comunitá – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Avanti barbari!/3 – Il passato vive ancora nel presente https://www.carmillaonline.com/2024/08/21/avanti-barbari-3-il-passato-vive-ancora-nel-presente/ Wed, 21 Aug 2024 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84010 di Sandro Moiso

Luciano Parinetto, Transe e dépense, edizioni Tabor/Porfido, Valsusa-Torino 2024, pp. 56, 4 euro. Starhawk, Il tempo dei roghi, Edizioni Tabor/Erbas e salude, Valsus-Sassari 2024, pp. 80, 4 euro AA.VV., La guerra delle foreste. Diggers, lotte per la terra, utopie comunitarie, Edizioni Tabor, Valsusa 2024, pp. 50, 4 euro.

Inseriti tutti e tre nella collana Bundschuh, che richiama nel nome la “Lega dello scarpone” che riunì nelle sue file i contadini insorti in Germania nel 1525, i volumetti, già precedentemente editi, nelle intenzioni dei realizzatori intendono dare inizio alle celebrazioni del cinquecentenario di una delle più grandi rivolte [...]]]> di Sandro Moiso

Luciano Parinetto, Transe e dépense, edizioni Tabor/Porfido, Valsusa-Torino 2024, pp. 56, 4 euro.
Starhawk, Il tempo dei roghi, Edizioni Tabor/Erbas e salude, Valsus-Sassari 2024, pp. 80, 4 euro
AA.VV., La guerra delle foreste. Diggers, lotte per la terra, utopie comunitarie, Edizioni Tabor, Valsusa 2024, pp. 50, 4 euro.

Inseriti tutti e tre nella collana Bundschuh, che richiama nel nome la “Lega dello scarpone” che riunì nelle sue file i contadini insorti in Germania nel 1525, i volumetti, già precedentemente editi, nelle intenzioni dei realizzatori intendono dare inizio alle celebrazioni del cinquecentenario di una delle più grandi rivolte popolari e di classe avvenute a cavallo tra Medio Evo ed Età moderna, proprio quando ebbe inizio il salto definitivo verso la società dominata dal modo di produzione capitalistico.

La rivolta di Thomas Müntzer, dei suoi seguaci contadini e delle sue conseguenze è già stata in passato oggetto di numerose ricerche storiche, riflessioni politiche e narrazioni romanzate1, ma l’insieme dei testi qui presentati, che si spingono ben al di là dei confini temporali della guerra contadina, è tenuto insieme soprattutto dalla convinzione espressa chiaramente nel testo riguardante l’esperienza dei diggers guidati da Gerrard Winstanley nell’Inghilterra della rivoluzione seicentesca.

La storia dei Diggers, che nell’Inghilterra del Seicento si opposero a enclosures e privatizzazioni occupando terre comunali per «lavorare insieme e insieme spezzare il pane», non fu che un capitolo di una guerra più grande. L’affermazione della modernità industriale, infatti, fu tutt’altro che un pacifico e lineare progresso. Al contrario, soltanto una vera e propria guerra civile, che insanguinò l’Europa per secoli, rese possibile l’imposizione della proprietà privata e del lavoro salariato, il disciplinamento dei corpi e dei territori, lo sradicamento dei diritti consuetudinari delle comunità rurali.

L’Europa, di cui troppo spesso oggi si lodano e cantano le origini cristiane, si è formata nel sangue e nelle rivolte sconfitte contro i valori che il cristianesimo, il nascente Stato moderno, l’economia di mercato e lo sfruttamento sistematico dell’uomo sull’uomo e sulla natura portavano con sé e che dovettero essere imposti a forza, a suon di repressioni, processi, torture e terrorismo organizzato dal braccio armato della Chiesa e dello Stato che ne avrebbe ereditato la funzione sia giudicante che di formazione degli uomini e delle donne, secondo dottrine del tutto estranee agli interessi materiali di questi ultimi e alle loro credenze e conoscenze.

Un autentico processo di cristianizzazione forzata e di colonizzazione che anticipò e accompagnò quello che si scateno sui popoli indigeni delle colonie successivamente all’espansione europea nelle Americhe e negli altri continenti appena “scoperti” e conquistati. Come si donmanda Luciano Parinetto nel suo testo: «Tra il ‘500 e il ‘600 la cultura del capitale si instaura in Occidente e si sviluppa, anche grazie all’accumulazione originaria permessa dalla conquista dell’America. Fra ‘500 e ‘600 dilaga (in Europa e in America) la caccia alle streghe. Vi è un rapporto tra i due eventi?»2

Evidentemente una domanda retorica che serve allo studioso per spiegare come, a partire dall’esempio tratto dai Paesi Baschi, il diavolo degli inquisitori e dei giudici dei primi anni del Seicento non fosse altro che la rappresentazione demoniaca e immateriale di processi di produzione e riproduzione della vita che sfuggivano alle logiche dell’accumulazione capitalistica, negandole e rifiutandole.

Questo diavolo dei Baschi, piuttosto, pare incarnare la stessa economia basca, nel momento in cui quella, capitalistica, della monarchia francese, la stava cancellando, con l’annessione di una piccola regione al grande Stato, che avrebbe distrutto quella originale e diversa. Il rogo delle streghe basche serve infatti alla monarchia francese per eliminare una cultura autonoma antichissima, portatrice di una economia alternativa, quanto mai diversa da quella del capitale. […] Un’economia basata sullo sperpero e non sull’accumulo e, in quanto tale, somigliante a certe economie “selvagge” 3 che i conquistatori dell’America si erano trovati davanti agli occhi fin dai tempi di Cristoforo Colombo. […] Una economia del dispendio, fiduciosa nella materna e feconda natura che tutto spreca e tutto ridona, opposta a una economia che va cancellando la natura dietro lo streben incessante all’accumulo, alla valorizzazione4.

Sarebbe stato proprio un inquisitore dell’epoca, Pierre de Lancre, consigliere del re al parlamento di Bordeaux, incaricato da Enrico IV di Francia di condurre una crociata contro le streghe del Labourd, territorio basco ai confini tra Francia e Spagna, a mettere «in rapporto gli stregati baschi e gli stregati amerindi! I Baschi sono diversi, le streghe sono diverse, gli amerindi sono diversi; il Potere impersonale di Lancre è invece normale, come normali sono le stragi che compie per mantenersi e accrescersi»5.

Si potrebbe aggiungere, in virtù del titolo scelto per questa serie di interventi e recensioni, che Baschi, streghe e amerindi sono barbari ovvero estranei al sistema sociale e culturale che si è andato affermando, con la forza, in Europa nei secoli successivi al Mille. Sistema che, al di là delle banalità di base espresse dal movimento femminista borghese attuale e da Me Too, ha visto proprio nelle conoscenze e nelle pratiche femminili, nonché nell’autonomia economica e culturale delle donne, un autentico “mostro” da estirpare a qualunque costo. Così come dimostra il terzo dei tre testi qui recensiti, quello di Starhawk, Il tempo dei roghi. Nel quale, come affermano i curatori dello stesso:

L’autrice si domanda non tanto il perché della caccia alle streghe ma piuttosto perché si sia dispiegata proprio in quel preciso momento storico (non il “buio Medioevo” ma il “luminoso Rinascimento”). Così ci conduce nei secoli XVI e XVII, i secoli della grande trasformazione, che seguono la “scoperta del nuovo mondo” e la riforma protestante, i secoli dell’affermazione dello Stato nazione, della scienza moderna e dell’economia capitalistica. Un processo che si fonda innanzitutto sull’esproprio delle terre, delle risorse comunitarie, dei saperi e dell’immaginario a esse collegati. Le donne furono le più colpite da questo cambiamento in quanto il loro ruolo di cura e di controllo sugli eventi biologici rappresentava l cuore della vita e dell’autonomia delle comunità rurali. Perciò divennero il bersaglio della nuova classe di medici e burocrati borghesi e del loro ”sapere scientifico” – rigorosamente maschile – che non poteva ammettere conoscenze e pratiche estranee al loro monopolio (proprio come la Chiesa non poteva tollerare alcuna conoscenza a sé estranea). E’ proprio a partiredalla posizione delle donne del mondo contadino depositarie, delle conoscenze legate alle erbe e ai gesti terapeutici così come ai rituali e alle credenze precristiane, che si è costruita la figura della strega. Ma è un ritratto nato nelle carte dei processi e nel sangue delle torture e dei roghi6.

L’autrice, infatti, ci dimostra come il vero e proprio assalto condotto dallo Stato e dal Capitale contro le donne intese come streghe costituì, di fatto, il grimaldello con cui fu indebolita e fatta saltare l’unità di conoscenze e pratiche delle comunità contadine nell’epoca degli espropri e delle privatizzazioni delle terre e dei saperi in nome del profitto e dell’arricchimento individuale.

Un processo che, certo, non durò un giorno ma che, più o meno coscientemente, portò all’attuale società dei saperi e delle ricchezze separate dal corpo sociale che le ha prodotte. In cui l’arricchimento del singolo individuo è diventato il segno del suo valore sociale e della su “perfezione” di stampo calvinistico, per cui il lavoro non costituisce più uno degli aspetti della vita collettiva, ma un’autentica etica cui sottomettere tutti gli altri parametri di giudizio e analisi dei risultati raggiunti.

Una trasformazione che ha completamente marcato i tempi successivi fino ad oggi, cercando di cancellare qualsiasi traccia della barbarie ancora presente in noi, anche qui in Occidente, e negli altri popoli ancora sottomessi alle logiche del Capitale e del colonialismo. Costringendoci a chiederci ancora di che cosa siamo stati espropriati e che cosa può aiutarci a resistere nella battaglia contro un nemico che è ancora in gran parte lo stesso di allora.


  1. Come ad esempio in Q (1999) di Luther Blissett/Wu Ming che non hanno mai apertamente dichiarato il grande debito nei confronti dell’Opera al nero di Marguerite Yourcenar (1968) per quanto riguarda le vicende ambientate nella città di Münster degli anabattisti guidati da Jam Matthyjs.  

  2. L. Parinetto, Transe e dépense, Tabor/porfido 2024, p. 5.  

  3. A proposito di “economie selvagge, potrebbe rivelarsi utile per il lettore la consultazione di R. Marchionatti, Gli economisti e i selvaggi. L’imperialismo della scienza economica e i suoi limiti, Bruno Mondadori editore 2008 e M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Casa editrice Valentino Bompiani, Milano 1980. 

  4. L. Parinetto, op. cit., pp. 13-14.  

  5. Ivi, p. 14.  

  6. Starhawk, Il tempo dei roghi, Tabor/Erbas e salude 2024, pp. 5-6.  

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Non bisogna mai tornare indietro, nemmeno per prendere la rincorsa https://www.carmillaonline.com/2024/04/10/mai-tornare-indietro-nemmeno-per-prendere-la-rincorsa/ Wed, 10 Apr 2024 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81795 di Sandro Moiso

City Lights e Collettivo Adespota (a cura di), Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 400, 25 euro

Per battere Franco, occorreva prima battere Companys e Caballero. Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio che sorgesse dai comitati di base dei lavoratori […]. L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia. (Manifesto dell’Union Communiste, Barcellona, giugno 1937)

Il titolo di questa [...]]]> di Sandro Moiso

City Lights e Collettivo Adespota (a cura di), Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 400, 25 euro

Per battere Franco, occorreva prima battere Companys e Caballero.
Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio che sorgesse dai comitati di base dei lavoratori […]. L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia. (Manifesto dell’Union Communiste, Barcellona, giugno 1937)

Il titolo di questa recensione, ripreso da Andrea Pazienza, serve a rendere bene l’idea del contenuto del testo appena pubblicato dalle Edizioni Colibrì e della necessaria e irrinunciabile radicalità dell’opposizione di classe al capitalismo, alle sue guerre e ai suoi sgherri fascisti, in divisa o meno che questi siano. Ma anche a ricordare, a un mese dalla sua scomparsa, Stefano Milanesi, militante NoTav e rivoluzionario, al quale questo libro sarebbe probabilmente piaciuto.

In un’epoca di ritornante e ammorbante dibattito politico e mediatico sul pericolo rappresentato dal fascismo per l’ordine democratico e il buon vivere civile, in entrambi i casi “borghesi”, la lettura dei testi contenuti nella raccolta curata dalla Calusca City Lights e dal Collettivo Adespota si rivela assolutamente necessaria, se non indispensabile ed essenziale.

Accompagnati da un lungo saggio, interessante quanto appassionato, di Gilles Dauvé (alias Jean Barrot), i diciassette testi che compongono l’appendice documentaria del volume spaziano dalle posizioni espresse da Amadeo Bordiga e dal Partito Comunista d’Italia a quelle di Errico Malatesta, dalla rivista «Bilan» a Otto Rühle, dalla critica radicale italiana ai militanti della Sinistra Comunista, in un mosaico di bilanci e riflessioni che vertono tutte su quanto sia dannoso per i movimenti di classe e il proletariato riporre qualsiasi fiducia nell’illusione di una possibile scelta tra democrazia borghese e autoritarismo fascista.

Soprattutto oggi, mentre si è lontani da una reale ripresa di lotte di classe allargate sia in Italia che in Occidente, ma è ancora dato il tempo per riflettere ed evitare il ripetersi di tanti errori passati, questi testi, niente affatto superati o inadeguati alla presente stagione, possono contribuire, soprattutto nel caso delle generazioni più giovani, a smascherare le trappole e a rivelare le menzogne con cui una sinistra “borghese”, ed oggi “liberale”, ha contribuito alla vittoria dei regimi più autoritari in nome della controrivoluzione e della difesa dell’ordine capitalistico nelle sue forme apparentemente “democratiche” e parlamentari”.

Se l’affermazione di Amadeo Bordiga che «l’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo», pur rivelandosi ancora un ottimo punto di partenza, è, forse, fin troppo nota, abusata e, sicuramente, mai del tutto compresa fino in fondo da coloro che l’hanno usata o denunciata, altre considerazioni e ricostruzioni contenute nel testo possono davvero rivelarsi sorprendenti, illuminanti e utili non soltanto per comprendere dinamiche risvolti di avvenimenti, battaglia e insurrezioni vecchie di un secolo, ma anche per tracciare una linea di confine invalicabile tra ciò che le lotte a venire potranno considerare come utile o dannoso per le tattiche e le strategie che dovranno, comunque, sforzarsi ancora di elaborare.

Per aprire, per così dire, le danze, è bene iniziare dal saggio di Gilles Dauvé1 che delimita immediatamente la cornice in cui inscrivere l’essenza del problema affrontato:

È un luogo comune quello di vedere nel fascismo lo scatenamento della repressione statale al servizio delle classi dominanti. Secondo la formula resa celebre da Daniel Guérin a partire dagli anni Trenta, fascismo = grande capitale. Logicamente, la sola maniera di sbarazzarsene è di mettere fine al capitale.
Fin qui, nulla da ridire. Ahimè, nel 99% dei casi, la logica porta immediatamente fuori strada: se il fascismo incarna il peggio prodotto dal capitalismo, bisogna evitare questo peggio, cioè si dovrebbe fare di tutto per favorire un capitalismo non fascista. Poiché il fascismo è reazione, cerchiamo allora di promuovere il capitalismo sotto forme non reazionarie, non autoritarie, non xenofobe, non militariste, non razziste, in altre parole un capitalismo più moderno, più… capitalista.
Pur ripetendo che il fascismo serve gli interessi del «grande capitale», l’antifascismo si affretta a precisare che, malgrado tutto, nel 1922 o nel 1933, la soluzione fascista avrebbe potuto essere evitata, se solo il movimento operaio e/o i democratici avessero esercitato una pressione tale da impedire ai fascisti di prendere il potere. Se, nel 1921, il Partito Socialista Italiano e il giovane Partito Comunista d’Italia si fossero alleati coi repubblicani per sbarrare la strada a Mussolini; se, all’inizio degli anni Trenta, la KPD non avesse ingaggiato con la SPD una lotta fratricida…l’Europa si sarebbe risparmiata una delle dittature più feroci della storia, la Seconda Guerra mondiale, il dominio nazista su pressoché tutto il continente, i campi di concentramento e lo sterminio degli ebrei.
Al di là delle giuste considerazioni sulle classi, lo Stato e il legame tra fascismo e grande industria, questa visione ignora che il fascismo s’inscrive nel quadro di un duplice fallimento: quello dei rivoluzionari, schiacciati dalla socialdemocrazia e dalla democrazia parlamentare, all’indomani della Prima Guerra mondiale; e, nel corso degli anni Venti, quello della gestione del capitale da parte dei partiti democratici e socialdemocratici. L’ascesa del fascismo – come ancor più la sua natura – risulta incomprensibile se viene isolata dal periodo che l’ha preceduta, dalle lotte di classe che hanno caratterizzato tale periodo e dai loro limiti […] Cosa c’è alla base del fascismo, se non la tendenza all’unificazione economica e politica del capitale, generalizzatasi dopo la guerra del ’14-1817? Il fascismo non fu che un modo particolare di realizzarla, peculiare di quei Paesi (Italia e Germania) in cui, benché la rivoluzione fosse stata soffocata, lo Stato era incapace d’imporre il proprio ordine, perfino in seno alla stessa borghesia.2.

Un protagonista delle lotte e dei partiti rivoluzionari e di classe dell’epoca, Amadeo Bordiga, avrebbe rafforzato queste ipotesi ancora in un’ultima intervista rilasciata nel 19703 contenuta nella presente antologia:

Il fascismo venne da noi considerato come soltanto una delle forme nelle quali lo Stato capitalistico borghese attua il suo dominio, alternandolo, secondo le convenienze delle classi dominanti, con la forma della democrazia liberale, ossia con le forme parlamentari, anche più idonee in date situazioni storiche ad investirsi degli interessi dei ceti privilegiati. L’adozione della maniera forte e degli eccessi polizieschi e repressivi ha offerto proprio in Italia eloquenti esempi: gli episodi legati ai nomi di Crispi, di Pelloux, e tanti altri in cui convenne allo Stato borghese calpestare i vantati diritti statutari alla libertà di propaganda e di organizzazione. I precedenti storici, anche sanguinari, di questo metodo sopraffattore delle classi inferiori provano dunque che la ricetta non fu inventata e lanciata dai fascisti o dal loro capo, Mussolini, ma era ben più antica.
[…]Divergendo dalle teorie elaborate da Gramsci e dai centristi del Partito italiano, noi contestammo che il fascismo potesse spiegarsi come una contesa tra la borghesia agraria, terriera e redditiera dei possessi immobiliari, contro la più moderna borghesia industriale e commerciale.
Indubbiamente, la borghesia agraria si può considerare legata a movimenti italiani di destra, come lo erano i cattolici o clerico-moderati, mentre la borghesia industriale si può considerare più prossima ai partiti della sinistra politica che si era usi chiamare laica. Il movimento fascista non era certo orientato contro uno di quei due poli, ma si prefiggeva d’impedire la riscossa del proletariato rivoluzionario lottando per la conservazione di tutte le forme sociali dell’economia privata. Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nel – l’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che [il] fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici4.

Certo, il proletariato italiano, tedesco e spagnolo aveva combattuto, armi alla mano e senza esitazione, contro la reazione borghese e i suoi cani da guardia. In Italia e in Germani i soldati si erano rivoltati durante il primo conflitto mondiale e, nel secondo caso, avevano nettamente contribuito a fermarlo. Ad esitare erano stati i partiti socialisti e socialdemocratici che pur di scongiurare il conflitto di classe che, come aveva scritto in una lettera Filippo Turati ad Anna Kuliscioff, se si fosse radicalizzato avrebbe travolto anche loro, avevano scelto di sostenere il conflitto mondiale nel caso tedesco oppure avevano optato, nel caso italiano, per un «né aderire né sabotare» che, nei fatti, aveva tradito le aspettative di un proletariato decisamente contrario alla guerra e, successivamente, di sostenere la Patria nell’ora del bisogno dopo Caporetto.

La difesa dell’ordine liberal-borghese aveva così finito col giustificare la repressione dei soldati in rivolta o, addirittura, di sporcarsi le amni cola sangue dei rivoltosi con la repressione dei moti berlinesi del 1919 e l’uccisione di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Ma ancor peggio sarebbe stato in Spagna dove a sconfiggere i moti rivoluzionari sarebbe stato il doppio apporto degli anarchici entrati nel governo repubblicano e l’opera di eliminazione delle frange intransigentemente rivoluzionarie portata avanti dai rappresentanti di Mosca e di Stalin in seno allo schieramento anti-franchista.

In Italia, in Germania e in Spagna l’avvento dei regimi fascisti non era dunque avvenuto soltanto a seguito di una sconfitta di uno schieramento rivoluzionario e proletario diviso al suo interno dall’azione delle formazioni più radicali quanto piuttosto dal freno che alla rivoluzione fu posto proprio dal non aver abbandonato del tutto le posizioni e le formazioni di carattere democratico e socialdemocratico in tempo utile.

Non a caso, però, i testi raccolti nell’antologia, mettono anche a fuoco il ruolo svolto dall’autoritarismo bolscevico-staliniano negli anni successivi alla rivoluzione d’ottobre e, anche, al ruolo che in tutto ciò giocarono anche certe posizioni di Trotsky sulla militarizzazione del lavoro in patria e del gioco delle alleanze sui fronti internazionali e, forse soprattutto, in Spagna.

Riassumere qui, in poche righe e in poche pagine, le battaglie di allora e i dibattiti teorico-politici che le accompagnarono e ne discussero le sconfitte e le successive conseguenze è quasi impossibile, ma può ancora essere utile trarre qualche elemento dai testi contenuti in Quando muoiono le insurrezioni. Ad esempio un testo prodotto dai militanti della Frazione italiana della Sinistra Comunista e pubblicato sul periodico internazionalista «Bilan»5, in occasione della repressione dei rivoluzionari nelle strade di Barcellona nel maggio del 1937.

Il 19 luglio6 i proletari di Barcellona, a mani nude, schiacciarono l’attacco dei battaglioni di Franco, armati fino ai denti.
Il 4 maggio 1937, questi stessi proletari, muniti di armi, lasciano sul selciato molti più morti che non a luglio, quando dovettero respingere Franco. Oggi a scatenare la marmaglia delle forze repressive contro gli operai è il governo antifascista, che include gli anarchici e gode dell’indiretto sostegno da parte del POUM.
Il 19 luglio, i proletari di Barcellona sono una forza invincibile. La loro lotta di classe, sciolta dai legami con lo Stato borghese, si ripercuote all’interno dei reggimenti di Franco, li disgrega e risveglia l’istinto di classe dei soldati: è lo sciopero a bloccare i fucili e i cannoni di Franco, spezzandone l’offensiva.
[…] La milizia operaia del 19 luglio è un organismo proletario. La «milizia proletaria» della settimana seguente è un organismo capitalista appropriato alla situazione del momento. Per realizzare il suo piano controrivoluzionario, la Borghesia può fare appello ai Centristi, ai Socialisti, alla CNT, alla FAI, al POUM che, tutti, fanno credere agli operai che lo Stato cambi natura quando i suoi funzionari mutano di colore. Dissimulato fra le pieghe della bandiera rossa, il Capitalismo affila pazientemente la spada per la repressione del 4 maggio [1937], preparata da tutte le forze che, il 19 luglio, avevano spezzato la spina dorsale classista del proletariato.
Il figlio di Noske e della Costituzione di Weimar è Hitler; il figlio di Giolitti e del «controllo della produzione» è Mussolini; il figlio del fronte antifascista spagnolo, delle «socializzazioni», delle «milizie proletarie» è il massacro di Barcellona del 4 maggio 1937.
[…] È al riparo di un governo di Frente Popular che Franco ha potuto preparare il suo attacco. È sulla via della conciliazione che Barrio ha provato, il 19 luglio, a formare un ministero unico che fosse in grado di realizzare l’insieme del programma del Capitalismo spagnolo, sia sotto la direzione di Franco sia sotto la direzione mista della destra e della sinistra fraternamente unite. Ma la rivolta operaia di Barcellona, di Madrid e delle Asturie obbliga il Capitalismo a sdoppiare il suo ministero, a ripartirne le funzioni tra l’agente repubblicano e l’agente militare, legati da un’indissolubile solidarietà di classe.
Laddove Franco non è riuscito a vincere subito, il Capitalismo chiama a sé gli operai per «sconfiggere il fascismo». Sanguinoso tranello pagato con migliaia di cadaveri di operai per aver creduto di potere, sotto la direzione del governo repubblicano, annientare il figlio legittimo del Capitalismo: il fascismo. E sono partiti per le colline di Aragona, per la Sierra de Guadarrama, per le montagne delle Asturie, per la vittoria della guerra antifascista.
Ancora una volta, come nel 1914, è con l’ecatombe del proletariato che la Storia sottolinea sanguinosamente l’irriducibile contrapposizione tra Borghesia e Proletariato.
I fronti militari: una necessità imposta dalla situazione? No! Una necessità del Capitalismo per accerchiare gli operai e annientarli! Il 4 maggio 1937 dimostra chiaramente che dopo il 19 luglio il proletariato avrebbe dovuto combattere tanto contro Companys e Giral quanto contro Franco. I fronti militari non potevano che scavare la fossa agli operai perché rappresentavano il fronte della guerra del Capitalismo contro il Proletariato. A questa guerra i proletari spagnoli – sull’esempio
dei loro fratelli russi del 1917 – potevano rispondere solo sviluppando il disfattismo rivoluzionario in entrambi i campi della Borghesia – sia repubblicano che «fascista» – e trasformando la guerra capitalista in guerra civile per la totale distruzione dello Stato borghese7.

Ora non potendo citare tutta l’enorme mole di documenti riportati nell’Appendice, vale la pena di citare ancora un testo prodotto negli anni Settanta su «Puzz» nel 19758.

Con l’enorme slancio produttivo ricevuto dalla Prima Guerra mondiale, la società capitalistica si avviava a sostituire in maniera definitiva i propri presupposti (verso la realizzazione del dominio reale del capitale): passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo; trasformazione della legge del valore nella legge dei prezzi di produzione; concentrazione e centralizzazione dei capitali delle aziende; sviluppo del capitale monetario e fittizio, e generalizzazione del sistema del credito; predominio del lavoro morto sul lavoro vivo in tutti gli aspetti della vita associata e all’interno dell’individuo stesso; antropomorfosi del capitale; mistificazione del proletariato nelle classi medie; distruzione delle antiche classi medie e produzione delle nuove; evoluzione dello Stato da semplice «comitato d’affari della classe dominante» a impresa capitalistica
[…] A questo punto, la prima forma di democrazia rappresentativa, modo specifico di gestione nel periodo di dominio formale, e la sua politica, che mediava il conflitto costitutivo della società borghese tra interessi individuali e interessi generali, diventano inadeguate. Ora è il capitale stesso che direttamente unifica gli uomini per sottoporli al suo dominio; la politica, da suo strumento per affermarsi contro il modo di produzione precedente (e proprio in questa lotta, era ancora possibile, nel quadro della democrazia, un qualche intervento autonomo della classe oppressa), diviene suo prodotto immediato per la mistificazione e l’oppressione diretta. La comunità popolare nazi-fascista, orrendo sostituto della Gemeinwesen, realizzò, attraverso il corporativismo e l’apologia del lavoro, in quanto accessorio del capitale (unità armonica capitale-lavoro), la mistificazione democratica (democrazia = potere del popolo). Se nel fascismo il principio democratico sembra annullarsi, è perché in realtà esso si invera.
[…] Il potere al fascismo implicava però l’assorbimento totalitario di tutte le rappresentazioni politiche nello specchio deformante del capitale, ed escluse quindi i politicanti borghesi, liberali, cattolici e socialdemocratici. Dopo il conflitto del ’39-45, l’araba fenice della «nuova democrazia» saprà a sua volta far proprie le tecniche dell’organizzazione, propaganda e pubblicità fasciste, dello spettacolo sociale e politico, ma alla fragile rigidità dell’unico specchio (o con me o contro di me), riuscirà a sostituire un «libero» sistema labirintico di identificazioni prestabilite (o con me o «contro di me», ma sempre con me)9.

E questo è solo un assaggio di un testo antologico ricco, stimolante e, davvero, imperdibile per chiunque voglia iniziare a riorientarsi in mezzo alle chimere mediatiche e politiche che oggi tentano ancora, purtroppo riuscendoci troppo spesso, di irretire le coscienze e il desiderio di lotta e ribellione che anima le giovani generazioni e i lavoratori e le lavoratrici disorientati davanti ad un modo di produzione spietato, il cui unico destino non è quello di esser migliorato e, allo stesso tempo, salvaguardato nelle sue forme più moderne, ma soltanto quello di essere distrutto dall’insurrezione proletaria che non farà sconti a nessuno dei suoi funzionari e portavoce.
Né di destra né, tanto meno, di sinistra.


  1. Titolo originale: Quand meurent les insurrections (1999), La Petite Bibliothèque PDF de la Matérielle, ADEL c/o Échanges, BP 2475866 Paris Cedex 18, 2005. Si tratta di una versione interamente riveduta della “Présentation” a «Bilan». Contre-révolution en Espagne. 1936-1939, UGE 10/18, Paris, 1979.  

  2. G. Dauvé, Quando muoiono le insurrezioni, ora in Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 13-14.  

  3. Una intervista ad Amadeo Bordiga, Raccolta da Edek Osser, giugno 1970, in «Rivista di storia contemporanea», n. 3, settembre 1973.  

  4. Un intervista ad Amadeo Bordiga (1970) ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 112-113.  

  5. Plomb, Mitraille, Prison: Ainsi répond le Front Populaire aux ouvriers de Barcelone osant résister à l’attaque capitaliste, in «Bilan», Bulletin théorique mensuel de la Fraction italienne de la Gauche communiste, Paris, n. 41, maggio-giugno 1937, pp. 1333-1337.  

  6. Si tratta del luglio 1936, data di inizio del golpe franchista e della massiccia e inequivocabile risposta allo stesso da parte del proletariato barcellonese.  

  7. Piombo, mitraglia, prigione: così risponde il Fronte Popolare agli operai di Barcellona che osano resistere all’attacco capitalista, ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 213-215.  

  8. Francesco Santini – Joe Fallisi, La controrivoluzione «antifascista»…, in «Puzz», n. 19 – «Gatti selvaggi», n. 3, Edizione speciale, aprile-maggio 1975, pp. 17-20.  

  9. F. Santini – J. Fallisi, La controrivoluzione «antifascista», ora in Quando muoiono le insurrezioni, op. cit., pp. 335- 339.  

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Comunità seriali dentro e fuori gli schermi https://www.carmillaonline.com/2022/12/06/comunita-seriali-dentro-e-fuori-gli-schermi/ Tue, 06 Dec 2022 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74990 di Gioacchino Toni

Complice la recente pandemia, si sono moltiplicate le riflessioni relative al concetto di comunità, ai modi di stare insieme che caratterizzano il contemporaneo con un occhio di riguardo al ruolo svolto dall’universo digitale nel suo rispondere, amplificare e determinare paure, bisogni e desideri, non ultimo quello di sicurezza nei confronti di ciò da cui ci si sente minacciati.

Vista l’importanza che i media digitali hanno assunto nei processi di rappresentazione dei rapporti sociali e nella costruzione di modalità di partecipazione e senso di appartenenza – si pensi a quanto i social agiscano da aggregatori e generatori di comunità [...]]]> di Gioacchino Toni

Complice la recente pandemia, si sono moltiplicate le riflessioni relative al concetto di comunità, ai modi di stare insieme che caratterizzano il contemporaneo con un occhio di riguardo al ruolo svolto dall’universo digitale nel suo rispondere, amplificare e determinare paure, bisogni e desideri, non ultimo quello di sicurezza nei confronti di ciò da cui ci si sente minacciati.

Vista l’importanza che i media digitali hanno assunto nei processi di rappresentazione dei rapporti sociali e nella costruzione di modalità di partecipazione e senso di appartenenza – si pensi a quanto i social agiscano da aggregatori e generatori di comunità – risulta  interessante analizzare alla luce di ciò la serialità televisiva degli ultimi decenni.

È proprio di questo che si occupa il volume di Massimiliano Coviello, Comunità seriali. Mondi narrati ed esperienze mediali nelle serie televisive (Meltemi 2022), e lo fa a partire dalla presa d’atto di come alla base dell’interazione e della partecipazione dell’intero universo digitale, e in qualche modo delle stesse serie televisive, vi sia una dimensione procedurale basata sulla ripetizione di regole e operazioni che collocano l’utente in un ambiente simulato che si presenta come una sorta di eterno presente [su Carmilla] riattivabile permanentemente. Videogame, piattaforme dell’intrattenimento e social strutturano nuovi immaginari attraverso la loro capacità di sfruttare forme di collaborazioni creative dei pubblici basate sul campionamento e sulla ricomposizione di materiali accumulati. [su Carmilla]

Alla classica struttura narrativa autoconclusiva nel nuovo millennio si sono affiancate narrazioni seriali costruite su molteplici linee narrative progettate per ottenere una fidelizzazione del pubblico attraverso un’espandibilità non solo nei termini di successione di episodi e stagioni ma anche transmediale.

A livello fruitivo le piattaforme di streaming audiovisivo, costruite su interfacce simili a quelle che strutturano i social, nella loro proposta a flusso continuo propongono particolari forme comunitarie. [su Carmilla]

Dalle famiglie disfunzionali de I Soprano, Ozark e Succession ai drammi familiari che scavano nel tempo come This is Us, dalle comunità segnate dal trauma della perdita di Lost e The Leftovers alla messa in scena dei conflitti sociali che uniscono e dividono i gruppi all’interno degli spazi urbani come in The Wire e Gomorra – La serie, dalla società distopica di Westworld a quelle che anelano e progettano un futuro alternativo in Station Eleven: negli ultimi venti anni la serialità ci ha messo a disposizione un catalogo molto ampio di racconti sulle forme di vita comunitarie. I mondi costruiti dalla serialità consentono ai loro spettatori di sentirsi accomunati dalla condivisione di un’esperienza e dalla possibilità di contribuire alle diverse espansioni narrative. Ecco allora che il concetto di comunità si allarga, prolungandosi al di fuori del testo e fornendo chiavi di lettura per comprendere i modi dello stare assieme e di esercitare quella creatività che prende le forme di una scrittura estesa (p. 11).

La fruizione dei testi seriali, con il loro sviluppo transmediale permesso dal digitale, ha sviluppato comunità in cui gli spettatori rielaborano gli immaginari proposti in funzione di nuove forme aggregative rispondenti al bisogno di comunità. «Grazie ai mondi raccontati dalla serialità, gli spettatori si riconoscono e costruiscono comunità lungo quel confine, sempre più labile, tra soggettività e mondo, tra corpo e ambiente, che è lo schermo nelle sue molteplici declinazioni tecnologiche» (pp. 12-13). [su Carmilla]

Le narrazioni seriali, così come si sono declinate soprattutto nel nuovo millennio, sottolinea Coviello, oltre a rappresentare una forma di intrattenimento utile a confermare e rafforzare paure e bisogni del pubblico, «sono una forma di rappresentazione che abita criticamente il contemporaneo: i processi di produzione e distribuzione, i temi che trattano e le modalità della loro ricezione restituiscono, nel loro insieme, un paesaggio grazie al quale è possibile osservare le trasformazioni delle forme di vita comunitarie» (p. 13). Tali forme di narrazione permettono modalità di cooperazione interpretativa che manifestano le potenzialità del sentire e dell’essere in comune arricchendo l’immaginario contemporaneo. Gli ecosistemi narrativi strutturati dalle logiche seriali

si fondano su strategie di continuità e ripetizione, dilatazione e apertura, dinamicità e modulabilità. A partire da un concept che funge da matrice tematica e da un brand che determina le logiche di marketing, gli ecosistemi narrativi sono in grado di stratificarsi ed evolversi secondo modalità non del tutto predeterminate, anche grazie alle pratiche di appropriazione e riuso compiute dagli spettatori. Se le strategie di messa in serie permeano i racconti e le esperienze contemporanee, allora è possibile espandere all’insieme degli ambienti mediali che ci circondano e nei quali siamo immersi il concetto di ecosistema narrativo nel quale “la produzione seriale è caratterizzata da una replicabilità costante, da una struttura aperta, da una immediata remixabilità e da una estendibilità permanente, che permettono al fruitore di avere un ruolo attivo nel processo di costruzione e sviluppo dell’universo narrativo” […]. Dagli spettatori agli utenti, fino ai fan: a seconda dei gradi partecipazione e di coinvolgimento messi in atto, le diverse comunità sono essenziali alla vita degli ecosistemi narrativi (pp. 21-22).

Il volume di Coviello analizza le narrazioni seriali del nuovo millennio ricavando una mappatura, per quanto inevitabilmente parziale, delle modalità con cui le comunità vengono rappresentate e interagiscono con tali produzioni audiovisive. Nel suo procedere all’analisi delle serie televisive e della loro incidenza sul tessuto sociale, lo studioso tiene puntualmente conto dei meccanismi produttivi, delle pratiche di fruizione e del loro rapporto con altre produzioni di immagini coeve. [su Carmilla 1  2] Sono numerose le serie televisive che hanno nella “tenuta della comunità” uno dei loro temi principali. [su Carmilla 1  2]

Dal punto di vista delle strutture narrative, le comunità sono il soggetto collettivo che abita i mondi seriali e ne garantisce la continuità orizzontale, da una stagione all’altra. Le linee narrative verticali, dedicate all’approfondimento dei personaggi e delle loro relazioni e che si esauriscono in una o più puntate, sono spesso contraddistinte dalle dinamiche familiari, oppure dalle affinità e dai contrasti che si generano all’interno di gruppi sociali più ampi. Infine, le comunità si trovano implicate anche a un livello riflessivo: sono gli stessi ingranaggi da cui dipende il funzionamento del testo a configurare uno spazio metaoperativo, che mette al centro le articolazioni e i risvolti comunitari del racconto (p. 153).

Dopo essersi occupato della complessità delle serie televisive contemporanee, della loro potenzialità in termini di apertura e replicabilità della narrazione e della performatività dei pubblici, Coviello si focalizza sugli eventi che nel nuovo millennio hanno inciso sia sulle modalità dello stare assieme sia sulla produzione e la circolazione degli audiovisivi. [su Carmilla]

Nella sezione intitolata Mediashock seriali lo studioso analizza le rappresentazioni mediatiche dell’11 settembre 2001 e della Guerra al terrore che ne è scaturita concentrandosi sull’immaginario costruito dalla serialità televisiva attorno a tali eventi passando in rassegna i modelli narrativi che hanno problematizzato la retorica della paura nei confronti del terrorismo. [su Carmilla] Vengono dunque analizzate in particolare serie come Lost, Mad Man, The Looming Towers, 24, Homeland, House of Cards e The Leftovers.

Successivamente, nella sezione intitolata Voglia di comunità, affrontando serie come Social Distance, This is Us, Utopia, Station Eleven e Anna, lo studioso analizza l’impatto esercitato della pandemia e dalle misure restrittive introdotte sulle forme di socialità a partire dall’utilizzo intensivo delle tecnologie per l’interazione a distanza sottolineando come ciò non abbia tanto comportato una «rottura epistemica dei paradigmi sociali, culturali e tecnologici preesistenti», come frettolosamente alcuni sostengono, quanto, piuttosto, un’accelerazione di processi di mediazione e rimediazione coinvolgenti l’esperienza sensibile già esistenti. La serialità ha indubbiamente saputo tematizzare tempestivamente gli effetti della pandemia offrendo ai pubblici sia storie in cui riconoscersi sopperendo alla carenza di socialità in presenza che prospettare futuri distopici o alternativi alla realtà.

Infine, nell’ultima parte del volume, intitolata Serial Crime, Coviello si occupa della serialità europea di genere crime – come Criminal, Black Earth Rising e Babylon Berlin – analizzandone le forme di rappresentazione, i processi produttivi e le strategie di fruizione mettendo in luce le ragioni della popolarità e della longevità di tali produzioni e invitando a pensare al genere come a un universo narrativo utile alla costruzione di comunità fondate su un immaginario una memoria condivisi anche alla luce degli eventi traumatici novecenteschi che hanno attraversato il continente europeo.

Comunità seriali propone importanti riflessioni circa il ruolo svolto dalle serie televisive contemporanee, a partire dalle loro architetture di coinvolgimento e fidelizzazione dei pubblici e dalle specifiche modalità di fruizione, non solo nella rappresentazione dei rapporti sociali ma anche nella costruzione di modalità di partecipazione e senso di appartenenza che si riverberano al di fuori degli schermi agendo su una quotidianità in cui distinguere tra esperienza dentro e fuori schermo, come tra online e offline è davvero sempre più arduo. «In un tempo in cui il bisogno di comunità si espone ai rischi molteplici, come la pervasività delle tecnologie del controllo, la frequente inconsistenza delle reti sociali online, a cui spesso si accompagna la tendenza all’utilizzo di un linguaggio violento, l’esclusione dell’alterità, interpretata pregiudizialmente come una minaccia, le narrazioni seriali ci aiutano a immaginare forme alternative di incontro e di scambio, supportandoci nella condivisione delle esperienze e delle memorie» (p. 154).

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Un capitalismo totale? https://www.carmillaonline.com/2022/08/17/un-capitalismo-totale/ Wed, 17 Aug 2022 20:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72271 di Sandro Moiso

[Il testo che segue costituisce una parte della Prefazione al testo di Gioacchino Toni Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, recentemente pubblicato da Il Galeone Editore, Roma 2022]

Il capitale è valore in processo che diviene esso stesso uomo (Jacques Camatte)

Fin dalle prime formulazioni dell’analisi marxiana del capitalismo, ci si è posti il problema di dove si ponesse il confine tra dominio formale e dominio reale del capitale, non soltanto sul processo di produzione del valore, ma anche su quello di riproduzione della società umana nel suo complesso. All’epoca di Marx, ad esempio, l’età del mercantilismo avrebbe [...]]]> di Sandro Moiso

[Il testo che segue costituisce una parte della Prefazione al testo di Gioacchino Toni Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, recentemente pubblicato da Il Galeone Editore, Roma 2022]

Il capitale è valore in processo che diviene esso stesso uomo (Jacques Camatte)

Fin dalle prime formulazioni dell’analisi marxiana del capitalismo, ci si è posti il problema di dove si ponesse il confine tra dominio formale e dominio reale del capitale, non soltanto sul processo di produzione del valore, ma anche su quello di riproduzione della società umana nel suo complesso.
All’epoca di Marx, ad esempio, l’età del mercantilismo avrebbe rappresentato l’epoca del dominio formale del capitale in quanto il prodotto delle svariate attività produttive umane (artigianali, singole, collettive e proto-industriali, se non ancora collegate a forme di conduzione della terra comunitarie o semi-comunitarie) era destinato ormai ad alimentare principalmente lo scambio di merci in un mercato in via di mondializzazione. Merci la cui funzione era quasi esclusivamente rivolta allo scambio monetario, destinato poi a far circolare altre merci secondo lo schema riassuntivo Merce (M) – Denaro (D) – Merce (M), con una crescita continua della circolazione sia delle merci che del denaro come equivalente universale.

Nella stessa epoca, corrispondente pressapoco a quella della grande espansione coloniale europea, la borghesia però non aveva ancora il pieno dominio politico della società e dello Stato, ma era ancora costretta a sottostare ad accordi, anche questi formali, con la nobiltà e l’aristocrazia terriera di cui le monarchie, nazionali o imperiali che fossero, erano espressione ed emanazione diretta.
Soltanto le rivoluzioni borghesi, o atlantiche come alcuni ebbero a definirle, avrebbero successivamente liberato, tra la seconda metà del XVIII secolo e l’inizio di quello successivo, tutta le potenzialità sociali del capitale attraverso uno sconvolgimento del modo di produzione che avrebbe preso il nome di Rivoluzione industriale.

Con la trasformazione industriale di ogni singolo prodotto e il ruolo svolto dall’investimento capitalistico in ogni settore della produzione si sarebbe dunque passati alla prima forma di dominio reale del capitale, inteso come dominio sia sull’intero processo produttivo che sul potere politico e l’organizzazione della società. In tale contesto il produttore industriale, il lavoratore divenuto salariato, era destinato a perdere qualsiasi autonomia nei confronti dell’organizzazione del processo lavorativo e ad essere sottomesso ai tempi e ai ritmi dettati dal capitale costante rappresentato dalle macchine. In tale contesto generale anche le altre forme di organizzazione del lavoro e della produzione erano destinate a perdere la loro precedente relativa autonomia.

Soltanto alla luce di tale ipotesi è infatti possibile comprendere a fondo, a titolo di esempio, il giudizio dato da Marx stesso sull’economia schiavistica moderna applicata nelle colonie, soprattutto in quelle americane, separata nettamente dalla funzione di quella antica. Il problema infatti non era quello della durezza delle condizioni di vita oppure della negazione della libertà dei popoli resi schiavi, ma, piuttosto, quello della destinazione ultima del prodotto di tale forma di lavoro coatto.
Il capitalismo e la sua classe dirigente, giunti all’apice della scala sociale, potevano tranquillamente integrare nel processo di valorizzazione anche forme arcaiche della stessa, non più soltanto approfittando del basso costo del prodotto grezzo o semilavorato che ne derivava, ma anche indirizzandone le scelte e i tempi di produzione.

Il cotone americano, ad esempio, fu dunque indispensabile alla crescita industriale ed economica inglese e proprio per questo i socialisti come Marx ed Engels appoggiarono il repubblicano Lincoln, e chiesero alla classe operaia del Nord degli Stati Uniti di fare altrettanto, nella Guerra Civile proprio al fine di spezzare, tranciare e interrompere definitivamente il flusso di materie prime indispensabili alla crescita dell’imperialismo britannico. In tal senso, pertanto, anche la questione della liberazione degli schiavi e dei “neri” costituiva soltanto un corollario di tale scelta, ma non il primum movens della stessa.

Quella tattica, applicata all’inizio della seconda metà dell’Ottocento, avrebbe rappresentato il primo tentativo di inserire l’azione del movimento operaio e proletario all’interno dei giochi per il dominio del pianeta o del loro rovesciamento in chiave rivoluzionaria.
Oggi sappiamo che quella guerra poco modificò la condizione sociale degli afro-americani in vaste aree del Nord America, ma che, invece, ampiamente contribuì allo sviluppo della potenza imperiale che avrebbe sopravanzato quella britannica definitivamente soltanto dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale.
Questo trionfo del “secolo americano”, come lo ha ben definito Geminello Alvi1, non avrebbe soltanto rappresentato un cambio di segno ai vertici del potere geo-politico e militare occidentale, ma anche uno spostamento dei limiti del domino reale del capitale.

Il capitalismo sorto dalla prima rivoluzione industriale dominava la produzione, ma non poteva ancora integrare del tutto la società, e in particolare i lavoratori salariati, nella sua visione del mondo, se non attraverso strategie di carattere ideologico e politico messe in atto negli anni Venti e Trenta del XX secolo che erano destinate comunque a mostrare i propri limiti attraverso successivi tracolli militari ed economici. Infatti, anche se i regimi “fascisti” avevano contribuito a sottomettere l’intera politica statale alle necessità del capitale (rappresentando in tal modo un superamento della democrazia liberale e un ammodernamento dell’organizzazione socio-politica in chiave capitalistica), il capitalismo made in USA uscito vincitore dal secondo conflitto mondiale avrebbe saputo coinvolgere nella propria visione “consumistica” milioni di cittadini appartenenti ad ogni classe sociale soltanto attraverso l’offerta illimitata di beni disponibili, sia materiali che non e sia nel caso che questa promessa di benessere fosse concreta o illusoria.

Non a caso, in uno studio del 2005, la storica statunitense Victoria De Grazia definisce “impero irresistibile” la capacità statunitense di conquistare il mondo non solo attraverso l’uso delle forze militari di terra, di cielo e di mare oppure della forza del dollaro e della sua spregiudicata finanza, ma anche per mezzo della diffusione di nuovi e sempre più estesi consumi2 o, almeno, di una promessa in tal senso.
Al di là della diffusione dello star system cinematografico, della vendite rateali, delle catene di negozi associati nel nome e nel prezzo, che già erano stati protagonisti anche in Europa della promozione dei consumi dopo la prima guerra mondiale, nel Vecchio Continente fu il Piano Marshall a costituire il grimaldello definitivo per proporre a tutto l’Occidente lo stile di vita e di consumo americano. Come scrive infatti la storica americana:

Se lo si considera il fulcro della travagliata trasformazione dell’Europa in società dei consumi, il Piano Marshall va valutato non tanto per il contributo finanziario che seppe dare alla ricostruzione europea quanto piuttosto per le condizioni che impose all’elargizione degli aiuti. Nel complesso, le somme che vennero effettivamente spese in Europa sotto forma di crediti, sussidi e forniture sono oggi considerate irrisorie rispetto agli investimenti interni dei singoli paesi, pari forse al 5 per cento del capitale totale maturato negli anni della ripresa fino al 1950. Operando in stretta collaborazione con chi in Europa Occidentale condivideva le loro vedute, i pianificatori statunitensi, i responsabili degli aiuti e i grandi imprenditori mirarono ad impedire che i politici, ancora memori della Depressione, e della pianificazione di guerra, ripiegassero sull’intervento statale e sul protezionismo economico […] Ciò a cui si mirava era costruire un’Europa industrializzata capace di autosostentarsi, un’Europa compatta, unificata dalla spinta del commercio interregionale, eppure pienamente integrata nell’economia mondiale dominata dagli Americani3.

Se dal punto di vista economico e politico gli Stati Uniti avevano avviato quel processo di collaborazioni locali e di apertura delle frontiere di alcune aree un tempo del tutto o parzialmente ostili, che avrebbe finito col favorire la penetrazione dell’influenza politica, dei capitali e delle merci americane, dal punto di vista dell’immaginario politico e sociale la medesima azione ebbe come scopo quello di superare le resistenze sia di uomini d’affari ancora ispirati da obsolete vedute di carattere nazionalistico che quelle di una forza lavoro spaventata di fronte a ciò che il rinnovo dei sistemi di produzione avrebbe richiesto: disoccupazione, intensificazione dei ritmi di lavoro, cronometraggio, pagamento a cottimo senza un corrispondente aumento dei salari.

Fu così che oltre all’uso propagandistico della figura di «Joe Smith, il lavoratore medio americano», il cui alto tenore di vita, una casa linda e ordinata e l’auto in garage avrebbero dovuto convincere i lavoratori europei a lavorare più sodo e accettare la “momentanea” disoccupazione in nome dei miglioramenti futuri, l’obiettivo finale del piano di aiuti americano divenne non soltanto quello di promuovere un’alleanza transatlantica che attraversasse tutta l’Europa, ma anche quello di contribuire all’incremento dei livelli di consumo anziché ridare vigore alle coalizioni anticonsumo dell’era prebellica.

L’ostilità verso norme di consumo più elevate doveva durare poco. Nel 1951, quando con il calo dell’inflazione, il decollo delle industrie di base, la ripresa del commercio nell’Europa occidentale esplosero le proteste operaie, i funzionari americani dell’Eca (European Cooperation Agency) ricordarono ai loro alleati che in origine il Piano Marshall era stato concepito allo scopo di combattere i comunisti. Occorreva pertanto aumentare le concessioni dei fondi destinati ad alloggi, ospedali, scuole, strutture turistiche e simili; anche i datori di lavoro, se non volevano passare per industriali reazionari, borghesi ed economicamente retrogradi, ancora legati all’infelice passato del Vecchio Continente, avrebbero dovuto condividere i proventi della produttività con la «gente comune d’Europa»4.

Ora, aldilà della sorpresa per alcuni nello scoprire come il “superiore” sistema di welfare europeo in realtà sia stato indirettamente originato dalla pianificazione economico-politica statunitense post-bellica, è interessante vedere come le ragioni della lotta contro “il pericolo comunista” di stampo sovietico o filo-sovietico affondassero le loro radici sia nella necessità americana di non rallentare, ma anzi di ampliare il flusso delle merci su scala globale, sia nella capacità di affrontare il nemico con armi nuove e impari: ovvero con la capacità di offrire, almeno virtualmente piuttosto che di negare realmente, l’accesso a quegli stessi beni.

Da lì a poco, infatti, le immagini della famiglie americane soddisfatte intorno ai loro frigoriferi stracolmi e ai televisori e agli altri elettrodomestici, destinati a liberare il lavoro casalingo femminile ben più di qualsiasi altra formulazione ideale, avrebbero facilmente contrastato le immagini ideologiche del “socialismo reale”, accompagnate però da quelle dei banchi delle merci semivuoti, code per il pane lunghe e beni di lusso relegati a negozi e grandi magazzini destinati soltanto agli stranieri benestanti e ben paganti.

Sul piano della rappresentazione ideale il capitalismo americano seppe così, a partire da quegli anni, imporre un’immagine di sé estremamente efficace, tendente a contrastare nei fatti una promessa di un “radioso” e “più giusto” futuro di cui, però, da oltre cortina non arrivavano immagini altrettanto convincenti. Alle fotografie dei leader bolscevichi d’antan e sovietici del momento, il capitale americano poteva contrapporre non solo quella di auto ed elettrodomestici luccicanti e famigliole felici davanti all’abbondanza di cibo grazie ad uno sforzo lavorativo che offriva, a differenza di quello sovietico, risultati immediati, ma anche quella dei volti giovani e belli delle star di Hollywood, cui di lì a poco, con la presidenza di John Fitzgerald Kennedy, anche la politica americana avrebbe dovuto adeguarsi ai suoi vertici.

Si può così considerare estremamente simbolico il fatto che mentre il 14 maggio 1955 era nato il Patto di Varsavia, con sei anni di ritardo rispetto alla nascita del Patto Atlantico (NATO) e soltanto dopo aver schiacciato la rivolta operaia di Berlino Est e giusto un anno prima di quella più vasta e complessa degli operai ungheresi, il 17 luglio dello stesso anno ad Anaheim, nella periferia di Los Angeles, avvenisse l’inaugurazione della prima Disneyland. Prima autentica cittadella del divertimento di massa e della riproduzione concreta del sogno americano, destinata sicuramente ad un pubblico infantile, non solo per età, affamato di beni sia materiali che immateriali. Spostando definitivamente il conflitto per il controllo dell’immaginario su un piano che i partiti derivati dall’esperienza bolscevica e del Comintern o Cominform non erano assolutamente pronti ad affrontare se non denunciando, ancora una volta, gli intrighi statunitensi e i maneggi della CIA5.

Impegnati com’erano, gli stessi partiti, a contestare l’espansione economica americana ed occidentale presentando i lusinghieri, ma artefatti risultati dei piani quinquennali sovietici6, ignorarono del tutto il fatto che il dominio reale del capitale, sempre guidato dalla necessità di espandere la vendita delle merci per realizzare il valore di scambio in esse contenuto, si estendeva oltre le strutture produttive, economiche, politiche, giuridiche e amministrative, di cui già aveva assunto il controllo, a quelle psichiche di quella stessa classe che avrebbe dovuto, secondo le interpretazioni più ortodosse, rappresentarne la negazione storica e politica.

Victoria De Grazia afferma infatti che:

il Piano Marshall non fu affatto concepito allo scopo di creare un’Europa di consumatori. In prima istanza fu ideato per far fronte alla penuria di dollari, che impediva ai fornitori europei di acquistare prodotti statunitensi e minacciavano di bloccare la ripresa. Tale penuria fu attribuita al divario commerciale tra le due aree, che a sua volta era dovuto alla perenne fiacchezza della produttività dell’economia europea. Di conseguenza, la priorità assoluta del Piano fu quella di incentivare la produttività mediante gli investimenti nella riorganizzazione industriale e nelle infrastrutture […]. Quindi, non si poteva concedere alcun aiuto destinato a riempire i guardaroba vuoti, ristrutturare le case, pagare le pensioni e tanto meno aumentare i salari. Anche gli aiuti alimentari erano distribuiti con parsimonia – solo nel caso in cui era strettamente necessario per motivi politici – come nella Germania occidentale nel 1948, allo scopo di attenuare la malnutrizione, compensare le carenze più gravi e consentire ai governi di favorire la ripresa senza sollevare le furibonde proteste di chi pativa la fame. […] In sostanza era necessario convincere i popoli dell’Europa occidentale ad accettare ciò che Charles S. Maier ha sinteticamente chiamato la «politica della produttività»7.

Questo potrebbe apparire in contraddizione con quanto fino ad ora detto, ma non lo è se si considerano i due cardini ineliminabili della politica economica del capitale: 1) incrementare la produttività e quindi la redditività del lavoro vivo, come unica fonte di creazione di plusvalore e 2) impedire che l’aumento di produttività di qualsiasi o tutti i settori della produzione potesse trovarsi annullata da colli di bottiglia venutisi a creare nel settore della circolazione delle merci tra la prima e l’effettiva capacità di assorbimento del mercato.

Due problemi che da sempre assillano il modo di produzione capitalistico e la sua effettiva capacità di realizzare sul mercato il valore virtualmente prodotto dal pluslavoro estratto in forma sempre più massicce dalla forza lavoro per mezzo del continuo incremento e rinnovo del capitale costante.
Se si tengono ben presenti questi due ultimi concetti si vedrà allora che ad ogni svolta tecnologica e produttiva non c’è alcun bisogno di gridare alla novità o alla capacità del capitale e dei suoi funzionari di controllare massicciamente la società e l’agire umano. Il domino reale del capitale ha affinato le sue armi e le sue tecniche, ma non ha cambiato di segno la sua sostanza.

Se nella fase susseguente alla prima e seconda rivoluzione industriale il lavoratore era integrato nel processo di produzione attraverso la sua dipendenza dalla macchina, da cui derivava però ancora la sua alienazione rispetto alle finalità della stessa, nella nuova fase aperta dalla società dei consumi affermatasi dopo il secondo conflitto mondiale la forza-lavoro si ritrovava “coinvolta” nel prodotto attraverso il desiderio dello stesso, anche se non appartenente allo stesso segmento produttivo di cui faceva parte il singolo operaio. Non più per motivi ideologici (fascismo, nazismo, stalinismo) dunque, ma per “interesse” personale e spinta al consumo.

Motivo per cui ogni “nuova” fase dello sviluppo capitalistico non richiede analisi del tutto nuove o presunte tali, ma forme di lotta adatte alle nuove condizioni imposte dal capitale. Negli anni Sessanta, la ripresa delle lotte operaie aveva posto al proprio centro richieste salariali che erano state dettate anche dai nuovi bisogni che la diffusione delle immagini di un benessere basato sull’ampliamento dei consumi avevano innestato a livello individuale e collettivo8. Quella protesta, di fatto alimentata forse più dalla tendenza al “consumismo” che da una non meglio definita “coscienza di classe”, aveva, però, scardinato per un momento nemmeno troppo breve l’ordine sociale capitalistico e il suo comando sul lavoro. Una volta finita, come in ogni periodo controrivoluzionario, lo stesso aveva però potuto costituirsi ad un livello più alto, aiutato in questo proprio dalle lezioni apprese dallo scontro aperto con il nemico: l’insorgente, a tratti, proletariato di fabbrica. E’ proprio l’apprendere da tali lezioni che permette al capitale collettivo di avvantaggiarsi nelle fasi immediatamente successive e a far sembrare che siano le lotte proletarie a rafforzarlo in qualche modo.

In realtà fu già intuizione di Marx il fatto che il capitale tende a farsi comunità, poiché un modo di produzione non è altro che una forma di vita e riproduzione comunitaria basata su determinate regole. In questo caso basate ormai da più di due secoli su quelle della valorizzazione e accumulazione capitalistica.

Attraverso il movimento della società, il capitale si è accaparrato tutta la materialità dell’uomo il quale non è più altro che un soggetto di sfruttamento, un tempo determinato di lavoro: «Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa (carcasse) del tempo» (Karl Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 48). Così il capitale è divenuto la comunità materiale dell’uomo; tra il movimento della società e il movimento economico non c’è più scarto, il secondo ha totalmente subordinato il primo. Si è visto come, nelle forme precedenti, le diverse comunità cercassero di limitare lo sviluppo del valore di scambio perché esso scalzava le loro fondamenta. Nel capitalismo, al contrario, è proprio il movimento del valore che rende stabile il dominio della comunità9.


  1. Geminello Alvi, Dell’Estremo Occidente. Il Secolo Americano in Europa. Storie economiche 1916-1933, Marco Nardi Editore, Firenze 1993  

  2. Victoria De Grazia, Irresistible Empire. America’s Advance through Twentieth-Century Europe, Belknap Press, 2005 (in traduzione italiana: L’impero irresistibile. società dei consumi americana alla conquista del mondo, Giulio Einaudi Editore, Torino 2006)  

  3. V. De Grazia, op. cit., ed. italiana pp. 371-372  

  4. Ibidem, p. 374  

  5. Si veda, ad esempio, Frances Stonor Saunders, La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle lettere e delle arti, Fazi Editore, Roma 2004  

  6. Si veda, ad esempio, l’attenta e dettagliata critica dei trionfalistici dati sovietici contenuta negli articoli dello stesso periodo di Amadeo Bordiga su «il programma comunista». In particolare in quelli raccolti successivamente in: Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, edizioni il programma comunista, Milano 1976.  

  7. V. De Grazia, op. cit., pp. 372-373  

  8. Si veda in proposito: Dario Lanzardo, Produzione, consumi e lotta di classe, «Quaderni rossi» n. 4, Reprint, Nuove Edizioni Operaie, Roma 1976  

  9. Jacques Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, Il capitale totale, Dedalo libri, Bari 1976, p. 213  

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Ridare la voce alle comunità a cui è stata tagliata la lingua https://www.carmillaonline.com/2021/10/13/ridare-la-voce-alle-comunita-a-cui-e-stata-tagliata-la-lingua/ Wed, 13 Oct 2021 20:00:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68456 di Sandro Moiso

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 368, 16,00 euro

La nuova edizione rivista del testo di Michela Zucca, edito originariamente nel 2004 da altro editore rispetto all’attuale, può costituire un ottimo punto di partenza per chiunque voglia iniziare un percorso di studio della Storia rimossa dell’Occidente. In un tempo in cui il pensiero unico dominante del politically correct tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di pura rimozione della realtà storica, riducendo ogni conflitto ad un problema di [...]]]> di Sandro Moiso

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 368, 16,00 euro

La nuova edizione rivista del testo di Michela Zucca, edito originariamente nel 2004 da altro editore rispetto all’attuale, può costituire un ottimo punto di partenza per chiunque voglia iniziare un percorso di studio della Storia rimossa dell’Occidente. In un tempo in cui il pensiero unico dominante del politically correct tende a ridurre il problema dell’oppressione di classe, razza e genere ad una questione di pura rimozione della realtà storica, riducendo ogni conflitto ad un problema di diritti e “coscienze” individuali, con conseguenti atti di contrizione formale ipocriti quanto inutili, diventa urgente sottolineare come anche noi, occidentali ed europei, siamo stati costretti a diventare “bianchi” ovvero portatori di idee e comportamenti culturali, religiosi, politici ed economici che sono stati instillati con la forza e la violenza nei nostri antenati, distruggendone le comunità e le culture cui appartenevano.

Michela Zucca (1964), storica e antropologa, è specializzata in cultura popolare, storia delle donne, analisi dell’immaginario. Ha svolto lavoro sul campo tra gli sciamani della foresta amazzonica, in Perù e Colombia, e fra i Lapponi in Finlandia e ha insegnato Storia del territorio in varie università italiane e svizzere. Ha, inoltre, fondato la «Rete delle donne della montagna» e collaborato con il «Centro di ecologia alpina», mentre attualmente organizza e coordina le attività di Arkeotrekking con l’Associazione Sherwood1. In tale contesto di studi ha prodotto numerosi testi e curato l’opera, in 5 volumi, Matriarcato e montagna (1995-2005).

Come afferma l’autrice nel primo capitolo del testo, destinato ad illustrarne l’impostazione metodologica:

Nelle civiltà arcaiche e “premoderne” la massa della popolazione vive “fuori dalla società”, lontana dal “centro” in cui si esplica il potere politico, religioso, economico, ideologico dell’establishment. Soltanto in modo occasionale e frammentario i vari contesti locali si rapportano con quello centrale, mentre prevalgono la dispersione territoriale e la varietà locale. La scarsa possibilità di coordinamento sociale, la carenza di controllo da parte delle autorità, l’economia di sussistenza e non di mercato, sono fattori di ulteriore riduzione o restrizione del centro.
Con la cultura “moderna”, lo sviluppo del mercato e il rafforzamento amministrativo e tecnologico dell’autorità, l’urbanizzazione e la scolarizzazione su vasta scala, la diffusione capillare delle comunicazioni di massa, si determina un coinvolgimento generale della società, un’accentuazione e un’imposizione del sistema di valori centrale in misura sconosciuta negli altri periodi della storia. Sulle montagne però, le condizioni di vita premoderne continuano a esistere per lunghi, lunghissimi, secoli: quasi fino a ieri2.

Questa trasformazione sociale viene comunemente associata al progresso e come tale rivendicata dai cantori della modernità, tra cui non bisogna esitare ad inserire gran parte del pensiero di sinistra e marxista3, che dimenticano, sottovalutano oppure nascondono ciò che la nostra autrice non manca invece di sottolineare con forza, ovvero che «il “progresso” è fondato sullo sterminio»4.
Stermino di popoli, culture e comunità, di qua e di là degli oceani.

Al riparo delle foreste, tornate dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, trova rifugio una popolazione di fuorilegge, di cui i cittadini hanno paura, ma che vengono lasciati vivere fino a quando gli interessi urbani non si espandono, e anche loro devono essere ridotti alla ragione, letteralmente “razionalizzati”. La caccia alle streghe non è l’unico mezzo di eliminazione di una cultura arcaica. La “soluzione finale” passa anche attraverso la distruzione del substrato ambientale che permise per secoli alle varie “tribù delle Alpi” di mantenersi indipendenti: la foresta meravigliosa che proteggeva genti e spiriti.
Il Concilio di Trento è il momento di rottura violento che sancisce il cambiamento culturale, tanto è vero che viene ricordato nella memoria orale in maniera vivissima ancora oggi5.

Il Concilio trentino (1545-1563) può infatti essere considerato non soltanto come un momento di “rinnovamento” della chiesa cattolica in reazione allo sviluppo e alla diffusione del protestantesimo, ma anche come un momento centrale della fondazione legislativa dello Stato moderno, che proprio tra il XV e il XVI secolo vedrà crescere i propri attributi, compiti, forza militare e repressiva e potere, proprietrio e amministrativo, sui territori definiti sia scala imperiale che nazionale6.

D’altra parte proprio il cristianesimo, nel corso della sua storia, all’epoca già più che millenaria, aveva fortemente contribuito a quella risistemazione socio-culturale su cui avrebbe potuto svilupparsi la società mercantile-capitalistica. Autentica operazione biopolitica che in, qualche modo, già il Romanticismo europeo non aveva mancato di sottolineare e, talvolta, deridere agli albori della Rivoluzione industriale. Come le parole del poeta, e ribelle, tedesco Heinrich Heine possono qui ancora, ironicamente, dimostrare.

C’era un tempo in cui baciavo con fede la mano ad ogni cppuccino che incontravo per strada. Ero un bambino e mio padre mi lasciava fare tranquillamente, sapendo bene che le mie labba non si sarebbero sempre accontentate di carne di cappuccino. E infatti diventai grande e baciai belle donne… Ma esse talvolta mi guardavano così pallide di dolore, e io mi spaventavo nelle braccia della gioia… Qui stava nascosta un’infelicità che nessuno vedeva e di cui ognuno soffriva; e io vi riflettevo. Riflettevo anche su questo: se le privazioni e la rinuncia siano davvero da preferire a tutti i godimenti di questa terra, e se coloro che quaggiù si sono accontentati di cardi, verranno nutriti tanto più abbondantemente di ananassi. No, chi mangiava cardi era un asino: e chi ha ricevuto botte se le tiene.
[…] Forse mi è concesso di riportare qui alcuni fatti banali, per inserire tra le favole che vengo compilando alcune cose ragionevoli o almeno l’apparenza di esse. Quei fatti si riferiscono alla vittoria del cristianesimo sul paganesimo. Io non sono affatto dell’opinione del mio amico Kitzler, che cioè l’iconoclastia dei primi cristiani sia da biasimare con tanta amarezza; essi non potevano e non dovevano risparmiare gli antichi templi e statue, poiché in essi viveva ancora quell’antica serenità greca, quella gioia vitale che al cristiano appariva diabolica. […] Tutto questo piacere, tutte queste risa gioconde sono estinte da lungo tempo, e nelle rovine degli antichi templi continuano sempre ad abitare, secondo la credenza popolare, le vecchie divinità […] La leggenda più originale, romanticamente meravigliosa, narrata dal popolo tedesco è quella della dea Venere che, quando i suoi templi furono distrutti, si rifugiò in un monte misterioso dove conduce una vita fantasticamente felice insieme con i più lieti spiriti dell’aria, con belle ninfe dei boschi e dell’acqua […] Già da lontano, quando ti avvicini al monte, senti risate gioconde e dolci suoni di cetra, che ti avvincono il cuore come una catena invisibile e ti attirano nel monte7.

Certo il riferimento formale è ancora a Venere, così come la stessa Michela Zucca denuncia a proposito delle donne perseguitate come streghe, le cui divinità di riferimento erano travisate oppure misconosciute, ma il significato della forzata rimozione delle divinità e delle credenze locali con quella unica indicata da Santa Romana Chiesa, destinata ad accentrare e regolamentare i comportamenti e l’immaginario, non cambia.

Donne che credono e sostengono di andare di notte al seguito di una signora che cambia il suo nome, spesso identificata da giudici e frati zelanti, infarciti di cultura classica, con Diana, dea latina degli animali e delle foreste, in groppa o insieme a bestie, percorrendo grandi distanze volando, obbedendo ai suoi ordini come a una padrona, servendola in notti determinate, con feste fatte di canti, balli e grandi mangiate, in cui si fa all’amore senza curarsi delle convezioni. Questo – elemento più, elemento meno – il minimo comune denominatore delle confessioni delle streghe. Come i combattimenti fra le nubi, per la fertilità dei campi, contro gli spiriti del male; il cannibalismo rituale; le cavalcate con l’esercito furioso dei morti implacati.
Per un periodo di tempo inimmaginabilmente lungo, secoli, forse anche millenni, matrone, fate e altre divinità femminili, benefiche o mortifere e vendicative, hanno abitato invisibilmente nell’Europa celtizzata. Cacciate via presto, a suon di roghi e benedizioni, dalle città, in cui dominava il clero, hanno continuato a praticare indisturbate sulle montagne, dove sono leaders delle comunità8.

Al di là del fatto che, fino al Concilio di Trento e ancora dopo, gran parte del basso clero era certamente né istruito, tanto meno di cultura classica spesso rimossa dalla Chiesa stessa, né alfabetizzato9, le finalità dell’opera dello Stato e della Chiesa rimanevano inalterate e incontrovertibilmente rivolte alla distruzione delle culture e delle comunità altre, alla drastica riduzione del ruolo che le donne esercitavano al loro interno e alla violenta repressione delle loro, inevitabili, ribellioni.

A tutti i differenti aspetti della vita e della lotta di quelle comunità Michela Zucca dedica i quattro quinti dei capitoli che la compongono e i tre quarti delle pagine dell’opera, suddivisa in quattro parti, intitolate rispettivamente Metodologia di ricerca; La vita quotidiana; Il corpo, la trasgressione, la festa; Il filo rosso della rivolta e La fine dei giochi: repressione e resistenza.
Se i capitoli che costituiscono le ultime quattro parti sono talmente densi, ricchi di informazioni e sollecitazioni che diventa difficile per il recensore riassumerli sinteticamente, ciò che vale la pena di fare in chiusura di questa riflessione su Donne delinquenti, è sottolineare l’importanza delle note metodologiche di ricerca che vengono dettagliatamente e brillantemente esposte nella prima parte.

Il passato esiste solo attraverso la ricostruzione storiografica, e questa, per essere considerata valida, deve rispettare regole precise, che comunque cambiano a seconda del periodo storico e dell’ideologia di riferimento del ricercatore. La storia, quindi, non è verità ricostruita, ma è culturalmente determinata: è una creazione antropologica. Ciò è tanto più vero quanto lo studio di questa disciplina sta lentamente cambiando, trasformandosi da evenemenziale (basato cioè su degli avvenimenti estemporanei, compiuti da “grandi uomini” che “danno una svolta alla storia”) in sociale. In quest’ottica, i dati etnografici e i comportamenti dei popoli diventano fondamentali, così come la mentalità della gente comune, perché sono i veri fattori di evoluzione. E le masse si muovono da protagoniste, anche se tempi e ragioni di cambiamento talvolta si allungano e sfumano, si sovrappongono e si rincorrono in maniera inconcepibile per il nostro sistema di pensiero, che assegna ogni effetto a una causa precisa e circoscritta.
La nuova storia, come d’altra parte l’antropologia e la psicanalisi, indaga su un campo d’azione ben diverso da quello delle attività coscienti e volontarie dell’uomo, orientate verso decisioni politiche chiaramente identificabili. Il suo scopo è scoprire gli elementi non dichiarati che permangono nella cultura di un popolo, il non detto: l’inconscio collettivo, la struttura mentale, che formano la sua totalità psichica, che si impone ai contemporanei senza che questi riescano nemmeno a percepirla. La storiografia antropologica cerca di descrivere la cultura di una comunità, le sue motivazioni di rinnovamento, stasi o, addirittura, regresso, in un’ottica di adattamento alle condizioni ambientali, economiche, politiche, religiose, sociali, che non procedono secondo percorsi lineari e prevedibili. Si delinea così una storia collettiva, che ha per protagoniste le moltitudini, i gruppi, le comunità, che cerca di spiegare il come e il perché della vita stessa degli sconosciuti, e che si traduce in una struttura economico-sociale-culturale che caratterizza gli individui prima ancora che se ne rendano conto.
Le piste spesso sono impercettibili: si parte alla ricerca di impronte quasi evanescenti. Come nell’antropologia classica, è più importante ciò che viene taciuto di quanto viene raccontato. Soprattutto quando si cerca di ricostruire le vicende di individualità più e più volte discriminate: come donne, appartenenti a un “sesso inferiore” di cui però i maschi hanno paura (specie della loro lingua lunga); parte di caste, ceti, classi subalterne, illetterate, che non hanno potuto scrivere e tramandare la propria versione dei fatti nell’unica forma legittimata dalla cultura dominante; oppositrici del potere, di cui a maggior ragione bisogna tacitare la voce; extralegali, delinquenti, che di fatto si mettono contro, e con il loro comportamento e con il proprio corpo si fanno beffe della società costituita dimostrando che un altro mondo è possibile.
In questo lungo lavoro di ricomposizione di una trama di cui sono rimasti solo alcuni frammenti sparsi, bisogna impegnarsi a smascherare – negli atti dei processi, nelle cronache, nei discorsi fatti o scritti dai personaggi illustri, ma anche nei racconti e nelle leggende che si sono salvate dalla distruzione, così come nelle memorie dei “testimoni chiave” delle “storie di vita” – oltre al significato evidente, il senso nascosto, il non detto, ciò di cui nessuno ha parlato, volontariamente o meno, ciò che, coscientemente o no, è stato nascosto, e che invece è necessario decifrare fra le pieghe del poco che ha conquistato il privilegio di essere tramandato.

[…] È difficile raccontare la storia delle culture minoritarie, dei popoli marginali, dei ceti sociali subalterni e, magari, avversari dichiarati e coscienti del potere costituito, della civiltà e dei sistemi di valori dominanti; poiché nel corso dei secoli – e dei millenni – i dottori della legge – di ogni legge scritta – hanno fatto di tutto per distruggerne non solo le tracce, ma anche la memoria. Erano società e comunità di donne (e di uomini) liberi, che vivevano a stretto contatto con la natura e dall’ambiente ricavavano il necessario per vivere e la sapienza per crescere nello spirito. Una razza che una volta occupava gran parte dell’Europa; che in seguito alle invasioni degli eserciti, dei missionari cristiani e dell’economia di mercato ha dovuto ritirarsi nei luoghi più isolati per poter sopravvivere. E che poi lentamente si è estinta, distrutta con una guerra di sterminio durata oltre dieci secoli, alla quale ha opposto una resistenza feroce e disperata.
Per eliminare anche l’aspirazione a un futuro migliore fra i superstiti («Ciò che è già stato può sempre ritornare: sette volte prato e sette volte bosco», recita la Canzone di Santa Margriata, il racconto, in forma mitica, del passaggio dalla società matriarcale a quella patriarcale) era assolutamente necessario cancellare la memoria di quelle antiche genti, imponendo l’idea che – comunque – era sempre stato così, e non avrebbe potuto essere diversamente: le donne sottomesse agli uomini, i poveri ai ricchi. Senza speranza di cambiamento, né, tanto meno, di riscatto10.

Questa, in altre parole, le origini della civiltà “bianca” qui in Occidente, tanto violente, repressive ed oppressive quanto le successive conquiste operate dalla Chiesa, dagli stati e dal capitale nei confronti degli altri continenti e dei popoli che li abitavano. Un’operazione di sterminio, rimozione e imposizione ancora mai finita, fino a quando persisteranno religioni rivelate, patriarcato, capitale e stati centralizzati. Con buona pace di tutti quei perbenisti moderati che credono nella possibilità di riformare il mondo a suon di belle parole e frasi fatte, basate soltanto sulle “evidenze” prodotte dal modo di produzione dominante.


  1. L’Associazione Sherwood nasce nel 2016 e le sue linee di ricerca e di azione riguardano le società egualitarie, le modalità di produzione e riproduzione dei saperi, con un’attenzione particolare ai meccanismi sociali che hanno permesso ad alcune civiltà di sopravvivere e superare le crisi ambientali, rinunciando al “progresso tecnologico”, rispetto ad altre che non sono state capaci di cambiare e sono scomparse. Non ha alcuna fiducia nello “sviluppo sostenibile” (che spesso serve soltanto a sdoganare tipologie di produzione spesso ancor più dannose di quelle che dovrebbe sostituire), ma piuttosto nel fatto che una nuova tecnologia sia possibile: come dimostra il grande salto in avanti realizzato in Europa dall’alto Medio Evo da parte delle comunità che hanno condiviso e messo a frutto conoscenze quali mulini, segherie, frantoi, impianti ad acqua… L’intento è infatti quello di recuperare quel tipo di conoscenze, sul territorio, attraverso il lavoro condiviso, per costruire nuovi modelli di insediamento in grado di sopravvivere, in forme egualitarie, al cambiamento climatico in montagna. Dal 2016 ha dato avvio ad un’attività di Archeotrekking che si occupa di valorizzare i territori montani e la loro storia, troppo spesso ignorata.  

  2. Michela Zucca, Popoli fuori e popoli dentro la storia in Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021, pp. 28-29  

  3. Basti qui ricordare l’analisi condotta da Roman Rosdolsky nel suo Friedrich Engels e il problema dei popoli «senza storia», Graphos, Genova 2005  

  4. M. Zucca, Premessa a op. cit., p. 11  

  5. Ivi, p. 12  

  6. Si veda: Charles S. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 a oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019  

  7. Heinrich Heine, Gli spiriti elementari (1837) in H. Heine, Gli dei in esilio, Adelphi, Milano 1978, pp. 37-46  

  8. M. Zucca, op. cit., pp. 11-12  

  9. Gli errori e le differenze riscontrabili all’interno dei medesimi testi ricopiati dagli amanuensi di conventi diversi è, per molti studiosi, la testimonianza diretta di un esercito di monaci illetterati che ricopiavano i testi senza comprenderli. Proprio il Concilio di Trento invece, non solo attraverso il rafforzamento della Compagnia di Gesù, avrebbe costretto i chierici, del clero alto e basso, ad una maggiore formazione culturale, teologica e spirituale. Proprio per contrastare una diffusione del Protestantesimo che della diffusione della Bibbia a stampa e dell’allargamento della lettura e della scrittura aveva fatto una delle sue armi più insidiose per la critica della Chiesa romana, dei suoi esponenti e della loro ignoranza.  

  10. M. Zucca, op. cit., pp.17-19  

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Terre di confine https://www.carmillaonline.com/2021/03/24/terre-di-confine/ Wed, 24 Mar 2021 22:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65234 di Sandro Moiso

Luca Trevisan, Il respiro del bosco. Le montagne della città di Vicenza sull’Altopiano dei Sette Comuni, Cierre edizioni, Verona 2020, pp. 200, 14,00 euro

Nel corso degli ultimi decenni la storia locale, emancipatasi gradualmente dalla retorica del localismo e della tradizione identitaria, ha contribuito a proporre ricerche che, pur rimanendo all’interno di tale ambito, hanno saputo cogliere momenti e casi capaci di illuminare la storia con la “s” maiuscola, ponendo e affrontando concretamente problemi che la seconda aveva relegato spesso ai propri confini o a studi specialistici di carattere [...]]]> di Sandro Moiso

Luca Trevisan, Il respiro del bosco. Le montagne della città di Vicenza sull’Altopiano dei Sette Comuni, Cierre edizioni, Verona 2020, pp. 200, 14,00 euro

Nel corso degli ultimi decenni la storia locale, emancipatasi gradualmente dalla retorica del localismo e della tradizione identitaria, ha contribuito a proporre ricerche che, pur rimanendo all’interno di tale ambito, hanno saputo cogliere momenti e casi capaci di illuminare la storia con la “s” maiuscola, ponendo e affrontando concretamente problemi che la seconda aveva relegato spesso ai propri confini o a studi specialistici di carattere quasi esclusivamente istituzionale.

Prova ne sia il testo di Luca Trevisan, dottore di ricerca presso il Dipartimento Culture e civiltà dell’Università di Verona e docente nella scuola superiore, pubblicato da Cierre edizioni nella collana Nordest (nuova serie) di cui costituisce il volume n° 188.
La ricerca di Trevisan, nel ricostruire le vicende dello scontro tra il Comune di Vicenza e le comunità dell’Altipiano dei Sette Comuni per la delimitazione spaziale e lo sfruttamento dei boschi e dei pascoli, soprattutto a partire dal XVI secolo, finisce anche con l’affrontare indirettamente la questione dei confini o del “confine”, anche se quest’ultima non è posta al centro dell’opera o nel titolo.

Dopo un plurisecolare contrasto con la città, infatti, i comuni dell’Altopiano riuscirono ad acquisire e quasi immediatamente a spartire tra diversi possidenti i territori montani, in particolare i boschi, posti a quote elevate, vicini al crinale e alle pendici della Valsugana, che il Comune di Vicenza aveva acquisito nel 1261, dopo la fine del dominio di Ezzelino III da Romano. Motivo per cui, come afferma Gian Maria Varanini (Università di Verona) nella sua prefazione al testo:

il problema del “delimitare”, del definire lo “spazio frontaliero” – quale che sia la frontiera -, è presente in ogni pagina di questa approfondita sintesi.
[…] Il punto di partenza di molte riflessioni è stato costituito da alcune celebri pagine di Febvre (Frontière: le mot e la notion), che posero il problema sin dagli anni Venti. Il problema del confine “politico”, del confine degli Stati, circolò poi variamente nella storiografia europea, nei decenni successivi, incrociandosi con il dibattito sul concetto di frontiera “naturale” messo in discussione dagli antropologi […] Inutile dire che le Alpi e le montagne in genere sono il terreno d’elezione per queste riflessioni. […] In generale questi studi hanno spinto molto avanti nel tempo, sino al Settecento inoltrato la trasformazione sostanziale del confine. Solo allora c’è un cambio di paradigma, e si può parlare di un “processo di frontierizzazione”, di un definitivo orientamento verso la trasformazione del confine in una “linea di separazione” fra due sovranità consapevoli ed esclusive. Per molto tempo invece, nei secoli dell’età moderna che da questo punto di vista diviene un lungo medioevo, il confine era rimasto un “campo di tensione”, un luogo di confronto e di sfruttamento condiviso e contrastato. E non solo: è stata importante in questi studi, la progressiva messa a fuoco, che avviene appunto nel Settecento, fra un confine “politico” (verso l’esterno) e un confine “amministrativo” (ad intus)1.

Una questione, quella dei confini nazionali e politici, che nelle Alpi centro-orientali troverà una sua definitiva sistemazione soltanto con l’avvento del primo conflitto mondiale, destinato a dividere comunità che fino a poco tempo prima si erano più sentite unite dall’appartenenza alle “montagne” più che divise da ben specifiche appartenenze nazionali. Come, per esempio, anche solo una semplice passeggiata nella zona del Passo dello Stelvio, nei luoghi della guerra sui tre confini, potrebbe facilmente far comprendere anche all’escursionista più distratto.

Riprendendo però il tema centrale della ricerca, occorre sottolineare che il duello vero e proprio tra le due entità (Comune di Vicenza e Comuni dell’Altopiano), nella ricostruzione di Trevisan, ha inizio nella seconda metà del Cinquecento nell’epoca in cui, occorre forse qui ricordare, inizia a diventare decisiva la questione dei confini statali e istituzionali2. Un’epoca in cui non solo gli storici iniziano a situare il golden nail dell’inizio dell’antropocene o, per meglio dire, capitalocene3, ma in cui una stagione di raffreddamento del clima (la cosiddetta Piccola glaciazione) si era accompagnata ad una situazione piuttosto grave di crisi economiche e sociali. Tra le cui conseguenze va annoverata anche l’ultima grande epidemia di peste nel ‘600.

E’ in questo quadro di regressione economica e di autentica caccia alle risorse che si apre e si svolgono principalmente gli eventi narrati da Trevisan, ruotanti, guarda caso, intorno alla gestione e all’uso commerciale del patrimonio boschivo dell’Altopiano di Asiago.
Dopo aver infatti analizzato le caratteristiche del popolamento dello stesso e il lento consolidamento istituzionale delle comunità montane in età tardo medievale, la ricerca si focalizza da un lato sulle prerogative proprietarie del Comune di Vicenza che affitta i pascoli e permette l’uso dei boschi per i soli fini domestici e dall’altro sulle comunità rurali dell’Altopiano. Il motivo del contendere era dato (anche se la questione si trascinò fino al 1783) dallo sfruttamento commerciale del legname, cui si opponeva il primo.

Nei confronti di tale risorsa, e dei boschi nel loro insieme, il Comune vicentino vantava i diritti ottenuti dopo la spartizione delle proprietà di uno degli ultimi difensori della causa ghibellina, dopo la sua sconfitta e morte4, mentre gli abitanti delle comunità dell’Altopiano erano pronti a tutto pur di vincere la partita principale. Quella, appunto, della “mercanzia del legname”, condotta per mezzo di malizie, trucchi ed illegalità varie cui si aggiungeva, da parte dei montanari, una antica conoscenza dell’ambiente, delle sue caratteristiche e risorse.

Si trattava cioè di valorizzare una materia prima sempre più necessaria e ricercata, soprattutto in un periodo di piccola glaciazione. Commercio che in quello stesso periodo era diventato particolarmente significativo nell’area delle Alpi centro-orientali. Così le comunità «insediate tra i 700 e i 1200 m di quota erodono, usurpano, attaccano in età moderna il possesso cittadino», ricorrendo anche alla falsificazione di documenti precedenti5.

Le diatribe emerse, non solo con il Comune di Vicenza ma anche tra le stesse comunità, si trascineranno ben oltre l’epoca, fino a Novecento inoltrato. Confermando così che, come già analizzato sia in opere di ricerca storica locale che letterarie6, il lento e progressivo disfacimento delle comunità alpine, trasformatesi da comunità che in età antica e medievale erano organizzate intorno alla condivisione e alla gestione comune delle risorse e del lavoro a comunità istituzionalizzate e dedite all’appropriazione individuale e privata o perlomeno parzializzata dei beni, della ricchezza e delle risorse, abbia costituito la strada principale attraverso cui il capitalismo, prima mercantile e poi industriale, si è affermato anche nelle zone inizialmente più ostili alla creazione di confini statali, governativi e, non dimentichiamolo, proprietari nell’accezione più moderna del termine.
Come afferma ancora il Varanini nella sua prefazione:

Chi esce con le ossa rotte da questo studio è naturalmente la retorica, la retorica della concordia e del decantato spirito comunitario che si scioglie come neve al sole: e ciò emerge con tanta maggior evidenza dalla parte finale dello studio di Trevisan, dedicata al disfacimento ottocentesco del patrimonio boschivo. Alla fine, nel 1783, Vicenza aveva infatti allivellato ai Sette Comuni le sue Montagne, ma questo patrimonio alcuni decenni più tardi viene avviato allo smembramento, in mezzo a liti feroci fra le comunità, che durano sino al Novecento inoltrato7.

Osservazioni sicuramente e ampiamente condivisibili, se non si tiene però conto del fatto che il disfacimento delle comunità era già iniziato, sia sui monti che nelle pianure, diversi secoli prima e che il periodo da cui ha inizio la ricerca di Trevisan segnava già un primo momento di superamento o, in altre parole, di sconfitta sociale, economica e politica dell’organizzazione comunalistica, ancor più che comunale. Solo così si può autenticamente parlare di una retorica comunitaria che si vorrebbe, più per motivi politici e identitari attuali che per autentico amore per la Storia, mantenere in vita ancora oggi. In un’epoca in cui l’appropriazione privata delle risorse e la valorizzazione del capitale ha trionfato ovunque, tanto in quota quanto in basso.

La ricerca di Trevisan si rivelerà perciò utile per chiunque sia interessato alla ricostruzione delle vicende e dei conflitti, dalle forme spesso differenti e inaspettate, che hanno portato all’affermazione dei confini, più ancora che territoriali e istituzionali, proprietari e, perché no, di classe della società attuale.


  1. Gian Maria Varanini, Prefazione a Luca Trevisan, Il respiro del bosco, Cierre edizioni, Verona 2020, pp. 10-11  

  2. Si veda, nella letteratura storica recente, Charles S. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 ad oggi, Giulio Einaudi editore, Torino 2019  

  3. Si veda ancora su questo tema: Simon L. Lewis, Mark A. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, Giulio Einaudi editore, Torino 2019  

  4. Sulla figura di Ezzelino da Romano e le contraddizioni di un uomo troppo spesso, sbrigativamente e opportunisticamente, liquidato come uno dei “cattivi” della Storia (forse proprio per la sua ostinata e implacabile opposizione al potere e al dominio del Papato), si veda l’opera di Giorgio Cracco, Il Grande Assalto. Storia di Ezzelino, Marsilo Editori, Venezia 2016  

  5. G. M. Varanini, op.cit., p. 11  

  6. Si vedano, solo per citare due esempi, Franco Ghigini (a cura di), Gli Antichi Originari. Cimmo e Tavernole. La storia, la comunità, l’arte, il paesaggio, 2 voll., Comunità Montana di Valle Trompia 2018 e Umberto Matino, La valle dell’Orco, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2016  

  7. G. M. Varanini, op.cit., p.13  

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Orologi e cacciaviti. Tempo, praxis, storia. https://www.carmillaonline.com/2020/09/08/orologi-e-cacciaviti-tempo-praxis-storia/ Tue, 08 Sep 2020 20:50:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62492 di Silvia De Bernardinis

Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 112, 12,00 euro

Una lettera al padre. Un viaggio nelle fenditure della propria storia personale, dove arriva forte l’eco della storia collettiva degli oppressi. Trasmissione di esperienza, di lasciti del Novecento operaio, ed anche di fratture insanabili. Storie personali tra padre e figlia che sono al tempo stesso storie di classe e di appartenenza che scorrono lungo il secolo breve delle rivoluzioni. Conti da far quadrare, in cui come sempre l’umano e il politico si tengono indissolubilmente.

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di Silvia De Bernardinis

Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 112, 12,00 euro

Una lettera al padre. Un viaggio nelle fenditure della propria storia personale, dove arriva forte l’eco della storia collettiva degli oppressi. Trasmissione di esperienza, di lasciti del Novecento operaio, ed anche di fratture insanabili. Storie personali tra padre e figlia che sono al tempo stesso storie di classe e di appartenenza che scorrono lungo il secolo breve delle rivoluzioni. Conti da far quadrare, in cui come sempre l’umano e il politico si tengono indissolubilmente.

Come nei libri precedenti di Barbara Balzerani, anche Lettera a mio padre, edito da DeriveApprodi, è una discesa e un’immersione nelle crepe della Storia, tra gli scarti della storia ufficiale senza i quali però nessuna storia può essere raccontata se non trasfigurandola, e nessuna via di fuga collettiva da un sistema sociale basato su profitto, sfruttamento e miseria, pensata. È questa la scrittura e la concezione della Storia che Barbara propone nei suoi libri, messa a punto con sempre più affinata maestria nel suo ormai ultraventennale percorso letterario.

Una prospettiva che permette di cogliere le dissonanze, i punti di frattura che smentiscono la presunta linearità del tempo e dei fatti. Un viaggio che posa lo sguardo sugli “invisibili al potere”, interni alle “dissonanze della vita collettiva”, compagni di viaggio che Barbara ha incontrato sulle strade percorse in questi anni di difficile resistenza, fuori dal terreno viscido dell’indistinto che tutto fagocita, laddove è possibile lo squarcio di luce che smaschera i meccanismi pervasivi di un sistema di sfruttamento stritolante, dove è possibile la rottura imprevista, l’incontrollabilità al potere. Ma anche lontano dai sentieri ormai infertili di quel Novecento che ha attraversato e che l’ha attraversata nelle viscere. E da questo viaggio torna restituendoci un quadro a più colori, a più voci e accenti, tessuto in trame di inconciliabilità al capitale che assumono un volto che si fa sempre più riconoscibile.

Al pari dei libri precedenti, anche Lettera a mio padre è scrittura che si fa filosofia, storia e politica, un ulteriore passo in quell’opera di ricerca e ricomposizione di un vocabolario comune, di un pensiero forte capaci di ridisegnare un orizzonte rivoluzionario contro la menzogna dell’unico mondo possibile. E che è il filo conduttore che attraversa tutta la scrittura di Barbara; un patrimonio partigiano di cui abbiamo più che mai bisogno per orientarci.

Una lettera al padre per raccontargli come corre il mondo da quando lui non c’è più, per dirgli che a differenza del suo mondo dove si lottava per l’indispensabile, ora si vive e si muore per e di consumo, nella miseria. Un operaio senza fabbrica per scelta, di quelli dell’inizio del secolo scorso, cresciuti prima dell’avvento dell’usa e getta, della serialità, che fa dell’esperienza pratica, della capacità delle mani di riparare, dell’ingegno della creatività pratica a trovare soluzioni, il suo valore, e il metro per misurare l’inutilità dei padroni.

Come è stato possibile che proprio lui cadesse nell’inganno padronale mortifero del fascismo, nella mancanza di fiducia nei propri simili, nella prospettiva fallace della salvezza individuale? Cosa l’ha trattenuto, anni più tardi, dal sostenere e condividere – insieme a quegli altri padri dell’officina – ragioni e pane con gli insorti dell’unico e ultimo tentativo rivoluzionario della nostra storia novecentesca? Riattraversamento di una frattura mai sanata sul piano personale e sul piano storico.

Come è stato possibile che cadesse negli ingranaggi delle compatibilità illudendosi di esserne sfuggito, che ripiegasse nella rassegnazione di un mondo che è raccontato come se sempre dovesse essere dominato dall’ingiustizia di chi comanda, nell’inganno di padroni abili a macinare, assorbire e trasfigurare, a disarmare le menti, confondendo nell’indistinguibilità oppressi e oppressori, con la retorica mistificatoria delle sempreverdi emergenze e degli annessi solidarismi nazionali?

Questioni che ci precipitano nelle contraddizioni irrisolte del secolo scorso, ma ancora aperte, alla radice di una sconfitta che ci ha irretiti. Eppure proprio il lascito di sapere ed esperienza di quel padre, un nostro padre, può essere ripercorso, per riattraversare la storia in un altro modo, e può esserci di soccorso per l’oggi, in un tempo che corre alla velocità irraggiungibile del 5G, che ci impedisce di capire la concretezza del reale nascosta dentro l’intelligenza artificiale. Abbiamo bisogno di un altro tempo. Nel racconto al padre, ciò che lui ha lasciato come valore continua ad essere ciò che regge il mondo, perché senza mani sapienti, senza la materialità dei corpi, l’intelligenza artificiale e l’economia immateriale che ci comandano non si sorreggono. Liberarsi dal tempo disumanizzato del capitale riappropriandosi di quel sapere pratico – del gesto e della conoscenza che assomigliano a quelli dell’artigiano, frutto di un accumulo di esperienza tramandata che ha selezionato materiali e strumenti adatti alla realizzazione non solo dell’utile e durevole ma anche del bello, diritto inalienabile degli esseri umani, in una storia lunga e irregolare, fatta di biforcazioni, di strade non praticate, sepolte e dimenticate sotto le macerie del tempo veloce del progresso – può essere oggi la via di fuga collettiva per sottrarsi al sistema di sfruttamento e devastazione cui siamo sottomessi, fino a distruggerlo, disseppellendo l’inespresso, scovando il potenzialmente realizzabile che sta nel passato.

In questo dialogo immaginato con il padre, che nell’incedere ricorda in alcuni passaggi l’epica brechtiana, Barbara riprende e approfondisce il discorso iniziato in L’ho sempre saputo, una ricerca nella storia e nel patrimonio dei vinti, delle armi della critica pratica rimaste integre nello scontro con il capitale, che hanno retto alla tempesta del progresso. E tra le macerie pratico-teoriche del Novecento rivoluzionario, ricerca quel che può essere ancora utile, fili spezzati da riannodare, ponendo però l’urgenza di staccarsi da ciò che oggi è peso morto e che è anche una delle ragioni che ha permesso al nemico di aumentare la sua ferocia, impune.

Non l’assalto al Palazzo d’Inverno – e con esso la scienza sociale che l’ha sostenuto – ma sabotaggio delle fondamenta, sottrazione alle compatibilità, porta d’ingresso negli ingranaggi del capitale. Sottrazione come via di fuga che erode quelle fondamenta e costruisce al tempo stesso altre forme di vivere collettive. “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, continua ad indicare la bussola. Dal racconto delle pratiche di lotta e di resistenza che ci giungono dal Kurdistan alla Zad, dai Gilet gialli agli zapatisti, agli operai argentini in autogestione che cancellano la divisione del lavoro, agli illegali ed irregolari, sempre più numerosi, delle periferie dell’Occidente colonialista, si ridelinea una nuova scienza sociale.

È il frutto dell’esperienza pratica di chi si organizza nel segno dell’autodeterminazione, dell’autogoverno; riattivando le relazioni sociali e la cultura del vicinato, che significa in fondo ricostruire tessuti connettivi di solidarietà senza lasciarsi neutralizzare da un potere che ha dato prova di quanto gli sia facile appropriarsene e soffocarla nei suoi tentacoli, riducendola a compassionevole spot pubblicitario a costo zero per bulimici consumatori atomizzati; trame di alleanze, di aiuto mutuo, cacciaviti per inceppare gli ingranaggi, zone da prendere e da difendere, perché vivere liberi dai padroni è possibile, ed è condizione perché si riconquisti dignità come comunità umana. “Fino a che la dignità non diventi consuetudine”, come risuona dalle piazze del Sudamerica in rivolta.

Praxis associata alla visionarietà che contraddistingue le eresie quel che scorre nelle pagine del libro, che in fondo è quello che Barbara porta con sé della sua storia politica, una pagina della storia scritta dagli oppressi che alzano la testa, non negoziabile, che sta nel sangue e nella carne, non una parentesi della vita. Che sta nella scrittura, densa, stratificata di significati, che ricerca, seleziona e cesella le parole con la cura e il sapere dell’artigiano.

Lettera a mio padre è un libro che si libera del peso di una tradizione marxista che ha mostrato le corde puntando sull’idea di sviluppo e di produttivismo. Lo sviluppo delle forze produttive – come indicano le esperienze storiche sperimentate, pur nella loro portata emancipatrice e nel loro significato storico – è stato incapace di spezzare il funzionamento del capitale. Ha usato, rovesciandoli, gli stessi meccanismi e la stessa logica del suo antagonista, ed è rimasto impigliato all’interno dell’idea occidentale di progresso propria del capitalismo. Proprio sul continuum della Storia è inciampata la concezione marxiana della Storia, non riuscendo a sottrarsene e permettendo che il capitale battesse il suo tempo.

Da questi limiti parte la riflessione di Barbara, che si inserisce e fa propria l’eterodossia benjaminiana, ripresa in tempi più recenti da Agamben. Ne riattiva l’idea di sospensione del flusso omogeneo e progressivo del tempo, sospensione in cui il kairos irrompe, l’arresto del tempo, l’attimo giusto sottratto al correre del progresso contro l’abbaglio della meta nel futuro lontano. La rivoluzione come “freno d’emergenza”, nelle parole di Benjamin, che ci ricorda come lo stato d’emergenza sia la regola. “Il tempo papà, il tempo”, scrive Barbara, perché non c’è cambiamento del mondo senza cambiamento del tempo. “Sparare agli orologi” come fecero i comunardi, ci ricorda la storia degli oppressi, e ci mostra la mano dell’operaio che inceppando la catena di montaggio fa saltare l’ordine e il tempo, perché il tempo della rottura è sempre tempo presente.

Comunismo comunitario, mutuo soccorso, economia comunitaria, autogoverno, autonomia basata sulla messa in comune, sono il patrimonio pratico-concettuale annidato nelle crepe della nostra storia – che emergono spazzolando la storia contropelo, come dice Benjamin, come ci racconta Barbara che va a recuperarle nella storia degli oppressi, dove si manifestano in pratiche contrarie alla compatibilità capitalistica, al tempo lineare in progresso – e che riecheggiano allo stesso modo nelle storie degli altri, schiacciate sotto una pretesa universalistica che è appartenuta anche alla tradizione marxista, da cui dovremmo affrancarci prendendo atto della loro irriducibilità.

Abbiamo il cacciavite per bloccare gli ingranaggi, ce lo mostrano nei quattro canti del pianeta gli “scarti”, quelli che anche noi abbiamo considerato niente più che “sopravvivenze”, come ci ha suggerito l’antropologia, scienza del colonialismo per eccellenza, nella sua pretesa di spiegare agli Altri chi essi fossero. C’è un sapere e ci sono ferramenta che hanno continuato ad essere tramandati, ai margini, quasi clandestinamente nella loro incompatibilità al capitale, come fuoco che cova sotto la cenere della centralità occidentale novecentesca. Ci indicano che si può ricreare comunità, risignificare appartenenza, compiti irrimandabili per combattere la devastazione capitalistica.

Prendere un cacciavite – riappropriazione di conoscenza e gesto – significa liberarsi dalla catena della deresponsabilizzazione che ci ha ridotti allo stato di minor età, ricacciare il principio della delega e della passività, e agire consapevolmente per costruire un tempo e un mondo autodeterminato, libero dai padroni. Risignificare, costruire un vocabolario comune che riagganci le parole all’esperienza, al terreno reale e alle relazioni interpersonali e collettive che le hanno create, grattandole dalle incrostazioni ideologiche e risignificandole della praxis che le sostanzia. Per una praxis politica che nel suo farsi possa risignificare comunismo. Il tempo è adesso.

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Sull’epidemia delle emergenze / 6: Crisi pandemica, neo-togliattismo e iniziativa di classe. Una questione aperta. https://www.carmillaonline.com/2020/05/14/sullepidemia-delle-emergenze-6-crisi-pandemica-neo-togliattismo-e-iniziativa-di-classe-una-questione-aperta/ Wed, 13 May 2020 22:01:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59959 di Maurice Chevalier, Sandro Moiso e Jack Orlando

“Se l’aquila ferita vola rasoterra non vuol dire che per questo sia diventata una gallina.” (Sergio Spazzali)

“Non basta lavarsi le mani e mettersi una mascherina, dobbiamo costruire altri mondi” (testo dal Chiapas ribelle)

Mentre nel secondo giorno della “fase 2” si sono contati 5 morti sul lavoro … Mentre già 37000 sono i contagiati sul posto di lavoro, di cui 9000 nelle ultime due settimane… Mentre i padroni chiedono di rilanciare la ripresa delle grandi opere e dei cantieri superando i vari ‘cavilli’ [...]]]> di Maurice Chevalier, Sandro Moiso e Jack Orlando

“Se l’aquila ferita vola rasoterra non vuol dire che per questo sia diventata una gallina.”
(Sergio Spazzali)

“Non basta lavarsi le mani e mettersi una mascherina, dobbiamo costruire altri mondi”
(testo dal Chiapas ribelle)

Mentre nel secondo giorno della “fase 2” si sono contati 5 morti sul lavoro …
Mentre già 37000 sono i contagiati sul posto di lavoro, di cui 9000 nelle ultime due settimane…
Mentre i padroni chiedono di rilanciare la ripresa delle grandi opere e dei cantieri superando i vari ‘cavilli’ riguardo alla sicurezza sul lavoro e i vincoli ambientali…

Mentre, col cinismo classico del capitalismo, Trump dichiara che non si può fermare l’estrazione di plusvalore e quindi bisogna ‘riaprire tutto’ anche se ciò comporta più vittime…
Mentre la pandemia continua ad estendersi nel mondo e il disastro sanitario continua con le stragi nelle Residenze Sanitarie per Anziani, in Italia come nei principali paesi europei…

Mentre la recessione galoppa e la crisi sociale si delinea come sempre più devastante1, come dimostrano già i 36 milioni di nuovi disoccupati nei soli Stati Uniti…
Mentre la guerra civile mondiale si sviluppa in conflitti tra forze reazionarie e forze rivoluzionarie, in conflitti interreligiosi, in conflitti tra gli Stati e all’interno degli Stati fra le differenti fazioni della borghesia…
Mentre l’ONU dichiara che in conseguenza del coronavirus si prospettano carestie di proporzioni bibliche…

Mentre i soldi promessi dal governo Conte per cassa integrazione, bonus ecc. lasciano milioni di persone in attesa e si allungano progressivamente le file davanti agli sportelli bancari, piuttosto restii a praticare i “prestiti” e le casse integrazione in deroga2, e ai banchi dei pegni…
Mentre nelle banlieues parigine continuano le mobilitazioni, il 1 maggio i lavoratori e le le loro organizzazioni sono scesi in piazza in molte parti del mondo, come anche diversi movimenti, a Francoforte, in Turchia, in Cile e in Grecia (con la grande manifestazione indetta dal sindacato PAME), e in Bolivia esplodono ‘petardi’ in tutto il paese…

Mentre accade tutto questo, cosa succede in Italia, nella casa dei movimenti?

L’avvio della fase 2 proposta dal Governo Conte, che estende l’obbligo al lavoro di fabbrica ma con divieto di fare assemblee nei luoghi di lavoro, riporta tutte e tutti al fronte con la quasi certezza di ulteriori morti e feriti3.
Confindustria e padronato, come hanno fatto durante tutto il periodo precedente alla fase 2 con la strage di lavoratori, soprattutto della sanità, in Lombardia, impongono la ‘riapertura totale’; da un lato battono cassa al governo, dall’altro richiedono di mettere in discussione le rimanenti conquiste dei lavoratori del secolo scorso. Bonomi, presidente neo-eletto di Confindustria, chiede infatti che : «Il Governo agevoli quel confronto leale e necessario in ogni impresa per ridefinire dal basso turni, orari di lavoro, numero giorni di lavoro settimanale e di settimane in questo 2020, da definire in ogni impresa e settore al di là delle norme contrattuali» chiedendo di fatto, che i contratti nazionali vengano sospesi e si proceda ad una rinegoziazione totale dei diritti su base aziendale.

I sindacati confederali, mentre vengono vietate le assemblee e le iniziative nei luoghi di lavoro, rilanciano ancora una volta la concertazione e per bocca di Maurizio Landini, dichiarano «come associazioni sindacali, non da soli ma assieme ad associazioni e governo, abbiamo fatto cose importanti» e ‘gongolano’ per aver ottenuto i tavoli di lavoro programmatici.
Governo, Confidustria e Sindacati Confederali rilanciano ancora una volta “l’unità nazionale – tutti uniti contro il covid”, poi, sconfitto il virus, si potrà tornare a manifestare ‘in modo democratico e consociativo’. Un autentico trionfo dei principi della Carta del Lavoro fascista e del suo collaborazionismo di fondo, coperto mediaticamente dal canto immarcescibile e interclassista di “Bella ciao”.

Sul fronte dei movimenti e dei gruppi antagonisti, invece, sta prevalendo una sorta di neo-togliattismo, una politica dei due tempi potremmo dire, ovvero: oggi ci occupiamo di assistere i settori più poveri ed emarginati, chi ha bisogno della spesa ecc., rischiando spesso di diventare gli scaricatori dei camion con gli aiuti alimentari della Caritas, di Emergency o di altre organizzazioni cattoliche, valdesi oppure laiche …. e domani, quando ci sarà permesso di uscire di casa, quando sarà tolto il divieto di assembramento, ripartiremo con le lotte e “allora sì che ci organizzeremo per fargliela pagare”.

Oggi sembra che si possa agire solo, o quasi, sul piano delle videoconferenze o scioperi e cortei virtuali. Questa posizione comprende varie sfumature, da chi fa circolare petizioni ai parlamentari, finanche al Papa, per i detenuti e i migranti, a chi richiede a Confindustria e più in generale ai padroni di garantire la sicurezza in fabbrica; da chi si stupisce della violenza di carabinieri, guardia di finanza e polizia a chi richiede redditi ‘di sostegno’ allo stato: tutte iniziative condivisibili, ma nulle politicamente per chi abbia individuato nell’attuale devastante e vampiresco modo di produzione l’origine di una ‘catastrofe’ la cui accelerazione non permette più di coltivare l’illusione riformistica.

Tralasciando le iniziative di denuncia sardinesche, che come la propaganda del regime del ventennio, non sanno far altro che ripetere ossessivamente: «tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato»4, va subito annotato come troppo spesso compagni e compagne, i movimenti, pur nelle rispettive differenze temano di essere identificati come untori se si cerca di aggirare i divieti sugli assembramenti e l’uscire di casa. Temono che oggi accompagnare la giusta costituzione di brigate per l’aiuto ai soggetti più colpiti dalla crisi con un’esplicita denuncia del capitalismo come responsabile di questo virus possa far passare per avvoltoi… per chi strumentalizza la sofferenza del covid 19; finendo così col dare vita, per l’appunto, a strategie che ricordano quelle togliattiane del PCI del secolo scorso, quelle che promettevano: “oggi unità nazionale per ricostruire l’Italia del dopoguerra, domani, risanata l’Italia, si farà la Rivoluzione”. 
Ma questo, purtroppo, significa consegnarsi al Nemico, essere sconfitti senza lottare.
Anche perché è proprio la parola ‘Rivoluzione’ ad essere sospinta, forse ancora più di allora, fuori dal discorso.

Non può esserci sempre un prima e un dopo, poiché è proprio nella lotta che ci si organizza.
Non si può infatti stare solo ad aspettare gli aiuti statali, oltretutto fantasma e non si può partecipare alla distribuzione di cibo con le pettorine del Comune, di Emergency o della Caritas … tutto è immediato: fame, paura, sangue, merda … sono concreti adesso e non rispettano le fasi stabilite dalle discussioni, neanche quelle della critica radicale.

Le iniziative da un punto di vista individuale (anche apprezzabili) di sostegno e aiuto ai più colpiti dalla crisi che, però, non sanno tenere insieme questo con una pratica anticapitalista e la denuncia delle responsabilità per la diffusione del virus e della gestione della pandemia, che non costruiscono autorganizzazione, sono nulle sul piano collettivo, nulle nella costruzione della/delle comunità resistenti, necessarie per l’oggi e fondamentali per il domani.

Le iniziative che si sono invece tenute in varie città, in occasione del 1° maggio, come a Trieste, Torino (con una provocatoria ‘chiusura’ di Mirafiori) e in Valle di Susa a Bussoleno; lo sciopero dei riders e dei lavoratori della logistica, anche se non hanno portato in piazza grandi numeri, costituiscono esempi di altri percorsi possibili. Se le azioni mutualistiche permettono infatti di costruire rapporti nei territori, sono utili a patto che coltivino già da oggi il radicale rifiuto del modo di produzione vigente e delle sue regole.

Se le varie forme di assenteismo, i blocchi, le fermate, gli scioperi nei luoghi di lavoro, torneranno a esplodere come nel mese di marzo, finiranno col divenire un elemento cruciale dei conflitti scatenati dalla crisi. Mentre anche le lotte in carcere e dei migranti potranno trarre vantaggio dallo sviluppo e dalla diffusione di una forte mobilitazione intorno al tema centrale del conflitto tra capitale e lavoro. Come è già avvenuto in passato.

Soprattutto tornando a parlare dei migranti come proletari sfruttati e non come vittime di un generico razzismo atemporale cui contrapporre l’amore caritatevole e la generica solidarietà che tanto piacciono alla Chiesa e ai benpensanti di ‘sinistra’. Gli stessi che coltivano come una grande dimostrazione di civiltà la concessione di permessi di soggiorno temporanei per i braccianti agricoli, da rimettere al lavoro in pandemia e da riscaricare nel nero a emergenza finita. Una dimostrazione, più lampante che mai, di come il razzismo, quello di Stato da cui discendono tutti gli altri, sia quello nei confronti della ‘razza’ messa a produrre profitto5, e che si può combattere con i subalterni in quanto lavoratori, non in quanto vittime di una generica disuguaglianza.

Oggi, superare i divieti, aprire vertenze sui luoghi di lavoro, autorganizzarsi, praticare l’essere comunità e classe, con autodisciplina rivoluzionaria, applicando le necessarie misure sanitarie di autodifesa dal virus, è fondamentale per chi si dice antagonista del modo di produzione vigente. Così come in montagna e sui territori è importante che le comunità continuino a ritrovarsi, organizzarsi, fare il pane, coltivare le terre, lottare in modo collettivo.

Una comunità in salute si costruisce con intelligenza e consapevolezza volta al benessere collettivo e all’antagonismo irriducibile; si costruisce nella lotta, non con opere di assistenza, droni e decreti presidenziali finalizzati al profitto di pochi. Perché, in fin dei conti la gemeinwesen, la comunità umana di marxiana memoria, è ben altra cosa dalla comunità nazionale o da quella definita dalle strutture giuridiche e amministrative derivate dagli interessi del capitale.

Le limitazioni sull’assembramento, sul diritto di assemblea ecc. saranno durature e aspettare un ‘dopo’ basato su un vaccino miracoloso prodotto e distribuito da Big Pharma, delega allo Stato la questione della salute e ci costringe all’angolo, lasciando spazio soltanto alla mobilitazione reazionaria, che in Italia già è scesa in piazza con i bottegai, con i gruppi neofascisti che occupano case ‘solo per gli italiani’ o con manifestazioni fintamente spontanee, come quelle promosse dalle Mascherine Tricolore, nuovo cartello di CasaPound, oppure ancora, come negli Stati Uniti, con lavoratori e miliziani del Michigan che chiedono, armi alla mano, di riaprire tutte le attività lavorative6.

Se infatti, a parte pochi casi, i movimenti si sono astenuti dal mobilitarsi, ciò è stato comunque agito in forma spontanea e spesso disorganizzata con modalità e in situazioni diverse. Dei nuovi fronti si muovono e compongono nell’ombra, spesso esplicitamente alla ricerca di una chiave di lettura o di una direzione politica, e sono i rigagnoli di quelle forze sprigionate dalla crisi, che hanno iniziato a sgorgare dalle crepe nell’edificio della tenuta sociale, spesso sporchi e senza ideologia, ma potenzialmente fecondi e agguerriti7.
Come insegna la teoria dei piani inclinati, dove non avanza la rivoluzione allora avanza la reazione. Se questi rigagnoli reclameranno soviet o case del fascio è tutto ancora da scrivere. Intanto, però, l’affermazione del fascismo storico una cosa ci insegna ancora:

“Nella misura in cui, nella crisi della vita sociale italiana, il movimento socialista commetteva un errore dopo l’altro, il movimento opposto – il fascismo – cominciò a rafforzarsi, riuscendo in modo particolare a sfruttare la crisi che si profilava nella situazione economica, e la cui influenza cominciò a farsi sentire anche sulla organizzazione sindacale del proletariato […] Il proletariato era disorientato e demoralizzato. Il suo stato d’animo […] aveva subito una profonda trasformazione […] (e) quando la classe media constatò che il partito socialista non era in grado di organizzarsi in modo da ottenere il sopravvento, espresse la propria insoddisfazione, perse poco a poco la fiducia che aveva riposto nelle fortune del proletariato e si rivolse verso la parte opposta […]. È in questo momento che ebbe inizio l’offensiva capitalistica e borghese. Essa sfruttò essenzialmente lo stato d’animo in cui la classe media era venuta a trovarsi. Grazie alla sua composizione estremamente eterogenea, il fascismo rappresentava la soluzione del problema di mobilitare le classi medie ai fini dell’offensiva capitalistica […] Nell’industria l’offensiva capitalistica sfrutta direttamente la situazione economica. Comincia la crisi e si afferma la disoccupazione. […] La crisi industriale fornisce ai datori di lavoro il punto di partenza che permette loro di invocare la riduzione dei salari e la revisione delle concessioni disciplinari e morali che precedentemente erano stati costretti a fare agli operai” (A. Bordiga, Rapporto sul fascismo al IV congresso dell’Internazionale Comunista – 16 novembre 1922)

Cogliere l’occasione e afferrare il tempo del cambiamento e del rifiuto dell’esistente, quando si presentano, è dunque un’indicazione necessaria e tutt’altro che velleitaria, considerato che ai movimenti che intendono superare il modo di produzione dominante non sarà mai concesso, dai loro avversari, di procedere per fasi dilazionate nel tempo. A meno che non accettino di essere diluiti come uno sciroppo colorato nell’acqua.

“Come possono vincere, pensavo? Come può il nuovo mondo, pieno di confusione e di equivoci e di illusioni e abbacinato dal miraggio delle frasi idealistiche, vincere contro la ferrea combinazione di uomini abituati a governare, legati da una sola idea, quella di non mollare quanto posseggono?” ( Introduzione alla guerra civile: 1916-1937 – John Dos Passos).


  1. Il Financial Times continua ad annunciare la crisi più grave e profonda degli ultimi tre secoli: Bank of England warns UK set to enter worst recession for 300 years, F.T. 8 maggio 2020  

  2. V. Conte, Cassa in deroga solo a uno su cinque. In mezzo milione sono ancora senza, la Repubblica 9 maggio 2020  

  3. Si veda, già citato in apertura, C. Voltattorni, Covid-19, 37mila contagiati sul posto di lavoro: 9mila in più in due settimane, Corriere Economia, 8 maggio 2020  

  4. B. Mussolini, Opera omnia, vol. XXI, p.425; cit. in R.J.B. Bosworth, Mussolini. Un dittatore italiano, Arnoldo Mondadori Editore 2004, p.257  

  5. “Non era una straniera Paola Clemente, 49 anni e tre figli, morta di fatica nei campi di Andria mentre lavorava all’acinatura dell’uva per due euro l’ora. Non era straniero Paolo Fusco, 55 anni e tre figli pure lui, stroncato da un infarto mentre caricava cocomeri a temperature intollerabili, per 40 euro a giornata.” F. Perina, La scelta della civiltà, La Stampa 12 maggio 2020  

  6. A.Lombardi, America in piazza, dal Texas all’Illinois. Armati pur di riaprire, la Repubblica 13 maggio 2020  

  7. Secondo un recentissimo sondaggio di Euromedia Research, 7 italiani su 10 pensano che la crisi economica generata dalla pandemia possa far esplodere rivolte sociali, soprattutto al Nord, mentre soltanto più il 5% dichiara di aver fiducia nei politici; si veda A. Ghisleri, Il virus alimenta le paure degli italiani, La Stampa 12 maggio 2020  

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Nemico (e) immaginario. Desoggettivazione ed immaginario antisociale https://www.carmillaonline.com/2020/01/20/nemico-e-immaginario-desoggettivazione-ed-immaginario-antisociale/ Mon, 20 Jan 2020 22:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57527 di Gioacchino Toni

«Lʼelaborazione simbolica della realtà si è oggi progressivamente impoverita favorendo le epidemie di un immaginario antisociale che è al centro del processo di soggettivazione proprio perché ne comporta il continuo fallimento. Le infrastrutture digitali della comunicazione, invece di favorire le relazioni interpersonali, sfruttano e amplificano a dismisura proprio queste dinamiche di desoggettivazione» Pablo Calzeroni

Agli albori dell’era mediatica digitale, alcuni studiosi hanno voluto vedere nei nuovi media la possibilità di sviluppare una nuova forma di razionalità distribuita tra le menti individuali e le macchine a cui tutti avrebbero potuto attingere [...]]]> di Gioacchino Toni

«Lʼelaborazione simbolica della realtà si è oggi progressivamente impoverita favorendo le epidemie di un immaginario antisociale che è al centro del processo di soggettivazione proprio perché ne comporta il continuo fallimento. Le infrastrutture digitali della comunicazione, invece di favorire le relazioni interpersonali, sfruttano e amplificano a dismisura proprio queste dinamiche di desoggettivazione» Pablo Calzeroni

Agli albori dell’era mediatica digitale, alcuni studiosi hanno voluto vedere nei nuovi media la possibilità di sviluppare una nuova forma di razionalità distribuita tra le menti individuali e le macchine a cui tutti avrebbero potuto attingere e contribuire.

Pablo Calzeroni, nel suo recente libro Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza (Mimesis, 2019), segnala come diversi di quegli studiosi – in particolare il “pioniere” Pierre Lévy1 –, isolando la questione dellʼinterazione uomo-macchina dalla complessità dei processi storici, abbiano finito per affrontare la nuova esperienza mediatica attraverso una prospettiva trascendentale e metastorica.

L’eccesso di astrazione che ha caratterizzato gli studi relativi alla nascente era informatica, avrebbe impedito a quegli studiosi ottimisti circa la portata liberatoria dei nuovi media, di cogliere i mutamenti realmente in atto, tanto da condurli disarmati di fronte all’esplosione della “Dot-com bubble” di inizio millennio. Il bagno di realtà, però, è sembrato durare poco e la fiducia nel progresso tecnologico e nella rivoluzione digitale ha prontamente riconquistato vigore con il diffondersi dei social network.

Le speranze riposte nella portata libertaria del web ed in particolare dei social, esaltati anche per la loro capacità nel chiamare a raccolta il dissenso nelle piazze (si pensi a quanto si è insistito su ciò a proposito delle “Primavere arabe”), hanno però dovuto fare i conti con il palesarsi della mercificazione di ogni attività in rete, con il loro prestarsi allo spionaggio e alla diffusione di fake news, oltre che con le tante ristrutturazioni aziendali, spesso risoltesi con licenziamenti, che hanno contraddistinto l’economia gravitante attorno al celebrato mondo del web.

Secondo Calzeroni è possibile leggere il malessere che si agita all’interno della rete come un indicatore dell’eccesso di fiducia riposta nella portata libertaria del web.

Un malessere che ogni giorno si manifesta in modo sconcertante: ludopatie, bullismo on line, misoginia, xenofobia, radicalizzazione religiosa, polarizzazione delle opinioni, violenza. Di fronte a queste miserie lʼintelligenza collettiva si mostra oggi per quel che è: non unʼutopia, ma pura propaganda. Propaganda di un ristretto numero di aziende informatiche che accumula ricchezze gigantesche attraverso il sostegno e il tornaconto politico di altri poteri. La lettura del presente attraverso la lente patinata del progresso tecnologico maschera una cruda realtà: sfruttamento, disgregazione sociale, precarietà esistenziale, solitudine, perdita di punti di riferimento, frustrazione. In termini più brutali: il vuoto interno ed esterno al soggetto. (pp. 10-11)

L’idea che vedeva nella digitalizzazione un viatico per potenziare enormemente le capacità umane dispensando libertà, informazione e una generale propensione al bene comune, sembra aver perso terreno a beneficio della convinzione che tale trasformazione, in fin dei conti, non faccia che esplicitare ed amplificare la fragilità e l’isolamento degli individui. Occorre però evitare, avverte lo studioso, di semplificare il tutto accusando tale processo dei mali della contemporaneità.

La sofferenza che permea la nostra società e si insinua in modo evidente nelle esperienze mediatiche non deriva in origine dalle macchine. Appare innanzitutto legata a una mutazione antropologica del soggetto, la quale a sua volta è stata determinata, negli ultimi decenni, da una riconfigurazione del sociale a tutto tondo: non solo del nostro rapporto con le macchine, ma anche delle relazioni interpersonali, del mondo del lavoro, dei nostri sistemi di governo. La questione essenziale non è la tecnica in sé ma l’intreccio tra lo sviluppo tecnico e i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato il passaggio dalla società industriale avanzata della seconda metà del Novecento all’attuale società dellʼinformatizzazione. Cambiamenti che hanno determinato un progressivo impoverimento della nostra vita relazionale. (p. 11)

Il sistema tecnologico-mediatico attuale, oltre che esercitare una funzione di sorveglianza e di indirizzo di tutte le informazioni prodotte on line, pare davvero, come sostenuto da Jonathan Crary2, intercettare e sfruttare la destabilizzazione umana dilatando i tempi e i modi di comunicazione, lavoro e consumo.

Il centro del problema, secondo Calzeroni, è da cercarsi nella crisi del soggetto inteso come prodotto sociale; una crisi che complica enormemente la possibilità di formare o riconoscere un legame collettivo capace di liberarsi dall’estrema singolarizzazione dell’essere umano contemporaneo.

Secondo lo studioso, i media digitali tendono ad amplificare gli effetti più alienanti del mezzo televisivo. Interattività e connettività, anziché migliorare la qualità delle relazioni sociali, sembrano piuttosto averle ulteriormente impoverite incrementando isolamento ed alienazione sociale. «Se lo spettatore televisivo, completamente immerso nella simultaneità, tende a sciogliere la propria individualità in un rito-spettacolo collettivo, salvo poi ritrovarla come un perfetto signor nessuno nelle grandi maschere identitarie del conformismo, lʼutente delle tecnologie digitali la mantiene sempre» (p. 19). Pur esprimendosi spesso in maniera del tutto anonima, egli non è il nessuno delle grandi folle otto-novecentesche; è semmai un qualcuno anonimo desideroso di farsi notare, di “mettersi in vetrina”, come direbbe Vanni Codeluppi3.

L’individuo digitale lavora senza sosta alla costruzione della propria immagine passando da una tribù identitaria ad un’altra, prendendo parte a comunità rette da scambi interpersonali fragili in quanto sostenuti da investimenti a rapido esaurimento. In un contesto ove la socializzazione è ridotta ai minimi termini, lo svilupparsi di una progettualità politica appare secondo Calzeroni del tutto fuori portata: «sulla Rete si può accendere una rivolta, legata alla somma elementare di rivendicazioni e sofferenze comuni, ma non c’è modo (e tempo) di costruirvi una prospettiva strategica.» (p. 20)

La cyberpolitica si fonda sulla valorizzazione dell’estensione della partecipazione ai processi decisionali, ed il successo del cyberpopulismo deriva dall’idea che le tecnologie della connettività possano realmente sostenere un processo di autodeterminazione fondato sulla valorizzazione delle individualità. Il motore della Rete, però, avverte Clazeroni, «non è né il singolo utente né il contenuto, ma l’apparato tecnico che li cattura entrambi, trasformandoli in dati e metadati. Sono gli algoritmi a svolgere il compito più importante: la valorizzazione di tutto ciò che viene prodotto on line.» (p. 23) Altro che “intelligenza collettiva”, sostiene l’autore, occorre prendere atto che si è piuttosto di fronte ad un “sistema intelligente” efficiente nel creare valore e ricchezza ricorrendo ai dati prodotti dagli utenti e dalle macchine.

Gli utenti delle tecnologie digitali non sono affatto i membri di una comunità auto-organizzata che si muove verso il progresso. Sono piuttosto materie prime, merci e macchine produttive da dirigere, impiegare, scansionare e assemblare (ad esempio in curve statistiche). Nel capitalismo digitale il soggetto-consumatore di beni e servizi è sempre al lavoro perché produce informazione incessantemente e inconsapevolmente. Ciò che è importante non è che cosa le persone si scambino on line. Ciò che è determinante è che la gente, per conto proprio o in gruppo, produca dati in grande quantità. (p. 23)

In sostanza, l’economia dei Big data si fonderebbe su un meccanismo interno al soggetto che l’ha trasformato in una macchina di consumo. Secondo lo studioso, la deriva relazionale che oggi caratterizza i media digitali dipende dall’intrecciarsi di svariati processi di disgregazione della società contemporanea.

Se si osserva questo cambiamento antropologico nella sua scena più intima, nelle dinamiche della soggettivazione, il problema centrale è il godimento consumistico o, per dirla in termini lacaniani, lo strapotere dellʼimmaginario, con i suoi specchi narcisistici e le sue trappole pulsionali. Nel passaggio storico dalla società industriale avanzata alla società dellʼinformatizzazione, la dissoluzione del soggetto sembra sbarrare la strada a qualsiasi negoziazione collettiva del senso dellʼesperienza. Lʼelaborazione simbolica della realtà si è oggi progressivamente impoverita favorendo le epidemie di un immaginario antisociale che è al centro del processo di soggettivazione proprio perché ne comporta il continuo fallimento. Le infrastrutture digitali della comunicazione, invece di favorire le relazioni interpersonali, sfruttano e amplificano a dismisura proprio queste dinamiche di desoggettivazione. (p. 124)

La prospettiva dell’intelligenza collettiva fondata sul web sembra pertanto davvero infrangersi di fronte alla mancanza del soggetto. Nella società dellʼinformatizzazione l’individuo, sostiene Calzeroni, subisce

due principi prestazionali contrapposti e paradossalmente sovrapposti: un principio di prestazione sregolativo e un principio di prestazione repressivo di tipo francamente marcusiano. La loro combinazione è il riflesso psichico di quel variegato sistema post-disciplinare della tarda modernità che potremmo chiamare società del comando. Un sistema (o meglio, un non-sistema) sociale che ruota attorno al comando del godimento e che esprime un potere economico-sociale-politico, insieme, autoritario, in relazione alla sua carica oppressiva, e sfuggente, in relazione alla sua costitutiva incertezza: agendo in contesti sociali del tutto instabili e su individui dominati dal principio prestazionale sregolativo, il potere oggi si impone ma non può innescare soggettivazione.» (p. 90)

Oltre a contestare l’idea di intelligenza collettiva sostenuta a suo tempo da Lévy, presupponente l’esistenza di una razionalità immanente al divenire dell’esperienza, Calzeroni allarga la sua critica anche a più recenti proposte di liberazione digitale di ispirazione marxista. Gli stessi Michael Hardt ed Antonio Negri4 sono criticati dallo studioso in quanto nel loro ragionamento «lʼattualizzazione del potere costituente della soggettività antagonista» ha come precondizione «lʼesistenza di una dimensione sociale e affettiva già di per sé razionalmente orientata alla cooperazione intersoggettiva» (p. 125).

Secondo Calzeroni occorrerebbe invece prendere atto di come le tecnologie della connettività risultino inadeguate allo sviluppo di esperienze di antagonismo.

Sulla Rete riecheggiano e si amplificano i problemi di quella che abbiamo chiamato società del comando: la disgregazione sociale, la precarietà, la frattura tra dinamismo psicosomatico e realtà sociale, il carattere oppressivo e discontinuo del potere governamentale. Se si vogliono dare nuove prospettive al pensiero della resistenza o dell’antagonismo bisogna ripartire da qui, dalle derive della singolarizzazione che distorce la socializzazione e determina alienazione. Se l’obiettivo è quello di riuscire a organizzare le nostre singolarità in una soggettività politica, la strada da seguire non potrà essere quella di anti-Edipo né quella di Eros e Civiltà. Qui non si tratta più di liberare un desiderio ormai addomesticato o una pulsionalità repressa, ma di dare una forma sostenibile e vitale alla corporeità, oggi sempre più esaltata e allo stesso tempo mortificata nelle dinamiche del consumo e dello sfruttamento. Se il corpo è il nostro orizzonte di riferimento, non possiamo certo inseguire la ricerca di un nuovo ordine autoritario-repressivo. Non faremmo altro che restituire centralità a quel discorso del padrone che, come aveva chiarito Lacan nel periodo infuocato della contestazione sessantottina, è espressione di un legame sociale alienante fondato sulla legge della trascendenza e dellʼinterdizione. Quel legame, d’altra parte, solleva inevitabilmente un problema di ordine etico e politico che investe, prima ancora che il rapporto tra noi e il potere, la nostra relazione con il desiderio e con il reale del corpo (pp. 126-127).

Secondo l’auore di Narcisismo digitale, occorrerebbe pertanto rivitalizzare il senso di una comunità puntando sul recupero della dimensione orizzontale della socialità, dovrebbe essere  recuperata una socializzazione piena, capace di creare il senso di una soggettività collettiva al di là dei modelli tecnico-procedurali: «l’obiettivo non è la messa in moto e il funzionamento delle relazioni sociali, ma la qualità delle significazioni immaginarie che si possono innescare. E qui deve entrare in gioco l’affettività, perché solo la complicità solidaristica del legame affettivo può accompagnare il soggetto all’incontro fraterno con l’Altro, sottraendolo alla situazione angosciosa determinata dalla singolarizzazione o da una socializzazione distorta, fondata sull’abuso di sé e degli altri» (p. 132).


  1. P. Lévy, Cyberdemocrazia. Saggio di filosofia politica, Mimesis, Milano-Udine, 2008. P. Lévy, Lʼintelligenza collettiva. Per unʼantropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996. 

  2. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino, 2015. 

  3. V. Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine, 2015. 

  4. M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Bur, Milano, 2001; M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano, 2010; M. Hardt, A. Negri, Questo non è un manifesto, Feltrinelli, Milano, 2012. 

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Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi https://www.carmillaonline.com/2019/04/11/crisi-globale-e-geopolitica-dei-neopopulismi/ Wed, 10 Apr 2019 22:01:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51888 Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, 25,00 euro

Il testo di Raffaele Sciortino appena pubblicato dall’editore Asterios, dedicato alle conseguenze politiche, economiche, sociali e geopolitiche che negli ultimi dieci anni sono derivate dal riesplodere della crisi economica generalizzata seguita alla cosiddetta crisi dei mutui subprime sviluppatasi a partire dagli Stati Uniti nel 2008, è veramente denso di informazioni e ricco di spunti di riflessione.

L’autore, dottore di ricerca in studi politici e relazioni internazionali, è un ricercatore indipendente che oltre ad aver pubblicato numerosi saggi e articoli, sia cartacei che on line, [...]]]> Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, 25,00 euro

Il testo di Raffaele Sciortino appena pubblicato dall’editore Asterios, dedicato alle conseguenze politiche, economiche, sociali e geopolitiche che negli ultimi dieci anni sono derivate dal riesplodere della crisi economica generalizzata seguita alla cosiddetta crisi dei mutui subprime sviluppatasi a partire dagli Stati Uniti nel 2008, è veramente denso di informazioni e ricco di spunti di riflessione.

L’autore, dottore di ricerca in studi politici e relazioni internazionali, è un ricercatore indipendente che oltre ad aver pubblicato numerosi saggi e articoli, sia cartacei che on line, ha pubblicato precedentemente due testi per lo stesso editore oltre ad aver curato per le edizioni Colibrì, insieme ad Emiliana Armano, un testo di Loren Goldner sul lungo ’68, Revolution in our lifetime, recensito poco tempo fa proprio su Carmilla (qui)1.

Nel corso delle 300 e più pagine che compongono il testo l’autore non si accontenta di esaminare le cause della nuova Grande crisi e le sue conseguenze sull’ordine geopolitico, economico e finanziario internazionale ma anche, e forse soprattutto, gli smottamenti che essa ha suscitato all’interno del sistema socio-politico e di classe che, soprattutto in Occidente, si era andato apparentemente stabilizzando nel corso della seconda metà del ‘900. Oltre a ciò il testo si rivela estremamente stimolante nelle sue riflessioni sull’ascesa della Cina come potenza egemone e delle conseguenze che ciò ha comportato per le politiche commerciali e militari per gli Stati Uniti da Obama a Trump.

Anche in questo caso, però, l’autore non si accontenta di uno sguardo macroeconomico e geopolitico sui fatti trattati, ma collega questi allo sviluppo della lotta di classe sia nel paese asiatico che nel declinante occidente. Occidente in cui la rinascita dei populismi può portare con sé sia un semplice ritorno al nazionalismo di stampo fascista (sovranismo), sia ad imprevedibili ed inaspettati sviluppi per una futura affermazione di una società basata sulla comunità umana e sulla negazione dello sfruttamento generalizzato della specie, dell’ambiente e delle sue risorse a vantaggio di pochi singoli o di una singola classe.

Proprio per questo motivo abbiamo scelto di riportare qui alcuni estratti particolarmente interessanti tratti dalle conclusioni dell’autore (pp. 302-305). [S.M.]

Interviene qui il secondo grande fattore, la spinta dei neopopulismi come forma attuale della lotta di classe in Occidente. Se per il proletariato cinese e, a seguire, per quella parte delle masse espropriate del Sud del mondo costrette a migrare, la prospettiva pare ancora potersi porre nei termini di un miglioramento sociale pur in cambio di duri sacrifici – nell’Occidente in profonda crisi la questione va già oltre. Qui il declassamento e il depauperamento, seppur ancora relativi più che assoluti, alludono a un domani precarissimo in cui l’ascesa sociale è finita né è in vista un nuovo compromesso sociale. E’ la confusa percezione di ciò che sta oggi diventando esperienza di massa. E’ anche il segno della crisi definitiva – per molti difficile da accettare – del movimento operaio e della sinistra, dell’ipotesi di un compromesso riformista via via trasformatosi nella cetomedizzazione dell’operaio. […] Ciò spazza via ogni prospettiva di progresso, linfa vitale di ogni sinistra possibile. Rientrano in questo quadro lo scollamento vertiginoso delle masse ripetto alle cosiddette élite, la sfiducia montante veso ogni ceto politico, la diffidenza crescente verso il tradimento delle classi ricche che, sempre più isolate in mondi dorati, lasciano andare alla deriva il resto. Per ragioni evidenti, e discusse in questo lavoro, tutto ciò non può darsi all’immediato con la ripresa di una qualche prospettiva anticapitalista, ma deve attingere a confuse, contraddittorie, spurie idee e pratiche democratiche – solo, di un democraticismo plebeo tendente al sanculottismo, terrore di ogni liberale degno di questo nome – con le quali cercare di porre rimedio, con una rabbia sorda e spesso disperata, a quella che è oramai una vera e propria disconnessione tra la riproduzione sistemica capitalistica basata sul capitale fittizio e la riproduzione sociale e di una natura sempre più devastate. La mobilitazione dei gilets jaunes – per richiamare quella che si è rivelata finora in Occidente la più combattiva e significativa mobilitazione dalle caratteristiche neopopuliste – è eloquente al riguardo.

La complicazione è che non siamo alla ricomposizione di un nuovo soggetto sociale unitario e trainante, o ai primi confusi segnali di una ricomposizione a venire. Siano alla s/composizione definitiva del soggetto proletario già frantumato dai processi di ristrutturazione capitalistica seguiti al lungo Sessantotto, e atomizzato dalla successiva globalizzazione finanziaria. L’ambivalenza caratteristica dei neopopulismi dal basso sta così nel loro essere espressione d’istanze di classe, ma di una classe iperproletaria liquida, sciolta nella completa subordinazione al rapporto di capitale, di cui pure sente il peso sempre maggiore. L’umanità che rimane – comunque la si voglia definire – deve in qualche modo reagire, non può più vivere come prima, e in alcuni, ancora isolati, casi di mobilitazione che vanno oltre l’urna elettorale, inizia a non voler più vivere come prima. La direzione che assumono queste spinte è per un verso molto al di sotto di quanto abbiamo conosciuto in passato come antagonismo di classe. Potremmo anche tranquillamente dire: infinitamente al di sotto. Ma proprio perché, con un passaggio al limite, è il terreno stesso del confronto che si è dislocato in avanti: non più classe contro classe, già espressione del rapporto contraddittorio e però inscindibile tra capitale e lavoro per soluzioni di compromesso sul terreno comune dello sviluppo, ma in nuce ricerca a tentoni di soluzioni comuni per una comunità senza classi da costituire di fronte al disastro che avanza. Il terreno della contrapposizione è dunque potenzialmente molto più avanzato, più vicino ai nodi profondi della riproduzione di una società sottratta ai meccanismi della competizione e dell’isolamento atomizzante. […]

La dialettica reazione-progresso in Occidente si è definitivamente rotta, come quella ad essa sottesa lotte proletarie-sviluppo capitalistico.
Non siamo di fronte a spinte e tendenze contingenti. Di qui bisogna passare, piaccia o non piaccia. Cittadinismo e sovranismo sono le due matrici, per lo più intrecciate tra di loro, confluite finora nelle variegate spinte neopopuliste. Oggi si può avanzare l’ipotesi che un primo tempo di questa dinamica sta volgendo alla conclusione: da un alto la mobilitazione prevalentemente elettorale ha dato quello che poteva dare e formare nuovi, stabili blocchi sociali si rivela oltremodo difficile; dall’altro, la reazione dei poteri forti globalisti porta los contro sul terreno più duro, mentre la crisi va avanti e con essa le tensioni geopolitiche dentro l’Occidente e tra esso e il resto del mondo. Ci aspetta allora con ogni probabilità un secondo tempo, più declinato verso un nazionalismo più crudo con basi sociali anche proletarie, indice di un inasprimento sia dello scontro sociale interno ai paesi occidentali sia di quello esterno tra gli interessi divergenti dei diversi Stati. I segnali ci sono tutti. Del resto, si dimentica spesso e volentieri che la deriva nazionalista è sempre stata un rischio, e più che solo un rischio, interno allo stesso movimento operaio. Financo nelle forme democratiche del compromesso sociale salariale e welfaristico che, fino a prova contraria, hanno nazionalizzato le masse lavoratrici in un modo più stabile di quanto non avessero conseguito i fascismi. Oggi, siamo però in una fase diversissima: non è in gioco l’integrazione delle masse ma, causa la crisi della globalizzazione, la disintegrazione del tessuto sociale che le ha fin qui tenute avvinte al mercato relativamente regolato dei paesi imperialisti. Il punto è che questa deriva si pone, attenzione, sulla medesima direttrice della ripresa possibile di una più forte mobilitazione sociale, di una massificazione del disagio e della ricerca di vie d’uscita, dagli esiti apertissimi, con varchi che si apriranno anche per soluzioni oggi impensabili.

Siamo, cioè, in una situazione che, a voler scomodare paragoni storici, ricorda un po’ più la Prima Guerra Mondiale -tra conflitti inter-imperialistici, nazionalizzazione del proletariato e però anche possibilità rivoluzionarie – che non la Seconda, chiusa fin dall’inizio a ogni possibile ribaltamento dell’ordine capitalistico nonostante fosse il prodotto di una sua profondissima crisi.
Le forme concrete, politiche e geopolitiche, che questo processo assumerà sono tutte da vedere.


  1. R. Sciortino, Obama nella crisi globale (Asterios 2010) e Eurocrisi, Eurobond e lotta sul debito (Asterios 2011)  

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