conformismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 23:38:11 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’insopportabile domino delle cose nella noiosa democrazia-mercato https://www.carmillaonline.com/2021/06/08/linsopportabile-domino-delle-cose-nella-democrazia-mercato/ Tue, 08 Jun 2021 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66589 di Gioacchino Toni

Gilles Châtelet, Vivere e pensare come porci. L’istigazione all’invidia e alla noia nelle democrazie-mercato, a cura di Mimmo Pichierri, Meltemi, Milano, 2021, pp. 120, € 15,00

Ad oltre due decenni di distanza dalla sua uscita in Francia nel 1998 e dopo una sua prima pubblicazione in Italia nel 2002 per i tipi di Arcana, arriva in questi giorni nelle librerie italiane una nuova edizione di quello che il curatore del volume definisce il punto d’arrivo di quel percorso personale condotto da Gilles Châtelet «all’insegna dell’insofferenza verso il dominio delle cose [...]]]> di Gioacchino Toni

Gilles Châtelet, Vivere e pensare come porci. L’istigazione all’invidia e alla noia nelle democrazie-mercato, a cura di Mimmo Pichierri, Meltemi, Milano, 2021, pp. 120, € 15,00

Ad oltre due decenni di distanza dalla sua uscita in Francia nel 1998 e dopo una sua prima pubblicazione in Italia nel 2002 per i tipi di Arcana, arriva in questi giorni nelle librerie italiane una nuova edizione di quello che il curatore del volume definisce il punto d’arrivo di quel percorso personale condotto da Gilles Châtelet «all’insegna dell’insofferenza verso il dominio delle cose e di una tendenza irrefrenabile alla rivolta, coniugata con un fortissimo spirito di resistenza nei confronti di ogni forma di irreggimentazione, sia che abbia luogo a livello sociale e politico, oppure istituzionale, ma anche a livello filosofico ed epistemologico» (p. 27).

Come sottolinea lo stesso Châtelet, il titolo dell’opera – Vivre et penser comme des porcs – deriva dal luogo comune che vuole nel suino l’esempio per eccellenza dell’ingordigia, del consumo alimentare smodato, senza limiti che è precisamente quello, secondo il francese, che è divenuto il consumatore contemporaneo: un essere in preda ad una foga bulimica priva di remore e confini merceologici ed etici.

Si tratta di un testo indubbiamente ancorato all’universo francese degli anni Ottanta e Novanta e che, in alcuni casi, può risultare non immediatamente comprensibile a chi non ne conosce le specificità e i protagonisti, ma non è difficile cogliere nei bersagli che Châtelet prende di mira qualcosa di più esteso e che ha i suoi corrispettivi anche in altri paesi, Italia compresa, a partire dalla crescente pervasività dell’immaginario veicolato dalle televisioni commerciali che hanno contribuito e non poco ad affievolire la conflittualità dei decenni precedenti ed a tirare la volata della ristrutturazione economico-politica e culturale in atto in Europa. Come sottolinea Pichierri nella prefazione al volume, non è difficile riscontrare analogie tra le modalità con cui tali cambiamenti sono stati portati avanti nella Francia di Mitterrand, nell’Italia di Craxi e nel Regno Unito di Tony Blair.

I protagonisti dell’ultima stagione di partecipazione politica del Novecento sono poi stati anche gli autori della sua normalizzazione e del suo passaggio all’era del mercato globale integrato, che non lascia più alcuno spicchio di esistenza al di fuori della transazione monetaria totale; non è un caso, lo si ricordava prima, che i grandi condottieri europei già citati – Mitterrand, Craxi e Blair – appartengano tutti all’area della cosiddetta sinistra riformista, o autonomista, come si usava dire in Italia per marcare l’orgogliosa indipendenza dalle nefandezze del PCI, ancora sospettato di nostalgie sovietiche, e che, come ricorda Châtelet, si definisce da subito post sinistra; ancora ricordiamo la “Milano da bere”, esempio concreto di fine della storia, in cui una classe dirigente nuova, ipermoderna (postmoderna?) e disinvolta si lanciava in felici collusioni con imprenditori il cui irresistibile successo aveva un’origine quanto meno opaca […], facendosi portatrice del nuovo e del bello, della gioia ludica infinita [supportata] da una potenza di fuoco nel campo dei media che mai in Europa erano stati appannaggio di gruppi privati (pp. 12-13).

Sembra proprio che, come sostenuto da Gianni Agnelli, occorresse rivolgersi alla sinistra per attuare riforme di destra. Così in effetti è stato. Questa post sinistra italiana, francese e inglese (in quest’ultimo caso proseguendo e portando a compimento quanto iniziato dal thatcherismo), si è prestata a quella che Châtelet ha definito la Controriforma liberale, quella «nuova ideologia trionfante del neoliberismo» – scrive Pichierri – «i cui riferimenti colti sono i due massimi esponenti della scuola marginalista austriaca delle scienze sociali: Ludwig von Mises, che ha inventato il termine libertariano, e Friedrich August von Hayek, padre dell’anarco-capitalismo (guarda caso due nobili appartenenti a famiglie di grandissime influenze accademiche, specie il secondo)» (p. 14).

Ecco dunque quel passaggio dall’ottimismo libertario al cinismo libertariano che Châtelet non esita a definire come vero e proprio processo di putrefazione che conduce, nuovamente, alla cieca fede nella capacità del mercato di autoregolarsi sacrificando, se necessario, la vita di milioni di persone.

Si è così realizzata davvero un’autoregolazione del controllo sociale che non ha quasi più bisogno neppure della forza pubblica per reprimere il dissenso, il quale viene invece soppresso nella culla delle famiglie nucleari; in questo modo, afferma Châtelet, si è riusciti ad addomesticare l’uomo ordinario trasformandolo “in una creatura statistica”, ossia l’uomo medio che fa parlare i sondaggi, con il risultato ulteriore che un dato oggettivo viene ad assumere forza normativa, nel senso che il cittadino-campione, atomo produttore-consumatore di beni e servizi socio-politici, diventa il modello a cui tendere, il riferimento da imitare a tutti i costi, senza più nemmeno la parvenza di un’alternativa di vita. In questo passaggio si registra comunque un progresso, sottolinea con amara ironia Châtelet: all’alba della società di massa, i figli delle classi lavoratrici erano considerati carne da cannone, buoni solo per essere mandati dalle trincee allo sbaraglio contro le linee di fuoco del nemico […], mentre alla fine del secolo la mutazione conduce a (e consente di) trattarli come carne da consenso, vera e propria pasta da informare, dove il verbo informare è da intendersi nella sua doppia accezione, ossia nel senso di riempire di informazioni ma anche, e complementarmente, nel senso di dare forma, di plasmare, come si fa con la plastilina o con l’impasto per il pane. Comincia così a prendere forma il miracolo: la materia prima dell’impasto consensuale viene abilmente manipolata fino a trasformarsi quasi naturalmente in unanimità populista delle maggioranze silenziose. La sinergia tra il populismo classico e l’ondata yuppie ha quindi generato il tecno-populismo, addirittura anni luce prima dell’avvento dei social network, vero protagonista della voracità postmoderna, dedita senza sosta alla ricerca del best of dei beni e servizi di tutto il pianeta per ingozzarcisi fino a scoppiare, e allo stesso tempo altera e spocchiosa nel riempire i social della sua acredine ignorante che tutto giudica e tutto valuta, nell’era dell’uno vale uno, dove ogni imbecille si permette di assumere le pose ieratiche di un Savonarola prêt-à-porter (pp. 16-17).

Nel prendere in esame le modalità con cui negli anni Ottanta e Novanta è stata fomentata ostilità nei confronti di ogni benché minima visione critica nei confronti delle imperanti dinamiche economico-politiche, Châtelet tratteggia quello che diverrà il tecno-populismo espresso e diffuso dalle tastiere dei social e dai politici più intraprendenti del nuovo millennio. «L’intimazione è chiara», sintetizza Pichierri nella prefazione al volume: «bisogna rifiutare come la peste ogni rimasuglio di tensione utopica e bandire qualunque riferimento a Marx e alle contraddizioni genocide del capitalismo, al punto che nel settembre del 2020, nel pieno di una pandemia mondiale, il dipartimento per l’Istruzione del Regno Unito ha ritenuto prioritario inserire nelle proprie linee guida, rivolte a insegnanti e dirigenti scolastici, un indirizzo che bandisce nella scuola ogni riferimento all’anticapitalismo, classificato come “posizione politica estrema” al pari dell’antisemitismo, dei nemici della libertà di espressione e di chi promuove attività illegali!» (p. 20).

Dietro all’insistenza con cui si indica ai rancorosi da tastiera il nemico di turno – “chiudere i porti!”, “serrate i confini”, sono i mantra ripetuti – l’obiettivo, sottolinea Pichierri, pare essere quello di

trasformare i popoli occidentali in funzioni-auditel servili e provinciali, con buona pace delle loro élite intellettuali ormai ridotte a vile manovalanza della Mano Invisibile, che anima queste fucine di facilità mentale che sono diventate le democrazie-mercato. La loro funzione è ormai solo quella di costruire centinaia di milioni di psicologie di consumatori-campione, mentre li vediamo divorati dall’invidia e dalla brama – anche loro, ma oserei dire soprattutto loro, così frustrati dalla primazia della gente di spettacolo – di accaparrarsi ai prezzi più bassi tutti quei graziosi giocattolini che gravitano sul mercato mondiale. “dovete ottimizzare, massimizzare così come respirate!”: è questo lo slogan della classe media mondiale, che vede ormai a portata di mano il prodotto più maturo della Fine della Storia: la realizzazione di una yogurtiera per la produzione di classe media, che gestisce i più infimi fermenti mentali ed affettivi dei nostri protozoi sociali, proprio mentre si spaccia questo volgare capolinea della storia come il completo trionfo dell’individuo. Ma si tratta purtroppo di una caricatura fraudolenta dell’individuo, effetto di un’illusione ottica che spaccia la coazione all’invidia e al conformismo per libertà e autonomia, e che assomiglia più allo spettatore passivo intossicato dai reality show che ad una effettiva autoposizione in un mondo che funziona sulla produzione in serie, di qualunque cosa, fosse anche la commozione per fatti banali ma che riguardano persone che in qualche modo sono al centro dei riflettori (p. 22-23)

La macchina critica messa a punto da Châtelet, contraddistinta da rigore analitico e polemica incendiaria, lontana mille miglia dal pensiero debole che ha infestato gli anni Ottanta e Novanta, mira dritta al cuore della «stanca consensualità del pensiero contemporaneo». La lettura di Vivere e pensare come porci rappresenta una boccata di ossigeno utile nell’asfissia caratterizzante l’attualità dei coprifuoco, del distanziamento sociale e della chiamata all’unità nei confronti di nemici costruiti e propagati da immaginari tossici.

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Contro il conformismo, la massificazione e l’economizzazione crescente: un dialogo sugli antichi e sui moderni https://www.carmillaonline.com/2016/09/18/conformismo-la-massificazione-leconomizzazione-crescente-un-dialogo-sugli-antichi-sui-moderni/ Sat, 17 Sep 2016 22:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33203 di Paolo Lago

oracoliCarla Benedetti, Maurizio Bettini, Oracoli che sbagliano. Un dialogo sugli antichi e sui moderni. Modi di pensare e di agire che crediamo superati ma che hanno ancora un valore per noi oggi, Effigie Il Primo Amore, Milano, 2016, pp. 194, euro 12,00

Da un punto di vista formale, l’aspetto sicuramente più interessante di Oracoli che sbagliano è la veste dialogica: il dialogo, come si sa, è una forma letteraria utilizzata, soprattutto nell’antichità, per disquisire attorno alle tematiche più svariate, siano esse di natura filosofica o politica (basti solo pensare ai [...]]]> di Paolo Lago

oracoliCarla Benedetti, Maurizio Bettini, Oracoli che sbagliano. Un dialogo sugli antichi e sui moderni. Modi di pensare e di agire che crediamo superati ma che hanno ancora un valore per noi oggi, Effigie Il Primo Amore, Milano, 2016, pp. 194, euro 12,00

Da un punto di vista formale, l’aspetto sicuramente più interessante di Oracoli che sbagliano è la veste dialogica: il dialogo, come si sa, è una forma letteraria utilizzata, soprattutto nell’antichità, per disquisire attorno alle tematiche più svariate, siano esse di natura filosofica o politica (basti solo pensare ai Dialoghi di Platone), letteraria o scientifica. Niente di meglio di un dialogo perciò, per disquisire e riflettere su cosa ancora possiamo assimilare del mondo antico in un’epoca ‘di angoscia’ come la nostra. Il libro è infatti costituito da un lungo dialogo che si dipana attraverso temi e problemi della società contemporanea messa a confronto con quella antica: i due dialoganti sono Carla Benedetti, studiosa di letteratura moderna e contemporanea e Maurizio Bettini, antropologo e studioso di letterature classiche, i quali hanno deciso di pubblicare i loro dialoghi svoltisi nell’autunno del 2013 all’Università di Berkeley, in California.

Durante una presentazione del libro assieme a Bettini, lo scorso luglio a Livorno nell’ambito di Eden. Parole e musica alla Terrazza Mascagni, Benedetti afferma che la nostra è un’epoca segnata dall’instabilità, dal terrorismo, dalle guerre, dalle migrazioni. Le sue parole, nella quiete della terrazza Mascagni affacciata sul mare e avvolta in quel momento da un magico, lunghissimo tramonto, risuonano come omina inquietanti: di fronte a noi, infatti, c’è lo spettro concreto di un pianeta che, a causa dello sfruttamento indiscriminato delle materie prime, diventerà inabitabile; viviamo in un’epoca storica molto particolare che ha superato la modernità e tutti i suoi presupposti di pseudo sicurezza. In questo nostro navigare a vista in mezzo alla nebbia si pretende di spiegare tutto il mondo attraverso l’economia.

Gli oracoli che sbagliano sono i nostri economisti che pretendono di interpretare il mondo esclusivamente attraverso la lente dell’economia. Come afferma Maurizio Bettini durante il dialogo «quello del mercato è diventato un modello cognitivo primario»: tutto è misurato attraverso un filtro economico e produttivo, perfino la cultura e il sapere. L’introduzione nelle università di termini come «prodotti», «crediti», «debiti», la stessa «valutazione» universitaria (che, non a caso, deriva da valuta) e, si potrebbe aggiungere, anche quella scolastica, divenuta tale per mezzo di una recente riforma ricalcata su un modello aziendale e manageriale: tutto è improntato a un modello economico. Come amaramente dice Benedetti, in ambito accademico non viene premiata l’originalità, ma solo la riproduzione dell’esistente, poiché «viviamo in una società che premia il conformismo» (p. 127). Del resto, l’ostentata ‘economizzazione’ del mondo era stata già rilevata da uno studioso del calibro di Serge Latouche, teorico della decrescita; infatti, durante un incontro con Anselm Jappe (recentemente tradotto in italiano per Mimesis: A. Jappe, S. Latouche, Uscire dall’economia), Latouche affermava che l’economia ha sostituito la religione come immaginario dominante nella nostra epoca: oggi sono le banche a dominare le città, non più certo le chiese. La stessa equiparazione dell’economia alla religione viene attuata da Benedetti e Bettini: come in epoca antica ci si affidava agli oracoli divini, così adesso ci si affida alle previsioni e alle analisi degli economisti («Il linguaggio dell’economia è oggi dilagante, ha invaso molti ambiti sociali e di lavoro, e ormai, come dicevamo, viene usato per descrivere molti fenomeni del mondo contemporaneo. E poiché tu non capisci bene i meccanismi dell’economia, tutte queste metafore infondono passività. Erano meglio gli dèi, davvero!», Benedetti, p. 129).

Il dialogo fra i due studiosi procede attraverso temi e concetti che investono nel profondo la società contemporanea. Si comincia col concetto di metamorfosi: mentre per la società antica la metamorfosi era possibile, perché il divino e la magia le lasciavano uno spazio (basti pensare alle Metamorfosi di Ovidio ma anche ai numerosi sogni di metamorfosi raccolti nell’Oneirocritica di Artemidoro), per noi la metamorfosi è esclusa, abbiamo un’idea dell’umano molto più fissa e chiusa di quella degli antichi. Benedetti cita il pensiero dell’astrofisico Stephen Hawking, secondo il quale, «l’aggressività, che è inscritta nel DNA umano, ci porterà a guerre nucleari e a un’inevitabile distruzione dell’habitat. L’unica cosa che possiamo sperare è che nel frattempo – nel poco tempo che ancora ci resta prima della catastrofe – le nostre conoscenze scientifiche e tecnologiche progrediscano al punto da permetterci di scoprire e colonizzare altri pianeti» (p. 16); infatti, «l’idea che si possano cambiare certe strutture mentali, o quanto meno modificarle, correggerle, non sfiora neppure la mente. In questo crederci destinati alla fissità dell’umano così come noi lo conosciamo o crediamo di conoscerlo, la metamorfosi è esclusa» (p. 17).

Legato alla metamorfosi è lo stesso concetto di natura umana: come afferma Bettini, è assai importante quel processo «a cui ogni studioso dovrebbe sottoporre prima di tutto se stesso, e poi anche l’oggetto dei propri studi, che si chiama de-naturalizzazione dei pregiudizi. Mi correggo, non solo gli studiosi, ogni persona che crede nel pensiero critico dovrebbe farlo. Perché il meccanismo contrario, ossia la naturalizzazione del pregiudizio, è una delle componenti più attive nelle costruzioni culturali» (p. 17). Quelli che vengono definiti come naturali sono in realtà dei comportamenti derivati da costrutti culturali canonizzati dalla tradizione: perché, ad esempio, si dovrebbe pensare che l’Africa, perché più economicamente arretrata, sia più vicina alla «natura» rispetto all’Europa? Oppure che l’omosessualità sia contro natura?

Un altro concetto assai importante è quello di identità: nelle società moderne e contemporanee gli individui sono ‘schedati’ e controllati attraverso il meccanismo della carta d’identità; in latino classico, come ricorda Bettini, non esiste la parola identità: ci sono cognitio o notitia, ma sono termini che designano l’essere riconosciuti da altri (in quanto posseggono in sé la radice di nosco, «riconoscere»), non un qualcosa di proprio e personale che ci si porta dentro. Si pensi all’Amphitruo di Plauto, in cui il servo Sosia si ritrova di fronte a un suo doppio (in quanto Mercurio ne ha assunto le sembianze): il suo pensiero scivola subito nell’idea che qualcuno lo abbia trasformato, non che abbia perso la propria identità. Presso gli antichi, perciò, l’identità personale era più fluida rispetto alla modernità, in cui ogni individuo appare incasellato rigidamente all’interno di meccanismi identitari, come nella società disciplinare delineata da Michel Foucault. Addirittura, oggi le identità vengono costruite dall’esterno a uso e consumo del turista: Benedetti afferma infatti che i Dogon, come scrive Marco Aime nel suo saggio Diario Dogon, hanno assunto un’identità imposta loro da un antropologo francese, Marcel Griaule, che ne Il Dio d’acqua, li fa apparire come dei filosofi delle caverne, dediti all’osservazione del cielo e dell’universo. Vengono ripresi dei tratti che sono poi consegnati all’immaginario collettivo: sono proprio questi tratti caratteriali che il turista si aspetta quando si reca in Mali per visitarlo. Si tratta di stereotipi culturali, causati dalla massificazione che investe la contemporaneità: come quando il turista va a Venezia – aggiunge Bettini – e si aspetta di trovare il gondoliere vestito in un certo modo, il quale deve cantare un certo tipo di canzoni, canzoni che poi, molto spesso, sono napoletane. Lo stesso Bettini racconta di un suo viaggio in Arizona, a Tombstone, dove si svolse la famosa sfida all’O.K. Corral: «Vi si incontrano uomini che si aggirano indossando enormi cinturoni, pistole e cappelli altrettanto enormi, perché i turisti non hanno nessun interesse per Tombstone com’è, ovviamente, ma sono lì per visitare la città dove c’è stato l’O.K. Corral, vogliono quella città» (p. 45). La costruzione dell’identità dall’esterno, per fini turistici e di massa, molto si avvicina allora al fenomeno della gentrification: luoghi che un tempo erano autentici, poveri e magari anche degradati – valga per tutti l’esempio parigino di Montmartre (ma anche, nel suo piccolo, il Pigneto romano) – vengono trasformati in luoghi turistici e ‘finti’, specchio di cartapesta di ciò che furono un tempo, mentre gli immobili che li caratterizzano vengono acquistati a peso d’oro dalla nuova classe borghese imprenditoriale.

Un altro importante tema affrontato dal dialogo è «politeismi e monoteismi»: come afferma Bettini (tematica, tra l’altro, già affrontata nel suo recente saggio Elogio del politeismo), «se Greci e Romani hanno consumato violenze e carneficine, proprio come è avvenuto nelle epoche successive, non lo hanno fatto però in base a motivazioni di carattere religioso o per affermare la verità di un unico dio» (p. 47). Il dio dei monoteismi (il Cristianesimo e l’Islam) è infatti un dio unico ed esclusivo, che non ammette l’esistenza di altre divinità; le divinità dei politeismi antichi erano molteplici e potevano anche integrarsi fra di loro. Si potevano persino ‘importare’ gli dei di un’altra religione: ad esempio, molte divinità greche sono state ‘importate’ a Roma e tradotte in latino. Addirittura, i Romani istituivano parallelismi e somiglianze anche con le divinità di popolazioni estremamente lontane e ‘barbare’ come, ad esempio, i Germani. È preferibile quindi il mondo antico e il suo politeismo rispetto al monoteismo del mondo moderno che genera spargimenti di sangue proprio perché non tollera un dio diverso dal proprio.

Anche per quanto riguarda il razzismo gli antichi erano probabilmente migliori di noi moderni. Pur avendo coniato il termine «barbari» per indicare gli ‘altri da sé’ (per i Greci erano «coloro che balbettano», cioè coloro che non parlano il greco), il mondo antico non conosceva il razzismo verso i neri (gli Etiopi sono lodati come un popolo pio e molto civile): quando si parla di schiavi – dice Bettini – «non viene mai reso esplicito quale sia il colore della loro pelle» (p. 59). «Il contrario di quel che avviene oggi nei giornali, – ribatte Benedetti – dove sottolineano subito, fin dai titoli, il colore o la provenienza dell’autore di una rapina o di un omicidio: “Albanese uccide…”» (ibid.).

Per quanto riguarda i limiti della conoscenza, pare che nell’idea che l’uomo moderno ha di sé – dice Benedetti – «tutte le forze che lo determinano sembrano – anche se in realtà non lo sono – comprensibili» (p. 154). Il mondo antico, invece, «dispone di altri meccanismi di interpretazione: gli dèi, il Fato, il destino, però anche la forza che porta il nome di Tyche, la Sorte, ossia la congiunzione particolare di eventi che ha prodotto un determinato fenomeno» (Bettini, p. 148). Pensiamo anche alle mappe e alle carte geografiche, non soltanto antiche; in molte carte del Cinquecento e del Seicento, molte zone del globo erano lasciate in bianco, a rappresentare zone non ancora esplorate: «Così ti portavano subito davanti agli occhi, in evidenza, che lì c’era un limite di conoscenza» (Benedetti, p. 158). Adesso – risponde Bettini – chiunque può cercare un indirizzo su Google e visualizzarlo, come i ragazzi che crescono oggi, i quali hanno introiettata in loro l’idea «che il mondo non solo è tutto rappresentabile, ma anche tutto visibile!» (ibid.). Come – ricorda Benedetti – nel racconto di Borges, L’Aleph, dove c’è uno scrittore che ha un Aleph in cantina e su di esso può vedere rappresentato tutto il mondo: «Google street e Google map mi ricordano un Aleph» (p. 159). La rete, infatti, aggiungerei, con tutte le sue diramazioni, da Google ai social network, può dare un’illusione di libertà estrema ma, come ci ricorda il filosofo coreano Byung-Chul Han nel suo saggio La società della trasparenza, siamo tutti detenuti del panottico digitale e siamo tutti carnefici e vittima di noi stessi: «La libertà si rivela controllo» (B.-C. Han, La società della trasparenza, trad. it. di F. Buongiorno, Notettempo, Roma, 2014, p. 83).

Per concludere – e qui sta, credo, il senso profondo di questo dialogo che srotola naturalmente altre problematiche che sarebbe troppo lungo sondare in queste pagine – ciò che possiamo ancora assimilare del mondo antico e forse ciò che in esso c’è di più prezioso per noi è la sua alterità. Si può indagare il mondo antico come Lévy-Bruhl o altri famosi antropologi hanno fatto per le società «primitive»: «La cosa appassionante sta proprio qui, nel seguire i cammini di questa alterità di pensiero; nell’esplorare queste “mille diverse maniere di vita” – come già diceva Montaigne, quel grande saggio – che gli altri, gli stranieri, ci mettono sotto gli occhi» (Bettini, p. 176). In questo senso, la civiltà antica si dispone dinanzi ai nostri occhi come un grande scenario in cui nulla è scontato, in cui il magico, il misterioso, il divino, la fluidità, l’enigma si contrappongono alla massificazione, alla «cultura media» controllata da censimenti, statistiche e sondaggi, al mercato che ingloba persino la cultura, all’economia che tutto pervade, alla rigidità di modi di vedere e di pensare, alla presunzione di avere a nostra disposizione, in un semplice smartphone, l’intero mondo. Forse allora, anche per mezzo della cultura antica – e ciò è veramente prezioso – possiamo arrivare a pensare che un altro mondo è possibile, che può esistere un altro modo di vivere e di organizzare l’esistente.

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