comunista – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’evasione è possibile https://www.carmillaonline.com/2021/03/23/levasione-e-possibile/ Tue, 23 Mar 2021 13:19:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65502 Ieri, 22 marzo, Sante Notarnicola, eroe e poeta proletario, è riuscito a saltare l’ultimo muro di questa galera di cemento e leggi speciali che ci ostiniamo a chiamare vita. Ora corre libero in un altro luogo dove potrà tornare ad abbracciare Adriano, Prospero, Bianca, Pietro e tutti gli altri amici di sempre che lo hanno preceduto. La sua anima di poeta, rimasta impressa nei ricordi di chi l’ha conosciuto, ne impedirà la trasformazione in monumento retorico e freddo, esaltandone invece la profonda e irriducibile umanità.

Per ricordarlo “Carmilla” ha scelto di riproporre un [...]]]> Ieri, 22 marzo, Sante Notarnicola, eroe e poeta proletario, è riuscito a saltare l’ultimo muro di questa galera di cemento e leggi speciali che ci ostiniamo a chiamare vita. Ora corre libero in un altro luogo dove potrà tornare ad abbracciare Adriano, Prospero, Bianca, Pietro e tutti gli altri amici di sempre che lo hanno preceduto.
La sua anima di poeta, rimasta impressa nei ricordi di chi l’ha conosciuto, ne impedirà la trasformazione in monumento retorico e freddo, esaltandone invece la profonda e irriducibile umanità.

Per ricordarlo “Carmilla” ha scelto di riproporre un suo testo apparso nella raccolta degli Atti del Convegno di Bologna del 12-13 marzo 1994 “Anni ’70 – anni ’90 – Chi non ha memoria non ha futuro” a cura del Centro di Documentazione Francesco Lorusso pubblicata sulla rivista “Vis-à-vis” n.3, 1995.


I dannati della terra e la rivolta delle carceri

di Sante Notarnicola

Compagne e compagni, permettetemi con gli inizi di questi lavori di mandare un nostro saluto alle compagne e ai compagni imprigionati. Alle compagne e ai compagni esuli, specialmente a coloro il cui esilio è gramo; il nostro saluto va agli esiliati che non godono di particolari favori, o perché mancano di strumenti e mezzi personali, o perché la loro coerenza politica li pone in una fitta rete di diffidenza e di controllo che li costringe ad una vita di emarginati.

E ricordando l’esilio di tanti, un ricordo commosso va al compagno avvocato Sergio Spazzali che tanto ha dato ai prigionieri e nulla ha avuto in cambio, se non l’affetto e la stima di tanti rivoluzionari. Sergio andato ad allungare la lista di quei compagni che hanno dato tutto, proprio tutto…

Alle compagne e ai compagni tuttora imprigionati, oltre al nostro saluto, mandiamo a dire che durante questi lavori porremo al centro la questione della loro liberazione.

Vogliamo sviluppare un’azione politica ad ampio raggio per superare la frammentazione di iniziative che ha caratterizzato gli ultimi due anni.

Sta a noi fuori fare in modo che siano superati gli ostacoli che impediscono, anche su questo terreno delicato, un apporto unitario del movimento. Quanto ci auguriamo venga fuori da questo convegno.

Gli ostacoli sono di diversa natura, alcuni legati a vecchi travagli oggi superabilissimi, dato il tempo trascorso (mi riferisco alle divisioni degli anni ‘70 che caratterizzarono la vita del movimento rivoluzionario). Altri ostacoli invece sono tuttora vivi, attuali e per questo più insidiosi. Rispetto a questi ultimi va fatto il massimo di chiarezza, per dare strumenti ulteriori ai compagni piovani verso cui sentiamo la responsabilità che ci deriva dal peso della nostra storia. Ma vogliamo anche ricordare agli “smemorati” quale pesante responsabilità politica e umana si assumono in sede di revisione storica, omettendo, minimizzando o addirittura teorizzando scelte disonorevoli sul piano personale, oltre che politico. Scelte e comportamenti che tanto hanno pesato negli anni successivi e che hanno impedito la ripresa del movimento tutto che si arenò sulle macerie della rottura della solidarietà.

Un saluto non formale va alle donne e agli uomini rinchiusi qui alla Dozza.

È un saluto da estendere ai detenuti che sono rinchiusi nei “braccetti” (sono proliferati negli ultimi tempi), ai detenuti che subiscono una pena inumana come quella dell’ergastolo e, infine, ai detenuti malati. E qui non possiamo non ricordare con emozione e preoccupazione insieme: Prospero Gallinari, Salvatore Ricciardi, Salvatore Cirincione, la compagna Silvia Baraldini e quanti altri vivono, oltre al carcere, anche malattie devastanti.

Compagni e compagne, nella storia del movimento operaio di tutto questo secolo, il PCI, ha sempre agitato la bandiera del vecchio compagno Terracini che, sotto il regime fascista, fu il dirigente che scontò 18 anni di detenzione. Sotto il regime “democratico” nato dalla Resistenza, Paolo Maurizio Ferrari, comunista e militante delle Brigate Rosse, nel prossimo maggio avrà scontato vent’anni di prigione, e così i fratelli Abatangelo, Giovanni Gentile Schiavone, Maria Pia Vianale. Decine e decine di altri comunisti sono in carcere da oltre quindici anni. Questi sono i dati. Questo è il duro prezzo da pagare alla propria coerenza di comunisti. Qui non c’è la tanta decantata e compiaciuta discontinuità… La repressione continua a funzionare con perfetta continuità!

La continuità delle carceri speciali in cui sono rinchiusi, con lo stesso trattamento dei tempi emergenziali, decine di compagne e di compagni. Sono coloro di cui non si parla mai neppure tra di noi e che tacciono e non chiedono nulla. Sono le compagne e i compagni che, per proprie convinzioni politiche, hanno fatto della loro vita una militanza granitica, nelle condizioni più difficili che possiamo immaginare. Negli anni passati, grazie all’emergenza, sono state molte le fortune politiche anche economiche che si sono formate sulla pelle delle compagne e dei compagni. In tempi più recenti, venendo a mancare i motivi che l’aveva generata, pennivendoli e scrittori di un certo tipo non hanno rinunciato ad ingrassarsi ed hanno creato ad arte emergenze fasulle. Basta ricordare i libri dei Flamigni, dei Cipriani, ecc., dove pur di sostenere tesi complottiste care al vecchio PCI, violentano la loro intelligenza (ma ce l’hanno?) senza sentirsi ridicoli. Discutiamo dunque di quella stagione tenendo presenti i costi umani che ha avuto e le difficoltà di coloro che hanno osato autonomamente la scalata per il comunismo.

Ancora una volta sono invitato ad un’iniziativa di movimento come testimone di una lunga stagione di lotte che spesso ha visto al centro anche i problemi del carcerario.

Resto sempre dell’idea che una ricostruzione storica e politica delle nostre vicende debba necessariamente avere carattere collettivo. Anche se ormai vi sono numerosi contributi, perché questa ricostruzione possa essere compiuta, è indispensabile che tutti i compagni siano fuori dalle prigioni e gli esuli rientrati. Questo perché, tra le pieghe di questa storia, possono esserci ancora tegole di natura giudiziaria: è di pochi mesi fa l’ultimo arresto sul caso Moro.

Ogni volta che ho affrontato pubblicamente i problemi del carcere, ho sempre diviso in due fasi quelle vicende. Una prima fase che inizia con il mio arresto e va fino al 1977 e una seconda fase, quella delle carceri speciali, che è tuttora in corso.

Sono fortemente legato a quella storia, quella del movimento dei “dannati della terra”, che ritengo esemplare dal punto di vista di una lotta di massa, dell’acquisizione di una forte dignità collettiva di migliaia di detenuti e, non ultima, di una crescita di identità politica che ha coinvolto centinaia di persone, alcune delle quali, col tempo, hanno assunto anche ruoli precisi di responsabilità politica all’interno del movimento rivoluzionario.

Ne sono legato anche per antica cultura che sto ravvivando fuori dalle prigioni in questi anni di semilibertà infinita…

Quella stagione di lotte ebbe incredibili risultati che andrebbero ricordati, o meglio, analizzati. Per tutti voglio ricordare la forza di quel movimento che seppe creare, all’interno delle più grandi prigioni, un vero e proprio “territorio liberato”, che gestì in maniera rivoluzionaria ponendo all’ordine del giorno il legame politico con il movimento esterno, lo studio, la crescita politica della massa dei detenuti e dei singoli. Si creò un fortissimo senso di solidarietà, tanto da preparare il salto di qualità che per molti significò la liberazione pratica attraverso evasioni individuali e di massa che, in quegli anni, furono numerose e clamorose.

Alcuni di quegli evasi non tornarono alle vecchie attività extralegali ma andarono ad ingrossare le fila del movimento rivoluzionario, portando un contributo di coraggio, coerenza e tutta la ricchezza acquisita nelle lotte di quegli anni. Per tutti voglio ricordare Martino Zicchitella, che pagò con la vita questa sua coerenza, durante un’azione dei Nuclei Armati Proletari.

Molto spesso alcune compagne e compagni mi hanno chiesto come poter fare intervento oggi nelle prigioni. Ho detto e ripeto che la risposta ci viene da quelle lontane esperienze. Il movimento dei “dannati” poté decollare perché si erano create le condizioni favorevoli. Intanto quelle nel carcere, all’epoca più vicino al medioevo che ai nostri giorni e quindi vicino al punto di rottura. Ma, cosa più importante, era cambiata la composizione sociale nel carcerario. L’irruzione di figure proletarizzate, magari con esperienze fugaci nel mondo del lavoro, o che ne vivevano la problematica in famiglia, fece fare un salto di qualità al modo di affrontare i problemi immani che il carcere ti poneva giorno per giorno. Non fu semplice comunque convincere subito tutti alla necessità di una lotta collettiva, lì dove c’erano individualità molto forti, in una realtà in cui era proprio la resistenza isolata la cultura più apprezzata.

Altro aspetto, il più importante, è che nello stesso periodo fuori dal carcere si veniva a formare un poderoso movimento di massa, soprattutto giovanile, per la prima volta fuori dal controllo dei partiti, anzi, contro i partiti e contro ogni tipo di autoritarismo. Un movimento che poté vivere a lungo grazie anche alla saldatura che operò tra mondo della scuola e mondo del lavoro. I riferimenti ideali dell’epoca erano il Che, le guerre di liberazione del Terzo Mondo, la rivoluzione culturale cinese, la lotta dei neri americani contro la discriminazione razziale e, soprattutto, la lotta del popolo vietnamita.

Tematiche che ebbero grossa influenza anche tra i detenuti che cominciavano, in stretto contatto con questo movimento, a formare e costruire la loro coscienza politica.

Temo sia dunque una stagione irripetibile, quella.

Ad Irene Invernizzi, una militante di Lotta Continua che insieme a quella organizzazione ebbe un ruolo essenziale per la formazione politica dei detenuti, scrivemmo nel ‘71 che “il carcere si può definire lo specchio della società che lo contiene e i carcerati la sua immagine”.

Questa definizione apre il famoso libro Il carcere come scuola di rivoluzione che ebbe all’epoca una grossa fortuna dentro e fuori e che andrebbe letto dalle compagnie e dai compagni piovani. Grazie a quella compagna e alla sua organizzazione per la prima volta fu data la parola ai detenuti.

Se il carcere è dunque lo specchio della società, si capisce perché oggi nonostante le condizioni di sovraffollamento che rendono invivibile la quotidianità, un movimento non decolla. I mutamenti sono stati profondi. Pensante, il 15-20 per cento della popolazione detenuta è formata da extracomunitari, cioè hanno fatto irruzione culture diverse e, come fuori, spesso in contraddizione, in urto, venendo a mancare un cuscinetto autorevole che solo i compagni potevano svolgere. Poi la droga, la tossicodipendenza, altra percentuale altissima che per “sopravvivere” anch’essa ha operato guasti insanabili, certamente agevolata, come fuori, per intorpidire forze e coscienze e che ha determinato anche un doppio controllo.

La composizione dei detenuti è dunque profondamente modificata, così la forza e la presenza del movimento e solo quando questo tornerà ad essere protagonista nella vita sociale, si potranno ricreare condizioni perché anche sul carcerario si possa intervenire.

Tornando per un attimo a quegli anni, ai legami ormai solidi creati tra movimento esterno ed interno, al clima e al dibattito di quegli anni, ricordo che fuori dalle prigioni una serie di avanguardie aveva posto all’ordine del giorno la questione della lotta armata, e in quale modo svilupparla. Noi nelle prigioni, come comuni, non ci sentivamo esclusi, anzi… Dopo alcuni episodi: la strage nel carcere di Alessandria, l’uccisione di Venanzio Marchetti per mano dagli agenti di custodia durante una rivolta, la sparatoria contro i detenuti alle Murate di Firenze, quasi tutte le avanguardie del carcerario avevano allentato il legame con Lotta Continua che da anni aveva avuto un rapporto privilegiato con i carcerati e riversarono le loro simpatie verso le organizzazioni armate che, per quanto ci riguardava, ponevano anche per noi il problema del riscatto totale e l’abbattimento delle prigioni. Più nessuno credeva ad un carcere umanizzato, riformato.

Del resto grossa era l’influenza dei primi militanti di quelle organizzazioni che, catturati, entravano in diretto contatto con noi e ci riportavano il livello del dibattito che esisteva all’interno del movimento. Avvenne così una saldatura ideologica, politica e pratica che sarebbe durata molti anni. Naturalmente quella saldatura, grazie anche all’azione dei NAP che si erano organizzati per la difesa delle lotte dei detenuti, preoccupò fortemente i vertici del Ministero di Grazia e Giustizia che dapprima istituì alcuni reparti di isolamento individuale e per piccoli gruppi a Porto Azzurro, Alghero, Favignana e in qualche altro carcere e, nel 1977, in gran segreto, approntò cinque carceri speciali.

Sarebbe comunque ingeneroso verso tantissime avanguardie del carcerario sostenere che la loro scelta di lotta armata fosse dettata soltanto dall’influenza dei militanti delle organizzazioni armate. Queste avanguardie, ricordiamolo, avevano una loro particolarità: si formarono nel corso di anni nel fuoco delle rivolte, spesso subirono repressioni inenarrabili e la loro militanza, la loro formazione, avvenne tutta “nelle mani del nemico”, all’interno dell’istituzione più chiusa e più “gelosa” della borghesia. L’adesione fu dettata anche da una riflessione politica: solo la rivoluzione poteva dare, può dare, la vera libertà. Questo ovviamente vale per tutti, ma per un detenuto la parola libertà ha mille significati in più.

Quei compagni dunque, si assunsero quella responsabilità non solo per tentare una sorta di riscatto personale, ma per trascinarsi dietro tutti gli altri, per trasformare quella massa “delinquenziale” in un vero e proprio strato di classe.

Tutti i sommovimenti proletari storici, al culmine del loro sviluppo, hanno aggregato molteplici figure esterne alla classe: anche la piccola e media borghesia. Questo è successo anche negli anni ‘70. Poi, regolarmente, all’esplodere della crisi, ognuno è tornato nei suoi ranghi… i piccoli e medi borghesi in seno alla propria classe. Chi non ha questo tipo di scelte sono i proletari e …. i carcerati.

Come dicevo, nel 1977 furono approntate cinque carceri speciali, con caratteristiche altamente distruttive e di assoluto isolamento.

La gestione di queste prigioni, per la prima volta, passava sotto le dirette dipendenze dell’esecutivo, cioè del governo, e il controllo esterno fu affidato all’arma dei carabinieri.

Gli scopi di questo rivoluzionamento del carcerario erano molteplici: da una parte, si voleva ridare fiducia alle direzioni e agli agenti di custodia, provati e sfiduciati da una lotta decennale che li aveva visti sulla difensiva; dall’altra isolare i militanti delle organizzazioni armate e le avanguardie di lotta dalla massa dei detenuti e lanciare un preciso messaggio verso il movimento esterno.

I mesi successivi all’istituzione delle carceri speciali furono difficili, anche perché all’esterno i NAP avevano concluso la loro parabola e quelli che erano rimasti confluirono in altre organizzazioni combattenti e queste, se non ricordo male, cominciarono a subire catture importanti per spessore politico e per numero. Un momento di debolezza di cui il nemico approfittò, dispiegando la sua forza sui prigionieri. Nonostante la fase durissima, non vi fu alcuna defezione da parte dei prigionieri che anzi, successivamente si riorganizzarono, dotandosi delle strutture necessarie alla sopravvivenza politica e fisica.

Cominciò una nuova stagione di lotte, che all’inizio furono particolarmente dure, perché fatte in piccoli gruppi. A volte sembravano lotte disperate. Ma grazie anche all’apporto delle OCC e del movimento tutto, i prigionieri riuscirono a riconquistare degli spazi vitali e mantennero compatto e solido il corpo dei prigionieri.

Mi preme sottolineare che per lunghi anni, nonostante la durezza della repressione, il corpo prigioniero rimase compatto e solidale e questa solidità morale dava molta fiducia nel futuro e quindi nel superamento delle crisi cicliche.

Gli spazi politici erano ovviamente privilegiati su tutto il resto e credo che molto abbia pesato, nel bene e nel male, il ruolo e l’influenza dei prigionieri sulle sorti del movimento rivoluzionario.

Bisogna ammettere anche che non sempre c’è stato molto equilibrio, vi sono stati eccessi di soggettivismo che alla lunga hanno logorato i prigionieri. In determinati momenti sarebbe stato necessario conservare le forze, dare meno spazio alla soggettività. Non è un segreto per nessuno affermare che i quadri più preparati erano in prigione e la loro influenza politica era molto forte, per via delle elaborazioni teoriche che spesso venivano pensate e sperimentate dagli stessi prigionieri.

Sicuramente sono stati fatti molti errori di soggettivismo e di settarismo, la maledizione storica della sinistra, e quest’ultimo ha contribuito, alla fine, allo sfilacciamento del movimento rivoluzionario.

Questo però non deve essere una giustificazione per nessuno, specie per coloro che, in difficoltà nelle prigioni, ruppero la solidarietà, elusero le contraddizioni e scelsero il dialogo con i giudici e roba simile.

Aree omogenee… dissociazione… sono termini per alcuni incomprensibili o vaghi e forse è bene chiarire che dietro queste parole cambiava la qualità materiale della tua vita di prigioniero. A quanti facevano una scelta di campo diversa dalla tua, veniva cambiata la quotidianità, venivano premiati con un trattamento da prigionieri-ospiti, previa dichiarazione pubblica di abiura pubblicata quasi sempre sul Manifesto che, è bene ricordare, non solo si prestava, ma sosteneva la creazione delle aree omogenee e quindi la dissociazione; posizione bizzarra per chi occupa il mercato editoriale quale “quotidiano comunista”. Era una specie di fisarmonica oscena: mano a mano che i loro spazi si allargavano, i nostri si chiudevano. Gli esempi sono tanti e non è male farne qui qualcuno. I luoghi omogenei si formarono nei carceri adeguati, non troppo lontani dai luoghi di residenza per agevolare i familiari, ma con un occhio attento anche alle necessità della nuova politica. Rebibbia era ideale, ci si poteva addirittura candidare al parlamento e uscire da onorevoli… Le nostre compagne, i nostri familiari, invece, dovevano continuare a farsi i soliti 2000 chilometri per un’ora di colloquio, con i vetri di mezzo. Non solo, spesso si dovevano denudare e sottoporsi a perquisizioni umilianti. Quando ai sostenitori delle aree omogenee e ai dissociati diedero i computer, per tenersi aggiornati con le nuove tecnologie, a noi furono tolti tutti i libri. Ne potevamo tenere solo tre per volta e ricordo ancora la mia indecisione se privilegiare il vocabolario o un testo che mi interessava particolarmente. Quando a quelli delle aree omogenee davano spazi maggiori di socialità con l’esterno, a noi la censura della posta diventava più feroce e più feroce l’applicazione dell’art. 90, che sospendeva tutti i diritti costituzionali del prigioniero.

Compagne e compagni, per due anni buoni ho avuto la ventura di dividere tutte le mie giornate, ininterrottamente, con altri tre prigionieri. Sempre gli stessi. Bisogna essere assai corazzati per reggere una condizione del genere e non andare fuori di testa. Vi sono stati passaggi di tale ferocia che per orgoglio, per pudore, non ho raccontato neppure a Severina, la compagna con cui tutto questo ho condiviso.

Le aree omogenee, i dissociati, hanno fatto più danni dei traditori, perché hanno rotto la solidarietà politica e hanno seminato la sfiducia non solo nel corpo dei prigionieri, ma anche nella classe.

A questo proposito voglio leggervi un brano di uno scritto che recentemente ha affrontato i problemi degli esuli.

il danno sociale prodotto dai pentiti è circoscritto, limitandosi a smantellare un’organizzazione clandestina e a penalizzare i membri che la costituiscono. La dissociazione invece è misura di più ampio respiro sociale, in quanto crea un precedente ideologico, produce disaffezione e scoraggiamento non nelle fila di una specifica organizzazione, ma internamente ai movimenti sociali in generale. La dissociazione si rivolge perciò a un numero elevatissimo di individui ed è potenzialmente più insidiosa in quanto trascende la semplice sconfitta militare. Il pentimento adotta il linguaggio dell’esercito, mentre la dissociazione attinge dal vocabolario comunicativo della società civile.
Coloro che si sono distanziati dal proprio passato hanno avuto, il più delle volte, la possibilità di riprendere o iniziare una professione. La loro ‘autocritica’ assume rilevanza non in quanto maturata nell’intimo delle convinzioni personali, ma in quanto si presta ad essere riprodotta e trasmessa ad altri individui e gruppi. Ai dissociati si chiede di agire da testimoni di una sconfitta generazionale, di promuovere una memoria di sconfitta che non si esaurisca nel tempo passato e presente, ma che conservi un impatto significativo anche relativamente al futuro. È un fatto che, per coloro che sono stati coinvolti in processi politici, dissociazione ha anche significato reinserimento e spesso lavoro. Molti altri hanno dovuto emigrare. Tra i primi, lo status pubblico di dissociati si è sostanziato in messaggi e appelli chiari, inequivocabili, lanciati dalle pagine dei giornali o dagli schermi televisivi.1

Per chi volesse saperne di più sulla storia e il ruolo della dissociazione segnalo il libro Il proletariato non si pentito, Maj Editore, dove troverà tutta la documentazione di quegli anni sul problema.

Naturalmente condivido quanto scritto dal compagno. Non capisco quindi la superficialità di settori di questo movimento che danno credibilità a coloro che invece di dimostrare la propria coerenza, se la sono squagliata e oggi cercano di riproporsi come soggetto politico “rinnovato”. Nemmeno ai democristiani è più consentito di “riciclarsi”.

Penso che per i comunisti la coerenza sia essenziale e per coerenza intendo anche difendere sempre e comunque la propria classe. Altrimenti, non solo si perde credibilità, ma si fanno fare passi indietro ai movimenti e sappiamo quanto sia faticosa la ripresa.

Ricordo quando i comunisti, nelle aule dei tribunali, rivendicavano la loro militanza o i compagni delle Brigate Rosse rivendicavano l’appartenenza all’organizzazione e tutte le azioni fatte da questa. Era l’orgoglio di appartenere a un partito o a un’organizzazione che porta avanti il progetto più alto: la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Oggi in prigione ci sono rimasti quelli che “si sono sporcati le mani”, i proletari. I professori, i figli dei borghesi e dei piccolo-borghesi, i neo-editori, dopo aver fatto corsi accelerati in quelle aree omogenee, sono tornati al loro posto nella “società”.

A noi restano, tra gli altri, due problemi: ricostruire la nostra memoria e riannodare il filo rosso della solidarietà di classe con contributi più sostanziosi di quelli che posso dare io, e la sorte dei prigionieri politici e degli esuli. In più il problema urgente dei prigionieri che versano in condizioni di salute gravi: Prospero Gallinari, Salvatore Ricciardi, Salvatore Cirincione, Silvia Baraldini e altri…

Due problemi che devono essere sviluppati insieme, anche se le condizioni di salute dei compagni ci impongono tempi stretti se vogliamo che sia data loro la possibilità di sopravvivere alla detenzione.

Prospero non ha mai voluto, per sue convinzioni e coerenza personale, privilegiare la sua malattia per risolvere il suo caso personale. Siamo stati noi compagni a fare pressioni sul suo avvocato perché presentasse istanza di differimento della pena, che per due volte è stata rigettata. Come sapete, Prospero è stato sottoposto ad intervento chirurgico al cuore ed ha tre bypass. Solo pochi giorni fa è stato ricoverato in ospedale per un ictus e secondo i vari medici che l’hanno visitato ogni crisi potrebbe essere l’ultima.

Badate, il regime fascista liberò Gramsci nell’ottobre del 1934 perché potesse curarsi. Gramsci morì circa due anni dopo, nell’aprile del 1937. Ma siamo tutti d’accordo che il fascismo fu l’assassino di Gramsci. Siamo tutti d’accordo che questo potere democristiano (e non solo) sta uccidendo il nostro compagno.

Credo quindi che vada fatta ogni iniziativa possibile per chiedere la liberazione di Prospero e degli altri compagni che sono gravemente ammalati e impedire che cada un velo di silenzio che sarebbe mortale.

Ancora una sola considerazione personale.

Quando sono uscito dalla prigione questo movimento mi ha in un certo senso adottato. Ve ne sono grato. Ho trovato sostegno, umanità e calore.

Mi sono sforzato di capirvi e spesso anche voi avete fatto lo stesso sforzo. Certo, con i più veniamo da esperienze diverse, ma questo solo perché ho percorso diverse vite politiche. Di voi apprezzo il fatto che militiate in uno dei momenti più difficili di tutta la storia del movimento. È quanto vi abbiamo lasciato. Ma non siate ingenerosi, nonostante i guasti, resta l’esempio, il nostro, di una generazione che ha osato…

Spero che questi lavori in cui siamo impegnati possano darvi gli elementi di conoscenza utili a capire le luci e le ombre prodotte. Personalmente ritengo ancora valido quanto scritto da Lenin nel Che fare?

Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una strada dirupata e difficile, tenendoci saldamente per mano. Siamo da ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il loro fuoco. Ci siamo uniti, in virtù di una decisione liberamente presa, proprio per combattere i nostri nemici e non sdrucciolare nel vicino pantano.

Questo scriveva Lenin…

Per fare ci sono necessari dei punti fermi: la gelosa custodia della memoria, il superamento delle contraddizioni che possono avere una qualche validità nei grandi numeri e sono invece insensate in una situazione come la nostra. La politica praticata con senso costruttivo e aggregante. Più da vicino, i centri sociali possono avere soddisfatto molte esigenze, tuttavia rischiano di diventare una specie di riserva. Bisogna invece sfondare tutti i muri, pure quello dei nostri cervelli. È indispensabile, oggi più che mai, mischiarsi alla gente e a tutti i loro problemi.


  1. Brano tratto dallo scritto di V. Ruggiero “Condannati alla normalità. I detenuti politici italiani in Francia”, poi pubblicato su “Vis-à-vis” n. 2, 1994. 

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Repressione al lavoro https://www.carmillaonline.com/2020/01/19/repressione-al-lavoro/ Sat, 18 Jan 2020 23:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57359 di SI Cobas

[Pubblichiamo qui un contributo dell’organizzazione SI Cobas, pur non essendo nostra abitudine ospitare comunicati di organizzazioni politico-sindacali. In questo caso l’importanza dei temi trattati e soprattutto il drammatico peggioramento della situazione sul piano repressivo-giudiziario, con migliaia di denunce e processi in istruzione o in fase di giudizio ai danni di lavoratori e lavoratrici iscritti/e a questa organizzazione, giustificano questa nostra utile eccezione. “Carmilla” sostiene le lotte e si schiera dalla loro parte senza se e senza ma: non può esistere cultura e immaginario di opposizione, senza una pratica reale del [...]]]> di SI Cobas

[Pubblichiamo qui un contributo dell’organizzazione SI Cobas, pur non essendo nostra abitudine ospitare comunicati di organizzazioni politico-sindacali. In questo caso l’importanza dei temi trattati e soprattutto il drammatico peggioramento della situazione sul piano repressivo-giudiziario, con migliaia di denunce e processi in istruzione o in fase di giudizio ai danni di lavoratori e lavoratrici iscritti/e a questa organizzazione, giustificano questa nostra utile eccezione. “Carmilla” sostiene le lotte e si schiera dalla loro parte senza se e senza ma: non può esistere cultura e immaginario di opposizione, senza una pratica reale del conflitto – I.G.].

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I governi cambiano, la scure repressiva contro le lotte resta

La caduta del governo Conte Uno avvenuta lo scorso agosto e la contestuale nascita del Conte Bis “desalvinizzato”, avevano ingenerato in un settore largo della sinistra e dei movimenti sociali un sentimento diffuso di attesa per un cambiamento di passo in senso democratico.

Un attesa dettata non tanto dalla possibilità che il nuovo esecutivo “giallo-rosa”, nato in nome e per conto dell’Europa del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact, potesse imprimere un vero cambiamento nelle politiche economiche o un reale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e degli oppressi, quanto dalla speranza che l’esclusione della Lega dal governo potesse mettere almeno un freno all’ondata di odio razzista e all’escalation di misure e provvedimenti restrittivi delle cosiddette “libertà democratiche”.

Le prime dichiarazioni degli esponenti del PD (con a capo Zingaretti) e di LeU non appena insediatisi al governo, alimentavano questa speranza, nella misura in cui individuavano nei due Decreti Sicurezza- Salvini al tempo stesso il simbolo e il cuore dell’offensiva reazionaria guidata dalla Lega, dichiarando solennemente che queste misure andavano abrogate o, quantomeno, radicalmente mutate.

A quattro mesi di distanza dall’insediamento del Conte bis, appare evidente che quella speranza si sia ancora una volta tradotta in una pia illusione, e che anche stavolta ci siamo trovati di fronte alla classica “promessa da marinaio” ad opera dei soliti mestieranti della politica borghese.

Il decreto Salvini- Uno

Dei due decreti- sicurezza targati Lega e convertiti in legge grazie al voto favorevole dei 5 Stelle si è parlato e si parla tanto, ma il più delle volte per alimentare in maniera superficiale una presunta contrapposizione tra “buonisti democratici” e “cattivisti destorsi” che per analizzare (e fronteggiare) la portata reale delle misure in essi contenute.

Già il primo DL, che si concentrava quasi esclusivamente contro i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati (imponendo una stretta feroce sugli sbarchi e sulla concessione dei permessi di soggiorno, eliminando gli SPRAR e assestando un colpo durissimo all’intero sistema dell’accoglienza facendo strumentalmente leva sulle contraddizioni e sul business che spesso ruota attorno agli immigrati) in realtà puntava già molto oltre, mettendo nel mirino l’esercizio di alcune di quelle libertà che a partire dal secondo dopoguerra venivano dai più considerate “fondamentali” e costituzionalizzate come tali in ogni stato che si (auto)definisce democratico: su tutte la libertà di sciopero e di manifestazione pubblica e collettiva del dissenso.

Nella versione originaria del Decreto, quasi mimetizzato nel mezzo di una lista interminabile di norme per il “contrasto all’immigrazione clandestina” utili a soddisfare le paranoie securitarie di un’ opinione pubblica lobotomizzata dal bombardamento mediatico a reti unificate sulla minaccia dell’“invasore immigrato brutto sporco e cattivo”, ci si imbatteva nell’articolo 23, una norma di neanche dieci righe recante “Disposizioni in materia di blocco stradale”, nella quale, attraverso un abile gioco di rimandi, modifiche e abrogazioni di leggi precedenti tipico del lessico istituzionale, in maniera pressoché imperscrutabile si introduceva la pena del carcere fino a 6 anni per chiunque prendesse parte a blocchi stradali e picchetti, fino a 12 anni per chi veniva individuato come organizzatore e con tanto di arresto in flagranza, vale a dire che se a protestare sono degli immigrati, alla luce proprio di quanto previsto dal medesimo decreto, una tale condanna si sarebbe tradotta nel ritiro immediato del permesso di soggiorno e quindi nell’espulsione dall’Italia.

Dunque, in un piccolo e apparentemente innocuo trafiletto si condensava un salto di qualità abnorme contro le lotte sindacali e sociali, con pene esemplari, contro ogni forma di manifestazione di strada e ogni sciopero che non si limitasse ad un’astensione dal lavoro meramente formale e simbolica (dunque innocua per i padroni): un idea di “sicurezza” che poco avrebbe da invidiare al Cile di Pinochet se è vero, come giustamente evidenziato dall’avvocato Claudio Novaro del foro di Torino1, che ad esempio, per i partecipanti ad un’associazione per delinquere il nostro codice penale prevede sanzioni da 1 a 5 anni di reclusione, per i capi e promotori da 3 a 7, per un attentato ad impianti di pubblica utilità da 1 a 4, per l’adulterazione di cose in danno della pubblica salute da 1 a 5. Per Salvini e i compagni di merende il reato di picchetto e di blocco stradale è considerato uguale a quello di chi recluta o induce alla prostituzione dei minorenni, di chi commette violenza sessuale contro un minore di 14 anni o di chi compie violenza sessuale di gruppo ed è addirittura più alto di quello del reato di sequestro di persona, della rapina semplice e della violenza sessuale su un adulto.

Tradotto in soldoni: per la Lega interrompere anche solo per qualche ora il flusso di merci e degli “affari” a beneficio dei padroni e contro l’ordine costituito (magari per reclamare il rispetto di un contratto collettivo nazionale di lavoro, impedire un licenziamento di massa, protestare contro la devastazione dei territori o contro megaopere nocive per la salute e l’ambiente o per denunciare il dramma della precarietà e della disoccupazione) rappresenta un “pericolo per la sicurezza” più grave e penalmente più rilevante che commettere uno stupro o far prostituire minorenni!

Il fatto che l’orda reazionaria  rappresentata dalla Lega, FdI possa giungere a tali livelli di delirio non sorprende più di tanto: a meravigliare (non per noi) alcuni della sinistra politica e sociale è stato invece il silenzio assordante della quasi totalità degli organi di stampa, dell’opposizione “democratica” e dei sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, dalle cui fila non una sola parola è stata spesa per denunciare il colpo di mano dell’articolo 23, ne tantomeno per chiedere la sua immediata cancellazione: un silenzio pari o forse ancor più rumoroso dei tamburi di guerra leghisti tenendo conto che se una norma del genere fosse stata varata nella seconda metà del secolo scorso, essa si sarebbe tradotta in anni e anni di carcere, ad esempio per migliaia di iscritti e dirigenti sindacali (compreso il tanto osannato Giuseppe Di Vittorio) che in quegli anni conducevano dure battaglie sindacali all’esterno delle fabbriche o in prossimità dei latifondi agricoli, e laddove la Cgil e la Fiom di allora facevano ampio uso del picchetto e del blocco stradale quale strumento di contrattazione (fatto storico, quest’ultimo che gli attuali burocrati sindacali, epigoni di quella Cgil, preferiscono occultare, accodandosi in nome di un ipocrita legalitarismo all’ignobile campagna di criminalizzazione del conflitto sindacale…).

Un silenzio che, d’altra parte è stato quantomai “eloquente”, se si pensa che tra i principali ispiratori della prima versione dell’articolo 23 vi era Confetra, vale a dire una delle principali associazioni imprenditoriali del settore Trasporto Merci e Logistica, la quale già il 26 settembre 2018 (quindi più di una settimana prima che il testo del decreto fosse pubblicato in Gazzetta Ufficiale) per bocca del suo presidente Nereo Marcucci si precipitava a dichiarare alla stampa che tale norma era “un ulteriore indispensabile strumento di prevenzione di forme di violenza e di sopraffazione di pochi verso molti. Certamente non limita il diritto costituzionalmente garantito allo sciopero. Con le nostre imprese ed i nostri dipendenti contiamo molto sul suo effetto dissuasivo su pochi caporioni”2.

All’epoca di tale dichiarazione il testo del decreto era ancora in fase di stesura, tanto è vero che nella suddetta intervista Marcucci indica la norma antipicchetti come “articolo 25”: lasciando così supporre che i vertici di Confetra, se non proprio gli autori materiali della scrittura dell’articolo, ne fossero quantomeno i registi e gli ispiratori…

Ma chi sono quei “pochi caporioni” che Marcucci tira in ballo confidando nell’effetto dissuasivo del DL Salvini a colpi di carcere e codice penale? E che ruolo ha avuto Confetra in tutto ciò?

Il bersaglio di Marcucci, manco a dirlo, era ed è il possente movimento autorganizzato dei lavoratori della logistica rappresentato a livello nazionale dal SI Cobas e, nel nord-est, dall’ADL Cobas, che a partire dal 2009 ha operato un incessante azione di contrasto delle forme brutali di sfruttamento, caporalato, evasione fiscale e contributiva, illegalità e soprusi di ogni tipo a danno dei lavoratori, rese possibili grazie all’utilizzo di un sistema di appalti e subappalti a “scatole cinesi” e dell’utilizzo sistematico di finte cooperative come scappatoia giuridica: un azione che nel giro di pochi anni, attraverso migliaia di scioperi e picchetti (dunque riappropriandosi di quello strumento vitale di contrattazione abbandonato da decenni dai sindacati confederali integratesi nello Stato borghese ed oramai finito in disuso anche per una parte dello stesso sindacalismo “di base”) e potendo contare solo sulla forza organizzata dei lavoratori, ha portato ad innumerevoli vittorie, prima attraverso l’applicazione integrale del CCNL di categoria in centinaia di cooperative e ditte appaltatrice, e poi finanche alla stipula di ben 3 accordi-quadro nazionali di secondo livello in alcune delle più importanti filiere facenti capo all’organizzazione datoriale Fedit (TNT, BRT, GLS, SDA) e con altre importanti multinazionali del settore.

Questo ciclo di lotta ha portato nei fatti il SI Cobas e l’Adl a rappresentare nazionalmente la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati della categoria, ma che ha dovuto fin dall’inizio fare i conti con una pesantissima scure repressiva: cariche fuori ai cancelli dei magazzini, fogli di via, divieto di dimora, sanzioni amministrative, arresti e processi a non finire, licenziamenti discriminatori e finanche l’arresto del coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani nel gennaio 2017 con l’accusa infamante di “estorsione” come conseguenza di un’ondata di scioperi che dalla logistica aveva contaminato l’”intoccabile” filiera modenese delle carni3. Confetra e le aziende ad essa associate si sono col tempo dimostrate le principali “teste d’ariete” di questa strategia, e cioè una delle controparti maggiormente ostili, refrattarie al dialogo e propense a trasformare il conflitto sindacale in un problema di “ordine pubblico” anche di fronte alle forme più intollerabili e plateali di sfruttamento e di caporalato.

E non è un caso se proprio Confetra risulta essere la parte datoriale “amica” di Cgil-Cisl-Uil, come dimostra non solo una condotta decennale tesa ad escludere i cobas dai tavoli di trattativa nazionali, ma anche la vera e propria comunione d’intenti, al limite della sponsorizzazione reciproca da essi operata sia dentro che fuori i luoghi di lavoro (appelli comuni alle istituzioni, eventi, convegni, biografie dei dirigenti Confetra in bella mostra sui siti nazionali dei confederali, “tavoli della legalità”, ecc.).

Una tale condotta da parte di Cgil-Cisl-Uil, che ha da tempo abbandonato il conflitto (seppur per una politica tradeunionista) per farsi concertativa e infine a tutti gli effetti consociativa, non poteva di certo tradursi in una qualsivoglia opposizione alle misure “antipicchetto” ideate da Salvini su suggerimento di Confetra…

Discorso analogo per l’intero panorama della sinistra istituzionale, del mondo associativo e della “società civile”, per le ragioni che vedremo in seguito.

Dunque, nell’autunno del 2018 gli unici ad opporsi coerentemente, organicamente e radicalmente al primo DL Salvini sono stati, ancora una volta, il sindacalismo conflittuale con in prima fila il SI Cobas, i movimenti per il diritto all’abitare (in particolare a Roma e Milano), alcuni centri sociali e collettivi studenteschi, la parte tendenzialmente classista, estremamente minoritaria, del mondo associativo e della cooperazione, alcune reti di immigrati col circuito “no-border”, i disoccupati napoletani del movimento “7 novembre”, qualche piccolo gruppo della sinistra extraparlamentare comunista, antagonista o anarchica, i No Tav e poco altro.

Buona parte di queste realtà hanno aderito all’appello lanciato dal SI Cobas per una manifestazione nazionale che si è svolta il 27 ottobre 2018 a Roma riempendo le vie della capitale con circa 15 mila manifestanti, in larghissima maggioranza lavoratori immigrati della logistica e non solo. Ma non si è trattato di un evento isolato: a latere di quella riuscitissima manifestazione il SI Cobas, supportato al nord da centri sociali e studenti e al centrosud da disoccupati e occupanti casa, ha indetto una numerose altre iniziative nazionali e locali, fino ad arrivare al vero e proprio assedio all’allora vicepremier 5 Stelle Luigi di Maio nella sua natìa Pomigliano d’Arco con una contestazione promossa da licenziati FCA e collettivi studenteschi il 19 novembre 2018.

E ancora una volta si è avuta la riprova che “la lotta paga”, due settimane dopo, all’atto della conversione in legge del DL- Sicurezza, la norma persecutoria prevista dall’articolo 23 è stata cancellata e ripristinata la norma precedente che in caso di picchetto o blocco stradale non prevede alcuna pena detentiva bensì una sanzione amministrativa da 1000 a 4000 euro (come si vedrà nel caso delle lotte alla Tintoria Superlativa di Prato, questa misura, disapplicata e di fatto finita in desuetudine per decenni, verrà rispolverata con forza e con zelo durante tutto il 2019 contro operai in sciopero e disoccupati). Ad ogni modo, le proteste autunnali hanno probabilmente ricondotto a più “miti consigli” almeno una parte dei 5 Stelle, già all’epoca dilaniati dalla contraddizione insanabile tra le aspettative suscitate nella componente operaia del suo elettorato e le imbarazzanti performance governative fornite dai suoi vertici finiti a braccetto prima con la Lega di Salvini, poi col tanto vituperato PD.

Alla luce di questo parziale ma preziosissimo risultato, ottenuto con la mobilitazione di alcune decine di migliaia di manifestanti, qualcuno dovrebbe chiedersi cosa sarebbe rimasto del DL-Salvini se quelle organizzazioni sindacali confederali che tanto sono “maggiormente rappresentative” sui luoghi di lavoro, se non fossero ormai integrate nello stato a difesa degli interessi capitalisti si “ricordassero” quale dovrebbero essere il loro ruolo e fossero scese in piazza contro questa legge reazionaria e razzista: con ogni probabilità (e come sta insegnando in queste settimane il movimento francese contro la riforma pensionistica di Macron), quel decreto sarebbe divenuto in poche ore carta straccia…

Lega, 5 stelle e padronato ritornano alla carica: il Decreto Salvini- Due

Come insegna l’intera storia del movimento operaio, le conquiste e i risultati parziali strappati con la lotta possono essere difesi e preservati solo intensificando ed estendendo le lotte stesse.

Purtroppo, l’esempio tangibile dato dal SI Cobas e dai settori scesi in piazza contro il primo Decreto-Salvini non è riuscito a smuovere sufficientemente le acque e a portare sul terreno del conflitto reale quel settore di lavoratori, precari, disoccupati, studenti e immigrati ancora legati ai sindacati confederali e al resto del sindacalismo di base, ne è riuscito a coagulare attorno a se quel che resta dei partiti e dei partitini della sinistra “radicale”, dai comitati antirazzisti e ambientalisti spalmati sui territori, i movimenti delle donne come NUDM ( in realtà, queste ultime attive e con un seguito importante sulle tematiche di loro specifica pertinenza, ma incapaci di sviluppare un opposizione a tutto campo e di collegarsi alle lotte sui luoghi di lavoro e alle principali emergenze sociali).

E, inevitabilmente, l’offensiva di governo e padroni è ripartita in maniera incessante, prendendo la forma del “Decreto-sicurezza bis”.

Il canovaccio è stato grosso modo identico a quello del primo DL: immigrazione e “ordine pubblico” restano le due ossessioni di Salvini. A cambiare è tuttavia il peso specifico assegnato a ciascuna emergenza: il Dl bis “liquida” in soli 5 articoli il tema- immigrazione prevedendo una pesante stretta repressiva sugli sbarchi e “pene esemplari” per chi viene ritenuto colpevole di favorire l’immigrazione clandestina (dunque in primo luogo le tanto odiate ONG, i cui comandanti delle navi possono essere condannati a multe fino a un milione di euro), per poi concentrarsi con cura sulle misure tese a schiacciare sul nascere ogni possibile sollevazione di massa in chiave antigovernativa.

E così si prevede, negli articoli 6 e 8 un forte inasprimento delle pene per l’uso dei caschi all’interno di manifestazioni, per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e finanche per l’uso di semplici fumogeni durante i cortei.
Il decreto, entrato in vigore il 15 giugno 2019, viene definitivamente convertito in legge l’8 agosto, dunque a pochi giorni dalla sceneggiata del Papeete Beach e della fine anticipata dell’esecutivo gialloverde.

Va peraltro notato che in questa occasione, contrariamente a quanto avvenuto col primo decreto, durante l’iter di conversione le pene previste, sia in caso di sbarchi di clandestini sia riguardo l’ordine pubblico alle manifestazioni, vengono addirittura inasprite: il tutto con il voto favorevole dell’intero gruppo parlamentare pentastellato!

Il resto della storia è noto come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo.

Nel corso dei primi mesi di insediamento del Conte Bis, lungi dall’assistere a un ammorbidimento della stretta repressiva, abbiamo assistito invece ad un suo inasprimento: a partire dalla primavera del 2019 ad oggi gli scioperi nella logistica e i picchetti sono quotidianamente attaccati dalle forze dell’ordine a colpi di manganello e gas lacrimogeni, ma soprattutto si moltiplicano le misure penali, cautelari e amministrative e addirittura le Procure tirano fuori, come per magia, procedimenti pendenti per manifestazioni, scioperi e iniziative di lotta svoltesi anni addietro e tenute a lungo nel cassetto. La scure colpisce indiscriminatamente tutto ciò che sia mosso nell’ultimo decennio: scioperi, movimento No-Tav, lotte dei disoccupati, occupazioni a scopo abitativo, iniziative antimilitariste, e persino semplici azioni di protesta puramente simbolica.

Tuttavia, per mettere bene a fuoco il contesto generale che portano a questa vera e propria escalation bisogna fare un passo indietro e tornare al 2017.

E’ in questo periodo, infatti, che il governo Gentiloni a guida PD vara il Decreto- sicurezza Minniti, contenente gran parte delle norme e delle pene di cui si servono le Procure per scatenare questa vera e propria guerra agli sfruttati e agli oppressi.

Il DL Minniti-Orlando

Roma, 25 marzo 2017: in occasione del vertice dei capi di stato UE per celebrare i 60 anni dei Trattati, le strade della capitale sono attraversate da diversi cortei, tra cui quello del sindacalismo di base e dei movimenti che esprimono una radicale critica alle politiche di austerity imposte da Bruxelles. Ancor prima dell’inizio della manifestazione avviene un vero e proprio rastrellamento a macchia di leopardo per le vie di accesso alla piazza: 30 attivisti vengono fermati dalla polizia e condotti in Questura, laddove saranno sequestrati per ore e rilasciati solo a fine corteo. Questo controllo “preventivo” ha come esito l’emissione di 30 DASPO urbani per tutti i fermati: la loro unica colpa era quella di indossare giubbotti di colore scuro e qualche innocuo fumogeno. In alcuni casi gli agenti pur avendo potuto appurare la mancanza di precedenti penali, decidono di procedere ugualmente al fermo in base all’“indifferenza ed insofferenza all’ordine costituito con conseguente reiterazione di condotte antigiuridiche sintomatiche”.

I suddetti Daspo urbani rappresentano la prima applicazione concreta del DL Minniti, varato dal governo Renzi il 17 febbraio 2017 e definitivamente convertiti in legge il successivo 12 aprile contestualmente all’approvazione di un secondo decreto “Orlando-Minniti” sull’immigrazione. Tale misura, che prende a modello anche nel nome gli analoghi provvedimenti già sperimentati sulle curve calcistiche, nelle dichiarazioni di Minniti si prefigge di tutelare la sicurezza e il decoro delle città attraverso l’allontanamento immediato di piccoli criminali o di semplici emarginati (clochard, viandanti, parcheggiatori abusivi, ambulanti), con ciò svelando fin dal principio la una visione securitaria analoga a quella della Lega. Ma i fatti di Roma dimostrano in maniera chiara che il bersaglio principale del DL Minniti è il dissenso sociale e politico: la linea guida è quella di perseguire le lotte sociali in via preventiva, non più attraverso le leggi e le norme del codice penale ad esse preposte e per i reati “tipici” riconducibili a proteste di piazza, bensì attraverso l’uso estensivo e per “analogia” di fattispecie di reato ascrivibili alla criminalità comune: a sperimentarlo sulla loro pelle saranno ad esempio i 5 licenziati della FCA di Pomigliano d’Arco, che l’11 ottobre 2018 si vedono rifilare un Daspo immediato da parte della Questura a seguito di un’iniziativa simbolica e pacifica su un palazzo di piazza Barberini in cui si chiedeva un incontro col l’allora ministro Di Maio.

In realtà il Daspo urbano codifica ed accelera un processo che è già in atto e che nelle aule di Tribunale ha già prodotto numerosi precedenti: su tutti basterebbe pensare alla feroce repressione abbattutasi nel 2014 contro decine di esponenti del movimento dei disoccupati napoletani, incarcerati o condotti agli arresti domiciliari per diversi mesi con l’accusa di “estorsione” associata alla richiesta di lavoro, o al già citato caso di Aldo Milani, condotto agli arresti con la stessa accusa il 26 gennaio 2017 a seguito di un blitz delle forze dell’ordine a un tavolo di trattativa sindacale in cui si stava discutendo di 55 licenziamenti nell’azienda di lavorazione carni Alcar Uno e della possibilità di interrompere le agitazioni nel caso in cui i padroni avessero sospeso i licenziamenti e pagato quanto dovuto ai lavoratori…

In secondo luogo, il Daspo urbano va ad affiancarsi a un già ampio ventaglio di misure restrittive e limitative della libertà personale: fogli di via obbligatori, obblighi e divieti di dimora, avvisi orali, sorveglianza speciale, ecc.: riguardo quest’ultima, il caso forse più eclatante è rappresentato dalla sentenza del 3 ottobre 2016 con cui il Tribunale di Roma ha imposto un rigido regime di sorveglianza speciale a carico di Paolo Di Vetta e Luca Faggiano, due tra i principali esponenti del movimento romano per il diritto all’abitare (questa misura è poi diventata, negli ultimi anni, il principale strumento repressivo teso a colpire il movimento anarchico in varie città). D’altra parte va evidenziato che rispetto alle misure sovracitate, il Daspo Urbano si contraddistingue per la tempestività di attuazione in quanto diviene immediatamente esecutivo senza dover attendere l’iter processuale.

L’approvazione nello stesso giorno della legge Minniti, intitolata “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e della legge Minniti- Orlando intitolata “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e per il contrasto dell’immigrazione illegale” non è casuale, bensì risponde a una precisa strategia tesa ad associare l’“emergenza-sicurezza” con l’“emergenza immigrati”, presentandole agli occhi dell’opinione pubblica come due facce della stess medaglia. D’altrone, le norme contenute nella legge immigrazione voluta dal PD, per il loro tenore discriminatorio e repressivo non si fanno mancare davvero niente. Al suo interno sono previsti, tra l’altro: l’ampliamento e la moltiplicazione dei centri di espulsione (ribattezzati CPR al posto dei CIE creati dalla Bossi-Fini) che da 5 passano a 20; l’accelerazione delle procedure di espulsione attraverso l’abolizione del secondo ricorso in appello per le richieste di asilo; l’abolizione dell’udienza (il testo del decreto, poi modificato, prevedeva addirittura la creazione di tribunali speciali ad hoc, vietati dalla Costituzione) e l’introduzione del lavoro volontario, cioè gratuito, per gli immigrati. Contestualmente, nelle stesse settimane il governo Gentiloni siglava un memorandum con il governo libico in cui veniva garantito il massimo supporto in funzione anti-Ong alla guardia costiera libica, cioè a coloro che sono universalmente riconosciuti come responsabili di violenze e torture nei campi di detenzione. Non è un caso che questa legge abbia ricevuto dure critiche persino dall’ARCI e dalle ACLI (senza però mai tradursi in mobilitazioni concrete per la sua cancellazione).

Da questa ampia disamina dovrebbe dunque apparire chiaro come i due decreti- Salvini siano tutt’altro che piovuti dal cielo, e men che meno il semplice frutto di un “colpo di mano” ad opera di un estremista di destra: al contrario, Salvini e i suoi soci hanno camminato su un tappeto di velluto sapientemente e minuziosamente preparato dai governi a guida PD.

Il messaggio di questi provvedimenti è sostanzialmente analogo: se sei italiano devi rigare dritto e non osare mai disturbare il manovratore, pena il carcere o la privazione della libertà personale; se sei immigrato, o accetti di venire in Italia, come uno schiavo non avrai alcun diritto e sarai sfruttato per 12 ore al giorno in un magazzino o in una campagna a 3-4 euro all’ora, oppure sarai rimpatriato.

L’escalation repressiva degli ultimi mesi contro il SI Cobas

Avendo a disposizione un menu di provvedimenti tanto ampio, nel corso del 2019 lo stato concentra ancor più le proprie attenzioni contro le lotte sindacali nella logistica e i picchetti organizzati dal SI Cobas col sostegno di migliaia di lavoratori immigrati.

Ancora una volta la città di Modena diviene il laboratorio di sperimentazione del “pugno di ferro” da parte di Questure e Procure. La ribellione delle lavoratrici di ItalPizza, sfruttate per anni con contratti-capestro non corrispondenti alle loro mansioni e discriminate per la loro adesione al SI Cobas, diviene il simbolo di una doppia resistenza: da un lato ai soprusi dei padroni, dall’altro alla repressione statale.

La reazione delle forze dell’ordine è durissima: lacrimogeni sparati ad altezza-uomo, responsabili ed operatori sindacali pesatati a freddo, lavoratrici aggredite mentre sono in presidio. Addirittura si mobilitano a sostegno dei padroni le associazioni delle forze di polizia con in testa il potente SAP.

Ad ottobre si arriva addirittura a un maxiprocesso a carico di ben 90 tra lavoratori, sindacalisti e solidali. Ma la determinazione delle lavoratrici è più forte di ogni azione repressiva, e nonostante l’azione congiunta di padroni, forze dell’ordine e sindacati confederali, la battaglia per il riconoscimento di pieni diritti salariali e sindacali è ancora in corso.

Ma Modena è solo la punta dell’iceberg: nella vicina Bologna, una delle principali culle del movimento della logistica, ad ottobre i PM della Procura della Repubblica tentano addirittura di imporre 5 divieti di dimora per alcuni tra i principali esponenti provinciali del SI Cobas, compreso il coordinatore Simone Carpeggiani, accusati di minare l’ordine pubblico della città per via di uno sciopero con picchetto che si era svolto un anno prima (misura alla fine respinta dal giudice).

Nelle stesse settimane alla CLO di Tortona (logistica dei magazzini Coop), dopo un innumerevole sequela di attacchi delle forze dell’ordine al presidio dei lavoratori a colpi di manganelli e lacrimogeni, il 25 novembre la Questura di Alessandria decide di intervenire a gamba tesa ed emette 8 fogli di via contro lavoratori e attivisti.

A Prato, città attraversata da più di un anno da imponenti mobilitazioni operaie nel settore tessile, dapprima (a marzo 2019) vengono emessi due fogli di via nei confronti dei responsabili SI Cobas locali; poi, a dicembre, nel pieno di una dura vertenza alla Tintoria Superlativa di Prato (in cui tra l’altro i lavoratori pachistani denunciano un consolidato sistema di lavoro nero e sottopagato), si passa ai provvedimenti amministrativi, con la Questura che commina 4 mila euro di multa a 19 lavoratori e due studentesse solidali con le proteste.

Il 9 gennaio il gip di Brescia emette otto divieti di dimora nel comune di Desenzano del Garda a seguito delle proteste del SI Cobas contro 11 licenziamenti alla Penny Market.

A queste e tante altre analoghe misure restrittive si accompagnano altrettanti provvedimenti amministrativi tesi a colpire economicamente le tasche dei lavoratori e del sindacato.

Intanto, i PM del Tribunale di Modena sono ricorsi ( seppure la macchina amministrativa giudiziaria sia intasata da milioni di processi non compiuti) in appello, contro la sentenza di assoluzione piena avvenuta in primo grado nei confronti di Aldo Milani nel già citato processo sui fatti in Alcar Uno.

E’ evidente che un azione talmente incessante e sistematica da parte di Questure e Procure risponde a un organico disegno politico: neutralizzare e decapitare un sindacato combattivo e in continua espansione serve ad assestare l’ennesimo colpo al diritto di sciopero e all’esercizio della libertà di associazione sindacale, entrambi già gravemente compromessi nella gran parte dei luoghi di lavoro e ulteriormente ridotti all’indomani dell’approvazione del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, grazie al quale il riconoscimento sindacale diviene un privilegio ottenibile solo in cambio della rinuncia sostanziale allo sciopero come arma di contrattazione.

L’oramai più che decennale processo di blindatura da parte dello Stato verso ogni forma di dissenso e di conflitto è in ultima istanza il prodotto di una crisi economica internazionale che, lungi dall’essersi risolta, si riverbera quotidianamente in ogni aspetto della vita sociale e tende ad alimentare contraddizioni potenzialmente esplosive e tendenzialmente insanabili.

Le leggi e i decreti sicurezza, i quali, una volta scrostata la sottile patina di colore ad essi impressa dai governi di questo o quello schieramento, mostrano un anima pressoché identica, rappresentano non la causa, bensì il prodotto codificato e “confezionato” di questi processi, a fronte dei quali il razzismo e le paranoie securitarie divengono forse l’ultima “arma di distrazione di massa” a disposizione dei governi per occultare agli occhi di milioni di lavoratori e di oppressi una realtà che vede continuare ad acuirsi il divario sociale sfruttatori e sfruttati, capitalisti e masse salariate.

Alla luce di ciò, è evidente che ogni ipotesi “cambiamento” reale dell’attuale stato di cose, ogni movimento di critica degli effetti nefasti del capitalismo (razzismo, sessismo, devastazione ambientale, guerra e militarismo, repressione) può avere concrete possibilità di vittoria o quantomeno di tenuta solo se saremo capaci di collegare in maniera sempre più stretta e organica il movimento degli sfruttati. Unire le lotte quotidiane portate avanti dai lavoratori, dai disoccupati, dagli immigrati, dagli occupanti casa, di chi difende i territori sottoposti a devastazione ambientale e speculazione ecc.

Come dimostra anche la storia recente, affrontare la repressione come un aspetto separato rispetto alle cause reali e profonde che generano l’offensiva repressiva, significa porsi su un piano puramente difensivo e alquanto inefficace.

L’unico reale rimedio alla repressione è l’allargamento delle lotte sociali e sindacali, così come l’unico antidoto agli attacchi alla libertà di sciopero sta nel riappropriarsi dello strumento dello sciopero. Ciò nella consapevolezza che a fronte di un capitalismo sempre più globalizzato diviene sempre più urgente sviluppare forme stabili di collegamento con le mobilitazioni dei lavoratori e degli sfruttati che, nel silenzio dei media nostrani, stanno attraversando i quattro angoli del globo (dalla Francia all’Iraq, dall’Algeria all’India), il più delle volte ben più massicce di quelle nostrane sia per dimensioni che per livelli di radicalità.
Senza la ricostruzione di un vero e forte movimento politico e sindacale di classe, combattivo e autonomo dalle attuali consorterie istituzionali e dai cascami dei sindacati asserviti, saremo ancora a lungo costretti a leccarci le ferite.

Nell’immediato, diviene sempre più necessario costruire un fronte ampio contro le leggi-sicurezza, per chiedere la loro cancellazione immediata e costruire campagne di informazione e sensibilizzazione finalizzate a fermare la scure repressiva che sta colpendo migliaia di lavoratori, attivisti, giovani e immigrati.

Per tale motivo una delle iniziative che vogliamo fare è quella di mettere in campo un’assemblea l’8 febbraio a Roma per un fronte unico di tutti quelli che si battono contro le politiche anti proletarie e repressive borghesi.


  1. Claudio Novaro: “Il decreto Salvini e il reato di blocco stradale”, pubblicato il 6/11/2018 su www.notav.info  

  2. “Il decreto Salvini a piedi uniti sulla logistica”, pubblicato su http://www.ship2shore.it il 26/09/2018 (qua). 

  3. Le principali lotte portate avanti da SI Cobas, dapprima nella logistica e poi nella filiera agroalimentare negli anni antecedenti ai Decreto- Salvini, e gli eventi che hanno portato all’arresto di Aldo Milani sono narrati e analizzati esaustivamente in Carne da Macello 

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Nemico (e) immaginario. Da dove diavolo vengono e cosa accidenti sono tutti questi zombi? https://www.carmillaonline.com/2017/03/29/36629/ Tue, 28 Mar 2017 22:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36629 di Gioacchino Toni

zombie-handDai ribelli haitiani al Manifesto di Marx ed Engels fino al desiderio di un apocalittico isolamento radicale

«Il morto mostra come saremo; lo zombi ci mostra come siamo, o quantomeno, a seconda se si è più o meno pessimisti, come rischiamo di diventare […] È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» Cateno Tempio

«Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è […] un desiderio di isolamento radicale, che ha [...]]]> di Gioacchino Toni

zombie-handDai ribelli haitiani al Manifesto di Marx ed Engels fino al desiderio di un apocalittico isolamento radicale

«Il morto mostra come saremo; lo zombi ci mostra come siamo, o quantomeno, a seconda se si è più o meno pessimisti, come rischiamo di diventare […] È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» Cateno Tempio

«Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è […] un desiderio di isolamento radicale, che ha come presupposto l’apocalisse» Tommaso Ariemma

«la nostra vita è rosa al suo interno dalla (propria) immagine omonima […] quell’immagine presto o tardi ci raggiungerà e […] allora noi saremo solo immagine, cioè non saremo “noi” e nemmeno “saremo”, senza per questo essere un nulla» Rocco Ronchi

Riprendiamo, ancora una volta, il volume AA.VV., Critica dei Morti Viventi (Villaggio Maori Edizioni, 2016) [libro già preso in esame nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“] per soffermarci sui alcuni scritti che, in un modo o nell’altro, vanno alla ricerca delle radici dell’immaginario zombi (Cateno Tempio e Tommaso Ariemma) e tentano di definire cosa i living dead siano (Rocco Ronchi).

  • Dalla parte degli zombi

«Lo zombi è una figura endemica della nostra epoca e si è diffuso proprio come l’epidemia che lo vede di solito protagonista: in maniera capillare, in ogni angolo del mondo, cangiante, pervasivo, inquietante, senza lasciare via di scampo» (p. 92). L’epidemia zombi, sappiamo, fa la sua comparsa al cinema nei primi anni Trenta grazie ad Victor Halperin per poi esplodere sui grandi schermi nel 1968 con il primo film-zombi di George Romero ma, sostiene Cateno Tempio nel suo “Dalla parte degli zombi”, si potrebbe affermare che la figura dello zombi sia nata ben prima di assumere i connotati di figura horror propria dell’età contemporanea. «Pare infatti che la dialettica servo-padrone della Fenomenologia hegeliana sia compenetrata di spirito haitiano. La rivoluzione di Haiti fu quasi un corollario di ciò che avevano dimostrato i francesi nel 1789. O forse ne fu un effetto collaterale indesiderato, visto che alla fine si ritorse contro l’impero coloniale francese e a farne le spese fu in qualche modo addirittura Napoleone, che nel 1802 vi aveva mandato un contingente militare guidato dal cognato Leclerc. Gli schiavi neri s’erano ribellati e ambivano all’abolizione della schiavitù e all’indipendenza di Haiti, che finalmente, dopo proteste, manifestazioni e ribellioni a partire sin dal 1790, fu ottenuta nel 1804» (p. 93).

La studiosa americana Susan Buck-Morss (Hegel, Haiti and Universal History, 2009) sostiene che Hegel conoscesse le vicende haitiane e se così stanno davvero le cose «ancor più della rivoluzione francese, il movimento dialettico che ha improntato la storia politica da Hegel in poi trae origine proprio dai fatti di Haiti, ossia dalla rivolta degli schiavi neri contro i padroni bianchi. I servi sono non solo i contadini e i proletari; i servi sono soprattutto gli schiavi veri e propri, sfruttati dalla borghesia rampante dell’Europa che si dilata “spiritualmente” fino a diventare Occidente, in una determinazione concettuale che travalica i confini geografici per comprendere luoghi collocati in ogni parte del globo. Il destino storico-mondiale – temporale – della nostra cultura è questo: l’Occidente è la distensio animi del capitalismo borghese. La dialettica servo-padrone ne è la figurazione più icastica e spietata. Nella battute finali del Manifesto del partito comunista, Marx ed Engels ricalcano la dialettica hegeliana, sostituendo al servo e al padrone rispettivamente la classe oppressa e la classe dominante. Ciò che per Hegel era, diciamo così, un fatto di coscienza individuale, per Marx ed Engels diventa un fatto di coscienza di classe. Ai singoli si sostituiscono le categorie di appartenenza. Ma il meccanismo rimane intatto. Per Hegel, il servo si sottomette per non morire. Tuttavia, non può essere più riconosciuto come “persona” perché nella rinuncia alla propria libertà – a vantaggio del salvare la pelle – non ha raggiunto la verità del riconoscimento della propria persona come autocoscienza autonoma, in quanto sottomessa al padrone. Il servo non è una “persona”: è solamente un non-morto. Il padrone, per contro, finisce con il trovare la verità della propria coscienza autonoma nella coscienza servile, perché è da essa che trae sostentamento e godimento. Così ogni coscienza passa nel suo opposto: il signore si fa non autonomo, quindi servo; quest’ultimo si convertirà nella vera autonomia. Quasi alla fine del Manifesto si assiste a un processo analogo. Alla classe oppressa devono essere assicurate le condizioni di sussistenza. Tuttavia, con il proletariato moderno si assiste al fenomeno per cui esso cade sempre più in basso e diventa sempre più povero. Per questo motivo, secondo Marx ed Engels, la borghesia non può più essere la classe dominante, perché non è in grado di garantire la vita ai propri schiavi, ai proletari. Questi ultimi hanno dovuto provvedere a “nutrire” la classe dominante dei padroni. Ma ora, gli schiavi proletari sono talmente poveri da essere sprofondati in condizioni tali che i padroni si vedono costretti a doverli nutrire anziché essere nutriti da loro. I padroni nutrono i servi. Ossia, i servi, metaforicamente, si nutrono dei padroni» (pp. 94-95).

Sarebbe dunque grazie alla ribellione haitiana degli schiavi che l’Occidente ha iniziato a considerare il servo come un “non morto” che il padrone si trova a dover nutrire. A partire dalla ribellione haitiana, attraverso Hegel, Marx ed Engels, si arriva agli zombi come “non morti” che si nutrono di altri individui. «Lo zombi, dunque, è uno schiavo di tipo particolare che si ribella a una classe dominante di tipo particolare, ossia uno schiavo moderno (nero o proletario) che si ribella alla classe dei padroni bianchi, borghesi e capitalisti. Il concetto di zombi, così come inteso nella cultura occidentale, nasce circa un secolo prima della sua rappresentazione artistica in senso lato. Il rivoluzionario è un non morto» (p. 95).

intheflashDunque, continua Cateno Tempio, nella contemporaneità il comunista è un morto vivente e con la progressiva scomparsa dei partiti comunisti, a partire dal crollo sovietico, il contesto zombi muta e le narrazioni sugli zombi spesso danno l’apocalisse come già avvenuta ed il risultato è la convivenza con i living dead.

Nella serie In the Flesh (ideata da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell, 2013-2014) è stata trovata una “cura” per i “risvegliati”, si tratta dunque di scongiurare l’apocalisse/rivoluzione attraverso la reintegrazione dei “parzialmente morti” non soggetti ad invecchiamento ed ormai privi di appetito. «È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» (p. 95).

  • Immaginario zombi e desiderio di un apocalittico isolamento radicale

Tommaso Ariemma, nel suo “Archeologia zombi”, parte dalla constatazione che buona parte delle rappresentazioni dei morti viventi non motivano la loro comparsa; essi “ci sono già”. Da dove vengono allora questi zombi? Affermando che essi “ci sono sempre stati” si mette in discussione l’assunto di base che li vuole legati al contemporaneo ed al connubio tecnologia-capitalismo. Indipendentemente dal significato che oggi possiamo dare alla figura dello zombi non è possibile ridurre tale figura esclusivamente a tale connubio; il morto vivente ha una lunga tradizione che, suggerisce lo studioso, non può essere disgiunta dalle origini della cultura filosofica occidentale.

La figura del morto vivente è conosciuta nell’antichità. «Gli antichi filosofi ricercavano una forma di “morte in vita” – ciò che in fin dei conti era la vita contemplativa – distinta, se non addirittura opposta a un’altra forma di “morte in vita”, rappresentata dalla vita quotidiana. Un’analogia fatta dal giovane Aristotele è decisamente istruttiva su questo punto» (p. 36). Al fine di chiarire il rapporto tra anima e corpo Aristotele fa riferimento ad un tipo di tortura praticata dai pirati etruschi che prevedeva che un vivo venisse legato in maniera speculare ad un cadavere in putrefazione. L’individuo ancora in vita veniva alimentato fino a quando la superficie del suo corpo, a causa del contatto coi vermi, diventava indistinguibile da quella del cadavere. I due corpi venivano slegati soltanto quando apparivano anneriti dalla putrefazione e per gli etruschi tale annerimento superficiale segnalava un’esposizione ontologica di un processo di decomposizione già iniziato dall’interno. Il giovane Aristotele, facendo riferimento a tale macabro supplizio, comparava il legame tra l’anima ed il corpo al legame esistente nella tortura etrusca tra corpo vivente e corpo morto. «Per il giovane Aristotele, ancora legato alla filosofia platonica, il corpo vivente non è mai semplicemente vivente. L’anima che si rapporta a tale corpo, inoltre, si trova nella stessa situazione del supplizio etrusco. In fin dei conti, per Aristotele, ogni vivente umano è un morto vivente» (p. 37).

Il pensiero antico, continua Ariemma, ha risposto alla condizione umana con «una vita contemplativa – separata il più possibile dalle perturbazioni offerte dal corpo – che è, a tutti gli effetti, un’altra morte in vita» (p. 37). Nel Fedone di Platone è ravvisabile la ricerca di una vita contemplativa «secondo la quale la morte stessa veniva intesa come una sorta di purificazione dal corpo e quindi gradita» (p. 38). A tale idea il pensiero occidentale si è ispirato per secoli e l’ideale della vita contemplativa «si è spinto al punto da decretare letteralmente una condizione dei “non contemplativi” che non può non ricordare quella degli zombi» (p. 38).

Il filosofo idealista Fichte capovolge il rapporto viventi / morti apparenti: i morti sono i non-idealisti nel loro trascinarsi per il mondo nell’involucro biologico, mentre gli autenticamente viventi sono coloro che si sono ridestati all’idealismo reale. Dunque «la vita contemplativa, l’ideale della conoscenza separata dai disturbi e dai fastidi del corpo, uno stato di morte apparente, “inventa” la morte vivente degli altri, dei non contemplativi, come stato catatonico, inautentico e ferino, proprio di chi non si è convertito alla vita per la teoria» (p. 38). Dunque, secondo Ariemma, l’immaginario degli zombi può essere considerato «il prodotto esasperato ed eccessivo, fantasia horror per eccellenza, proprio dell’ideale di vita che per secoli l’Occidente si è dato» (p. 38).

Il manifestarsi di tale immaginario ha certamente a che fare con gli sviluppi tecnologici tendenti a disincarnare gli esseri umani ma l’origine di tale sviluppo tecnologico, soprattutto nell’ambito del visivo, deriva da quella concezione greca nei confronti della vita.

zone_one_coverL’origine metafisica del fenomeno è ravvisabile secondo lo studioso tanto nel romanzo Zone One (2012) di Colson Whitehead, ove si narra di una pandemia che ha devastato la Terra trasformando gli esseri umani, che nella rappresentazione cinematografica preromeriana di White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin.

«A completamento delle radici metafisiche della figura dello zombi è mancato, tuttavia, sempre un elemento: finora, infatti, le rappresentazioni che esplicitavano il morto vivente (romanzi, film, serie tv, videogiochi) mancavano di una fantasia spaziale implicita nell’avanzata degli zombi. Cosa desiderano, in realtà, coloro che sfuggono agli zombi? Desiderano un’isola. Un pezzo di terra puro, incontaminato e di difficile accesso per gli zombi. In fin dei conti, l’immaginazione di queste creature non è separabile dall’immaginare isole o posti che fungono da isola» (p. 40). Ebbene, tale esplicitazione è presente in Zone One ed essendo gli zombi «proiezioni negative della vita contemplativa, ne consegue che quest’ultima, così come l’istituzione della metafisica stessa, sono possibili e compresi proprio all’interno di una teoria dell’isola […] Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è allora un desiderio di isolamento radicale, che ha come presupposto l’apocalisse» (pp. 40-41).

  • Ma che cosa sono i living dead?

Nello scritto “L’immagine omonima” – che funge da introduzione all’intero volume – Rocco Ronchi più che chiedersi da dove vengono i living dead, cerca di definire cosa essi siano. Secondo lo studioso i living-dead non sono definibili in base alla negazione, essi sono neutri, né vivi né morti, del vivente il dead è l’omonimo. Non essendo né vivo né morto, né umano né non umano, il dead non è identificato da nessuna negazione; del vivente il dead non è il contrario, la sua natura è pienamente affermativa ma quello che afferma è la differenza pura.

I dead sullo schermo sembrano dare immagine a quanto vi è di liminare nell’esperienza umana. Molti dei casi metaforizzati dai living dead sono accomunati dall’affiorare di «una esperienza pura, che non è esperienza di niente e di nessuno e che, non è nemmeno esperienza, almeno nel significato abituale del termine. Quando l’esperienza va in stallo, i dead possono insomma pretendere al titolo di metafora. Non diciamo forse di un uomo molto malato che è divenuto la sua ombra? Di che stiamo parlando se non del morto-vivente che albeggia in lui, ormai divenuto irriconoscibile? Se allora dovessimo rendere intuibile questa esperienza desoggettivizzata che appare in margine ad una vita che declina […] dovremmo immaginarla come un’esperienza ridotta alla sola dimensione del trauma. I dead, del resto, non hanno né corpo né volto ma solo una carne tumefatta e una faccia piagata. La violenza nei loro confronti non è forse legittimata per il fatto che tutta la loro risibile esistenza consiste, dopotutto, nel subire insensatamente dei colpi?» (p. 13).

Il motivo per cui probabilmente i dead ci sono così familiari è forse dovuto al percepire «che la nostra vita è rosa al suo interno dalla (propria) immagine omonima, che quell’immagine presto o tardi ci raggiungerà e che allora noi saremo solo immagine, cioè non saremo “noi” e nemmeno “saremo”, senza per questo essere un nulla. Il cinema ci aspetta al varco, perché già da sempre siamo fatti di cinema, cioè dell’affermazione di una differenza pura. Non è forse questa la ragione per cui gli antichi immaginavano il morire come quel quell’istante in cui l’anima, spirando, si congeda dal corpo trasformandosi in pura immagine? E si trattava di un’immagine solamente omonima, differente per natura dall’originale, un’immagine a cui, dopo l’Ade, solo il cinema ha saputo dare un’immaginaria consistenza» (pp. 13-14).


A questo link le uscite precedenti di Nemico (e) immaginario

 

 

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Rifondazione e Terra https://www.carmillaonline.com/2009/07/06/rifondazione-e-terra/ Mon, 06 Jul 2009 03:32:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=3107 di Alessandra Daniele

matric.JPGCompagni, ho da darvi due notizie, una cattiva, e una buona. La notizia cattiva è che i comunisti non torneranno in Parlamento per moooolto, moooolto tempo, e questo a prescindere da quanti voti riusciranno mai a recuperare, perché PDL e PD, di comune accordo, continueranno ad alzare la sbarra dello sbarramento in modo da tenerli fuori comunque. PDL e PD non sono che le due facce dello stesso paperdollaro di Paperopoli, due facce come il culo. Finora l’unico motivo di vero dissenso fra loro è stata qualche escort che ha usato la lingua anche per parlare. La notizia [...]]]> di Alessandra Daniele

matric.JPGCompagni, ho da darvi due notizie, una cattiva, e una buona.
La notizia cattiva è che i comunisti non torneranno in Parlamento per moooolto, moooolto tempo, e questo a prescindere da quanti voti riusciranno mai a recuperare, perché PDL e PD, di comune accordo, continueranno ad alzare la sbarra dello sbarramento in modo da tenerli fuori comunque.
PDL e PD non sono che le due facce dello stesso paperdollaro di Paperopoli, due facce come il culo. Finora l’unico motivo di vero dissenso fra loro è stata qualche escort che ha usato la lingua anche per parlare.
La notizia buona è che c’è vita anche fuori dal Parlamento. C’è aria respirabile, anzi, molto più respirabile. Come molti benemeriti militanti di base già sanno è soprattutto lì che si può e si deve fare politica, tornando all’essenza di quello che è, che deve essere un comunista, sostenendo e organizzando i lavoratori, i discriminati, gli sfruttati, restituendogli coscienza di sé.
Ci sono milioni di italiani che s’interrogano sul cazzo di Berlusconi, senza rendersi conto d’avercelo nel culo. Ci sono intere generazioni di precari cottimisti che non hanno idea d’appartenere di fatto alla classe operaia, definizione che associano soltanto all’immagine sfocata di omini in blu, reali quanto i puffi. Si credono ”ceto medio”, non arrivano alla seconda settimana, ma si sentono rappresentati politicamente dai loro stessi sfruttatori. Polli che votano per lo spiedo, e ci si infilano da soli sognando il tacco a spillo della Marcegaglia.
E’ una catastrofe culturale, prima ancora che politica.
Quindi agire sulla realtà non basta, se non si agisce anche sulla percezione della realtà.
Ciò che rende le destre oggi così apparentemente invincibili, quello che fa sembrare patetici i tentativi di sfidarle frontalmente a volte persino a chi li compie, è ciò che Gramsci chiamava egemonia culturale e che Morpheus chiama Matrix. Sì, per quanto sia difficile immaginarsi Gramsci in latex nero e mirrorshades, il concetto di base è lo stesso: il potere di controllare la percezione della realtà.
E chi controlla la percezione della realtà, di fatto controlla la realtà.
Decenni di palinsesti Raiset hanno piantato nei cervelli degli italiani l’idea che essere un cazzone/una troietta egoista e ignorante è bello, è giusto, è figo, è l’unica scelta vincente. Allevando così intere generazioni di pseudo individualisti che si credono lupi, e sono invece perfette pecore da macello.
Questo condizionamento non può essere combattuto solo a livello cosciente, perché è stato radicato nell’inconscio, attraverso la continua, martellante, ossessiva imposizione di determinati modelli. Una pianta maligna fertilizzata con quintali di merda.
L’unico sistema di combatterla efficacemente è agire contemporaneamente sul reale, e sull’immaginario collettivo, che oggi accorda ai comunisti la stessa credibilità che dà alle vittime di rapimenti alieni. Alla prossima scissione subatomica fra nanopartiti comunisti, la loro infinitesimale percentuale di consenso diventerà impossibile da calcolare per via del principio di indeterminazione di Heisenberg.

Cosa potrebbero fare i comunisti per uscire dagli X Files? Innanzitutto cacciare a calci in culo TUTTI i loro dirigenti. E in malo modo, scaraventandogli la scrivania fuori dalla finestra, davanti alle telecamere.
Immaginatevi la scena: uno sconosciuto militante di base, neo eletto portavoce, dichiara al Tg ”Sì, abbiamo rinnovato tutto il vertice, gli altri lo dicono, noi lo facciamo davvero”, e sullo sfondo Diliberto o Ferrero in maniche di camicia che raccoglie i cocci della sua roba dal marciapiede. L’anchorman Raiset commenta sarcastico ”guardate i comunisti come si sono ridotti”, la signora Pina però guarda la Tv e ridacchia pensando ”però, bello cacciarli così…”
Deciderà perciò di votare comunista? Questo non ha nessuna importanza.
Se vogliono tornare a cambiare davvero qualcosa, i comunisti devono smettere di partecipare alla circense Campagna Elettorale Perenne.
Lascino a Sansonetti il ruolo di comunista di peluche da talk show elettorale.
Smettano di rincorrere gli zero virgola, e sventolare loghi disegnati con Paint.
Ogni comunista deve poter dire al lavoratore, allo sfruttato, al discriminato, ”io non sono qui per dare la caccia al tuo voto, ma per darti un aiuto concreto. Quando le istituzioni se ne fottono, le ONLUS si arrendono, e i sindacati se ne sbattono le palle, cerca me. Cerca un comunista. La tua battaglia è la mia, è la nostra. Questo è quello che ‘comunista’ significa”.

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