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Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00

E se l’errore di previsione più grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non potrebbe svolgere? Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi necessario, appena pubblicato da Colibrì.

Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede [...]]]> di Sandro Moiso

Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00

E se l’errore di previsione più grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non potrebbe svolgere? Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi necessario, appena pubblicato da Colibrì.

Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede rivoluzionaria, che in tempi oscuri come quelli che stiamo attraversando potrebbe rivelarsi inattuale, almeno nel cuore delle metropoli imperialiste, e necessario poiché costringe chi si occupa di politica in chiave antagonista a fare i conti non solo con le fin troppo scontate convinzioni cui si accennava prima, ma anche con una ideale continuità tra Marx e Lenin, tra Marx e marxismo-leninismo, che a ben vedere non è sempre data e così facile riscontrare.

Il presupposto da cui parte l’autore è il seguente, delineato fin dalle pagine della Prefazione:

“Il punto chiave è se il modo di produzione capitalistico, come determinato storico di un processo tecnico-scientifico dell’uomo, regga a causa del dominio della borghesia o a causa di leggi proprie.
Il vortice portentoso del modo di produzione capitalistico, basato sulla concorrenza, chiama l’uomo ad abbandonare la logica del minimo sforzo, a sgomitare, a camminare sui morti, divide le persone per ruoli e categorie produttive, integrandole nel suo tessuto, alimentandone continuamente la corsa. In questo modo gli uomini di tutte le classi sociali sono permeati dalla legge della concorrenza; è questo meccanismo che genera i ruoli cui le persone sono asservite. Se sono i ruoli ad assumere la funzione di soggetto e le persone fisiche fungono da oggetti alienati, indipendentemente dalla classe di appartenenza, può questo meccanismo essere razionalizzato? La classe operaia, pur subendo lo sfruttamento nel suo ruolo subordinato, proprio perché è una classe complementare perché dovrebbe abbattere il modo di produzione capitalistico come ipotizzato da Marx e Engels?”1

Per affrontare questo spinoso problema l’autore compie un lungo viaggio a ritroso tra gli scritti di Marx, soprattutto quelli dedicati alla Comune di Parigi, quelli di Lenin sulla rivoluzione e la sua concezione, poi bolscevica, della società russa e, infine, analizzando la rivoluzione russa nel suo svolgimento e nelle sue conseguenze. E proprio a Lenin e alla Rivoluzione “bolscevica” è dedicata la parte più consistente dell’opera: otto capitoli su undici, 350 pagine su 446.

All’interno di tale parte del progetto, Castaldo analizza in particolare, riprendendo anche tesi già esposte da Ettore Cinnella nei suoi studi sulla Rivoluzione,2 il rapporto conflittuale che si stabilì tra il pensiero leninista e l’azione bolscevica da una parte e le aspirazioni e le richieste della gran massa dei contadini, quasi sempre poveri, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione della Russia imperiale prima e successivamente dell’Unione Sovietica.

Oltre a questo l’autore pone il problema, già posto da Amadeo Bordiga,3 di come possa definirsi socialista una società in cui il lavoro continui ad essere salariato e quindi “monetizzato” in una contabilità a partita doppia in cui appaiano sia la colonna dei costi che quella dei “profitti”. Problema tutt’altro che secondario nell’analisi del risultato della rivoluzione sovietica, soprattutto nei decenni successivi all’Ottobre del ’17.

Le conclusioni cui giunge l’autore si articolano intorno al fatto che:

“I riflettori della storia puntati sull’arco temporale che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento hanno messo in luce la forza dirompente del moto-modo di produzione capitalistico che, da un lato, ha scosso le vecchie classi come i servi della gleba in Russia e, dall’altro, ha posto alla ribalta della scena storica una nuova classe come il proletariato, che si è andato affermando in maniera definitiva come classe complementare nel modo di produzione capitalistico ad ogni latitudine del globo. […] Siamo arrivati alla conclusione che il potere bolscevico, sorto da quella rivoluzione, fu costretto alle nazionalizzazioni economiche e alla centralizzazione politica per accelerare il processo di accumulazione capitalistica.[…] Uno Stato che fu definito sovietico dai bolscevichi, ma che aveva in sè tutte le caratteristiche di un apparato teso a dirigere lo sviluppo di un’accumulazione capitalistica originaria ed era molto distante dalla natura del potere della classe operaia e della dittatura del proletariato. “4

L’osservazione che il proletariato si è andato affermando come classe complementare al modo di produzione capitalistico sembra però dare per scontato che proletariato e classe operaia coincidano, fatto non così scontato nella realtà. Il proletariato inteso come massa dei diseredati, di coloro che sono stati espropriati non solo della ricchezza sociale prodotta, andata progressivamente ad accumularsi nelle mani dell’altro polo sociale, ma anche della decisione di come e quanta ricchezza o beni materiali produrre, pencola costantemente tra forme sociali integrate nella produzione (classe operaia in generale) e forme escluse dalla stessa (disoccupati e sottoproletariato o, ancora come nel mondo d’oggi, in forme precarie di occupazione) tese a demolire qualsiasi presunta omogeneità di classe e di coscienza.

Prima di andare avanti nell’analisi delle conclusioni occorre quindi sottolineare che l’autore, pur critico della vulgata più semplicistica della rivoluzione d’Ottobre e del ruolo della classe operaia, tende a subire ancora le influenze di una visone politica in cui sostanzialmente proletariato e classe operaia tendono forzatamente a coincidere. Visione riscontrabile a partire da Plechanov e nel suo allievo Lenin oltre che nel successivo marxismo-leninismo che, però, non si presenta allo stesso modo in Marx ed Engels.

Sostanzialmente si potrebbe dire che mentre in Lenin e nel bolscevismo il proletariato deve farsi classe operaia per acquisire piena coscienza dei suoi compiti, in Marx e in Engels, fatto dovuto forse all’epoca, il proletariato deve negarsi in quanto tale per poter liberarsi dalle catene e dalle pastoie che lo legano al capitalismo. Non deve contribuire, soprattutto dopo la Comune di Parigi, a svilupparlo ma a negarlo. Non solo per l’abbrutimento e l’alienazione di cui troviamo la critica in Marx e più difficilmente in Lenin, ma anche per l’attenzione che Marx, nella parte finale della sua vita, prestò all’analisi delle società primitive e alla stessa comune contadina russa e alla possibilità che avrebbero avuto di giungere al socialismo e al comunismo saltando la fase, orrenda, del capitalismo.5

In questo la radicalità dell’azione rivoluzionaria del proletariato non deriva da una coscienza importata dall’esterno (leninismo), ma dalla ribellione contro le proprie condizioni di alienazione, abbrutimento ed espropriazione economica e culturale.6 Mentre l’ipotesi su cui si basò gran parte dell’azione bolscevica in prima istanza e, successivamente, del marxismo-leninismo, si adagiò sulla concezione deterministica e gradualistica derivata da Plechanov (prima pieno sviluppo del capitalismo poi trasformazione dei rapporti sociali ed economici di produzione) che, pur di affermarla nella sua battaglia con il populismo russo, aveva nascosto fino alla morte la risposta di tutt’altro tenore che Marx aveva inviato in una lettera a Vera Zašulic sullo stesso problema.7

Nel primo caso il proletariato e la classe operaia devono impadronirsi dello Stato per distruggerlo e per negarsi in quanto classe nella negazione dei rapporti di produzione capitalistici che la forma Stato avevano determinano, rimanendone a loro volta determinati, mentre nel secondo caso proletariato e classe operaia devono farsi Stato per sviluppare le forze produttive e rinforzare la propria funzione di e come classe. Ancora una volta lo scontro non è soltanto all’interno dei rapporti sociali reali, ma anche, e talvolta soprattutto, nell’immaginario politico che ne consegue.

Se poi qualcuno rimanesse ancora perplesso di fronte all’uso degli scritti del Marx più giovane in possibile antitesi alle le proposizioni leniniane, basterebbe ricordare che anche il Marx più vecchio (1875, otto anni prima di morire), nella sua critica al programma del partito socialdemocratico tedesco detto di Gotha, avanza riserve infinite su numerosi aspetti che poi, proprio attraverso l’influenza socialdemocratica su Plechanov, sarebbero entrati nelle formulazioni del marxismo-leninismo.

Afferma, ad esempio, Marx all’inizio della sua critica, proprio là dove il programma dichiara: «Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà»:

“Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è tanto la fonte dei valori d’uso quanto il lavoro, che è esso stesso solo l’espressione di una forza naturale, della forza-lavoro umana.
Quella frase si trova in tutti gli abbecedari […] ma un programma socialista non deve pemettere a tali luoghi comuni borghesi di nascondere le condizioni che sole danno loro un senso. Il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori d’uso, e quindi anche di ricchezza, solo nella misura in cui l’uomo si comporta fin dal principio come proprietario nei confronti della natura, la fonte prima di tutti i mezzi e ogggetti di lavoro, e la tratta come osa di sua proprietà. I borghesi hanno i loro buoni motivi per affibbiare al lavoro una forza creativa soprannaturale, perché […] ne consegue che l’uomo, il quale non ha altra proprietà all’infuori della propria forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo di quegli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni oggettive di lavoro. Egli puà lavorare solo con il loro permesso e solo con il loro permesso può quindi vivere”.8

Altro che orgoglio del lavoro operaio!
Senza poi tener conto del fatto che se Marx, come ebbe a dire più volte, non voleva essere “marxista”, altrettanto Lenin non pensò mai di essere “leninista”; mentre il cosiddetto marxismo-leninismo fu formulato per la prima volta come ideologia dell’Internazionale e del Partito bolscevico o comunista dell’URSS da Stalin, alla fine del suo resoconto al XVII Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) il 26 gennaio 1934. Ma fu soltanto a partire dal 1938, nel Corso breve di storia del Partito bolscevico, redatto dall’apposita commissione del Comitato centrale del PCU(b), che tale pensiero e la stessa storia del partito acquisirono la forma di un dogma. Nello stesso anno vennero istituite in URSS le prime Università di marxismo-leninismo come una delle istituzioni della formazione dei militanti.
Ma continuiamo con le conclusioni cui giunge Castaldo;

“La nostra tesi sostiene che il proletariato è una classe complementare alla borghesia e come tale è un pilastro del modo di produzione capitalistico, finché le leggi lo sorreggono nel suo processo di riproduzione dell’accumulazione, Solo un’implosione per sovrapproduzione di merci e mezzi di produzione del sistema capitalistico potrà aprire scenari all’oggi del tutto sconosciuti.[…] Assegnare a una parte del tutto, cioè al proletariato-classe operaia, la possibilità di precostituire una forza aggregata per abbattere l’altra parte del tutto, cioè la borghesia detentrice dei mezzi di produzione, equivale a definire i rapporti sociali da un punto di vista etico, cioè ideale, piuttosto che vedere deterministicamente il loro sviluppo e la loro crisi causata dalle leggi immanenti del suo funzionamento, che diviene crisi di un tutto, cioè di sistema, del modo di produzione. Se tiene la legge generale dell’accumulazione, questa tiene unito il tutto, dunque lo stesso proletariato che non può in alcun modo separarsi e distaccarsi perché materialmente vincolatodalle stesse leggi dell’accumulazione”.9

Ecco allora che dopo aver accettato una funzione meramente produttivistica della classe operaia, viene sventolata la determinazione delle leggi immanenti alla produzione capitalistica (ad esempio la caduta tendenziale del saggio di profitto) come unica causa della fine possibile del capitalismo stesso, negando al proletariato qualsiasi soggettività politica che, sia nel caso della Comune che della iniziale rivoluzione russa, esso aveva avuto invece la capacità di affermare.

In un mondo dove la proletarizzazione ha assunto, nei paesi imperialisti d’Occidente come in quelli degli altri continenti, dimensioni mai viste prima, tale conclusione significa volere affidarsi ad un mantra che recita sostanzialmente che la fine verrà da sé, per leggi che sfuggono al controllo della classe e della specie umana e che soltanto una particolare setta o un determinato partito saprà individuare. Come ogni religione rivelata e ogni organismo di carattere sacerdotale tende a fare e promettere.

Spogliando così il proletariato delle sue capacità di riflessione e di lotta in grado di competere con le sirene del capitalismo e del nazionalismo. Condannandolo ad essere succube dei Trump, dei sovranisti o dei populisti di ogni risma. Contribuendo col fargli assumere, come nel caso della rivendicazione del valore assoluto del lavoro, un’identità artificiale attraverso un’invenzione impostagli dalle classi dominanti.

Peccato, perché la proposizione iniziale poteva servire a ben altre riflessioni sul ruolo della classe operaia, del proletariato tutto, della sua azione e delle sue differenti forme organizzative nel divenire della storia passata e futura della specie e della comunità umana.


  1. Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, pag. 11  

  2. Ettore Cinnella: 1905, la vera rivoluzione russa, Della Porta edizioni, Pisa –Cagliari 2008; 1917. La Russia verso l’abisso, Della Porta edizioni 2012; La tragedia della rivoluzione russa, Luni Editrice, Milano-Trento 2000  

  3. Nel suo Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, edizioni il programma comunista 1976 che va ben al di là della riflessione sulla burocratizzazione impostata da Trockij e seguita dai suoi vari epigoni  

  4. Castaldo, pp.420-422  

  5. Si veda ancora una volta su questo tema: Ettore Cinnella , L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa – Cagliari 2014  

  6. Si confrontino: Marx- Engels, La sacra famiglia, cap.IV, II , Nota marginale critica e K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi 1968 pp. 71-84. Testi che all’epoca Lenin non poteva conoscere perché ancora da ri/scoprire 

  7. Si veda ancora E.Cinnella, L’altro Marx, op. cit.  

  8. Karl Marx, Critica al Programma di Gotha, Massari editore, 2008, pp. 33 – 35 

  9. Castaldo, pp. 422 – 423  

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