man mano, cominciò a raccontare le sue ossessioni, passando attraverso il barbuto Mr. Natural o rievocando la sua adolescenza nel dopoguerra USA sessuofobico. Crumb disegna in modo incredibile, con pennino a china, pennello o rapidograph. È un commentatore satirico che non osserva soltanto, ma vive il disagio che rappresenta. Da artista vero, tormentato, bugiardo, misantropo (e “masturbatore compulsivo” secondo una ex, che ne ricorda anche il cazzo grossissimo), contento solo quando può ascoltare la sua collezione di dischi di jazz e blues delle origini, Crumb coglie le espressioni, la disperazione, i tic dell’americano medio assediato e represso dalla società. Assieme a lui – allampanato e con lenti spesse come fondi di bottiglia – ripercorriamo la sua storia girando per l’America e quel che viene fuori, appunto, è un documentario tradizionale nella forma ma dirompente nei contenuti. Non è un’agiografia, questa, e su Crumb è interessante ascoltare anche il punto di vista acuto di una femminista intransigente che lo bolla come pornografico, razzista e sessista (zero convincente invece il critico d’arte che lo esalta: un cialtrone che fa name dropping a caso per nascondere la sua ignoranza in materia). Documentario strepitoso, comunque. (Dvd; 31/3/12)

922 – Rome 2 la vendetta, di Aa.Vv., Gran Bretagna/USA/Italia 2007
Porca Juno! Ma non si può a metà di una serie cambiare faccia a un protagonista, dai! Ottaviano, uno che hai visto per 14 puntate ragazzo, di punto in bianco diventa una specie di cyborg, con l’espressività di un capitello. Anche Lucio Voreno ha un evoluzione che dal punto di vista recitativo è tremenda, siccome è nervosetto diventa tutto oscuro, ringhia, ha sempre lo sguardo torvo, sembra Boris Becker dopo aver saputo che la donna che gli ha dato un figlio usando il seme ottenuto con un rapporto orale avrà piene tutele economiche (è successo, lo so: è incredibile). In contrapposizione si accentua il lato da compagnone del buon Tito Pullo, che però – data la sua natura primitiva – incorre anch’egli in diverse vaccate. Come sempre grande violenza, tradimenti schifosi, nessuno “buono”. Al limite si apprezza la schietta onestà di Marco Antonio. Per il resto son tutti calcolatori efferati o pusillanimi (come Bruto che si riscatta con la morte pressoché suicida, dopo aver visto morire anche Cassio – legame omoerotico solo sottilmente adombrato). Divertente, ad ogni modo, ma inferiore alla prima serie. (Dvd; marzo e aprile 2012)

925 – Colpa mia, non di Lady Vendetta, di Park Chan-wook, Corea del Sud 2005
Barbara e io sbagliamo clamorosamente film, perché per un’opera del genere bisognerebbe essere freschi e cazzuti e invece quando ci accasciamo sul divano ci piomba sulla schiena tutta la fatica della settimana. Poi non vorrei sembrare razzista ma io ho confuso tutte le facce degli attori e per un bel po’ non ho capito chi fosse chi e cosa cazzo volesse dalla bella protagonista. Comunque trattasi di ennesima variazione sul tema della vendetta: lei (figuratevi se ricordo il nome) è stata 13 anni in carcere, accusata di aver ammazzato un bimbo di sei anni. Lì ha abbracciato la religione (cristiana) e s’è comportata da santa, difendendo o vendicando le compagne angariate. Poi uscita di prigione si dedica alla vendetta, perché lei non era assassina ma semplicemente complice inconsapevole e succube. Si fa aiutare dalle vecchie compagne di carcere (e di nuovo io non capivo una mazza) e fa un bel lavoretto pulito, in maniera non proprio prevedibile. Lady Vendetta è elegantissimo da un punto di vista formale, spezzettato in tantissime scene e trascinato per le lunghe al momento della vendetta vera e propria: l’ho sopportato e m’è parso inutilmente complicato tra diversi piani narrativi e temporali (prima del carcere, durante e dopo). Meno brillante e riuscito dei precedenti capitoli di Park, quindi? Mah! Ero troppo stanco per vederlo con la dovuta attenzione, però il cliente ha sempre ragione: non è che l’Auditel del venerdì sera sia ponderata mettendo in conto la settimana lavorativa, eh. Per cui, anche se so di sbagliarmi, giudizio non esaltato e – prima o poi – vendetta tremenda vendetta. (Dvd; 13/4/12)

926 – Una benedizione: Baraka di Ron Fricke, USA 1992
È come una legge non scritta: è il week end, arrivi più morto che vivo e nel mio caso è anche un week end lavorativo. Bene: le bimbe, ka-zam!, hanno tutte e due la febbre. Tanto per cominciare non si capisce perché in settimana, per portarle a scuola, la sveglia prima delle 8 sia un’operazione titanica, mentre il sabato siano belle arzille e rumorose già alle 7… E vabbeh. Fatto sta che verso le 11 cominciano le lamentazioni e le misurazioni, che con questi maledetti termometri elettronici sono un autentico terno al lotto. Ma siccome ho studiato Fisica all’università faccio diverse misurazioni, tolgo i risultati estremi e calcolo la media. Non c’è nulla da fare: hanno il febbrone. E Sofia, catatonica, subisce la mia imposizione: un film non narrativo, di pure immagini. Siccome Koyaanisqatsi le ha fatto un baffo, non si scompone quando faccio partire questo Baraka girato da Ron Fricke, direttore della fotografia dell’epocale film di Godfrey Reggio. Rispetto al capostipite qui c’è più ricerca formale e cromatica ma si sente la mancanza della musica di Philip Glass. E se alla fine, stringi stringi, il concetto è farci vedere la ricchezza e la diversità della Terra e dell’impatto dell’uomo su di essa, qui c’è più compassione (il titolo significa – in diverse lingue – “benedizione”), mentre Koyaanisqatsi era manifestamente critico, a partire dal titolo. Sono tante le immagine di devozione e preghiera (soprattutto all’inizio e nel finale) e a fianco della maestosità della natura si trovano anche tanti esempi grandiosi dell’inventività umana, artistica e tecnica. Se ne vedono anche gli effetti (in termini ambientali) e il costo (le fabbriche alveare o l’allucinante sequenza della selezione dei pulcini). E ancora una volta vediamo il traffico velocizzato che diventa un torrente di automobili o le masse di pendolari che scorrono come sangue nelle vene della metropolitana. Ma il film di Reggio aveva una natura più sperimentale e astratta, forse frutto anche dei diversi materiali confluiti durante gli anni. Baraka invece risponde a un disegno più preciso e ambizioso: la bellezza e l’orrore, cioè l’umanità, dal rapporto placido col creato (gli indios, gli aborigeni, le risaie terrazzate a Bali) a quello impazzito (i pozzi in fiamme in Iraq). Non stupefacente perché visto in casa e non in una sala, come previsto utilizzando la pellicola a 70 mm. Però bello, molto, e apprezzato anche dai 7 anni di Sofia. (Dvd; 14/4/12)

927 – La maledizione della prima luna di Gore Verbinski, Usa 2003
Altro film, ma stavolta sceglie Sofia, che si toglie una soddisfazione: in classe sua La maledizione della prima luna l’han visto tutti e soffre di complessi, la piccina che si vanta con nonchalance di Koyaanisqatsi. Tale e quale a suo padre. Purtroppo. Il film è divertente ed è evidentemente per bambini, ma siccome gli USA sono un grande paese l’han visto diverse milionate di adulti. Botte, botti, duelli e schermaglie anche verbali. La regia è molto ritmata, ricca di invenzioni cinematiche e in effetti non ci si annoia di fronte a questo aggiornamento che rubacchia qui e là, da Peter Pan al Corsaro Nero a Sandokan. Sforzo produttivo e cura realizzativa, appoggiandosi poi a un cast astuto: ci sono un lercio e autoironico Johnny Depp, una splendida Keira Knightley (non secca secca com’è adesso) e il belloccio Orlando Bloom. Di contorno quel Geoffrey Rush che mi sta sulle palle dai tempi del turpe Shine, ma che risulta effettivamente bravo. E poi è sempre un piacere rivedere Jonathan Pryce che non è invecchiato di un giorno dai tempi di Brazil. Film divertente, da pop corn e Coca Cola. Per pensare, rivolgersi ad altro (ma chi l’ha detto che io pensi, quando guardo un film?). (Dvd; 14/4/12)

928 – Esanime, Watchmen di Zack Snyder, USA 2009
Il week end di fuoco volge al termine e Barbara rifiuta in maniera odiosa qualunque cosa le proponga: la mia collezione di Dvd sovietici e di documentari in bianco e nero viene ufficialmente maledetta con un tremendo anatema. Allora facciamo ricorso a un film scaricato per mera curiosità e per stupido imitativo desiderio di possesso: se ce l’ho è quasi come se lo avessi già visto. Adesso però tocca vederlo sul serio. Barbara, orfana di Marco Antonio e di Rome, pensa che dei supereroi siano meglio che niente e allora ci imbarchiamo nell’avventura. Ed è una rottura di palle micidiale. Scritto (e disegnato) ancora durante la guerra fredda, Watchmen è la saga di un gruppo di ex supereroi messi da parte, alle prese con problemi esistenziali e la voglia di mettere fine all’equilibrio del terrore tra le due superpotenze. Ci riusciranno in maniera per nulla convincente (in termini narrativi), in un film lungo, noioso, calligrafico senza motivo, con protagonisti dei complessati cretini in costume. Mah! Me l’hanno consigliato Fabrizio e Max, ma forse la soddisfazione di Fabri partiva dalla riuscita trasposizione del fumetto (che mi ha consigliato per anni), mentre per Max si tratta di depressione, cosa di cui solitamente accusa me. Io apprezzo la messa in scena, al limite limite, ma poi, in fondo, delle vicende di questi odiosi tizi mascherati al servizio di una nazione infantile non me ne frega niente. Non riesco a fare il salto, ad avere compassione per i supereroi ridotti a vivere come normali cittadini e – lontani 25 anni dall’epoca dei fatti – anche le motivazioni pacifiste sembrano artificiose e pare tutto una parodia della parodia che era The Incredibles della Pixar. Film senza scintilla vitale: Snyder è quello di 300 e sotto la confezione c’è il vuoto. (Dvd; 15/4/12)

930 – A me fanno schifo I Goonies di Richard Donner, USA 1985
Gruppo di bambini con facce da cazzo assortite si interrogano a ritmo letargico per oltre due ore su un mistero fasullo. Tesori nascosti, scheletri, schermaglie tra bande… bah. Sofia apprezza ma a me non m’è piaciuto per niente – sarò stato stanco, indisposto, irritabile, che ne so – e non avendolo visto da ragazzo non ne conservavo neanche un ricordo positivo alterato dalla nostalgia. Da un soggetto di Spielberg, regia di quello che ha anche firmato Ladyhawke, altro film che andrebbe un po’ ridimensionato, e il primo Superman (idem c.s.). All’attivo Richard Donner ha, per i miei gusti plebei, giusto il casinaro Arma letale. Per il resto son perplesso e vi chiedo: per voi I Goonies è “mitico”? E mi dispiace, allora: avete avuto un’infanzia più disagiata della mia, eh. (Dvd; 29/4/12)

931 – Semplicissimo Cattivissimo me di Chris Renaud e Pierre Coffin, USA 2010
Un cattivissimo misantropo cui basta affiancare dei bimbi perché diventi buonissimo e amorevole. Non c’è molto d’altro a livello di narrazione in questo Cattivissimo me, che però possiede alcune trovate, è disegnato benino da un team francese e si fa vedere soprattutto per la frenesia cogliona e liberatoria dei Minions, dei tombolotti gialli al servizio del protagonista che blaterano in una sorta di esperanto babelico. E tanto mi basta, dai. Poi, en passant, ho visto anche le deliranti scene stracult di Paganini Kinski, sconclusionata biografia eretica ed erotica del violinista genovese. Va detto che vedere Klaus Kinski emaciato che puccia la lingua nella peluria di una figurante sconosciuta non sia cosa da eccitare neanche un monaco in clausura da decenni. Nel delirio annoto anche le apparizioni psichedeliche di Donatella Rettore: era molto bella; purtroppo oggi – come previsto da Splendido Splendente – può dire: “Io sorrido eternamente grazie a un bisturi tagliente”. E comunque l’album Kamikaze Rock’n’roll Suicide era un’operina stramba ma piacevole, giuro. Vabbeh, ho divagato. (Dvd; 11/5/12)

932 – La realtà è un uccello: 9 Songs di Michael Winterbottom, Gran Bretagna 2004
Esasperato da troppo cinema per bambini mi schioppo un peccaminoso Winterbottom, eclatante esempio di cinema d’autore con scene di sesso non simulato. E uno si chiede: perché? Quella raccontata è una storia d’amore: serve l’esplicitazione per renderla più vera, più credibile? O si cercava un successo di scandalo? O cosa? Cacace non sa, non risponde. Perché questo 9 Songs non respinge, non indigna, non scandalizza (figuriamoci), ma lascia proprio con un interrogativo: perché? Mah. Matt e Lisa – lui inglese, climatologo, lei americana in Gran Bretagna per studiare – si conoscono a uno dei tanti concerti che punteggiano (attraverso nove canzoni) il film. Si vedono, si piacciono, scopano e poi dormono abbracciati, in intimità immediata, simple as that. Io a vent’anni tornavo dai concerti gonfio di pipì, con un principio di sciatica e sudato da far schifo. Devo aver sbagliato concerti, non so. Qui sono fatali i Black Rebel Motorcycle Club e poi via via ascoltiamo brani di Primal Scream, Franz Ferdinand e qualche altro british che ha caratterizzato gli anni Zero del rock (gli ultimi, purtroppo). Canzoni che sono inni alla giovinezza, alla frustrazione, alla voglia di esplodere. In effetti si sente il desiderio, quella pura energia dei corpi, delle menti, l’ansia positiva e la fame di futuro, di pelle, di baci, come a mangiarsi il corpo, dopo tanti morsi e leccate.
Tra una song e l’altra (e anche Michael Nyman al piano, nel concerto per i suoi 60 anni) strisce di cocaina, pianti, breakfast e cene, irritazioni e qualche parola che si vorrebbe emblematica, fine alla fine del rapporto: questi sono carucci, con la bellezza della gioventù, sodi, guizzanti, arrapati e con una confidenza corporea che ma io ho avuto né, ormai, avrò. La cinepresa digitale, impudica e addosso ai corpi, è come se partecipasse ma non c’è un vero crescendo psicologico e narrativo (se non forse in termini di provocazione visiva, arrivando – dopo cunnilinctus, footjob, dildo e altro – a un rapporto orale mostrato esplicitamente fino alle liquide conseguenze). Ma io vorrei un’emozione sincera non solo realistica, perché qui è tutto enunciato, dato, senza crescita vera. E alla fine, di fronte a questa cruda esposizione minimale, mi manca l’emozione, non trovo compassione autentica né partecipazione. E mi dispiace perché alla fine il film – coraggioso, curioso – mi pare riuscito solo nelle intenzioni. (13/5/12)

933 – Indigesto Ratatouille di Brad Bird, USA 2007
Storia noiosa all’inizio, protagonisti poco attraenti, finale evocativo con richiamo proustiano all’infanzia per riabilitare il tutto. Diverse accelerazioni (inseguimenti virtuosistici e concitati percorsi mirabolanti) rendono passabile la storia, ma non posso appassionarmi alle vicende di una pantegana pelosa e gastronoma: solo degli americani potevano concepire una cosa così. E tutta la poesia del cibo scompare ogni volta che vengono confuse spezie, erbe aromatiche e sapori (nonostante la coltissima citazione dello zafferano dell’Aquila). Oggetto bellissimo che non funziona, Ratatouille globalmente delude: i critici che lo hanno osannato per fare i gggiovani che hanno scoperto la Pixar, tanto per cambiare non han capito nulla. (Dvd, 15/5/12)

934 – La carica dei 101 – Questa volta la magia è vera di Stefan Herek, USA/Gran Bretagna 1996
Barbara è partita e io ho le mie armi segrete per mandare le bimbe a letto presto: qualche pappa peccaminosa e soprattutto uno scintillante film nuovo, questo. Definito da Elena la Carica dei 101 umano, si fa vedere e ha ritmo e trovate sceniche: non segue pedissequamente l’originale (qui gli animali non parlano) ma lo aggiorna senza risultare fastidioso, accentuando il sentimento di vendetta: i cattivi sono mazzulati a più riprese, con gusto, con l’apice di Crudelia Demon cacciata nella melassa e poi anche nel letame. Glenn Close è bravissima e Jeff Daniels ha ormai la faccia da gran bollito, ma se la cava assieme a un’attrice che sembra una triglia. Uno dei due cattivi è il Dr. House, comunque. (Dvd; 20/5/12)

(Continua – 79)

È ancora in libreria per i tipi di Odoya Divine Divane Visioni – Guida non convenzionale al cinema, con la preazione di Mauro Gervasini (direttore di FilmTV) e la postfazione di Giorgio Gherarducci (Gialappa’s Band)

Altre Divine Divane Visioni su Twitter e Facebook

Oppure binge reading qui, su Carmilla

]]>
Uno tsunami planetario https://www.carmillaonline.com/2017/08/10/uno-tsunami-planetario/ Wed, 09 Aug 2017 22:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39701 di Sandro Moiso

Sergio Bologna, Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale, DeriveApprodi 2017, pp. 206, € 18,00

Mentre molti turisti, sdraiati sotto gli ombrelloni dalle isole greche al Sud Est asiatico, nel corso dell’estate si sforzeranno di scrutare l’orizzonte marino oppure il bagnasciuga senza dare nell’occhio, nel timore di scorgere un’onda anomala o un qualsiasi altro sintomo dei più sotterranei, profondi e inevitabili moti della crosta terrestre e della tettonica a zolle, la maggior parte dell’opinione pubblica e delle classi “dirigenti” continuerà ad ignorare la spaventosa onda finanziaria che già ha contribuito a spazzare via numerose società [...]]]> di Sandro Moiso

Sergio Bologna, Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale, DeriveApprodi 2017, pp. 206, € 18,00

Mentre molti turisti, sdraiati sotto gli ombrelloni dalle isole greche al Sud Est asiatico, nel corso dell’estate si sforzeranno di scrutare l’orizzonte marino oppure il bagnasciuga senza dare nell’occhio, nel timore di scorgere un’onda anomala o un qualsiasi altro sintomo dei più sotterranei, profondi e inevitabili moti della crosta terrestre e della tettonica a zolle, la maggior parte dell’opinione pubblica e delle classi “dirigenti” continuerà ad ignorare la spaventosa onda finanziaria che già ha contribuito a spazzare via numerose società di navigazione e banche e che si appresta a travolgere l’intera economia mondiale se non sarà adeguatamente affrontata.

Un’onda gigantesca che non si accontenterà, come ai tempi dell’esplosione del vulcano dell’isola di Santorini tra il 1627 e il 1600 a.c., di spazzare l’Arcipelago Egeo e il mare Mediterraneo, ma autentici colossi della finanza quali la Deutsche Bank, in confronto alla quale il colosso di Rodi non poteva costituire altro che un misero e impotente nano.
Contro questo pericolo, apparentemente invisibile e sicuramente sottovalutato, ci mette in guardia l’ultima raccolta di testi di Sergio Bologna, pubblicata da DeriveApprodi.

Saggista, consulente nel settore dei trasporti e della logistica, ricercatore ed insegnante universitario, attualmente Presidente dell’Agenzia Imprenditoriale Operatori Marittimi (A.I.O.M.) di Trieste, Sergio Bologna non rifiuta nemmeno di essere definito come un “vecchio estremista di sinistra”.
In cotante vesti, per una volta, egli non si occupa però direttamente di quel milione e mezzo di uomini che a bordo della flotta mercantile mondiale costituiscono la forza lavoro invisibile dalla quale noi tutti dipendiamo.1

E non vuole essere lui, in prima persona, a ripetere per una sorta di vizio congenito le malefatte del capitalismo. No, ce lo dice l’autore stesso, saranno “loro, uomini della City, manager d’impresa, noti guru del settore, funzionari con responsabilità istituzionale” a rivelare, attraverso la miriade di pubblicazioni, blog, newsletter specialistiche e dichiarazioni ufficiali di soggetti istituzionali consultati dall’autore, l’autentico baratro economico-finanziario creato dal gigantismo speculativo e tecnologico nel settore dello shipping e della logistica marittima e portuale.

In otto articoli, scritti in differenti occasioni e mai pubblicati prima in forma cartacea, e con un’Appendice che raccoglie estratti sia dal documento sui porti della Corte dei Conti Europea che dal Rapporto ufficiale sull’incidente occorso alla nave CSCL Indian Ocean in arrivo al porto di Amburgo, insieme a tre interviste a Gian Enzo Duci (sul mercato mondiale dei marittimi), Mario Sommariva (dell’Agenzia del Lavoro del porto di Trieste) e Roberto Prever (sulla progettazione delle navi traghetto) oltre a una ricostruzione della storia della logistica curata da Pier Paolo Poggio, Sergio Bologna dimostra come gli investimenti finanziari in progetti caratterizzati dal gigantismo, sia nelle previsioni economiche che dei mezzi destinati a sostenerle, abbia portato ad una situazione di crisi in cui, nonostante gli enormi fatturati, i profitti siano ormai nettamente inferiori alle perdite di esercizio per gli investitori.

La prima cosa che colpisce, tra i dati riportati dal testo, è che il sorgente ed eclatante capitalismo orientale non va meglio di quello occidentale. Parafrasando e rovesciando di significato una vecchia canzone dei Jefferson Airplane: Things aren’t better in the East. Anzi…
E’ proprio dal fallimento dell’importantissima compagnia marittima sudcoreana Hanjin che prende infatti il via la ricerca e l’analisi delle prospettive, drammatiche del commercio marittimo mondiale. In particolare di quello basato sui container e sulle navi porta-container.

Il fallimento di Hanjin e le vicissitudini di tante altre compagnie del Far East, da Cosco a Nippon Yusei Kaisha, da K Line a Hyundai Merchant Marine, quelle dei cantieri sudcoreani Daewoo e Stx, dei cantieri cinesi e giapponesi, squarciano il velo su un capitalismo asiatico di cui avevamo una visione mitologica, lo ritenevamo aggressivo ma sagace, invece si rivela di una fragilità preoccupante, tamponata solo dagli aiuti di Stato, e piena di personaggi senza scrupoli, capaci di mandare all’aria imperi industriali costruiti da uomini venuti su dal niente. Hanjin, come Korean Air, è stat fondata dal signor Cho Choong Hoong, che ha cominciato da solo, con un camion, portando roba per l’esercito americano nella Corea del dopoguerra. Ha costruito una conglomerata, un caebol, da 20 miliardi di dollari, lasciandola ai quattro figli. A Cho Yang Ho è toccata Korean Air, a Cho Soo Ho è toccata Hanjin. Quando questi muore di cancro nel 2006 gli subentra la moglie, la bella Choi Eun-young ed è lei che si presenta, piagnucolante e contrita, davanti alla commissione di inchiesta sul fallimento della compagnia: «Quando mi sono trovata in mano questa società, alla morte di mio marito, sapevo solo di fornelli e di cucina!»2

Ma, alle spalle della narrazione “famigliare”, va anche intravista l’azione dell’uomo in cui sono state messe le redini della società dopo la dichiarazione di fallimento: “Tae-Soo Seok, 61 anni ben portati, Master in Business Administration al Mit di Boston. Uno di quelli ai quali insegnano che il primo dovere di un manager è fare gli interessi dagli azionisti, non dell’azienda.
E tanto meno dei dipendenti, dei lavoratori e di tutti coloro che, grandi e piccini, possono dipendere dalla stessa e dai suoi servizi.

Da questo punto di vista le vicende della Hanjiin diventano paradigmatiche per le conseguenze che una crisi globale del trasporto marittimo potrebbe causare sull’intera economia mondiale: enormi navi porta-container disperse sugli oceani in attesa di conoscere la loro eventuale (ultima?) destinazione; migliaia di uomini imbarcati senza sapere quando per loro sarà possibile sbarcare o ricevere lo stipendio; merci (spesso deperibili) in attesa di essere sbarcate ed inviate a destinazione oppure imbarcate su navi che non arriveranno mai; altre navi ormeggiate al largo di porti già intasati senza conoscere se e quando potranno essere scaricate o caricate; porti bloccati da migliaia di container di cui non si sa più se saranno imbarcati e da chi; fornitori e clienti che vedono la loro merce immobilizzata in scali giganteschi, su moli resi inagibili da code infinite di camion ed autotrasportatori in attesa di ritirarle o consegnarle. Da Anversa agli scali mediterranei, dagli Stati Uniti ai porti asiatici.

Il disastro è servito, a dimostrazione che “il capitalismo asiatico ha recepito e ingrandito tutti i difetti e le tare del capitalismo occidentale. E ci fa sorridere l’idea che tanti attori importanti del nostro mondo economico e politico ripongano nei rapporti commerciali e finanziari con il Far East, ma soprattutto con la Cina, una fiducia incrollabile per le sorti magnifiche e progressive dell’Italia e dell’Europa. Per la leggendaria Via della Seta oggi non arrivano spezie e broccati preziosi ma calz e reggiseni, a due euro il pacco da dieci pezzi”.

Ora, senza continuare a citare e riassumere un testo di per sé interessantissimo e stimolante, ciò che colpisce ancora di più è la mania di gigantismo che sembra avere colpito un capitalismo, a questo punto potremmo dire mondiale, che cerca di sostituire la mancata accumulazione di profitti sul medio e lungo periodo con speculazioni destinate a impianti, opere e costruzioni faraoniche il cui fine ultimo sembra essere, spesso, a dare l’idea della crescita economica più che a realizzarla.

Vale per l’utilizzo dei container e delle autentiche città galleggianti destinate a trasportarli, vale per gli Expo e le Olimpiadi di vario genere (invernali e no) e, anche, per i progetti riguardanti l’Alta Velocità ferroviaria.3 Fallimenti assicurati e introiti giganteschi per pochi, frutto dell’autentico ladrocinio operato sulle risorse della società. Risorse destinate ad essere progressivamente prosciugate in nome del profitto immediato di pochissimi manager ed azionisti, le cui azioni sono destinate a ricadere negativamente non solo sulla generazione presente ma anche su quelle future.

Un impoverimento generalizzato, accelerato e progressivo che se non vedrà le grandi aziende e gli Stati, come suggeriscono Bologna ed altri esperti del settore, cambiare rotte e direzione non potrà far altro che precipitare sempre più milioni, o forse miliardi, di uomini e donne nella povertà o peggio ancora in una guerra di spartizione di ciò che rimane dell’economia mondiale.
Una riflessione, quest’ultima, non direttamente contenuta nel testo, ma verso la quale la visione olistica di Bologna, come viene definita nell’introduzione da Zeno D’Agostino (Presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico Orientale), conduce inevitabilmente.


  1. Per chi volesse approfondire questo discorso, oltre ai blog indicati nel testo di Bologna, sarebbe utile consultare Devi Sacchetto, FABBRICHE GALLEGGIANTI. Solitudine e sfruttamento dei nuovi marinai, Jaca Book 2009  

  2. pp. 17-18  

  3. Su questo argomento e proprio sulla linea Torino –Lione e le scuse addotte per giustificarne la realizzazione Sergio Bologna aveva già espresso un duro e documentato giudizio critico in un’intervista rilasciata per il testo di Andrea De Benedetti e Luca Rastello, Lisbona – Kiev BINARIO MORTO. Alla scoperta del corridoio 5 dell’alta velocità che non c’è, Chiarelettere 2013  

]]>