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Sergio Bologna, Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale, DeriveApprodi 2017, pp. 206, € 18,00

Mentre molti turisti, sdraiati sotto gli ombrelloni dalle isole greche al Sud Est asiatico, nel corso dell’estate si sforzeranno di scrutare l’orizzonte marino oppure il bagnasciuga senza dare nell’occhio, nel timore di scorgere un’onda anomala o un qualsiasi altro sintomo dei più sotterranei, profondi e inevitabili moti della crosta terrestre e della tettonica a zolle, la maggior parte dell’opinione pubblica e delle classi “dirigenti” continuerà ad ignorare la spaventosa onda finanziaria che già ha contribuito a spazzare via numerose società [...]]]> di Sandro Moiso

Sergio Bologna, Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale, DeriveApprodi 2017, pp. 206, € 18,00

Mentre molti turisti, sdraiati sotto gli ombrelloni dalle isole greche al Sud Est asiatico, nel corso dell’estate si sforzeranno di scrutare l’orizzonte marino oppure il bagnasciuga senza dare nell’occhio, nel timore di scorgere un’onda anomala o un qualsiasi altro sintomo dei più sotterranei, profondi e inevitabili moti della crosta terrestre e della tettonica a zolle, la maggior parte dell’opinione pubblica e delle classi “dirigenti” continuerà ad ignorare la spaventosa onda finanziaria che già ha contribuito a spazzare via numerose società di navigazione e banche e che si appresta a travolgere l’intera economia mondiale se non sarà adeguatamente affrontata.

Un’onda gigantesca che non si accontenterà, come ai tempi dell’esplosione del vulcano dell’isola di Santorini tra il 1627 e il 1600 a.c., di spazzare l’Arcipelago Egeo e il mare Mediterraneo, ma autentici colossi della finanza quali la Deutsche Bank, in confronto alla quale il colosso di Rodi non poteva costituire altro che un misero e impotente nano.
Contro questo pericolo, apparentemente invisibile e sicuramente sottovalutato, ci mette in guardia l’ultima raccolta di testi di Sergio Bologna, pubblicata da DeriveApprodi.

Saggista, consulente nel settore dei trasporti e della logistica, ricercatore ed insegnante universitario, attualmente Presidente dell’Agenzia Imprenditoriale Operatori Marittimi (A.I.O.M.) di Trieste, Sergio Bologna non rifiuta nemmeno di essere definito come un “vecchio estremista di sinistra”.
In cotante vesti, per una volta, egli non si occupa però direttamente di quel milione e mezzo di uomini che a bordo della flotta mercantile mondiale costituiscono la forza lavoro invisibile dalla quale noi tutti dipendiamo.1

E non vuole essere lui, in prima persona, a ripetere per una sorta di vizio congenito le malefatte del capitalismo. No, ce lo dice l’autore stesso, saranno “loro, uomini della City, manager d’impresa, noti guru del settore, funzionari con responsabilità istituzionale” a rivelare, attraverso la miriade di pubblicazioni, blog, newsletter specialistiche e dichiarazioni ufficiali di soggetti istituzionali consultati dall’autore, l’autentico baratro economico-finanziario creato dal gigantismo speculativo e tecnologico nel settore dello shipping e della logistica marittima e portuale.

In otto articoli, scritti in differenti occasioni e mai pubblicati prima in forma cartacea, e con un’Appendice che raccoglie estratti sia dal documento sui porti della Corte dei Conti Europea che dal Rapporto ufficiale sull’incidente occorso alla nave CSCL Indian Ocean in arrivo al porto di Amburgo, insieme a tre interviste a Gian Enzo Duci (sul mercato mondiale dei marittimi), Mario Sommariva (dell’Agenzia del Lavoro del porto di Trieste) e Roberto Prever (sulla progettazione delle navi traghetto) oltre a una ricostruzione della storia della logistica curata da Pier Paolo Poggio, Sergio Bologna dimostra come gli investimenti finanziari in progetti caratterizzati dal gigantismo, sia nelle previsioni economiche che dei mezzi destinati a sostenerle, abbia portato ad una situazione di crisi in cui, nonostante gli enormi fatturati, i profitti siano ormai nettamente inferiori alle perdite di esercizio per gli investitori.

La prima cosa che colpisce, tra i dati riportati dal testo, è che il sorgente ed eclatante capitalismo orientale non va meglio di quello occidentale. Parafrasando e rovesciando di significato una vecchia canzone dei Jefferson Airplane: Things aren’t better in the East. Anzi…
E’ proprio dal fallimento dell’importantissima compagnia marittima sudcoreana Hanjin che prende infatti il via la ricerca e l’analisi delle prospettive, drammatiche del commercio marittimo mondiale. In particolare di quello basato sui container e sulle navi porta-container.

Il fallimento di Hanjin e le vicissitudini di tante altre compagnie del Far East, da Cosco a Nippon Yusei Kaisha, da K Line a Hyundai Merchant Marine, quelle dei cantieri sudcoreani Daewoo e Stx, dei cantieri cinesi e giapponesi, squarciano il velo su un capitalismo asiatico di cui avevamo una visione mitologica, lo ritenevamo aggressivo ma sagace, invece si rivela di una fragilità preoccupante, tamponata solo dagli aiuti di Stato, e piena di personaggi senza scrupoli, capaci di mandare all’aria imperi industriali costruiti da uomini venuti su dal niente. Hanjin, come Korean Air, è stat fondata dal signor Cho Choong Hoong, che ha cominciato da solo, con un camion, portando roba per l’esercito americano nella Corea del dopoguerra. Ha costruito una conglomerata, un caebol, da 20 miliardi di dollari, lasciandola ai quattro figli. A Cho Yang Ho è toccata Korean Air, a Cho Soo Ho è toccata Hanjin. Quando questi muore di cancro nel 2006 gli subentra la moglie, la bella Choi Eun-young ed è lei che si presenta, piagnucolante e contrita, davanti alla commissione di inchiesta sul fallimento della compagnia: «Quando mi sono trovata in mano questa società, alla morte di mio marito, sapevo solo di fornelli e di cucina!»2

Ma, alle spalle della narrazione “famigliare”, va anche intravista l’azione dell’uomo in cui sono state messe le redini della società dopo la dichiarazione di fallimento: “Tae-Soo Seok, 61 anni ben portati, Master in Business Administration al Mit di Boston. Uno di quelli ai quali insegnano che il primo dovere di un manager è fare gli interessi dagli azionisti, non dell’azienda.
E tanto meno dei dipendenti, dei lavoratori e di tutti coloro che, grandi e piccini, possono dipendere dalla stessa e dai suoi servizi.

Da questo punto di vista le vicende della Hanjiin diventano paradigmatiche per le conseguenze che una crisi globale del trasporto marittimo potrebbe causare sull’intera economia mondiale: enormi navi porta-container disperse sugli oceani in attesa di conoscere la loro eventuale (ultima?) destinazione; migliaia di uomini imbarcati senza sapere quando per loro sarà possibile sbarcare o ricevere lo stipendio; merci (spesso deperibili) in attesa di essere sbarcate ed inviate a destinazione oppure imbarcate su navi che non arriveranno mai; altre navi ormeggiate al largo di porti già intasati senza conoscere se e quando potranno essere scaricate o caricate; porti bloccati da migliaia di container di cui non si sa più se saranno imbarcati e da chi; fornitori e clienti che vedono la loro merce immobilizzata in scali giganteschi, su moli resi inagibili da code infinite di camion ed autotrasportatori in attesa di ritirarle o consegnarle. Da Anversa agli scali mediterranei, dagli Stati Uniti ai porti asiatici.

Il disastro è servito, a dimostrazione che “il capitalismo asiatico ha recepito e ingrandito tutti i difetti e le tare del capitalismo occidentale. E ci fa sorridere l’idea che tanti attori importanti del nostro mondo economico e politico ripongano nei rapporti commerciali e finanziari con il Far East, ma soprattutto con la Cina, una fiducia incrollabile per le sorti magnifiche e progressive dell’Italia e dell’Europa. Per la leggendaria Via della Seta oggi non arrivano spezie e broccati preziosi ma calz e reggiseni, a due euro il pacco da dieci pezzi”.

Ora, senza continuare a citare e riassumere un testo di per sé interessantissimo e stimolante, ciò che colpisce ancora di più è la mania di gigantismo che sembra avere colpito un capitalismo, a questo punto potremmo dire mondiale, che cerca di sostituire la mancata accumulazione di profitti sul medio e lungo periodo con speculazioni destinate a impianti, opere e costruzioni faraoniche il cui fine ultimo sembra essere, spesso, a dare l’idea della crescita economica più che a realizzarla.

Vale per l’utilizzo dei container e delle autentiche città galleggianti destinate a trasportarli, vale per gli Expo e le Olimpiadi di vario genere (invernali e no) e, anche, per i progetti riguardanti l’Alta Velocità ferroviaria.3 Fallimenti assicurati e introiti giganteschi per pochi, frutto dell’autentico ladrocinio operato sulle risorse della società. Risorse destinate ad essere progressivamente prosciugate in nome del profitto immediato di pochissimi manager ed azionisti, le cui azioni sono destinate a ricadere negativamente non solo sulla generazione presente ma anche su quelle future.

Un impoverimento generalizzato, accelerato e progressivo che se non vedrà le grandi aziende e gli Stati, come suggeriscono Bologna ed altri esperti del settore, cambiare rotte e direzione non potrà far altro che precipitare sempre più milioni, o forse miliardi, di uomini e donne nella povertà o peggio ancora in una guerra di spartizione di ciò che rimane dell’economia mondiale.
Una riflessione, quest’ultima, non direttamente contenuta nel testo, ma verso la quale la visione olistica di Bologna, come viene definita nell’introduzione da Zeno D’Agostino (Presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico Orientale), conduce inevitabilmente.


  1. Per chi volesse approfondire questo discorso, oltre ai blog indicati nel testo di Bologna, sarebbe utile consultare Devi Sacchetto, FABBRICHE GALLEGGIANTI. Solitudine e sfruttamento dei nuovi marinai, Jaca Book 2009  

  2. pp. 17-18  

  3. Su questo argomento e proprio sulla linea Torino –Lione e le scuse addotte per giustificarne la realizzazione Sergio Bologna aveva già espresso un duro e documentato giudizio critico in un’intervista rilasciata per il testo di Andrea De Benedetti e Luca Rastello, Lisbona – Kiev BINARIO MORTO. Alla scoperta del corridoio 5 dell’alta velocità che non c’è, Chiarelettere 2013  

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