comunità umana – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Immaturi e vivi oppure morti e maturi? Appunti per una mobilitazione studentesca /2 https://www.carmillaonline.com/2022/02/08/immaturi-e-vivi-oppure-morti-e-maturi-appunti-per-una-mobilitazione-studentesca-2/ Tue, 08 Feb 2022 21:30:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70444 di Sandro Moiso

Scorre in questi giorni, su Netflix, una serie sudcoreana intitolata Non siamo più vivi (nell’edizione originale All of Us Are Dead) che può costituire, fatte tutte le dovute differenze tra la società e la scuola sudcoreana e le nostre, un’utile ed interessante analogia con le attuali lotte degli studenti delle scuole superiori italiane.

Nella serie, la cui prima stagione è strutturata in dodici episodi, la scuola uccide, come nella attuale realtà degli istituti di istruzione superiore italiani, e di questa violenza non sono soltanto responsabili gli zombi, che nella [...]]]> di Sandro Moiso

Scorre in questi giorni, su Netflix, una serie sudcoreana intitolata Non siamo più vivi (nell’edizione originale All of Us Are Dead) che può costituire, fatte tutte le dovute differenze tra la società e la scuola sudcoreana e le nostre, un’utile ed interessante analogia con le attuali lotte degli studenti delle scuole superiori italiane.

Nella serie, la cui prima stagione è strutturata in dodici episodi, la scuola uccide, come nella attuale realtà degli istituti di istruzione superiore italiani, e di questa violenza non sono soltanto responsabili gli zombi, che nella serie costituiscono la manifestazione epifenomenica della violenza insita nella stessa istituzione, ma ancor di più un mondo adulto fatto di ipocrisia, competizione, obbedienza, supponenza, ordine, militarismo e disciplina oltre che gerarchizzato in una rigida struttura classista.

I giovani protagonisti, quasi tutti appartenenti, per vari e differenti motivi, alla schiera dei reietti della scuola dovranno lottare contemporaneamente contro tutto ciò: contro gli zombi (che oltre tutto riflettono le conseguenze di vite che non è più possibile considerare tali), contro i propri fantasmi e contro il bullismo che si rivela, se osservato in filigrana, essere nient’altro che la proiezione fantasmatica, nel mondo psichico degli adolescenti che lo esercitano, di una sorta di rivalsa nei confronti delle violenze e viltà subite o osservate nel modo “maturo” degli adulti, dei docenti e dei dirigenti della scuola.

Per sopravvivere e crescere dovranno passare attraverso diverse e difficili prove e imparare, nel corso di una durissima e spietata lotta da cui dipende la loro vita o la loro morte, a diventare qualcos’altro da ciò che la società e la famiglia avevano programmato per loro. Finendo col constatare che proprio nel fallimento degli obiettivi e dei risultati ritenuti indispensabili dal mondo “maturo” sta il segreto della sopravvivenza e della crescita, sia individuale che collettiva.

E’ un messaggio forte quello che la serie trasmette, particolarmente adatto ad interpretare metaforicamente anche l’attuale situazione della scuola italiana.
Una scuola classista, lontana e slegata dai bisogni reali dei giovani; basata sulla promozione di una costante competitività tra i singoli e sull’esclusione di chi in tale gara senza scopo si sente a disagio. E in cui l’interesse imprenditoriale prevale su quelli inerenti alla formazione, anche a costo della morte di chi, almeno virtualmente, dovrebbe essere formato.

Una scuola in cui si straparla di bullismo, ma che non ne abolisce le cause nel momento in cui troppo spesso i dirigenti, in un liceo di Cosenza come in tante altre scuole, coprono violenze e metodi intimidatori dei docenti per difendere “il buon nome della scuola”, oppure in cui si denuncia l’eccessiva esposizione sul web degli allievi senza considerare come la stessa dad obblighi i medesimi a relazionarsi sempre più spesso, con gli altri e soprattutto con chi dovrebbe formarli ed istruirli, proprio attraverso la rete.

E’ per questo motivo che il tema dell’immaturità e della maturità degli allievi non può essere affrontato soltanto attraverso il tema dell’ormai pagliaccesco ed inutile esame di maturità. Esame pretenziosamente definito “di Stato” che, però, non è più tale nel momento in cui non garantisce più un titolo sicuro. Né per l’ammissione alle facoltà universitarie (essendo oggi necessario per molte di esse un ulteriore esame di ammissione), né tanto meno a un titolo professionale valido in quanto tale (vista anche l’abolizione degli albi di molti di questi) sul mercato del lavoro.

Maturità che non può passare soltanto per il vaglio di una commissione giudicante nominata ad hoc e nemmeno soltanto per le “virtù” e conoscenze raggiunte per il tramite di un percorso scolastico sclerotizzato da decenni (e che fu parzialmente rinnovato in passato soltanto grazie alle lotte degli studenti, poi rinchiuse in un solido recinto dai “democratici” Decreti Delegati già nel 1974).
Maturità che ancor meno può essere valutata attraverso il raggiungimento da parte degli allievi degli obiettivi prefissati da una società basata sullo sfruttamento del lavoro, manuale o intellettuale che esso sia.

I giovani, da questo punto di vista e ancor di più durante la lotta, potrebbero rivendicare la loro alterità ai fini della società che è alla base del loro disagio, del loro scontento e degli stessi comportamenti violenti che troppo spesso ricadono su di loro.
Non a caso, nel corso della serie sopracitata, per tutto il tempo resta appeso ad una finestra della scuola il cadavere di una giovane studentessa, evidentemente suicidatasi per sfuggire all’orrore che la circondava. Ma vien da chiedersi: soltanto per sfuggire agli zombi? Oppure, soprattutto, a tutto il resto?

Riferimento palese a Giappone e Corea, dove l’elevatissima concorrenzialità tra gli studenti causa un elevato numero di suicidi tra coloro che pensano di non farcela. Una competizione portata all’estremo che, anche qui in Italia, attraverso il sistema dei crediti scolastici ha iniziato ad essere introdotto in forma più evidente, anche se non ancora con pieno successo. Mentre anche da noi, nel corso dei due anni di pandemia e chiusure, i casi di suicidio tra i giovani sono praticamente raddoppiati.

E’ di questi mesi la paura diffusasi, soprattutto tra molti giovani, attraverso il messaggio portato dall’ultimo discendente dei sempre truffaldini Kennedy, Robert jr., alla manifestazione no green pass di Milano di qualche mese fa, dell’introduzione del sistema cinese dei crediti sociali nel nostro paese. Al di là della propaganda anti-cinese contenuta nel messaggio di un rappresentante del mondo politico americano, sempre più determinato ad agitare il fantasma del babau asiatico sia in politica estera che interna, questa preoccupazione da fake è davvero immotivata e fuorviante, una volta considerato che il capitalismo occidentale e nostrano ha già introdotto da tempo, sia nella società italiana che europea, infiniti strumenti di controllo e regolamentazione dei comportamenti di cui il green pass è soltanto l’ultimo e nemmeno più importante1. In un regime in cui la deprimente manifestazione canora di Sanremo funziona molto meglio delle adunate oceaniche di mussoliniana memoria, accompagnata com’è stata dall’Inno di Mameli in apertura ed da una marcia militaresca (titolo: Armi e brio) in chiusura.

Il tema della maturità/immaturità così come si presenta in termini meramente scolastici rischia di trasformarsi in un terreno estremamente viscido e fangoso per tutti quei giovani che vogliono, così come stanno già facendo, misurarsi con un sistema di istruzione che, comunque, nella disciplina e nella competizione individuale fonda le sue basi.
Rompere con questa impostazione per andare ben oltre le miserabili concessioni che parte dell’autorità scolastica è pronta già a fare, come sembra dal recente giudizio negativo espresso a proposito della necessità di una seconda prova scritta all’esame di quest’anno, risulta pertanto indispensabile.

Accettare di trattare col ministro su queste semplici e ”scolastiche “ basi significherebbe tralasciare l’altra ben più importante questione dell’alternanza scuola-lavoro e ancor più quella della reale scuola che gli allievi vorrebbero. Non è infatti nella cultura classista, cattolicheggiante e perbenista trasmessa dall’istituzione scuola che gli allievi e i giovani possono trovare risposta alle domande che li assillano.

Chiedere l’abolizione dell’esame di maturità, rifiutare il titolo attestante la maturazione individuale sulle basi dell’ideologia trasmessa dalla società attraverso la scuola, rivendicare una propria immaturità nei confronti di un mondo talmente maturo da essere ormai prossimo alla putrefazione, potrebbe invece rappresentare la vera sfida e la via d’uscita da un possibile impantanamento delle lotte su un terreno falsamente riformistico e privo di prospettive di crescita.

Ritrovarsi come giovani in lotta, rimettere in discussione conoscenze e saperi ossequiati per dovere più che per reale convinzione ed aprire la mente ad una conoscenza non indirizzata soltanto alla carriera e al profitto, potrebbe costituire una reale alternativa. Esaltante ed avventurosa insieme, senza temere di esser definiti immaturi da chi ha sempre trattato come tali i rivoluzionari, gli eretici e i ribelli.


La scuola, attualmente non è degli studenti, inutile illudersi e riempirsi la bocca di discorsi tratti dai peggiori dizionari del politicamente corretto. La scuola va riconquistata in quanto luogo di contraddizioni, di scontro e di lotta. Esattamente come cercano di fare i giovani eroi di Non siamo più vivi, poiché la lotta è, prima di tutto, una battaglia per rimanere vivi e per formare una reale comunità umana, rifiutando di essere destinati a diventare soltanto degli automi a disposizione del capitale e dei suoi funzionari.

(Qui la prima parte)


  1. Si vedano in proposito gli articoli pubblicati da Giacchino Toni, su Carmillaonline, proprio sul tema delle “Culture e pratiche di sorveglianza”  

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La lunga notte del capitale: Leopardi, la natura e il senso ultimo della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2021/12/15/leopardi-la-natura-il-capitale-e-la-lotta-di-classe/ Wed, 15 Dec 2021 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69556 di Sandro Moiso

L’intervento seguente è dedicato a Emilio Scalzo, militante No Tav, e al coraggio e alla dignità con cui affronta una persecuzione poliziesca e giudiziaria che da sola basterebbe a dimostrare l’illusorietà di ogni promessa di giustizia e rispetto dei diritti in una società il cui ordinamento è rivolto soltanto all’accumulazione del capitale.

Per chiudere l’anno con una serie di considerazioni che possano servire ad inquadrare fatti recenti e pensieri lontani nel tormentato cammino della lotta contro l’attuale modo di produzione, occorre tornare ad uno scrittore ancora troppo poco compreso, sia dal dal punto di vista filosofico che [...]]]> di Sandro Moiso

L’intervento seguente è dedicato a Emilio Scalzo, militante No Tav, e al coraggio e alla dignità con cui affronta una persecuzione poliziesca e giudiziaria che da sola basterebbe a dimostrare l’illusorietà di ogni promessa di giustizia e rispetto dei diritti in una società il cui ordinamento è rivolto soltanto all’accumulazione del capitale.

Per chiudere l’anno con una serie di considerazioni che possano servire ad inquadrare fatti recenti e pensieri lontani nel tormentato cammino della lotta contro l’attuale modo di produzione, occorre tornare ad uno scrittore ancora troppo poco compreso, sia dal dal punto di vista filosofico che politico, nonostante il suo nome sia pur sempre considerato di grande rilevanza culturale: Giacomo Leopardi.

Un autore “classico” che, nonostante lo sforzo di aggiornamento fatto con il bel film del 2014 di Mario Martone e interpretato da Elio Germano, Il giovane meraviglioso, viene ancora troppo spesso definito semplicemente pessimista piuttosto che, come sarebbe più corretto, materialista.

Ma se qualcuno chiede cosa può ancora insegnarci, oggi, lo scrittore-filosofo di Recanati, la prima cosa che occorre sottolineare è l’atteggiamento che lo scrittore assunse nei confronti della Natura “matrigna”.
Stiamo attenti: matrigna e non nemica, una differenza non di poco conto, poiché nel primo caso si tratta di una madre acquisita che deve distrattamente occuparsi di creature non volute né, tanto meno, volutamente cercate; mentre nel secondo caso opererebbe per colpire volontariamente l’uomo, danneggiarlo, farlo soffrire di proposito e, soprattutto, con un cosciente e ben definito proposito.

Secondo Leopardi, se la Natura risulta nemica all’uomo questo è dovuto soltanto al carico di illusioni con cui l’Uomo interpreta la propria condizione esistenziale.
Ciò potrebbe sembrare un tema distante da quelli riguardanti la lotta di classe, eppure, eppure…

Pur facendo sua l’interpretazione poetico-romantica della Natura, in cui questa assume una posizione centrale nell’interpretazione simbolica del mondo e dei paesaggi interiori dell’individuo, Leopardi contribuisce a oggettivarne l’essenza reale in due tra le sue opere più significative: Dialogo della Natura e di un Islandese (1824), tratto dalle Operette Morali, e La Ginestra o il fiore del deserto (1836), tratta dai Canti e composta nel corso dell’ultimo anno di vita del poeta.

Nella prima delle due opere, di fronte alle lamentele avanzate sulla condizione umana dall’infelice Islandese, che è fuggito dall’ambiente aspro in cui è nato soltanto per finire tra le braccia della stessa Natura nel cuore dell’Africa, ove si è rifugiato, la Natura risponde, senza batter ciglio:

Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

E’ una risposta secca, priva di malevolenza, che indica esattamente la posizione che la “matrigna” ha riservato per la creatura anzi, meglio, per tutte le creature del cui destino non intende assolutamente farsi carico. Di cui, però, l’Islandese non si accontenta, poiché domanda ancora:

Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo?

Cui la Natura non può far altro che rispondere:

Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione.

L’indifferenza, la necessità della produzione e distruzione di ogni essere vivente e della materia stessa dominano la logica con cui il povero ed illuso Islandese deve fare i conti. Senza alcuna via d’uscita, come dimostra il finale dell’operetta.
Ancor più vasto è lo sguardo proposto nella Ginestra sulla condizione umana, ma in questo caso, poiché la visione leopardiana è maturata socialmente, all’interno della sua ultima poesia l’autore propone anche una possibile soluzione, senza chiedere alcunché alla matrigna.

Dopo aver descritto il paesaggio lunare e di rovina delle pendici del Vesuvio, su cui sorgevano un tempo le ville dei patrizi romani e pascolavano gli armenti, tutti e tutto spazzato via dall’eruzione del vulcano nel 79 d.C., l’autore dirige immediatamente i suoi strali contro le illusioni che gli uomini, e soprattutto i filosofi fiduciosi nel progresso del suo secolo, hanno contribuito a creare.

A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive.

Per poi proseguire, con lo stesso tono:

Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
[…] Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci dié. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

L’idealismo del secolo sembra voler cacciare, agli occhi di Leopardi, il materialismo degli antichi, riscoperto nell’età della ragione, dall’orizzonte politico-culturale dell’epoca e nel fare ciò illude se stesso e gli uomini tutti di essere in possesso di conoscenze e abilità destinate a far affermare la volontà del singolo sulla Natura e su tutti coloro che allo stesso non vogliono piegarsi.

Superbo e sciocco, sogna e promette la Libertà, ma in realtà vuole solo allontanare da sé la paura di essere scoperto nella sua viltà e debolezza, schernendo e ignorando coloro che si oppongono alle sue vacue ed irrealizzabili promesse.

Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor […]
Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell’orror che primo
contro l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede
quale star può quel c’ha in error la sede.

In quest’ultima parte il poeta delinea quale deve essere il compito di una nobile natura, ovvero quello di rivelare le superbe fole-menzogne che impediscono agli uomini di riunirsi in social catena per ridare vita alla comunità umana, sempre in lotta per evitare di essere dispersa in nome dell’egoismo individuale e dalla propria fragile condizione, nascoste sotto un mare di parole inneggianti (inutilmente e falsamente) alla possibilità, per la miriade di individui in cui la comunità è stata dispersa e frantumata, di raggiungere una personale libertà dal bisogno e dal legame sociale.

Lo sforzo di oggettivazione della Natura e della condizione umana svolto da Leopardi, in antitesi al vano ottimismo borghese, è di portata rivoluzionaria. Qui, in questi versi e nei brani estratti prima dal Dialogo della Natura e di un Islandese, si rivela il vero motivo per cui il poeta è stato relegato, ormai da quasi duecento anni, al ruolo di pessimista, ingobbito dallo studio e quasi accecato dalle letture notturne a lume di candela.

In effetti, di fronte alla menzogna dell’ottimismo capitalistico e borghese, ogni forma di materialismo antico, illuministico o dialettico, appare come una forma di pessimismo o di pensiero negativo. E, in tal senso, la negazione leopardiana della cultura vacua del suo secolo è quanto di più simile alla negazione dell’esistente che sarebbe esplosa nelle lotte di classe di quegli anni e nel passaggio dal socialismo utopistico a quello di Marx ed Engels (anche se scrisse quasi tutte le sue opere prima che Marx avesse raggiunto la maggior età, mentre il Manifesto del Partito Comunista sarebbe stato scritto nel 1848, undici anni dopo la sua morte).

Per questo motivo il suo messaggio, indirizzato per forza di cose ai posteri, ha “dovuto” essere distorto, anche in grazia di una filosofia e cultura cattolicheggiante con cui il filosofo e poeta di Recanati si trovò già in aperta polemica mentre era in vita. Riscoprirlo, pertanto, non significa far opera di restauro di un monumento poetico del passato, ma ritrovare alcuni passaggi fondamentali della critica dell’esistente.

Traslare il discorso leopardiano da quello oggettivante la Natura a quello sul capitalismo odierno significa, infatti, acquisire coscienza del fatto che la fiducia che sembra accompagnare ogni discorso sulla possibilità di miglioramento generalizzato dell’attuale sistema di sfruttamento e accumulazione delle ricchezze private assomiglia sempre più alle promesse del cristianesimo (di vita eterna nell’aldilà) e del positivismo borghese (di crescita illimitata dei benefici effetti dello sviluppo). Promesse che come solo intento hanno quello di far perdere di vista l’essenza ultima e reale dell’attuale modo di produzione dominante.

Sì, perché il capitalismo non ha due facce, una buona e una cattiva.
Anzi, il suo vero volto non corrisponde affatto a uno dei due aggettivi usati.
Come la Natura, il Capitalismo è indifferente alle sorti dell’uomo e del pianeta che abita e che ha contribuito a trasformare. Indifferente non soltanto alle sorti di coloro che subiscono le sue angherie e il suo sfruttamento, ma anche a quelle di coloro che agli occhi dei più sembrano essere i veri profittatori del suo funzionamento: gli imprenditori, i finanzieri, i rentier, i politici e i governanti di ogni grado, risma e latitudine. Null’altro che funzioni, ancor più che funzionari, destinati ad essere travolti anch’essi alla prima crisi economica oppure a causa di una guerra perduta o di un errato calcolo personale e/o politico.

Crisi, guerre, epidemie non sono il frutto di calcoli strategici ben o male eseguiti, di raffinati progetti o di un Great Complotto. No, sono i terremoti, le eruzioni vulcaniche, il manifestarsi dei movimenti geologici e profondi dell’enorme tettonica a zolle costituita dalla corsa continua, ed inesorabile (per nessun altro modo di produzione il detto chi si ferma è perduto è stato così vero) al profitto e alla concentrazione proprietaria. Fin dalle sue origini.

Solo in tal senso e alla luce di ciò è possibile comprendere come per il capitale e i suoi funzionari ogni occasione possa essere buona per estrarre pluslavoro, plusvalore e rendita. Le cieche ruote dell’oriuolo, oggi affiancate da ancor più ciechi algoritmi decisionali e profilativi, girano in una sola direzione, scandendo implacabilmente il tempo di rotazione del capitale, della produzione e se necessario della distruzione di ciò che è già stato prodotto o accumulato (insieme ai suoi momentanei detentori) e ad ogni scatto di lancetta qualcosa può e deve avvenire.

Come affermano Carla Filosa, Gianfranco Pala e Francesco Schettino nella Premessa al loro recente Crisi globale. Il capitalismo e la strutturale epidemia di sovrapproduzione (Lad, 2021), la “realtà” del capitale è indissolubilmente legata

al perseguimento del fine “miserabile” e contraddittorio della produzione di plusvalore, quale unico fine di questo sistema. La involontarietà poi, quella che invece viene moralisticamente scambiata per crudeltà od anche brutalità, sta a significare qui la incapacità, non individuale ma proprio del sistema, a far emergere una responsabilità umana cioè razionale delle azioni impiantate, unicamente soggette invece alle leggi di sviluppo precipue della produzione di merce in quanto valore, e indipendentemente dal valore d’uso, che viene così a costituire uno scarto da non considerare. Ѐ chiaro che i comportamenti individuali degli operatori possano essere repellenti od anche riprovevoli, ma il problema non concerne i molti singoli resi subalterni, bensì la centralizzazione sempre crescente del comando sulla forza-lavoro e la classe che ne gestisce il pluslavoro, secondo modalità, ritmi, efficienza, comportamenti indotti, anche valutabili come criminali e disumani.
[…] Se dunque l’accumulazione decresce anche per la saturazione dei mercati esistenti, si deve intensificare lo sfruttamento sia delle risorse inorganiche sia di quelle animali e umane, tutte eguagliate nell’unica accezione di merce, cioè veicolo di valore. Per promuovere inoltre tali condizioni che svelerebbero i fini indicibili del sistema, questo deve ammantarsi di rappresentazioni ideologiche rassicuranti in cui si proclamano ed esaltano benefici per tutti, nascondendo i danni che da questi si producono, finché non appaia la contraddizione reale, imponderabile o magari anche messa in conto, ma che non dovrà mai intaccare – al momento – i profitti attesi che si appelleranno all’“emergenza”.

E’ soltanto la lotta di classe ad inceppare talvolta il meccanismo ad orologeria di cui nessuno ha però le chiavi ultime. E il ruolo dei rivoluzionari non potrà mai essere quello dei “buoni” che combattono contro i “cattivi”, ma quello di essere “altri” , portatori di un altro paradigma: Alieni che, dopo migliaia di avvistamenti e dopo essere stati toppo spesso negati, demonizzati o ridicolizzati, si manifesteranno con tutta la potenza di una negazione radicale destinata, più che a migliorarlo e renderlo più umano, ad oggettivarlo completamente nel suo essere, per comprenderne a fondo le leggi di funzionamento, il suo corso catastrofico, e accompagnarlo così, nella maniera più rapida possibile, alla sua inevitabile fine.

Un compito non tanto diverso da quello che Keplero, Galileo, Newton e Einstein, insieme ad una miriade di altri scienziati meno noti, si diedero nel cercare di comprendere le leggi di quella Natura e di quell’Universo con cui la specie deve fare i conti fin dall’alba del suo apparire sul pianeta, e che Marx ha continuato in ambito sociale, senza mai pretendere che ogni scoperta o intuizione potesse essere l’ultima e definitiva1.

Mentre ogni piagnisteo sparso sull’autoritarismo, la repressione e il mancato rispetto dei diritti “fondamentali” non fa altro che rinnovare la credibilità delle promesse del capitale e del suo funzionariato economico, politico e culturale: democrazia rappresentativa parlamentare, libertà, uguaglianza e universalità dei diritti, diritto al lavoro, diritto alla salute, diritto alla vita e condanna della concorrenza “sleale” non costituiscono altro che specchietti per allodole. Anche se, poi, gli stessi creatori e manipolatori del meccanismo produttivo e riproduttivo hanno finito col credervi in prima persona.

«Finora – scriveva Marx in una lettera a Kugelmann del 27 luglio 1871- si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stata possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso, La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti una volta se ne potessero costruire in un secolo».
Secol superbo e sciocco… oggi oltre tutto rafforzato dal dilagare dei social e del loro sconsiderato uso individuale.

Rincorrere l’emergenza-capitale equivale, soltanto e sempre, a riproporre all’infinito la promessa del miglioramento universale insito nel discorso capitalistico, continuando l’esperienza della socialdemocrazia, e del revisionismo in essa insito, che uno dei suoi principali teorici, il tedesco Eduard Bernstein (1850 – 1932), riassunse in un unico principio: «il movimento è tutto, il fine nulla», poiché l’importante era costituito, a suo avviso, dall’iniziare a riformare e migliorare poco a poco il sistema. Discorso che è continuato fino ad oggi, inficiando di sé, purtroppo, anche tanto “antagonismo riformistico” attuale. Di cui le attuali suggestioni sul tema no green pass costituiscono, oggi, l’aspetto più contraddittorio.

Per contribuire al superamento della prassi e della mentalità immediatista e riformista, è necessario ribadire che la futura rivoluzione dovrà basarsi su un radicale rifiuto del paradigma capitalista ed esprimerne in pieno la negazione. Tema che però, riapre la vecchia diatriba con tutti coloro che ritengono che la semplice negazione dell’esistente non basti e occorra invece proporre iniziative da realizzare subito. Ovvero ancora la riforma dell’esistente per contribuire a mantenerlo ancora in vita.

E’ difficile, per coloro che sentono la necessità di “fare qualcosa subito”, comprendere come la negazione sia già di per sé nucleo programmatico. Se nego, a titolo di esempio, la merce e il denaro, la proprietà privata dei mezzi di produzione e il lavoro salariato già introduco, con il loro rovesciamento, il programma di una società altra. Se nego la necessità di continuare a cementificare e plastificare il mondo oppure quella di sviluppare ancor di più la produzione industriale di beni inutili e dannosi, pongo seriamente il tema della transizione ecologica e ambientale. Ma per realizzare tali programmi occorrerà passare attraverso un processo rivoluzionario che distrugga e non rovesci soltanto il paradigma capitalistico e i suoi apparati.

Certo ottenere qualche accordo locale, qualche diritto momentaneo (condito da qualche bella frase fatta) è più semplice. Così come ammantare i discorsi di contenuti politically correct o liberal; motivo per cui continua a trionfare, anche là dove meno lo si aspetterebbe, il conformismo, mentre sarebbe, invece, l’ora di affermare che «il movimento senza il fine non è nulla» e che separare l’azione politica dal fine non fa altro che indebolirla e annullarne l’utilità.

Certo, questa seconda ipotesi è più faticosa, meno immediata e meno soddisfacente sul piano dell’ego. Soprattutto, la negazione, obbliga a prendere atto che i settori che lottano non possono rivendicare soltanto per sé, come propri, i risultati acquisiti. E questa potrebbe nell’immediato rivelarsi un’amara sorpresa per coloro che rincorrono la faciloneria del risultato immediato.

Se gli uomini, come specie, devono riunirsi in social catena, non possono farlo in nome di uno specifico diritto, di classe, genere, generazionale, etnia o nazionalità. Banale errore in cui continuano a cadere tutti i rappresentanti di una singola causa, quasi sempre ritenuta universale, qualunque essa sia.

Errore fortemente rimarcato dal fallimento di tante (tutte?) rivoluzioni “nazionali” che, pur richiamandosi al socialismo sul modello sovietico-stalinista, non hanno fatto altro, in mancanza di un allargamento internazionale dei moti, che portare al potere una classe, un partito o una élite non tanto diversa da quella che governava in precedenza e che, come quella, ha finito col perseguire il proprio arricchimento o quello di una parte del capitale internazionale.

Insomma, se ho subito dei soprusi, violenze e discriminazioni oltre che lo sfruttamento economico e lavorativo da parte del sistema in cui vivo, non posso immaginare di ricreare un sistema a mia immagina e somiglianza che faccia poi pagare ad altri gli errori e i soprusi subiti in precedenza.

Per chiarirere ulteriormente il concetto: la classe operaia non dovrà riprodurre un mondo operaio, in cui le macchine e gli strumenti di produzione saranno esclusivamente nelle sue mani. Dovrà fracassare quel modello e quel sistema di produzione, per liberarsi e liberare la specie insieme a lei, negando, prima di tutto se stessa. Il proletariato nel suo insieme non potrà accontentarsi di riprodurre un mondo “proletario”, ma dovrà autodistruggersi, distruggendo il modo di produzione attuale, come affermano Marx ed Engels in un testo mai abbastanza apprezzato:

Proletariato e ricchezza sono termini opposti. Essi formano come tali un tutto. Essi sono entrambi forme del mondo della proprietà privata. Si tratta della determinata posizione che assumono nell’opposizione. Non basta spiegarli come due lati d’un tutto.
La proprietà privata, come proprietà privata, come ricchezza, è costretta a conservare in esistenza se stessa e con ciò il proletariato, cioè la propria antitesi. Essa è il polo positivo della contraddizione, la proprietà privata soddisfatta di se stessa.
Il proletariato, invece, come proletariato è costretto ad abolire se stesso, e con ciò la sua antitesi determinante, che lo muta in proletariato, cioè la proprietà privata. Esso è il polo negativo della opposizione, l’agitazione in sé, la proprietà privata dissolta e dissolventesi.
La classe possidente e la classe del proletariato esprimono la medesima “straniazione„ umana. Ma la prima classe si sente in questa straniazione a suo agio e confermata, intende la autoestraniazione come la propria forza, e possiede in essa l’apparenza di un’esistenza umana; la seconda si sente nella estraniazione annullata, scorge in essa la propria impotenza e la realtà di una esistenza inumana. Essa è, per adoperare una espressione di Hegel, “nell’abbiezione la rivolta contro l’abbiezione”, una rivolta alla quale è necessariamente condotta dalla contraddizione della sua natura umana con la situazione della sua vita, che è la negazione aperta, decisiva e generale di questa natura.
Nel seno dunque della contraddizione il proprietario è il partito conservatore, il proletario è il partito distruttore. Da quello promana l’azione della conservazione dell’antitesi; da questo l’azione del suo annullamento.
La proprietà privata veramente nel suo movimento nazionale-economico tende da se stessa alla propria dissoluzione, ma solo attraverso uno sviluppo da essa indipendente, inconscio, che si pone contro la sua volontà, e che è determinato dalla natura delle cose, solo in quanto essa produce il proletariato come proletariato che sappia la miseria della sua miseria spirituale e fisica, sappia il suo abbrutimento, e perciò l’abbrutimento che tende ad abolire se stesso. Il proletariato esegue la condanna che la proprietà privata fa pendere su se stessa con la produzione del proletariato, come esso esegue la condanna che il salariato fa pendere su di sé producendo la ricchezza degli altri e la propria miseria. Se il proletariato vince, esso non diventa affatto per questo il lato assoluto della società, perché egli vince solo in quanto abolisce se stesso e il suo contrario. Allora è annullato, appunto, tanto il proletariato quanto l’antitesi che ne è condizione, la proprietà privata.
Se gli scrittori socialisti ascrivono al proletariato questa funzione storica mondiale, ciò non accade punto perché, come la Critica critica dà a credere, essi ritengano i proletari degli Dei. Piuttosto il contrario.
Il proletariato può e deve liberare se stesso perché l’astrazione di tutta la natura umana (Menschlichkeit), anche dell’apparenza di umanità (Menschlichkeit), nel proletariato vero e proprio praticamente è completa; perché nelle condizioni di vita del proletariato tutte le condizioni di esistenza dell’odierna società sono condensate nelle loro forme più inumane; perché l’uomo è perduto nello stesso, ma ha guadagnato nell’istesso tempo la coscienza teoretica di questa perdita, non solo ma è anche costretto immediatamente, dal bisogno assolutamente imperioso ed urgente ed implacabile – l’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità. Ma esso non può liberarsi senza abolire le sue proprie condizioni di esistenza. Esso non può abolire le sue proprie condizioni di vita senza abolire tutte le inumane condizioni di vita della società moderna che si compendiano nella sua situazione. Esso non prova invano la dura, ma ritemprante scuola del lavoro. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario o anche tutto il proletariato si rappresenta provvisoriamente come scopo. Si tratta di ciò che è e di ciò che sarà costretto a fare storicamente conforme a questo essere.
Il suo scopo e la sua azione storica sono tracciati nella sua propria base di esistenza, come in tutta l’organizzazione dell’odierna società borghese, in modo evidente ed irrevocabile.2.

E’ importante, oggi come non mai, vista l’immensa ristrutturazione sociale in corso, legata all’impoverimento diffuso su scala globale, l’utilizzo del termine proletariato, perché al suo interno sono racchiuse e comprese tutte le contraddizioni reali; anche se il suo essere dovrà, per forza di cose, passare attraverso una riorganizzazione “politica” interna lunga e, probabilmente, dolorosa.

Infatti, ogni separazione identitaria mina, inevitabilmente, l’unità del colosso e se questa affermazione offenderà la sensibilità di alcuni o molti, pazienza, poiché nel suo essere proletariato lo stesso racchiude in sé tutte le forme dell’emarginazione, della repressione, dello sfruttamento e della discriminazione, che contribuiscono a trasformarlo nella classe universale destinata a seppellire il capitalismo, le sue malattie sociali e pandemiche, il suo Stato e i suoi infiniti ed iniqui apparati, in nome della Gemeinwesen o comunità umana.

La società presente in tutte le sue manifestazioni ha l’impronta dell’individualismo. Nonostante che le necessità della vita ed i mezzi di cui attualmente si dispone per soddisfarle (ossia i mezzi di produzione e di scambio) abbiano raggiunto tale stadio da rendere necessario una collaborazione sempre più intrecciata, la minoranza borghese ha interesse a conservare la costituzione individualistica della società, sebbene questa causi i disordini della produzione e l’insufficienza di questa ai bisogni della stragrande maggioranza (Marx).
L’egoismo economico produce una morale (intendiamo per morale un sistema di norme proposte o imposte dalla minoranza dominante), una morale di tipo egoista, tracciata di quell’umanitarismo e di quella filantropia che non sono che arti subdole per celarne la vera essenza, mezzi di difesa contro gli strappi che a quella morale tenta di fare la maggioranza oppressa.
Come la classe borghese vuole, per necessità della propria conservazione, il regime della libera concorrenza tra capitalisti, così avrebbe interesse a che la stessa concorrenza si svolgesse tra i salariati. Per quanto le è possibile la borghesia cerca quindi, col mezzo dell’educazione, che è suo monopolio, di riflettere sul proletariato la sua anima individualistica3.

Individualismo dei diritti e delle libertà singole che è prodotto, oltre tutto, dal sistema mercantile che è proprio del modo di produzione e distribuzione capitalistico e che illude costantemente i singoli proponendo loro, e sempre più oggi per mezzo della rete e dei suoi giganti, oggetti del desiderio indirizzati al soddisfacimento illusorio di ogni loro “specifico bisogno”. Come scriveva già Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844:

Nell’ambito della proprietà privata […] ogni uomo si ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova dipendenza e spingerlo a un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità del denaro diventa sempre più il suo unico attributo di potenza. […] La sua vera misura è di essere smisurato e smoderato. Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l’estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava ingegnosa e sempre calcolatrice di appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari.
[…] E’ così, come l’industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula altrettanto sulla loro rozzezza: sulla loro rozzezza in quanto prodotta ad arte e di cui, pertanto, il vero godimento consiste nell’autostordimento, che è una soddisfazione del bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la rozza barbarie del bisogno4.

E’ dalla dipendenza dal denaro che nasce ogni altra dipendenza, è dall’estraniazione dalla specie che nasce ogni individualismo vagheggiante soluzioni personali per problemi che personali non sono affatto. Ed è dall’individualismo di stampo liberale, e dalla sua rivendicazione di un’impossibile privacy nell’era della pervasività dei social, che sorge ogni ulteriore alienazione dalle attività e dalle necessità della specie; ogni ulteriore, illusoria e menzognera spiegazione delle contraddizioni dell’esistente. Perché, in fin dei conti, complottismo e riformismo non sono altro che le due facce di una medesima, fasulla medaglia, che racchiudono entrambe la speranza di cambiare qualcosa, magari soltanto a vantaggio di pochi, affinché nulla cambi.

Con tutto ciò non si vuol affermare che momenti in cui lotte specifiche non possano rendersi necessari e inevitabili, e nemmeno che da tali lotte non possano sorgere movimenti più ampi e vasti, ma soltanto ribadire che il senso ultimo della lotta di classe non può essere riconducibile a specifici diritti, ma soltanto a quello di tutti gli oppressi di farla finita, una volta per tutte, con un modo di produzione iniquo, dannoso e superato. In nome di una Gemeinwesen che non rappresenta altro che la capacità di tornare a riunire la maggioranza dell’umanità nella social catena tanto cara a Leopardi.

Così mentre certuni si attardano a cercar di cavalcare tematiche irrimediabilmente azzoppate, dissertando ancora di diritti costituzionali e libertà individuali, questo intervento è anche dedicato a tutti coloro che, vittime delle stragi sul lavoro o dei licenziamenti dovuti alla delocalizzazione produttiva messa in atto dalle aziende, vivono davvero, quotidianamente e sulla propria pelle, la lunga “notte del capitale”.


  1. Per Marx stesso le riflessioni contenute nel Capitale non dovevano costituire l’immagine definitiva della realtà, ma un modello per meglio comprenderla e contribuire al suo ribaltamento rivoluzionario  

  2. K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, IV capitolo, Glossa critica marginale n. 2, 1844-1845  

  3. Amadeo Bordiga, La nostra missione, «L’Avanguardia» n. 273 del 2 febbraio 1913  

  4. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi 1968, pp. 127-134  

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Orgasmo del profitto, morte e devastazione per la comunità umana https://www.carmillaonline.com/2021/05/25/orgasmo-del-profitto-morte-e-devastazione-per-la-comunita-umana/ Tue, 25 May 2021 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66466 di Sandro Moiso

Domenica scorsa la cabinovia di Stresa forse stava ancora precipitando, oppure si era già schiantata contro gli alberi dopo un breve e rapidissimo percorso di morte, mentre qualche tiggì trasmetteva le immagini di Salvini che eiaculava la sua instancabile giaculatoria sul “correre, fare in fretta, scavare, abolire le regole che intralciano la ripresa”, in un comizio o durante un’intervista poco cambia considerato che può cambiare la locazione ma mai il contenuto dei suoi grossolani discorsi. Ed era già noto che le vittime erano 14 quando, lunedì 24 sera a [...]]]> di Sandro Moiso

Domenica scorsa la cabinovia di Stresa forse stava ancora precipitando, oppure si era già schiantata contro gli alberi dopo un breve e rapidissimo percorso di morte, mentre qualche tiggì trasmetteva le immagini di Salvini che eiaculava la sua instancabile giaculatoria sul “correre, fare in fretta, scavare, abolire le regole che intralciano la ripresa”, in un comizio o durante un’intervista poco cambia considerato che può cambiare la locazione ma mai il contenuto dei suoi grossolani discorsi.
Ed era già noto che le vittime erano 14 quando, lunedì 24 sera a Otto e 1/2, Alessandro Sallusti dichiarava che le leggi che impongono controlli sugli appalti servono soltanto a danneggiare e limitare gli imprenditori onesti1.

Questa è l’Italia della ripresa, l’Italietta del Recovery Plan, la nazione della Next Generation UE, quella che deve salvarsi tutta insieme: a patto che i sacrifici siano tutti a carico di una parte e i guadagni e i profitti a vantaggio dell’altra. E non basta la presenza dei partiti della sinistra di ”Letta e di governo” per poter giustificare un’azione economica e sociale che del sovrapprofitto legato all’abolizione di qualsiasi controllo e misura di sicurezza ha fatto la sua ragion d’essere e di un governo che come unico vero volto ha quello della repressione sempre più intransigente e feroce nei confronti di ogni forma di protesta dei lavoratori e delle comunità.

Un governo caratterizzato da un Ministero della transizione ecologica che come primo provvedimento ha messo in atto quello dell’autorizzazione alla trivellazione dei fondali marini, mentre il super-esperto Cingolani balbettava di averlo ricevuto già così (un po’ come fecero i 5Stelle sia nei confronti del TAP che del TAV). Un governo che porta sul volto dei suoi maggiorenti il ghigno del capitale e della finanza globale, aggravato da atteggiamenti di falsa e gesuitica modestia.

L’orgasmo della ripresa economica accompagna immagini da snuff movie in cui i corpi maciullati delle vittime degli incidenti sul lavoro si mescolano a quelli dei gitanti offerti come vittime sacrificali al Dio del denaro oppure a quello dei corpi esposti ai manganelli e ai lacrimogeni sparati sulla faccia dei manifestanti. L’eccitazione imprenditoriale e politica istituzionale si affianca così a quella più contenuta e grigia delle mafie già al lavoro sui cantieri, le grandi opere, le speculazioni sugli appalti e i rimborsi, in un ballo pornografico di violenza, sadismo sociale, razzismo e opportunismo senza limiti. In cui le vittime designate continueranno ad essere le uniche a non conoscere il sicuro finale dello spettacolo.

Questa è l’Italia della guerra civile strisciante dichiarata dal capitale alle comunità, della devastazione ambientale e dell’assalto a qualsiasi norma che non sia tesa a favorire soltanto un rapido accumulo di capitali e profitti. E’ l’Italia dell’egoismo, dell’ignoranza spacciata per cultura, della disinformazione troppo spesso presentata come informazione, della scienza asservita a Big Pharma presentata come ricerca e della medicina sottomessa agli interessi dell’industria del turismo, con tutto l’osceno corollario prodotto dal can can che accompagna la narcosi non soltanto mediatica.

E’ l’Italia delle infinite lacrime di coccodrillo versate sulle “tragedie che si sarebbero potute evitare”, sugli attentati di mafia, sui servizi “deviati”, sulla violenza sulle e contro le donne.
E’ l’Italia della vergogna, dello schifo, della miseria morale ed economica, dello sfruttamento e della repressione. E’ un’Italia che non possiamo più voler salvare a qualunque costo, dove tutto si lega e ricollega in un’idea di Nazione e una concezione del mondo che vanno ripudiate fin da subito.
In nome della comunità umana e per porre per sempre fine all’odiosa e sanguinaria festa del profitto e del capitale.


  1. Come invece ha sottolineato il direttore de La Stampa Massimo Giannini nel corso del programma “The Breakfast Club” su Radio Capital: “Troppe cose non tornano in questa tragedia. I fatti raccontano di un cavo trainante che si rompe, di un sistema frenante che non funziona e di una cabina che si sgancia. Tutto piuttosto strano perché l’impianto era piuttosto vecchio ma sottoposto a controlli continui, l’ultimo nel 2020. Sembrerebbe che tutto il necessario sia stato fatto, ma evidentemente non è così. Dobbiamo chiederci in che condizioni sono gli impianti nel nostro paese. Morire in funivia è inaccettabile. Questo il primo pensiero dopo la tragedia. Ricordiamoci che nel decreto semplificazioni tornano le gare d’appalto al massimo ribasso, un approccio che ha portato solo guai in Italia. Quando si tagliano i costi i punti su cui si interviene sono sempre gli stessi: lo stipendio dei dipendenti e gli interventi sulla sicurezza”  

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Dalla Madre Terra alla Landa selvaggia passando per il Leviatano https://www.carmillaonline.com/2021/05/12/dalla-madre-terra-alla-landa-selvaggia-passando-per-il-leviatano/ Wed, 12 May 2021 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65879 di Sandro Moiso

Fredy Perlman, Contro la storia, contro il Leviatano, Bepress Edizioni, Lecce 2013, pp. 360, 18 euro

Ancor prima di parlare di questo libro, uscito ormai da diversi anni ma ancora disponibile presso l’editore e nella distribuzione on line, occorre parlare dell’autore: Fredy Perlman. Autentico Phileas Fogg1 del mondo della critica radicale della nostra civiltà, ancor più che del solo modo di produzione attuale, Perlman, nel corso della [...]]]> di Sandro Moiso

Fredy Perlman, Contro la storia, contro il Leviatano, Bepress Edizioni, Lecce 2013, pp. 360, 18 euro

Ancor prima di parlare di questo libro, uscito ormai da diversi anni ma ancora disponibile presso l’editore e nella distribuzione on line, occorre parlare dell’autore: Fredy Perlman.
Autentico Phileas Fogg1 del mondo della critica radicale della nostra civiltà, ancor più che del solo modo di produzione attuale, Perlman, nel corso della sua breve ma intensa esistenza (Brno, 20 agosto 1934 – Detroit, 26 luglio 1985), è stato influenzato da Guy Debord, Jacques Camatte, dal ’68 parigino cui ebbe modo di partecipare e dall’esperienza di contestazione, in loco, del socialismo titoista.

Ognuna di queste esperienze lasciò sicuramente un segno profondo nel suo pensiero e nelle numerose opere che ne derivarono ma, allo stesso tempo, nessuna di esse fu di per sé definitiva per l’autore, scrittore ed editore di origini ceche ma naturalizzato statunitense, oggi considerato uno dei padri ed ispiratori dell’anarchismo primitivista. Anche se certamente lo stesso avrebbe rifiutato, in vita, questa definizione insieme a tutte quelle che finissero in ista, a meno che non si trattasse, come ebbe a dire una volta, di violoncellista (da suonatore di violoncello quale era).

I suoi scritti e le sue opere sono state tradotte fuori dagli Stati Uniti in diverse lingue e in molti paesi ma questa, scritta nel 1983 e che pur rappresenta una sintesi della sua ricerca, è una delle poche tradotte in italiano. E ciò costituisce una grave pecca su cui torneremo alla fine di questa recensione/riflessione.

Contro la storia contro il Leviatano è un libro affascinante dal quale, una volta iniziata la lettura è difficile staccarsi. Rapisce l’attenzione e la mente nel suo delineare l’evoluzione della comunità umana da quella primitiva, non ancora ossessionata dal possesso e dalla produzione di plusvalenze, alla “civiltà” con l’imposizione di regole, norme e zek (il nome definirebbe i lavoratori coatti dei gulag staliniani e post-staliniani, ma l’autore in spregio alla fallimentare esperienza sovietica lo utilizza per tutti i lavoratori coatti o schiavi) destinati ad arricchire la stessa di beni in eccesso destinati a nutrire e mantenere prima i re e i monarchi, poi i sacerdoti e, susseguentemente, gli scribi e gli Ensi ovvero coloro che già in età sumerica rappresentavano gli interessi del monarca per godere a loro volta di privilegi.

E’ una narrazione che ci spiega come la Storia, nata al maschile con l’utilizzo della scrittura, soppianti poco alla volta la narrazione mitica condivisa del passato. Una narrazione orale che passava di generazione in generazione fondando orizzontalmente la comunità, diversamente dalla narrazione verticale e autoritaria che si imporrà con la nascita delle cronache scritte, destinate a narrare soltanto le verità del potere. Nel fare ciò Perlman usa un registro narrativo che sembra uscire, da un lato, dalla voce degli antenati e dalle loro forme, dimenticate e spesso “al femminile”, di memorizzazione e, dall’altro, dalle riflessioni sul discorso di “verità” su cui si fonderebbero la conoscenza e la memoria moderna così come lo analizzò Michel Foucault a partire dagli anni ’70.

E’ il registro preciso e semplice, ma allo stesso tempo immaginifico, usato dall’autore a coinvolgere il lettore, nonostante le contraddizioni o le semplificazioni in cui incorre nel corso della ricostruzione dell’avvento del Leviatano, destinato a sostituire la comunità umana con lo Stato, le leggi scritte (a beneficio di pochi e a garanzia della miseria dei più), le religioni rivelate e soprattutto la Madre Terra con quella ostile Landa Selvaggia, destinata ad essere combattuta e sottomessa, che sembra affermarsi con la visione del mondo apportata dal cristianesimo, ma non solo.

E’ un assalto selvaggio, radicale, incessante quello che Perlman conduce invece contro tutte le forme di potere istituzionalizzato, contro le religioni che hanno abbandonato l’animismo per rendere l’Uomo (si proprio lui, al maschile) nemico e dominatore della Natura (e conseguentemente della donna creatrice di vita); tanto contro il pensiero liberale del Capitalismo quanto contro la formalizzazione e la razionalizzazione della condizione umana “moderna” avvenuta non solo con l’Illuminismo ma anche attraverso il marxismo e lo stesso pensiero anarchico tradizionale.

Non si fanno sconti e la campagna promozionale del riciclaggio costante dell’esistente come unica forma di vita e di organizzazione viene mostrata per quella che è: una truffa, forse millenaria.
Iniziata quando le donne e, soprattutto, gli uomini iniziarono a perdere quel contatto con l’essenza del mondo che aveva caratterizzato per migliaia di generazioni l’esistenza della nostra specie sul pianeta. Quella sorta di silenzio/assenso nei confronti dell’universo che le circondava che era determinante ai fini di un equilibrio tra specie e Natura oggi definitivamente perso.

Era una coscienza convinta della nullità del singolo di fronte alla Natura, di cui la morte è parte integrante, che è abitata però da forze vive e potenti destinate a riflettersi nelle azioni degli esseri umani finché questi non accettino, per forza, costrizione o convinzione di diventare zek, molle e ingranaggi di una macchina che procede distruggendo tutto quanto la circonda nella finzione del benessere assicurato per tutti. E di cui anche i monarchi, i potenti, i borghesi di oggi e di ieri non sono altro che ubbidienti meccanismi che, in ogni caso, possono essere rapidamente sostituiti con ricambi dello stesso tipo.

Una forma di conoscenza collettiva che obbligava le comunità umane a compiere riti e sacrifici propiziatori destinati a ingraziarsi e rabbonire le forze che le sovrastavano e le divinità che le rappresentavano; oggi sostituiti dal rito del consumo, destinato a celebrare ed eternizzare il capitale nel tempio del mercato, di cui i primi celebranti sono i lavoratori schiavizzati/zek succubi della sua forza e del suo fascino pestifero. Un rito crudele e insensato in cui il prodotto del lavoro in eccesso viene riacquistato e consumato dagli schiavi contenti di ciò. Schiavi ridotti ormai soltanto a contendere ai padroni, e a contendersi tra di loro, un ulteriore surplus di prodotto in cui affogare le proprie vite. Sia nei grandi centri commerciali o cittadini, sia nel mondo virtuale della new economy globalizzata.

Ci mostra Perlman una società che, convinta di essere creativa e fantasiosa, ha in realtà perso gran parte della creatività e della fantasia collettiva che avevano caratterizzato quelle legate alla Natura, finendo col produrre un immaginario individuale e collettivo sempre più miserabile e ristretto. Una società che ha chiamato “luce” la cecità e ha finito col definire ignoranza ogni forma di sapere e conoscenza precedente. Non c’è simpatia per il Rinascimento e i suoi “uomini” in Perlman e tanto meno ne avrebbe oggi nei confronti degli apprendisti scienziati-stregoni che si muovono autoritariamente intorno al Covid, più simili ai bianchi che distribuivano coperte infettate con il vaiolo tra i nativi americani che non ai medici che vorrebbero essere (almeno a parole).

Quello dell’autore americano è un discorso che stride e ancor più spesso urta con le nostre convinzioni, anche con quelle che si pensano più radicali, ma, sia ben chiaro, che non può essere nemmeno digerito in qualsiasi contesto new age o politically correct. E’ un discorso altro, non privo di debolezze intrinseche, ma con cui vale la pena di fare i conti. Anche oggi, mentre la vita viene pian piano spenta dal dio morto del denaro e del profitto. Così come in altre epoche gli dei vivi e vivaci, burloni, feroci e rissosi legati alla Natura furono sostituiti da un dio tetro e morto crocifisso.

Un Dio morto che proclamava «Io sono la vita e la luce» nello stesso momento in cui diffondeva la paura della vita e dei suoi istinti, per rimandare il tutto ad una vita incorporea dopo il buio della Morte della carne, unica vera depositaria della nostra vitalità materiale ed intellettiva.
Non sembri fuori luogo, a questo punto, contrapporre con insistenza Vita e Morte all’interno del discorso sull’evoluzione della società umana e delle sue istituzioni statali, poiché tra le fonti di ispirazione di Perlman vi è proprio l’opera di Norman Brown (La vita contro la morte) che ha segnato, insieme ad Eros e civiltà di Herbert Marcuse, il pensiero anti-repressivo degli anni Sessanta2.

Questa ricerca della vita spinse lo stesso Perlman non solo a girare il mondo in compagnia della moglie Lorraine Nybakken, attuale custode delle sue memorie e continuatrice della sua opera editoriale3, a caccia di esperienze e conoscenze, ma anche a far parte per un periodo del Living Theatre, durante il quale scrisse The New Freedom, Corporate Capitalism e la pièce teatrale dal titolo Plunder.

Ma Perlman fece anche parte del gruppo che fondò la Detroit Printing Co-op e le pubblicazioni della Black and Red, di cui fu l’editore, furono stampate lì, insieme ad altri progetti che andavano dai volantini ai giornali ai libri. Per diversi anni, Perlman fu membro degli Industrial Workers of the World e negli anni Settanta lavorò a diversi libri, sia originali che traduzioni, tra cui la Storia del movimento machnovista di Pëtr Andreevič Aršinov, La rivoluzione sconosciuta di Volin e testi di Jacques Camatte.

Contro la storia contro il Leviatano è un libro da leggere e meditare, anche nelle parti che meno potrebbero convincerci ad una prima lettura (e magari anche ad una seconda), che rivela un autore che forse varrebbe la pena di pubblicare in maniera più consistente anche qui da noi. Numerose sono infatti le sue opere derivate dalle esperienze colte nel suo girovagare e riflettere intorno al mondo e alla vita. Tra tutte, potrebbero essere di interesse per il pubblico italiano: La riproduzione della Vita Quotidiana (The reproduction of daily life,1969) e Il fascino ininterrotto del Nazionalismo (The continuing appeal of Nationalism, 1984), entrambe pubblicate in Italia per Chersi libri nel 2006 con il titolo L’eterna seduzione del nazionalismo. In particolare nella seconda l’autore sostiene che qualsiasi tipo da nazionalismo, sia di destra che di sinistra, è indirizzato al controllo della Natura e delle persone e destinato a sfociare, sia quand’è progressista che conservatore, nel razzismo, nella guerra e nel genocidio.


  1. Phileas Fogg è il protagonista del romanzo d’avventura Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne.  

  2. Norman O. Brown, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, Adelphi, Milano 2002 (prima edizione italiana 1971)  

  3. Autrice anche della biografia del marito: Lorraine Perlman, Having Little Being Much. A Chronicle of Fredy Perlman Fifty Years’s, Black and Red, Detroit (Michigan) 1989.  

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Il grande nulla * https://www.carmillaonline.com/2020/02/04/il-grande-nulla/ Tue, 04 Feb 2020 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57755 di Sandro Moiso

Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E proceder il chiami. (La ginestra – Giacomo Leopardi)

Mentre tutto il mondo sta bruciando, sia metaforicamente nelle lotte diffusesi su scala globale nel corso degli ultimi mesi sia materialmente dall’Australia all’Indonesia passando per le Canarie a causa degli incendi che stano devastando ogni angolo del pianeta, qui nel paese del grande nulla, dove il fascismo è nato e [...]]]> di Sandro Moiso

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
(La ginestra – Giacomo Leopardi)

Mentre tutto il mondo sta bruciando, sia metaforicamente nelle lotte diffusesi su scala globale nel corso degli ultimi mesi sia materialmente dall’Australia all’Indonesia passando per le Canarie a causa degli incendi che stano devastando ogni angolo del pianeta, qui nel paese del grande nulla, dove il fascismo è nato e non è mai morto, l’informazione mainstream, le frange superstiti di partiti ormai morti o in via di estinzione e anche alcuni siti che si vorrebbero antagonisti hanno esultato per la vittoria elettorale dell’”antifascismo”.
Una sorta di rivincita da campionato regionale su un avversario (le cui miserabili imprese politiche ed iniziative securitarie sono state già abbondantemente raccontate e vivisezionate sulle pagine di Carmilla da Alessandra Daniele) che come tattica elettorale, oltre al discorso securitario cucinato in ogni possibile salsa, ha avuto quella di baciare salumi e formaggi e andare a suonare i citofoni degli stabili di periferia, come un monello destinato prima o poi ad essere preso a sberle da qualche inquilino indispettito.

Ma si gongola anche qui e là per la vittoria del rappresentante di un partito che da anni ha fatto del mantenimento dell’ordine pubblico e della stabilità finanziaria la sua unica ragione di vita (e che senza vergogna sta al governo con chi ha precedentemente avvallato tutte le mosse di cui oggi il leader della destra è accusato). Si festeggia, inoltre, la scomparsa di un movimento (fondato da un comico e finito in farsa) nel quale molti dei critici odierni avevano precedentemente creduto, rivelando così, complessivamente, una cecità politica e una visione perbenista della realtà che non sa più assolutamente distinguere il grano dalla pula, la realtà dalla fantasia, il risotto dalla merda e, soprattutto, ciò che serve a liberare il pianeta e la specie dall’oppressione del modo di produzione più vorace e distruttivo che sia mai esistito.

Sì, cari lettori e compagni, perché ancora una volta non è stato l’antifascismo a vincere. Quello è stato sapientemente sbandierato da sardine e soci soltanto per nascondere il fatto che la scelta elettorale era tutta all’interno dello stesso campo.
Il campo giustizialista e securitario di chi suona ai citofoni e minaccia i migranti e quello di chi chiede un’identità digitale per accedere ai social e il daspo per chi non rispetta le regole del dialogo civile definite dall’ordine borghese.
Il campo della violenza organizzata delle squadre fasciste e delle ronde anti-migranti e della violenza di Stato che garantisce il dis/ordine pubblico nelle piazze e nei centri di detenzione attraverso la militarizzazione dei territori e del tessuto urbano.
Il campo della “giustizia” che reprime i sindacati di base e i lavoratori in lotta, i difensori della terra e delle comunità locali e sulla quale gli “antifascisti” vincitori non hanno nulla da dire, ma con il quale hanno molto da condividere (scusate se non ricordo, ma chi era il sindaco di Bologna definito lo sceriffo e a quale partito apparteneva?).

Il campo delle grandi opere inutili e dannose al Nord come al Sud (la prima dichiarazione della candidata del centro destra, dopo la vittoria in Calabria, ha riguardato la necessità di portare anche lì l’alta velocità ferroviaria, confermando così di fatto gli interessi della ‘ndrangheta nelle grandi opere, dalla Valsusa al resto del paese).
Il campo di chi reprime i migranti internandoli nei campi libici oppure negando loro lo sbarco sulle nostre coste oppure, ancora, trasformandoli in schiavi per il lavoro nero (soprattutto nell’edilizia e nei campi).
Il campo degli interessi incrociati tra aziende private, cooperative e finanza ed imprese edili di origine illegale.
Il campo dell’estrattivismo dichiarato, a favore delle trivelle nell’Adriatico e degli interessi dell’ENI.
Il campo di chi si affanna ad equiparare la violenza verbale a quella fisica, salvo poi voltarsi dall’altra parte quando i manganelli scendono pesantemente sulle schiene e sulle teste dei manifestanti contrari all’ordine esistente. Oppure di chi non sa cogliere nemmeno lontanamente l’enorme ingiustizia e la violenza insite nei licenziamenti individuali e di massa e nei rapporti di lavoro definiti dalle aziende, multinazionali o nazionali che siano, in nome del profitto e dell’estrazione selvaggia di plusvalore.
Il campo di chi non sta con le lotte, ma con gli imprenditori.
Il campo di chi si crede il mare, ma è soltanto una palude.

Ho sentito parlare di buon governo della regione “rossa”: certo il buon governo del capitalismo ben temperato di prodiana memoria1, in cui dalla collaborazione tra privato e pubblico può sorgere il “radioso avvenire” di una società capitalistica avanzata e magari green.
Il buon governo della triplice sindacale che vota favorevolmente per le grandi opere in nome del lavoro salariato e degli interessi delle azienda e delle coop rosse e bianche oppure, ancor meglio, della Nazione. Buon governo che, però, non sembra aver toccato o convinto tutti allo stesso modo (qui).

No, non è così che si vince il fascismo. Come già sapevano i migliori compagni comunisti, anarchici e antifascisti negli anni ’20 e ’30,2 la cui esperienza fu cancellata dalla controrivoluzione staliniana e dalla carneficina del secondo conflitto mondiale, il fascismo si batte soltanto vincendo sul capitalismo e superando proprio i limiti del dettato nazionale, aziendale, produttivistico e lavoristico su cui fonda il suo discorso. Di cui però gli attuali, momentanei, vincitori della schermaglia elettoralistica sono tra i migliori ed agguerriti rappresentanti.

Un vecchio comunista italiano, Amadeo Bordiga, affermava che chi vuol essere progressista dovrebbe avere almeno il coraggio di dichiararsi fascista, poiché proprio l’idea di progresso, tipica di questo modo di produzione oggi fallimentare in tutti i campi, fin dalle sue origini ha avuto come corollari il rafforzamento degli stati nazionali, il governo dei loro confini, lo sfruttamento in casa e fuori della manodopera schiavizzata nelle fabbriche e nei campi. Qualunque fosse il colore della pelle e a qualsiasi latitudine appartenessero gli imprenditori e i governanti.

Il capitalismo industriale è nato in carcere3 e il fascismo ne ha sempre esaltato le funzioni. Sia dell’uno che dell’altro.
Nazionalizzare le masse, questa la funzione del fascismo (il razzismo, che non può essere ridotto al solo anti-semitismo che è molto più antico, ne costituisce solo uno dei corollari, non il fondamento, poiché nacque con il colonialismo che avrebbe posto le fondamenta dell’attuale immondo modo di produzione)4. Rendere i cittadini tali in quanto orgogliosi del proprio (buon) governo e solidali con gli interessi del capitale e dell’imperialismo.
Non membri di una comunità umana, la marxiana gemeinwesen, di eguali sia dal punto di vista sociale che economico, ma partecipi di una comune fortuna di cui pochi, sempre meno visto che gli italiani più abbienti oggi detengono il 72% della ricchezza nazionale mentre a livello mondiale 26 individui possiedono la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, la metà più povera della popolazione mondiale5, detengono i rubinetti e il patrimonio globale.

Esaltare il lavoro produttivo e la “vittoria” sulla Natura sono altri due aspetti immarcescibili del fascismo e sono entrambi, ullallà, derivati dall’idea di progresso figlia dell’Illuminismo ben pensante e moderato.
Atteggiamenti moderati nei rapporti politici tra le classi, ma smoderati nel consumo di risorse, territori, merci e forza lavoro. Tanto da dimenticare sempre più spesso, nell’attuale gozzovigliare alla tavola della shoa, che i lager nazisti come i gulag staliniani furono sempre e prima di tutto campi di lavoro forzato. In cui “naturalmente” milioni di individui di qualsiasi fede, etnia, nazione, genere ed età sarebbero morti prima di tutto per la fatica, la fame e le malattie. Esattamente come capita ancor oggi, a cielo aperto e senza SS a far la guardia, in tante, troppe parti del mondo.

Esaltare l’ordine e zittire le voci “altre”, contrarie oppure solo critiche del regime è l’altra pratica del Fascismo, che affonda però le sue radici in tutta la Storia di un mondo diviso in classi fin dall’avvento della proprietà privata e che fa delle maggioranze silenziose il proprio ideale di partecipazione politica. Esattamente come possono esserlo le folle che cantano inni patriottici e inneggiano alla figura del Capo nelle adunate di piazza a sostegno di un regime (o di un movimento che ha nel non aver nulla da dire sulla realtà delle contraddizioni economiche e sociali reali la sua unica arma di distrazione di massa).

Pesci in barile, citofonatori e mortadelle benedette non rappresentano dunque altro che le due facce di una stessa medaglia, di uno stesso ordine. Così come lo erano i 5 stelle di qualche anno fa (con l’unica differenza che oggi la rabbia non deve essere nemmeno manifestata o sussurrata, per rispetto del borghesissimo bon ton).
Non vale neppure la pena di far nomi in queste considerazioni, non per timore di denunce o intimidazioni, ma soltanto perché tutti questi miserrimi soggetti, che nascondono la realtà di contraddizioni e di lotte che ci circondano in ogni dove e che in alcuni casi si affannano a definire come “ondata di destra a livello mondiale” (mescolando insieme gilets jaunes e Orban, lotte sociali ed ignobili episodi di razzismo delle periferie che sono in subbuglio senza neanche comprendere appieno il perché) le lotte, spesso sanguinose, che si sviluppano in ogni dove, sono già destinati all’oblio anche se oggi, dando per un momento ragione a Andy Warhol, hanno avuto modo di brillare come meteore per un istante o ancor meno.

I tempi della Storia, invece, sono molto lunghi. Il capitalismo non è stato mai ben temperato se non sulla pelle di qualche popolo o continente dominato e sfruttato per qualche decennio. In questa fasulla modernità la sua anima resta fascista e oggi, ancora una volta, sia in Calabria che in Emilia Romagna, ha comunque vinto il nostro peggior nemico. Quello con cui non possiamo esser altro che in guerra. Perché il dovere di combatterlo ci apparterrà sempre.
Fino alla morte o alla vittoria.

Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che oblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
(G. Leopardi – La ginestra)

* In omaggio a James Ellroy e alla sua nerissima e spietata Storia degli Stati Uniti dal secondo conflitto mondiale agli anni ’70. Una tecnica letteraria (l’abbinamento tra crimine e storia americana) perfetta per raccontare efficacemente la contemporaneità e i suoi sottoprodotti sociali, politici e culturali.


  1. Romano Prodi, Il capitalismo ben temperato, il Mulino, Bologna 1995  

  2. Si veda almeno Arthur Rosenberg, Il fascismo come movimento di massa. La sua ascesa e la sua decomposizione (1934), Circolo Internazionalista Francesco Misiano – Pagine Marxiste, 2019 che sarà recensito nei prossimi giorni su Carmillaonline  

  3. Si veda Michael Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750-1850), Oscar Studio Mondadori, 1982  

  4. Per un’analisi delle origini del razzismo moderno e della cultura che lo ha fondato, basati entrambi tanto sull’ammirazione acritica della cultura greco-romana quanto sull’idea, mai dimostrata, dell’esistenza di una comune radice indoeuropea “bianca”, si veda Martin Bernal, Atena Nera, il Saggiatore, Milano 2011  

  5. “Alla fine del primo semestre del 2018 la distribuzione della ricchezza nazionale netta (il cui ammontare complessivo si è attestato, in valori nominali, a 8.760 miliardi di euro, registrando un aumento di 521 miliardi in 12 mesi) vede il 20% più ricco degli italiani detenere il 72% della ricchezza nazionale, il successivo 20% controllare il 15,6% della ricchezza, lasciando al 60% più povero appena il 12,4% della ricchezza nazionale. Il top-10% (in termini patrimoniali) della popolazione italiana possiede oggi oltre 7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.” (qui)  

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Venaus, 17 e 18 novembre: da Flint a Flint passando per la Valsusa e il Salento. https://www.carmillaonline.com/2018/11/15/venaus-17-e-18-novembre-da-flint-a-flint-passando-per-la-valsusa-e-il-salento/ Wed, 14 Nov 2018 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49567 di Sandro Moiso

Non ho mai apprezzato particolarmente l’opera cinematografica di Michael Moore, ma mi pare che in occasione dell’incontro tra i movimenti che si terrà a Venaus in Valsusa il 17 e il 18 novembre, due dei suoi film, il primo e l’ultimo, possano costituire un ottimo punto di partenza e di arrivo per le riflessioni inerenti alle battaglie che attendono tutti coloro che, sempre più spesso, si contrappongono spontaneamente al modo di produzione corrente e alle sue malfamate “grandi opere”, in nome della difesa dell’ambiente, dei territori e dalla specie [...]]]> di Sandro Moiso

Non ho mai apprezzato particolarmente l’opera cinematografica di Michael Moore, ma mi pare che in occasione dell’incontro tra i movimenti che si terrà a Venaus in Valsusa il 17 e il 18 novembre, due dei suoi film, il primo e l’ultimo, possano costituire un ottimo punto di partenza e di arrivo per le riflessioni inerenti alle battaglie che attendono tutti coloro che, sempre più spesso, si contrappongono spontaneamente al modo di produzione corrente e alle sue malfamate “grandi opere”, in nome della difesa dell’ambiente, dei territori e dalla specie umana nel suo complesso.

Nel primo, Roger and Me (1989), sono ricostruite le vicende legate al licenziamento di 30.000 lavoratori dagli stabilimenti della General Motors della città di Flint, situata nel Michigan a poco più di cento chilometri da Detroit, le cui conseguenze hanno portato quella località ad essere, da insediamento industriale legato al ciclo dell’auto qual era, una delle città meno vivibili degli Stati Uniti, con conseguente crescita della criminalità e diminuzione del numero degli abitanti.

Nell’ultimo, Fahrenheit 11/9 (2018), all’interno della descrizione del processo di nazificazione della società americana dell’era Trump, Flint torna in scena sia per il dramma scatenatosi, ufficialmente a partire dal 2014, con l’inquinamento da piombo delle acque distribuite dall’acquedotto locale, sia per l’utilizzo del suo territorio (fabbriche dismesse e quartieri abbandonati tutt’altro che distanti da quelli ancora abitati) come luogo di esercitazione anti-guerriglia da parte dell’esercito americano, con l’utilizzo di armi, esplosivi ed autentiche tempeste di fuoco e di piombo scatenate dagli elicotteri d’assalto.

L’inquinamento, ed è per questo che vale la pena di parlare di Flint in questo contesto, è derivato dall’avvio di una grande opera inutile costituita da un nuovo acquedotto che avrebbe dovuto sostituire quello già esistente, che prelevava l’acqua dal lago Huron, lago di antichissima origine glaciale e la cui profondità delle acque garantiva una qualità pressoché ottimale delle stesse, con uno nuovo, la cui costruzione ha richiesto che le acque metropolitane fossero prelevate dal fiume Flint, inquinatissimo dagli scarichi industriali che in esso si sono riversati per decenni.

Nonostante le denunce dei residenti e di tutti i servizi sanitari, che hanno rilevato da subito le gravissime conseguenze dall’avvelenamento da piombo sulla popolazione locale, prevalentemente ormai di origine afro-americana, l’opera è andata avanti e l’acqua fornita è rimasta la stessa. Tranne che per gli stabilimenti superstiti della General Motors cui è stata nuovamente fornita l’acqua del lago Huron, visto che quella del fiume Flint rovinava e corrodeva la componentistica delle auto prodotte negli stessi.

Non è stato dunque un caso legato soltanto all’abbandono di una parte del territorio urbano, in cui il valore delle case è sceso praticamente a zero, a far sì che l’U.S. Army scegliesse quell’area per le sue esercitazioni a fuoco ma, piuttosto, la necessità di sperimentare violentissime tecniche anti-guerriglia in ambiente urbano proprio là dove una vasta protesta di massa contro condizioni di vita bestiali ed impossibili potrebbe sorgere a breve. In un’America che, come molti osservatori rilevano, assomiglia sempre di più ad una nazione sull’orlo della guerra civile.

Mi scuso con i lettori per questa, apparentemente, lunga divagazione, ma ritengo che il percorso economico, ambientale, sociale e politico della città del Michigan costituisca una significativa metafora di ciò che il capitalismo occidentale ha in serbo per il futuro della specie umana. Tema che è già stato trattato e approfondito nel convegno tenutosi a Melendugno tra il 5 e il 7 ottobre di quest’anno (qui e qui ).

Tema che riguarda il degrado economico ed ambientale dei territori, la sostituzione di un’economia reale con quella fittizia e devastante legata all’estrattivismo e alle “grandi opere inutili” e la conseguente e necessaria (per il capitale) repressione per sedare e reprimere (ovvero “pacificare” nel linguaggio soft degli apparati preposti alla stessa) i movimenti sempre più numerosi e vivaci che a partire dai territori e dal ‘basso’ si oppongono a tutto ciò.

No Tav, No Tap, No Muos, No Mose, e chissà quanti altri movimenti ancora, avranno modo nella due giorni di Venaus di confrontarsi sia sulle problematiche inerenti alle singole specificità territoriali ma, anche, su ciò che occorre rafforzare e organizzare a livello nazionale ed internazionale affinché tali movimenti possano coordinarsi in maniera sempre più stretta ed efficace affinché il motto valsusino “Si parte insieme e si torna tutti insieme” diventi davvero una pratica costante dell’opposizione, a livello locale, nazionale e sovranazionale, a un modo di produzione ormai devastante per la vita della specie e la sopravvivenza dei territori.

Organizzazione e collegamento che richiederà sempre più la coscienza del fatto che non esistono governi o partiti amici. Come dimostrano i fatti recenti della politica italiana, in cui tra i movimenti e gli interessi delle grandi compagnie petrolifere i partiti spergiuri scelgono i secondi. Per fare un esempio più chiaro si pensi alla promessa fatta da Conte a Trump sulla realizzazione della Trans Adriatic Pipeline e al successivo premio ottenuto dall’Italia (si legga ENI), che è stata esclusa dalle sanzioni americane nei confronti dell’Iran e dei paesi che continueranno a fare affari con quel paese.

Lo stesso Michael Moore, un tempo fervente democratico, è stato costretto a rilevare, proprio nel corso del suo ultimo film, la sostanziale identità tra gli interessi del Partito Repubblicano e quelli ‘profondi’ (finanziari, industriali, militari ed energetici) del Partito Democratico. Sintetizzata magnificamente nella scena in cui Obama finge di bere l’acqua dell’acquedotto di Flint davanti ai suoi, delusissimi, sostenitori per convincerli a fare altrettanto e in ‘tranquillità’.

Non esistono partiti e governi ‘amici’, ma non esiste nemmeno la possibilità di usarli come taxi. Sono già stati programmati per quella che dovrà essere la destinazione finale del viaggio, indipendentemente dalla volontà del passeggero salito a bordo. Anzi, il vero rischio è costituito dal fatto che possano essere proprio i movimenti a costituire il taxi di cui possono avvalersi, per un tratto del loro percorso, partitini e partitoni oppure fasulli movimenti pluristellati. Magari proprio ai danni che di chi provvede al loro trasporto.

I movimenti, oggi, non solo non possono più accontentarsi di promesse o di atti estemporanei non accompagnati da fatti concreti, ma, anche laddove si vincesse su una singola questione, non possono mai dimenticare che la loro forza sta proprio nel partire, lottare e tornare tutti insieme. Motivo per cui non ci si potrà accontentare di una singola vittoria con cui, forse, alcuni vorrebbero dividere un movimento che è, per sua natura e necessità, unitario e indivisibile.

D’altra parte è proprio questa sua natura a spaventare i suoi avversari, ben consci del fatto che con i partiti di governo si potrà sempre trattare, cosa che li ha spinti a ridar vita (anche se in realtà non era mai morto) ad un autentico blocco conservatore, costituito da impresari, sindacati, associazioni di categoria, organizzazioni fasciste e lobby politico-economiche, compresa quella del partito alleato di governo dei 5 Stelle, che con l’appoggio di tutti i media in queste ultime settimane ha deciso di attaccare frontalmente il movimento No Tav.

Il cui risultato si è visto con la manifestazione SìTav tenutasi a Torino il 10 novembre. Sicuramente partecipata, anche se non nei numeri sbandierati dai media, da quella che un tempo si sarebbe definita “maggioranza silenziosa”. Una maggioranza di cui ad aver bisogno, oltre al PD e Forza Italia e le consorterie connesse, sono proprio i partiti ‘amici’: per poter aprire trattative (come il sindaco di Torino, Appendino, ha già promesso) e giungere ad un accordo, ai danni di chi da sempre si oppone alle grandi opere inutili. Proprio come nel 1980, sempre a Torino e grazie al suo genius loci sempiterno perbenista e conservatore, la marcia dei quarantamila servì alle organizzazioni sindacali per firmare e giustificare un accordo che era stato respinto dalla assoluta maggioranza degli operai della Fiat.

Più che una manifestazione anti-grillina, come qualcuno si ostina a leggerla, è stata piuttosto l’espressione di quel all’ordine costituito e di accettazione dell’esistente, che da sempre costituisce l’anima delle maggioranza silenziose e reazionarie, che si contrappone al No della sovversione del presente stato di cose. Una manifestazione di quello scontro tra chi, in nome di pochi ed egoistici interessi immediati, vuole continuare a sfruttare l’uomo, l’ambiente e i territori adesso e subito, senza pensare al futuro e chi, invece, in nome di un futuro diverso e migliore di cui si sente già parte, lotta in nome della comunità umana e della salvaguardia di quell’ambiente senza il quale la specie non può sopravvivere. Una nuova forma di quel secolare scontro tra le classi e i modi di produzione che oggi sembra affrontare una fase nuova e decisiva.

I compagni del movimento NoTap ci hanno scritto:

“Nel mese di Novembre TAP, agevolato da un governo che ha levato la maschera della menzogna, ha ripreso i lavori a Melendugno. Il via libera pentastellato, figlio del tradimento di un governo nei confronti del popolo, è però avvolto nella nebbia: infatti, è tutt’ora sotto sequestro un’area di cantiere denominata “le paesane” per mancato rispetto dei vincoli paesaggistici, è in corso un’indagine nell’area dove dovrebbe sorgere il PRT per valutare la possibile assoggettabilità dello stabilimento alla normativa Seveso III, ed è di questi giorni la notizia che un’altra indagine è stata aperta in località San Basilio (dove è stato costruito il pozzo di spinta) per probabile inquinamento della falda acquifera. A questo, si aggiungono i lavori in mare che, sempre per mano di un governo traditore, sono stati autorizzati senza necessità di una concessione demaniale.
I ministri si sono incartati sulle loro stesse dichiarazioni: l’arroganza del Ministro del Sud, che si permette di definirci “teppistelli”, o l’irriverenza del Ministro dell’Ambiente, che si concede il lusso di dichiarare di “non aver riscontrato irregolarità”, sbattono violentemente contro i documenti ufficiali: non esiste alcun contratto vincolante tra TAP e il governo italiano, né tanto meno (per dichiarazione ufficiale degli stessi ministeri dopo che associazioni e liberi cittadini hanno effettuato una richiesta di accesso civico agli atti) esistono analisi costi/benefici reali e approfondite. Inoltre, il fantomatico calcolo di 20 miliardi di € di risarcimenti, come afferma il MISE, non è stato effettuato dal governo italiano bensì da Socar, società privata azionista di Tap, che avrebbe dunque tutto l’interesse ad arrotondare per eccesso le sue stime.
La scelta politica di lasciare via libera a Tap contrasta con la realtà dei fatti sopra descritta.”

Tutto assolutamente vero, ma occorrerebbe ricordare ciò che si è già detto all’inizio: tutti i governi, parlamentari o autoritari che siano, sono potenzialmente ‘traditori’ poiché, anche se eletti con i voti e il consenso di una maggioranza pur sempre parziale dei cittadini, sono tenuti a rispettare, prima di tutto, gli interessi nazionali ed internazionali delle classi detentrici del potere economico. Come ha dimostrato anche la scelta attendista, in attesa di ordini dall’alto dei vertici europei, scaturita dall’incontro avvenuto lunedì 12 novembre tra il ministro dei trasporti Toninelli e la sua omologa francese Borne.

Dimenticare o rimuovere dal dibattito tutto questo significa, semplicemente, condannare i movimenti alla perdita della loro autonomia e alla loro inventiva, unica vera alternativa al modo di produzione esistente e agli interessi che lo sottendono (politici, economici, culturali, mediatici). Significa, inoltre, relegare la democrazia esclusivamente all’ambito dei giochi parlamentari e politici che rappresentano proprio l’autentica negazione della stessa ovvero l’essere, prima di tutto, democrazia dal basso.

Come hanno ricordato recentemente i compagni NoTav:

“C’è chi cerca di nascondere le proprie responsabilità sul saccheggio e la devastazione dei nostri territori, su una politica dei governi che non ha investito sulla messa in sicurezza e sulla tutela dell’ambiente, sullo sperpero di risorse pubbliche a favore di grandi opere inutili togliendo risorse a sanità, emergenza abitativa, welfare, scuola, ricerca e lavoro.
Mentre in Italia si continua a morire per il maltempo e intere aree del paese vengono messe in ginocchio, c’è ancora chi nega quale siano le vere priorità della collettività, provando a mettere avanti a tutto gli interessi delle grandi aziende e dei profitti di pochi.
Non ci siamo mai fatti ingannare e continueremo a lottare per la nostra terra e per un modello di sviluppo sostenibile per tutti.”

Per questo motivo l’8 dicembre, che dal 2010, è la Giornata Internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte e in difesa del pianeta, molti movimenti sul territorio italiano si mobiliteranno per la tutela dei territori e contro lo spreco di risorse pubbliche.
Pertanto in quella data, storica per il movimento No Tav, lo stesso scenderà nuovamente in piazza a Torino per una grande manifestazione. Poiché, al di là dei giochi di palazzo e di potere, c’eravamo, ci siamo e ci saremo SEMPRE.

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Divenire ciò che non siamo stati ancora https://www.carmillaonline.com/2018/10/24/divenire-cio-che-non-siamo-stati-ancora/ Wed, 24 Oct 2018 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49208 Neil Novello, Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma, prefazione di G. Marelli, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 190, € 22,00

[A cinquant’anni dal ’68 e a più di quaranta dalla scomparsa di Giorgio Cesarano, le sue riflessioni, che hanno animato una grande varietà di iniziativa all’interno della critica radicale italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si rivelano ancora stimolanti e di grande attualità. Qui di seguito si riproduce un estratto dalla Prefazione di Gianfranco Marelli al testo di Neil Novello, il quale ha anche curato, sempre per Castelvecchi, la riedizione dei Diari del Sessantotto dello stesso Cesarano [...]]]> Neil Novello, Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma, prefazione di G. Marelli, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 190, € 22,00

[A cinquant’anni dal ’68 e a più di quaranta dalla scomparsa di Giorgio Cesarano, le sue riflessioni, che hanno animato una grande varietà di iniziativa all’interno della critica radicale italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si rivelano ancora stimolanti e di grande attualità. Qui di seguito si riproduce un estratto dalla Prefazione di Gianfranco Marelli al testo di Neil Novello, il quale ha anche curato, sempre per Castelvecchi, la riedizione dei Diari del Sessantotto dello stesso Cesarano (qui). S.M.]

Un aspetto focale del lavoro di Neil Novello consiste nel dar voce all’aforisma pindariano – Γένοιο οἷος ἔσσι, Diventa ciò che sei! – al fine di trovare un minimo comune denominatore all’intera opera cesaraniana e al contempo tracciare il profilo umano dell’autore stesso, deciso da sempre a condurre la “vera guerra” contro la sopravvivenza degli uomini mercificati dal sistema capitalistico per diventare ciò che si è, così da «emanciparsi non dal sistema, ma emanciparsi nel sistema per emanciparsi dal sé o dall’io ancora ignoto, tradurre la non-vita in vissuto reale, fare della vissutezza oltre la preistoria la storia di una ritrovata compiutezza ontologica, qualcosa che sia il compimento di un riconquistato “diritto alla vita”». Progetto, però, che può realmente concretizzarsi se concepiamo la necessità di «smarrire le tracce del sentiero finora battuto, deviare in direzione di un altrove individuale rinunciando, obliando l’essere-per nel nome dell’essere-sé, la persona ritornata individuo. Non è però uno slancio metafisico questo di Cesarano – puntualizza Novello – il momento individuale è tale in quanto piattaforma di un reale movimento collettivo, il viatico «verso una comunità umana». Già, perché il concetto di “comunità umana” diverrà fondamentale negli ultimi studi di Cesarano, debitore in parte delle riflessioni condotte in quegli stessi anni da Jacques Camatte, direttore della rivista «Invariance», sull’importanza in Marx della Gemeinwesen, quale adempimento storico del comunismo non nello Stato attraverso la presa del potere, ma nella liberazione dell’individuo comunitario; così come fu stimolato dalle riflessioni di Raul Vaneigem e di Guy Debord sulla necessità di ripensare i termini di rivoluzione e lotta di classe riferendosi alla critica della vita quotidiana, al desiderio quale principio trasformatore della realtà, al rifiuto di tutte le costrizione per la liberazione totale della creatività spontanea del “proletariato”.
Non essendoci, pertanto, più in palio la conquista del potere per mezzo della lotta di classe, la rivoluzione non potrà che essere condotta attraverso una lotta biologica volta alla conquista di sé come comunità umana; rivoluzione che permetterà di passare dalla preistoria del non vissuto alla storia della vera natura umana, la totalità organica naturante [Gemeinwesen], attraverso la completa realizzazione di sé nella società degli individui. Giustamente, Neil Novello in tal circostanza non può non notare le tracce seguite da Cesarano nel ripercorrere a modo suo il pensiero di Debord e di Vaneigem. Infatti, così come ne «La società dello spettacolo» si afferma che “il soggetto della storia non può essere che il vivente producente se stesso, che si fa signore e padrone del suo mondo che è la storia”, nel pensiero di Cesarano «è abolita l’idea di oggettivazione della conquista storica, non però la più autenticamente rivoluzionaria conquista di sé a sé e alla storia, una conquista della soggettività de-capitalizzata»; allo stesso modo nella sensazione manifestata da Cesarano di trovarsi ormai «in un luogo dell’anima tra il non più del mondo-capitale e il non ancora del mondo-soggettività» riecheggia il concetto di intermondo espresso da Vaneigem nel “Trattato di saper vivere”, quando afferma che “l’intermondo è il terreno incolto della soggettività, il luogo in cui i residui del potere e la sua erosione si mescolano alla volontà di vivere”. Assonanza di analisi che inducono Cesarano a scavare in profondità per portare alla luce la radice del problema gnoseologico: il perché ci sono? Domanda che l’analisi di Novello sostiene invece sia un’affermazione, anzi la constatazione crudele «dell’esserci come prodotto: l’inorganicità senza essere della specie umana»; di sicuro una riflessione sulle condizioni esistenziali di una mancanza di senso che il “dover essere” persona sociale risveglia nel desiderio di “saper essere” altro: un individuo indiviso, non dimidiato dalla langue della cultura del potere.
Stabilito dunque che non si può essere, poiché il capitale obbliga alla sopravvivenza, ad una vita ridotta alla mera funzione di autoaffermazione di sé come persona/merce, il “programma” rivoluzionario non può che lottare per un ritorno ad essere in quanto corpo dotato di senso che si riappropria del senso del corpo non più assoggettato alla produzione/riproduzione del capitale. Un rompere lo specchio che riflette la non-vita, o come poeticamente Cesarano scriverà in «Manuale di sopravvivenza» (l’ultimo saggio pubblicato dalla Dedalo nella primavera del 1974) un vedersi introspettivamente per confortarsi in uno “sguardo che non accetterà in eterno di riflettersi” nella persona sociale in cui l’Io [l’Io che pensa] è “l’ego quale centro economico” [l’Io che si pensa]. Del resto, non certo accidentalmente l’incipit della «Critica dell’utopia capitale», pubblicata postuma nel 1978 e nella sua forma di appunti programmatici, pone subito al centro della riflessione l’Io, affermando che “Il pensiero che si pensa è il riflesso del ripiegamento dell’essere, […] il primo istante della valorizzazione dell’io come ente astratto dell’essere quale attività”. Si evince così predisposta la volontà radicale di riportare la passione, il desiderio di amarsi, al fuoco propulsore della rivoluzione biologica che brucia l’orgasmo di un’“insurrezione erotica” della vita contro l’oppressione che cristallizza la sopravvivenza in un’unica possibilità di esistere nella totalità reificata della non-vita. La volontà del desiderio diviene dunque una passione radicale che non può essere riassorbita dal bisogno compulsivo di possedere l’oggetto che la pubblicità invita a consumare come un bene indispensabile, in quanto la passione «non è desiderio di oggettivarsi in un oggetto materiale, non è neppure la cosalità del soggettivo. È ciò che resta dopo la cancellazione della totalità reificata». Solo in questo modo il desiderio non si degrada in bisogno (appagandosi degli oggetti posti da capitale), ma si trasforma in passione desiderante di essere l’uomo che non è mai stato ancora. Ne consegue che l’uomo è da farsi, dal momento che – scrive Cesarano nel «Manuale di sopravvivenza» – “l’origine dell’uomo non è alle spalle, ma dinnanzi agli uomini. L’origine della specie è il fine della rivoluzione biologica”.

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Rapporto su una guerra già da lungo tempo in atto 2/2 https://www.carmillaonline.com/2018/10/17/rapporto-su-una-guerra-gia-da-lungo-tempo-in-atto-2-2/ Wed, 17 Oct 2018 20:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49223 di Sandro Moiso

[Qui la prima parte di questo articolo.]

«Le decisioni che prenderemo sull’energia proveranno il carattere del popolo americano e la capacità di governare la nazione da parte dei presidente e del congresso. Questo nostro sforzo sarà l’equivalente morale di una guerra.» (Presidente Jimmy Carter, 18 aprile 1977)

Nessun governo o partito può essere realmente ‘amico’ dei movimenti che lottano contro l’estrattivismo, in difesa dei territori e del futuro della specie, così come hanno dimostrato gli ultimi voltafaccia pentastellati a proposito delle grandi opere inutili, ma non bisogna mai [...]]]> di Sandro Moiso

[Qui la prima parte di questo articolo.]

«Le decisioni che prenderemo sull’energia proveranno il carattere del popolo americano e la capacità di governare la nazione da parte dei presidente e del congresso. Questo nostro sforzo sarà l’equivalente morale di una guerra.» (Presidente Jimmy Carter, 18 aprile 1977)

Nessun governo o partito può essere realmente ‘amico’ dei movimenti che lottano contro l’estrattivismo, in difesa dei territori e del futuro della specie, così come hanno dimostrato gli ultimi voltafaccia pentastellati a proposito delle grandi opere inutili, ma non bisogna mai dimenticare che il grimaldello per scardinare i diritti e i provvedimenti in difesa dei territori e dei lavoratori è stato troppo spesso fornito dalle forze che si vorrebbero e che si sono sempre sfacciatamente dichiarate democratiche e ‘progressiste’, come l’affermazione dell’ex-coltivatore di arachidi della Georgia, nonché ex-membro della Commissione Trilaterale e premio Nobel, posta in esergo rivela abbastanza chiaramente.

Le differenti forme di pacificazione, infatti, non dipendono dalla qualità dei governi in carica, ma dalle differenti strategie da questi messe in atto per cercare di colpire, frantumare e distruggere i movimenti che ad essi si oppongono.
Da questo punto di vista, ad esempio, le sanzioni amministrative e le pene pecuniarie messe in atto, sempre più spesso, nei confronti degli oppositori dalla Val di Susa al Salento agli Stati Uniti non hanno tanto la funzione di ‘ammorbidire’ gli strumenti repressivi, quanto piuttosto quello di rendere più flessibile e invasiva la pacificazione stessa.

Ad esempio, le pesanti sanzioni pecuniarie adottate dallo Stato contro una parte dei militanti del Movimento No Tav sembra rispondere a una logica di differenziazione della repressine per fasce d’età, cercando di colpire maggiormente i più giovani con la minaccia di lunghi periodi di reclusione e i più anziani con una piuttosto pesante nei confronti dei beni risultanti da una vita di lavoro (casa, risparmi, etc.). Anche se poi, come dimostra la più recente sentenza a carico di 16 militanti di varia età, la condanna alla pena detentiva sembra essere spesso quella più apprezzata dai pubblici ministeri (anche a costo di vedersela dimezzare com’è avvenuto proprio nel corso dell’ultimo processo per i fatti del 28 giugno 2015).

Altri strumenti selettivi di carattere pecuniario, come diversi relatori hanno confermato nel corso del workshop internazionale di Melendugno, possono essere collegati ad una differente ripartizione dei risarcimenti offerti agli abitanti dei territori interessati dal fracking, dalla costruzione di grandi opere o da tutti gli altri aspetti di ‘estrattivismo’ di cui si è precedentemente parlato.
Ripartizioni che in alcuni casi possono essere del 100% della cifra promessa oppure del 30% o anche del tutto assenti, a seconda della partecipazione o meno delle comunità o dei singoli individui alle lotte di opposizione ai progetti proposti in loco.

Uno strumento utile quindi, là dove riesce a far breccia, a dividere le comunità e i comitati di lotta sulla base di interessi economici e a sviluppare all’interno di esse rivalità ed egoismi legati all’interesse privato o alla salvaguardia delle proprietà famigliari.
Che, come ad esempio negli Stati Uniti nei territori ormai sempre più ampi interessati dal fracking, può essere costituito da bollette energetiche differentemente ripartite tra comunità e comunità, anche qui a seconda delle resistenze che in esse si manifestano contro la devastazione ambientale.

Bollette che colpiscono la comunità anche se i resistenti in essa presenti sono una minoranza, cercando così di scatenare un’autentica “caccia alle streghe” nei confronti di chi resiste oppure fa propaganda per la resistenza e delegando quindi alla comunità nel suo insieme il compito di autogestire la pacificazione. Forma sottile e subdola per giungere ad una frammentazione ed esclusione interna di quella che potrebbe diventare o già essere invece una comunità resistente.

Anche in ciò può consistere quel «Restringimento degli spazi per i movimenti italiani in difesa dell’ambiente» di cui ha parlato in apertura del convegno Italo Di Sabato dell’Osservatorio sulla repressione. Ma questa modalità operativa può essere classificata anche secondo quelle modalità di costruzione del diritto penale del nemico sul quale si sono espressi i membri del collettivo Prison Break Project parlando, appunto, di «Il ‘nemico interno’: repressione dei movimenti e criminalizzazione penale del nemico».

Quest’ultimo punto, però, ha anche a che fare con quella costruzione dell’immaginario che troppe volte il movimento antagonista ha sottovalutato, rischiando così di affrontare il proprio nemico, sostanzialmente il capitalismo estrattivista e non, rimanendo nell’ambito ‘territoriale’ politico, economico e giuridico definito a priori dallo stesso. Come ha rimarcato il già precedentemente citato professor Michele Carducci.

Immaginario che, come s è appena detto, investe anche la nozione di ‘progresso’ sociale e economico e tutte le teorie che ne derivano. Soprattutto nella sinistra partitica tradizionale e che soltanto i movimenti reali dal basso e sui territori iniziano, per intrinseca necessità, a scalzare. Opera di scalzamento che, in futuro, costringerà i movimenti, e coloro che li studiano ed appoggiano, a fare i conti con le differenti narrazioni storiche, economiche e socio-antropologiche che fondano l’esistente e che entrano, ancora oggi, a far parte dell’opera di pacificazione culturale messa in atto da sempre dalle classi dirigenti e (al momento) vincitrici. Una cancellazione della memoria che va ben al di là della banalizzazione della ‘memoria’ costantemente rivendicata dalla vulgata antifascista e democratica, sempre comunque fedele alla ‘memoria’ di un ordine liberale e democratico mai realmente esistito. Nemmeno nel ricco Occidente.

La violenza dello sradicamento della comunità umana e delle sue sopravvivenze, che l’attualità riporta alla ribalta e all’attenzione, è stata tale da far dimenticare che quell’Occidente colonialista con cui oggi dobbiamo ancora fare i conti, qui a casa come nel resto del globo, prima di poter essere tale dovette rimuovere al suo interno tradizioni e comunitarismi che impiegarono secoli ad essere piegati alla logica del mercato, della proprietà privata dei beni comuni e degli stati nazionali unificati da religioni uniche e autoritarie, oltre che accentratrici del potere.

Ben prima della Rivoluzione industriale e dell’Illuminismo che, al contrario di quanto troppo spesso si è creduto, più che rappresentare la liberazione delle forze produttive ed intellettuali del continente europeo, segnarono la fase finale di un processo di assoggettamento delle comunità ai principi dell’appropriazione privata e soggettiva della ricchezze e dei beni prodotti e utilizzati collettivamente. E che, sostanzialmente, costituirono la pietra tombale su ogni forma di comunitarismo derivante dalle organizzazioni sociali che erano esistite per millenni senza stato e senza appropriazione privata dei suoli e dei beni e dei saperi prodotti collettivamente.

Oggi i movimenti hanno bisogno di confrontarsi al di là delle barriere nazionali, come l’assemblea del venerdì sera ha potuto dimostrare, e di dar vita a nuove forme di coordinamento, organizzazione e interazione su scala locale e internazionale, proprio a partire dal fatto che la socializzazione delle lotte, della resistenza alla pacificazione e dei loro risultati non è più legata a principi di carattere ideologico ma ad una reale necessità dovuta al fatto di riconoscersi gli uni negli altri. Al di là della lingua, del colore della pelle o della collocazione a Nord o a Sud del mondo. Nonché realizzando già nei fatti, qui e adesso, una vita migliore per gli attivisti, i militanti e i membri delle comunità che resistono insieme alla pervasività del capitalismo estrattivista. Proprio come ha sostenuto, nel suo applauditissimo intervento serale, Guido Fissore del Movimento No Tav valsusino.

Lotte in cui la massiccia presenza delle donne e l’importanza del loro ruolo al loro interno, dal Rojava alle comunità indigene fino a Taranto, Melendugno, Val di Susa e in qualsiasi luogo di difesa della Terra e dei suoi abitanti presenti e futuri, rivelano come la riduzione a servaggio della condizione femminile e la riduzione dell’autonomia delle stesse all’interno delle società sia servita proprio ad attaccare e frantumare quelle comunità che oggi vanno gradualmente ricomponendosi, grazie proprio alla ripresa e riaffermazione di un modello femminile collettivo di lotta e partecipazione molto distante da quello riproposto da quello della “donna in carriera” pubblicizzato dai media, da Hollywood e dall’immaginario borghese.

Dal giorno di Piazza San Giovanni, nel 2011, ad oggi gli attivisti indagati in Italia sono arrivati ad essere 15.782, 852 quelli arrestati, 345 quelli colpiti da fogli di via e 241 quelli condannati alla detenzione. Proviamo a sommarli a quelli colpiti nel resto del mondo, più o meno per gli stessi motivi, e ai morti ammazzati (che a certe latitudini aumentano vertiginosamente) ed è difficile non comprendere che ci si trova davanti ad una autentica guerra civile mondiale condotta dal capitale e dai suoi funzionari, in divisa e non, contro i movimenti, le comunità e i territori.

Un capitale che cerca in ogni modo di liberare al massimo, più ancora che liberalizzare, la propria azione di estrazione di valore da qualsiasi vincolo politico, sociale, legale e ambientale. Un capitale che per fare ciò ha abbattuto anche i confini e i poteri dei parlamenti nazionali, non importa che questi siano caratterizzati da governi di ‘destra’ o di ‘sinistra’. Un capitalismo frenetico che, come ha sostenuto e dimostrato Tia Dafnos, a partire dal Canada, con la sua relazione su «Logiche della pacificazione della resilienza critica alle opere infrastrutturali», più che dalla realizzazione delle infrastrutture e delle grandi opere riesce a trarre profitto anche dalla vendita della loro progettazione agli stati. Considerazione che la dice lunga anche sull’attuale balletto intorno alla ricostruzione del ponte Morandi di Genova e sulla velocità con cui il solito Renzo Piano e la Società Autostrade sono riusciti a presentare in tempi brevissimi progetti per la sua ricostruzione. Non occorre essere responsabili della sua ricostruzione, ma è importante vendere il progetto. Non solo allo Stato ma anche ai media e all’immaginario collettivo.

Un capitalismo che si presenta armato di tutto punto, sotto ogni punto di vista, alla guerra con i movimenti. I quali, forse, devono ancora pienamente comprendere il tipo di scontro epocale che è in corso e in cui sono coinvolti. Una guerra che prepara a guerre ancora più estese e devastanti, in cui però la diffusione a macchia di leopardo dei movimenti e delle aree in lotta più che rappresentare una debolezza degli stessi, come qualcuno durante il workshop ha ipotizzato, rappresenta invece la loro forza ovvero quella di un movimento comune senza confini nazionali, unito dalla necessità di raggiungere scopi simili e di combattere le medesime tecniche di pacificazione. E lo stesso nemico: il capitalismo in ogni sua forma, nazionale e internazionale. Finendo così con il costituire le macchie di ruggine diffuse che finiranno col corrodere e distruggere dall’interno la macchina del dominio mondiale del profitto privato e del suo dannato e, solo apparentemente, infinito processo di accumulazione.

Le reti e il filo spinato, i blocchi di cemento e gli agenti del disordine pubblici e privati schierati a difesa dei cantieri e di confini che già sono stati condannati dalla storia, unificano la Val di Susa con la Palestina, il Salento con il confine norteño del Messico e le esalazioni mortali di Taranto con ogni altra area del pianeta in lotta per la vita e un reale futuro per la specie. Un movimento che, se sarà in grado di trovarsi e di coordinarsi ancora e sempre più frequentemente, così come si espresso il workshop nel suo insieme, saprà fare anche delle sue attuali e apparenti debolezze un momento straordinario di riflessione e di forza unificante.

Soprattutto, però, in questi giorni di delusione per le promesse mancate, ma che allo stesso tempo sono serviti a demolire anche le ultime illusioni partitiche e parlamentari, occorre ricordare, sempre, ciò che ha scritto Arundhati Roy:

«Il sistema collasserà se ci rifiutiamo di comprare quello che ci vogliono vendere, le loro idee, la loro versione della storia, le loro guerre, le loro armi, la loro nozione di inevitabilità. Ricordatevi di questo: noi siamo molti e loro sono pochi. Hanno bisogno di noi più di quanto ne abbiamo noi di loro. Un altro mondo, non solo è possibile, ma sta arrivando. Nelle giornate calme lo sento respirare.»

Qui di seguito però, poiché le lotte non vanno solo raccontate ma anche sostenute fattivamente, si rende necessaria la pubblicazione del comunicato redatto dall’avv. Michele Carducci, ordinario di Diritto Costituzionale Comparato presso l’UniSalento, sulle ultime giravolte pentastellate a proposito del TAP.

LE OMISSIONI DEL GOVERNO CONTE SUI COSTI TAP

La storia dell’analisi costi-benefici su TAP non ha fine e ora sembra tramutarsi in una farsa.
Durante l’estate, tutti i Ministeri interpellati con il sistema del c.d. “FOIA” (accesso civico generalizzato) sono stati costretti ad ammettere l’assenza di documenti e conteggi sugli effettivi benefici di TAP (in termini economici, climatici, ambientali, di risparmio ecc…) e sui costi di abbandono dell’opera (in termini di titoli legali di legittimazione verso lo Stato italiano). Persino il Ministero dello Sviluppo Economico, recalcitrante sino all’informativa all’autorità interna anticorruzione, ha dovuto riconoscere che non si dispone di atti, ma solo di probabili dichiarazioni verbali rese da esponenti azeri a rappresentanti politici italiani oppure di mere deduzioni. Il Vicepresidente Salvini è stato addirittura smentito dal suo Ministero sui presunti risparmi della bolletta del gas.
Poi, il 15 ottobre, il Sindaco del Comune di Melendugno, nella provincia di Lecce dove dovrebbe approdare il gasdotto TAP, è stato urgentemente convocato a Palazzo Chigi insieme ai parlamentari e rappresentanti territoriali del Movimento Cinque Stelle.
Alla presenza della Ministra per il Sud Barbara Lezzi, ha parlato il Sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico, il Sen. pentastellato Andrea Cioffi, componente dell’ “Associazione interparlamentare Italia-Azerbaijan”.
Egli ha riferito di suoi personali conteggi su TAP, riguardanti impegni contrattuali sull’estero (perché il gas di TAP servirà principalmente l’estero) e probabili mancati profitti, concludendo per un ammontare di 20 miliardi. Ha dunque parlato di presumibili costi contrattuali di terzi, ma non di analisi costi-benefici tra attivazione dell’opera e contesto socio-economico-ambientale-climatico dello Stato italiano e del suo ecosistema.
Le due prospettive non descrivono in nulla la stessa cosa: l’analisi costi-benefici è richiesta sia dall’Unione europea, che pretende l’inclusione dei costi climatici riferiti agli obiettivi di Parigi sul contenimento di emissioni di CO2, sia dall’OSCE che impone che l’analisi costi-benefici della sicurezza energetica sia declinata con l’analisi costi-benefici della sicurezza ambientale di lungo periodo, oltre che dalla Banca Centrale Europea che vorrebbe finanziare l’opera TAP.
È richiesto da tutte le istituzioni sovranazionali e internazionali di strategia energetica e di investimento finanziario; com’è giusto che sia, giacché l’analisi costi-benefici sulle opere di impatto intertemporale risponde a una garanzia di trasparenza dei decisori pubblici nei confronti non solo dei cittadini di oggi, ma soprattutto delle generazioni future e del loro contesto di vita: contesto che inesorabilmente deve misurarsi sulla dimensione climatico-ambientale.
Di tutto questo il Sottosegretario non ha parlato. Egli non ha neppure voluto consegnare alcuna documentazione al Sindaco. Nulla ha saputo replicare alle domande sui titoli giuridici a fondamento delle eventuali pretese creditorie italiane e non estere. Ha taciuto sul computo dei costi ambientali dell’opera TAP rispetto alla tenuta dell’ecosistema della costa di San Basilio, rispetto ai fenomeni dell’erosione costiera. Nulla è stato detto sui costi climatici rispetto ai criteri ribaditi proprio questo mese dal “Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico” dell’ONU.
Del resto, non è superfluo ricordare che il Governo italiano è pericolosamente privo del “Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici”.
Forse anche per questo, il Presidente Conte e la Ministra Lezzi si sottraggono all’onere di un tavolo pubblico e trasparente tra agenzie indipendenti di studio ambientale (come ISPRA e ARPA), rappresentati del governo e del territorio e TAP.
In definitiva, e una volta in più, di analisi costi-benefici non si sa che dire; come, ancora una volta, la Convenzione di Aarhus sulla democrazia ambientale, che prevede il coinvolgimento del pubblico nell’analisi costi-benefici, è stata violata.
Questo è un fatto molto grave, indipendentemente dalle proprie posizioni politiche, perché priva tutti i cittadini del diritto all’informazione completa ed esaustiva sulle scelte politiche dei governanti nei confronti di un’opera che riguarda i diritti delle generazioni future.
La circostanza di un Sottosegretario di Stato inadempiente negli oneri documentali e informativi verso un Sindaco rappresentante di un territorio della Repubblica, non definisce solo un gesto istituzionalmente scorretto; identifica una lacuna istituzionale pericolosa.
In questo scenario, paradossale appare infine il silenzio della coalizione giallo-verde e di Luigi Di Maio che, nel suo “Contratto per il governo del cambiamento”, esplicitamente ha voluto contemplare, per opere come TAP, tre obblighi metodologici totalmente disattesi: la istituzione di un “Comitato di conciliazione” per definire le modalità di azione; l’analisi costi-benefici (non solo quindi l’analisi costi contrattuali esteri); trasparenza e partecipazione di comunità locali e cittadini.
Di Maio tradisce il suo “Contratto”, votato dai suoi elettori.
La leale collaborazione tra istituzioni nazionali e locali e tra istituzioni e cittadini è il cemento della democrazia. Prendersi gioco della leale collaborazione è un illecito costituzionale che va denunciato.
È già partito l’accesso FOIA verso il Sottosegretario Cioffi. Ma sono già state attivate anche tutte le azioni propedeutiche alla denuncia del Governo italiano presso l’Unione europea, l’OSCE e le altre istituzioni che tutelano i diritti di informazione e di trasparenza delle decisioni nelle democrazie.
L’analisi costi-benefici è un dovere verso i diritti delle generazioni future e un presupposto di serietà di una democrazia.
Non pretendere chiarezza su tutto questo significa diventare complici di una erosione dei diritti di cittadinanza, che danneggia tutti e irresponsabilmente condiziona il futuro.

Prof. Avv. Michele Carducci
Difensore Movimenti e cittadini NoTAP

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Ragazzi selvaggi affacciati alle finestre di un altro mondo https://www.carmillaonline.com/2018/08/01/ragazzi-selvaggi-affacciati-alle-finestre-di-un-altro-mondo/ Wed, 01 Aug 2018 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47670 di Sandro Moiso

Voglio iniziare questo intervento dedicato alla magnifica riuscita del Festival Alta Felicità, svoltosi a Venaus nei giorni 26, 27, 28 e 29 luglio, rubando letteralmente le parole a un breve poema pubblicato all’interno del libretto che accompagnava, nel 1999, un album del gruppo americano Jefferson Starship: “Windows of Heaven”.

«Salve genti del pianeta Terra Saluti dal margine estremo di ciò che non si conosce Il ventunesimo secolo inizia qui. Fuori dall’Occidente alla velocità della luce Nei vostri cuori alla velocità dell’immaginazione

Il futuro riguarda il coraggio Chi ce l’ha, chi non ce l’ha

Ora ascoltate ciò che [...]]]> di Sandro Moiso

Voglio iniziare questo intervento dedicato alla magnifica riuscita del Festival Alta Felicità, svoltosi a Venaus nei giorni 26, 27, 28 e 29 luglio, rubando letteralmente le parole a un breve poema pubblicato all’interno del libretto che accompagnava, nel 1999, un album del gruppo americano Jefferson Starship: “Windows of Heaven”.

«Salve genti del pianeta Terra
Saluti dal margine estremo di ciò che non si conosce
Il ventunesimo secolo inizia qui.
Fuori dall’Occidente alla velocità della luce
Nei vostri cuori alla velocità dell’immaginazione

Il futuro riguarda il coraggio
Chi ce l’ha, chi non ce l’ha

Ora ascoltate ciò che ho da dire
Questa è la fine di tutto ciò che è usuale
E questi saranno tempi in cui i mondi entreranno in collisione

Realizzate tutto ciò di fronte al Caos
In un universo indifferente e selvaggio».

Credo che siano davvero le parole più adatte per celebrare le decine di migliaia di persone che si sono raccolte, forse sarebbe meglio dire si sono polarizzate, intorno alla lotta No Tav della Val di Susa, ai suoi militanti, alle sue ragioni, al suo saper guardare al futuro.
Se il più ostile Tg regionale del Piemonte ha parlato di almeno 50.000 partecipanti, credo, senza timore di esagerare, che anche gli organizzatori possano confermare una simile cifra nell’enumerare tutti coloro che sono stati attratti magneticamente dall’area del Festival durante le quattro, meravigliose giornate.

Cinquantamila persone costituite al 90% da giovani compresi tra i sedici e i trent’anni. Ragazzi selvaggi non per i modi, ma per essersi lasciati trasportare dall’istinto, dall’amore per la libertà individuale e collettiva e dalla passione per un mondo diverso e altro. Per aver saputo costituire, massicciamente e senza alcun problema, una nuova comunità umana fatta di gentilezza, riso, felicità, lotta e rifiuto del modello esistenziale dominante.

Mentre i media e tutti i giornali mainstream, compreso il sempre più soporifero e inutile Manifesto, hanno dedicato all’evento poche righe, senza mai saperne cogliere la rilevanza oppure negandola per paura che di questa si accorgano altri milioni di giovani, italiani e stranieri esattamente come quelli che hanno popolato l’iniziativa e il suo disordinato, coloratissimo e vastissimo campeggio, i partecipanti, con la sola loro presenza, hanno saputo dire di NO al mondo dei grandi progetti, del capitale finanziario, delle mafie e camarille politiche, soprattutto di quelle che ancora si fingono di “sinistra”.

Ma il Re è nudo, e sarà inutile chiedersi ancora a “sinistra” dove sono i giovani: sono da un’altra parte, sulla frontiera delle lotte e dei cambiamenti magmatici che già si delineano all’orizzonte.
Sono ragazze e ragazzi bellissimi, detentori e portatori di un nuovo canone estetico e di nuovi desideri che, allo stesso tempo, sono coraggiosi, ingenui e maturi come tutti gli altri che li hanno preceduti nel tempo sullo stesso campo di battagli.

Sono giovani ragazzi selvaggi come quelli descritti decenni or sono da William Burroughs, il cui fantasma, in un ambiente off limits per le forze del disordine, vegliava sul tutto al bivio per Venaus sulla strada del Moncenisio, seduto come sempre con il suo fucile messo di traverso sulle ginocchia. Da lì la polizia e i carabinieri non potevano passare.

Nemmeno dopo la manifestazione, formata da migliaia di persone, che aveva raggiunto il cantiere fasullo e truffaldino come tutta l’opera, in Val Clarea, nonostante la pioggia e i soliti blocchi posti lungo il suo percorso.
Stop ai lavori! Si sente già nell’aria odore di vittoria mentre allo stesso tempo i fantasmi e gli schiavi del Capitale, come servitori traditi ed abbandonati, cercano di portare ancora le loro ragioni meschine e mefitiche sugli schermi delle tv e su pagine di giornali ormai destinate ad essere stracciate dal vento della rivolta e della gioia di vivere.

Non saranno infatti i tweet del ministro Toninelli a chiudere l’opera: lo hanno già fatto una lotta più che ventennale e una mobilitazione che cresce ogni anno di più, mentre in maniera inversamente proporzionale scendono le ragioni e le possibilità di realizzazione di una linea ad alta velocità nata morta. Come il congelamento da parte della società TELT di un bando internazionale per l’appalto di lavori per un valore di 2,3 miliardi di euro ha dimostrato proprio nei giorni seguenti la manifestazione.

Manifestazione in cui la parte musicale serale ha costituito soltanto uno degli aspetti, durante la quale, sia dal palco che nelle interviste rilasciate nel backstage, molti artisti si sono apertamente schierati sia a fianco della lotta NoTav che di quella NoTap. Mentre durante il giorno presentazioni di libri ed autori si affiancavano a dibattiti, con militanti italiani e stranieri, sulle trasformazioni del lavoro, sulla questione dei migranti, sulla fine del Novecento “politico” e sulla fine di un paradigma partitico di rappresentanza di cui soltanto da qualche tempo si è iniziata comprendere l’importanza e l’impatto sulle lotte reali e sulle loro forme organizzative.

Dibattiti in cui si è parlato di repressione, autodifesa e trasformazione del Diritto. Di continuità tra Fascismo e Repubblica, smantellando il paradigma istituzionale falsamente democratico e antifascista.
Della Palestina e dell’indipendentismo catalano e, ancora, della magnifica e vittoriosa esperienza della ZAD di Notre Dame des Landes così come delle lotte francesi contro la loi travail e dei cortei di testa a cui hanno dato vita migliaia di manifestanti di ogni età e appartenenza sociale.

Si è parlato del Rojava e dello straordinario esperimento comunitario delle sue genti e si è parlato di ambiente, di natura e dei costi di realizzazione di uno dei tanti mostri tecnologico-speculativi proposti da un modo di produzione fatiscente e giunto ormai al proprio promontorio tra i secoli. Dibattiti e presentazioni, gite e passeggiate in cui la presenza è sempre stata alta e motivata.

Anche se, per ora, ci si è solo affacciati alle finestre di un altro mondo, già si sente nell’aria l’annuncio:
Genti della Terra
Una nuova stagione è iniziata
La creatività e l’immaginazione trionferanno sul lavoro morto
e sul valore feticcio estorto con la forza dalla fatica di milioni di individui.
Così da dare vita ad un mondo senza barriere etniche, di classe, genere e senza confini tracciati da nazioni ed imperi ormai condannati alla polvere dei secoli, come tutti i loro predecessori.
In cui la Vita possa finalmente trionfare sulla Morte, i suoi servi e i loro miserabili feticci.

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Il sentimento della rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2018/04/12/sentimento-della-rivoluzione/ Wed, 11 Apr 2018 22:01:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44747 di Sandro Moiso

Giorgio Cesarano, I GIORNI DEL DISSENSO. LA NOTTE DELLE BARRICATE. Diari del Sessantotto, a cura di Neil Novello e con uno scritto di Gianfranco Marelli, Castelvecchi, 2018, pp.218, € 17,50

Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e, soprattutto a partire proprio dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine di vita esistente venutosi a costituire in Italia proprio tra il’68 e il ’77.

Contemporaneo e amico di Giovanni Raboni [...]]]> di Sandro Moiso

Giorgio Cesarano, I GIORNI DEL DISSENSO. LA NOTTE DELLE BARRICATE. Diari del Sessantotto, a cura di Neil Novello e con uno scritto di Gianfranco Marelli, Castelvecchi, 2018, pp.218, € 17,50

Giorgio Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale italiana del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo, traduttore e, soprattutto a partire proprio dal 1968, critico del capitalismo e militante dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione dell’ordine di vita esistente venutosi a costituire in Italia proprio tra il’68 e il ’77.

Contemporaneo e amico di Giovanni Raboni e Franco Fortini, oltre che di altri importanti esponenti del rinnovamento poetico e culturale italiano dei primi anni sessanta, si sarebbe poi allontanato progressivamente da quello stesso ambiente intellettuale per vivere pienamente l’esperienza e il sentimento, come lo avrebbe definito egli stesso, della Rivoluzione.

L’opera appena ripubblicata da Castelvecchi, con la cura attenta e preziosa di Neil Novello, aveva costituito nel 1968 una delle prime testimonianze dirette di un movimento che, in quella primavera e a Milano, stava muovendo i primi passi. Pubblicata da Mondadori nel luglio di quello stesso anno aveva di fatto costituito l’ampliamento di un testo, “Vengo anch’io” direttamente ispirato all’omonima canzone di Enzo Jannacci, pubblicato da Anna Banti sulla rivista “Paragone”.
All’epoca, però, il testo apparve “censurato” dalla casa editrice e mondato della seconda parte che, già all’epoca, l’autore avrebbe voluto pubblicata insieme alla prima (e pubblicata poi nell’autunno di quell’anno su “Nuovi argomenti” con il titolo “La notte del Corriere”), finalmente ripresa in questa nuova edizione che, inoltre, ripristina anche il testo originale del primo diario.

Mentre la prima parte (I giorni del dissenso) è dedicata dall’autore “ai ragazzi dei radiomegafoni”, la seconda (La notte delle barricate) è dedicata “ai ragazzi delle bottiglie”, segnando così una sorta di cambio di passo sia nella narrazione dei fatti che, nella riflessione di Cesarano, sugli eventi che in quella primavera avrebbero contribuito turbinosamente a modificare il panorama politico, sociale e culturale italiano e internazionale.

I tempi sono diversi, ma vicinissimi: è la cronaca dei giorni compresi tra il 25 marzo e il 9 maggio quella contenuta nel “primo diario”, mentre il secondo copre un periodo molto più ristretto rinchiuso tra l’8 e l’11 giugno. Insomma dalle prime manifestazioni studentesche della primavera alla notte dell’assedio al Corriere della sera, con relativi scontri con la polizia, come risposta all’attentato, avvenuto in Germania, contro il leader degli studenti tedeschi Rudy Dutschke.

Così la prima parte riguarda principalmente le riflessioni di un uomo maturo, già quarantenne all’epoca, nei confronti di un movimento ancora imberbe, con forti elementi di novità ma anche di debolezza nell’analisi dell’esistente. Riflessione che vede l’autore pencolare, inizialmente, tra l’accettazione di quella novità rappresentata dagli studenti in piazza e la non comprensione di un discorso immediatamente radicale che sembra voler far piazza pulita delle affermazioni e convinzioni accumulate in anni di militanza nel movimento operaio. Prima nel PCI e come cronista dell’Unità (da cui fu espulso per la sua adesione adolescenziale alla X Mas) e in seguito nelle esperienze di Classe Operaia e della collaborazione con riviste come Aut Aut, Nuovi argomenti e Quaderni piacentini.

Non a caso il testo era preceduto, già nell’edizione originale, da un’affermazione di Mario Savio, leader delle proteste studentesche americane a Berkeley. Un’affermazione tratta da un discorso tenuto ancora per il movimento per la libertà di parola negli anni delle prime lotte per i diritti civili negli Stati Uniti:

“C’è un’ora in cui le operazioni della macchina divengono così odiose, provocano tanto disgusto, che non si può più stare al gioco, che non si può più stare al gioco nemmeno tacitamente. E’ allora che bisogna mettere i nostri corpi sugli ingranaggi e sulle ruote, sulle leve e su tutto l’apparato della macchina per farla fermare. E’ allora che si deve far capire a chi la fa funzionare, a chi ne è il padrone, che se pure noi non siamo liberi impediremo ad ogni costo che la macchina funzioni”

Sì, perché in seguito a quelle riflessioni Cesarano avrebbe deciso di mettersi in gioco come corpo, oltre che come intelletto. Le parole che fungono da incipit per i giorni del dissenso sono, infatti, le seguenti:

“Sono qui, con le ossa rotte (in pratica per modo di dire, anche se alla base c’è il fatto che sono stato bastonato), la schiena e le gambe che mi fanno male, non so più se per le botte o perché non sono più allenato a muovermi violentemente, a correre e a stare tanto tempo in piedi”.1

Ma mettere in gioco il corpo significherà per Cesarano ben più che partecipare alle manifestazioni e agli scontri di piazza. Vorrà dire riflettere sui corpi come veri protagonisti dell’esistenza umana e sulla necessità di una loro liberazione immediata dalle catene del modo di produzione capitalistico e dal suo naturale corollario costituito dal consumo forzato di merci come unico scopo della vita.
E’ un rifiuto totale del mondo che lo/ci circonda, delle sue leggi, della sua economia, della assurda legge della miseria contro la quale sola può levarsi la rabbia degli oppressi. Immediata e rivoluzionaria già sul momento e nelle pagine centrali del testo, solo il poeta potrà esprimere ciò con la sufficiente potenza visionaria:

“…perché il potere gettò la maschera gli oppressi dettero di muso in sciabole fucili e gas il mondo si spaccò visibilmente in due non crederò mai abbastanza in quello che si vede la fame reale o metaforica può restar fame mille anni covar fame e figliare fame ma la collera la rabbia è un virus di fuoco che può in ogni momento non si deve dimenticare che può in ogni momento rovesciare l’asse del mondo”.

Nella Notte delle Barricate la narrazione si fa più corale e l’esperienza collettiva, anche sulle pagine, mentre, allo stesso tempo, la rottura con la tradizione politica del passato diventa evidente nei fatti.
Non solo perché gli atti, non troppo dissimili da quelli di qualsiasi altra rivolta, acquistano nuovi significati, ma anche perché la rottura con i partiti, o meglio ancora con il Partito con la P maiuscola, il PCI, diventa ineludibile come dimostra, fattivamente e simbolicamente, l’episodio del militante del partito comunista che cerca di cacciare i giovani che hanno trovato rifugio in una delle sue sedi per ripararsi dalle cariche della polizia chiamandoli Provocatori!

Si disvelava così che tutti i giochi del movimento operaio istituzionalizzato altro non erano che strumenti per il mantenimento di un ordine basato sulla produzione e sul consumo di massa, ai cui occhi qualsiasi forma di indisciplina e rifiuto delle regole non poteva e non può apparire che come una provocazione, un complotto, un atto terroristico.

Inizia proprio a partire da questi diari il “salto nel vuoto” del poeta. Un salto che lo porterà ad avvicinarsi agli ambienti e alle formulazioni più radicali della critica di quegli anni.
Come specifica Gianfranco Marelli, nella sua concisa postfazione:

“Sicuramente la frequentazione sul finire degli anni ’60 degli ambienti anarchici milanesi e del milieu situazionista francese, oltre agli studi su Rosa Luxemburg, il consiliarismo e «Socialisme ou barbarie» […] segnarono l’orizzonte teorico di Cesarano e lo condussero a praticare una visione politica radicale rispetto a quanto ribolliva all’interno dei “politicissimi amici” con i quali sul piano intellettuale condivideva l’impegno a svecchiare da sinistra PCI e sindacato. In particolare la partecipazione alla Federazione Anarchica Giovanile Italiana con il gruppo milanese La Comune assieme a Eddie Ginosa, un giovane e stimato compagno con il quale si creò un solido legame intellettuale interrotto bruscamente con il suicidio del giovane nell’ottobre del ’71 – il primo di una lunga serie di suicidi che scosse profondamente Cesarano – gli consentì di tracciare una parabola che lo condusse a riconoscersi in un progetto comunitario intriso di venature marxiste, libertarie, situazioniste.
Munito di questi strumenti teorici, cercò la loro attuazione dapprima nelle nascenti organizzazioni spontanee del Movimento milanese come il CUB Pirelli, divenuto nel 1967 il luogo dell’organizzazione autonoma delle lotte operaie e studentesche, per poi essere fra i protagonisti dell’occupazione del palazzo della Triennale e dell’hotel Commercio, due delle più importanti lotte che contraddistinsero l’anima più radicale del ‘68/’69 meneghino, slegata dalle camarille del Movimento Studentesco di Mario Capanna e dei gruppi politici quali Avanguardia Operaia intenti a monopolizzare ideologicamente la contestazione, fino a partecipare alla fondazione di Ludd, un gruppo informale la cui tendenza era l’estremizzazione delle lotte del proletariato spingendolo ad attuare lotte non sindacali, “anti-economiche”, e forme organizzative consiliari e “unitarie” (né partito, né sindacato) per l’immediata realizzazione del comunismo senza passare attraverso una transizione socialista e senza costruzione di un modello o di un progetto positivo da posporre al “tutto e subito” che allora pareva il realizzarsi della rivoluzione nei soggetti protagonisti del Sessantotto”.2

Non solo, attraverso la frequentazione di Jacques Camatte, di cui diverrà collaboratore e amico, Cesarano si farà riscopritore e teorico di quella comunità umana (Gemeinwesen) già presente nell’opera del giovane Marx e poi utilitaristicamente abbandonata dai suoi successivi epigoni, interessati più a far rientrare il movimento operaio e l’azione di classe all’interno delle logiche della politica e della produzione più che alla liberazione dell’umana specie dalle catene dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sull’ambiente e dell’uomo sulla donna.

A partire da quegli anni, bruciando velocemente le tappe di ogni discorso culturale che non fosse anche critica radicale dell’esistente, Cesarano produrrà alcuni dei suoi testi più significativi,3 collaborerà con le riviste Puzz e Provocazione lasciando ancora alle sue spalle, dopo la drammatica morte, una grande quantità di scritti che hanno iniziato ad essere raccolti nelle opere complete edite a cura del Centro di iniziativa Luca Rossi di Milano.4

Attraverso quegli anni e il personale travagliatissimo percorso politico, oltre che tra le pagine dei diari, ci guidano in maniera articolata e profonda sia Neil Novello5 che Gianfranco Marelli, entrambi esperti conoscitori dell’incandescente materia trattata.

Costituita, come si è già detto, da un’esistenza che ha attraversato il Novecento nella convinzione assoluta che «L’uomo non è mai stato ancora». Da una critica della modernità che, a differenza di quella radicale ma conservativa portata avanti da Pasolini, ha cercato di indicare una comunità umana del futuro da opporre alla mortifera globalità capitalistica. Da opere provocatoriamente memorabili in grado di far sognare la fine della preistoria come presente, accendere la speranza nella rivoluzione biologica, varare le ontologie del desiderio e della passione per annientare il senso morto dell’esistenza. Tutto per giungere ad un altro modello di vivere umano.

Ciò potrebbe costituire l’unica vera eredità trasmessaci dai movimenti desideranti e combattivi di un decennio di cui Cesarano fu, per gran parte, testimone e interprete e proprio per questo motivo al curatore Neil Novello e a Gianfranco Marelli, oltre che all’editore, devono andare i ringraziamenti del recensore e dei lettori per quella che è destinata a rimanere fin da ora una delle migliori celebrazioni dei cinquant’anni dal ’68.


  1. pag. 41  

  2. Gianfranco Marelli, Istantanea del Séssantotto [Per una rinascita ontologica del Movimento], op. cit. pp. 213-214  

  3. Giorgio Cesarano- Gianni Collu, Apocalissa e rivoluzione, Dedalo 1973; G. Cesarano, Manuale di sopravvivenza, prima edizione Dedalo 1974 ora Bollati Boringhieri 2000 (con una prefazione e una cronologia della vita e delle opere a cura di Gianfranco Marelli)  

  4. Delle quali è per ora disponibile soltanto il terzo volume: Critica dell’utopia capitale  

  5. Autore, tra l’altro, dell’unica ricerca dedicata interamente all’opera del poeta-militante: Neil Novello, Giorgio Cesarano. L’oracolo senza enigma, Castelvecchi 2017  

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