comic novel – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Snowpiercer: Lotta di classe su binario morto https://www.carmillaonline.com/2020/07/02/snowpiercer-lotta-di-classe-su-binario-morto/ Wed, 01 Jul 2020 22:01:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60798 di Walter Catalano

L’allegoria è esplicita, la metafora trasparente. Un treno di 1.001 vagoni con a bordo 3.000 persone è tutto quanto resta dell’umanità dopo che il fallito tentativo di fermare il riscaldamento globale terrestre ha al contrario scatenato una glaciazione, precipitando la temperatura di superficie a -117 gradi. Il convoglio ad alta velocità continua all’infinito a fare il periplo del pianeta grazie a un motore dal moto perpetuo e la società che l’ha realizzato, la Wilford Industries, guidata dal misterioso magnate Mr. Wilford, ha in mano i destini dei [...]]]> di Walter Catalano

L’allegoria è esplicita, la metafora trasparente. Un treno di 1.001 vagoni con a bordo 3.000 persone è tutto quanto resta dell’umanità dopo che il fallito tentativo di fermare il riscaldamento globale terrestre ha al contrario scatenato una glaciazione, precipitando la temperatura di superficie a -117 gradi. Il convoglio ad alta velocità continua all’infinito a fare il periplo del pianeta grazie a un motore dal moto perpetuo e la società che l’ha realizzato, la Wilford Industries, guidata dal misterioso magnate Mr. Wilford, ha in mano i destini dei superstiti. Sullo Snowpiercer, in prima viaggiano i ricchi che hanno finanziato la costruzione del treno e ora conducono una vita dissipata e parassitaria. Poi, via via, si scende di livello, dalla Seconda dove alloggia la classe dirigenziale amministrativa e burocratica; alla Terza dove i tecnici assicurano la produzione e l’autosostentamento, gestendo i bisogni primari e secondari di un claustrofobico micro-universo, attraverso la conduzione di allevamenti di bovini, frutteti, acquari, nightclub, bordelli, mercati post-industriali e così via; fino al Fondo, the Tail, la coda del treno, dove sopravvivono in semi-reclusione, quelli che non hanno pagato il biglietto, alimentandosi con barrette a stento commestibili e progettando la rivoluzione: irruzione armata nei settori anteriori del treno e rovesciamento dei rapporti sociali.

L’idea originaria da cui questa storia deriva, nasce da un graphic novel francese, Le Transperceneige – Snowpiercer è la traduzione inglese di Transperceneige, «trafiggineve» o «traforaneve» –  bande dessinée post-apocalittica in bianco e nero ideata da Jacques Lob e disegnata da Jean-Marc Rochette, pubblicata a puntate in Francia, con il titolo di La morte bianca, fra l’ottobre del 1982 e il giugno dell’anno successivo prima di essere raccolta in volume dall’editore Casterman nel 1984. Dopo il successo internazionale e la morte di Lob, lo sceneggiatore Benjamin Legrand rimette mano all’universo già delineato, cambia treno sostituendo lo Snowpiercer con il Wintercracker, e fra il 1999 e il 2000 dà alla luce altri due volumi, Il geoesploratore (1999) e La terra promessa (2000), che elaborano ulteriormente gli avvenimenti immaginati dai due autori originari.

Il fumetto è figlio diretto della fantascienza distopica di George Orwell – la data di uscita, del primo episodio, 1984, è già un destino – e, forse ancor di più, Aldous Huxley, ma anche del Robert Heinlein di Universo o Orfani del cielo, che dir si voglia, e di tutte quelle opere appartenenti al sottogenere generation ship, come il ciclo di Rama, di Arthur C. Clarke. Ma i sistemi chiusi non offrono speranza e le piccole comunità replicano e portano all’estremo i meccanismi di stratificazione sociale e diseguaglianza delle grandi: la divisione in classi, qui orizzontale, lì verticale, rimanda al classico cinematografico Metropolis, di Fritz Lang; la derivazione huxleyana si avverte invece nella suggerita identificazione fra disumanizzazione e decadenza dei costumi e per la diffidenza verso l’ipotesi rivoluzionaria vista più come vezzo della borghesia, la seconda classe, che come consapevole necessità del proletariato, gli occupanti delle ultime carrozze del treno, “il terzo convoglio”  (richiamo al Terzo stato della Francia pre-rivoluzionaria). Rispetto alle astronavi-mondo di Universo e simili, il microcosmo ferroviario di Transpeirceneige appare assai più cupo, in una vera e propria inversione di orizzonte: in Heinlein la scoperta della reale natura del mondo prospetta nuove speranze e testimonia la grandezza delle capacità umane, esaltate dalla tecnologia; nella trilogia francese, invece, la tecnologia consente solo una finzione di vita, senza scopo, senza obiettivi, destinata alla sconfitta: se i viaggiatori di Heinlein scoprono di avere a disposizione tutto l’universo, quelli di Legrand  accettano il dato di fatto che non c’è nulla al di fuori delle loro paratie stagne.

Anche stilisticamente il fumetto si evolve (o involve a seconda dei gusti): se nel primo episodio, La morte bianca, il disegnatore Jean-Marc Rochette si ispira al bianco e nero espressionista della scuola argentina e in particolare al Francisco Solano Lopez de L’eternauta, negli episodi più tardi il passaggio al colore conduce a uno slittamento dal grottesco al realistico che già prelude al cinema. Non per caso quindi il regista sud-coreano Bong Joon-ho scoprirà il fumetto, si innamorerà dell’ambientazione e per anni tenterà di avviare un progetto cinematografico liberamente ispirato alla trilogia francese (in particolare al primo episodio) riuscendo infine a realizzarlo solo nel 2013.

Bong Joon-ho, premio Oscar 2020, sia per il miglior film straniero sia per regia e sceneggiatura originale, con il piuttosto sopravvalutato Parasite, passa al vaglio della critica per un regista interessato a recuperare nel suo cinema il concetto di lotta di classe. In realtà il tema è per lui poco più che un pretesto abbastanza superficiale, almeno per come viene affrontato nei due film che maggiormente entrano in argomento: sia la fin troppo acclamata ultima opera, sia il suo indiretto predecessore, proprio Snowpiercer. In Parasite, ancor più che nel film precedente, la lotta di classe nell’unico senso possibile del termine, quello marxiano, viene rimpiazzata, attraverso una lettura sociologica abbastanza approssimativa, dal desiderio collettivo, dettato dal puro istinto di sopravvivenza (un collettivo, per altro, che non eccede mai gli stretti vincoli familiari), di mera emulazione e asservimento al più forte e al più ricco. Lotta fra poveri dunque, invece di solidarietà di classe, in cui il più veloce e il più furbo vince: il principio hobbesiano dell’homo homini lupus e quello concorrenziale del capitalismo, in cui tutti si abbandonano alla lotta più efferata per impedire l’affermazione altrui. Lo scopo finale è il successo performativo, la realizzazione individuale del neo-capitalismo. Un’impresa criminale è comunque un’impresa tesa alla massima soddisfazione personale. Anche la vendetta, quando si consuma, è dettata solo dalla frustrazione personale, da un impulso improvviso e istintivo. Plasmati sul modello vincente del manager i propri bisogni, coronati i propri egoistici desideri di riscatto, resta solo, incancellabile, l’odore proletario, stigmate che marchia e rivela l’inganno e il dislivello di classe. Il film è un ammiccamento agli esclusi, che non innesca un’immedesimazione per la loro condizione di indigenza ma per l’abilità di sfruttare ogni possibile evento in maniera manipolatoria: niente più che la performance richiesta al capitale umano dalla società neoliberista.

Con analoga affettazione, anche Snowpiercer parrebbe denunciare le disuguaglianze del mondo nella lampante metafora del treno. I diseredati senza biglietto promuoveranno un leader, novello Spartaco che guiderà la rivolta per rovesciare lo stato di cose esistenti. Mentre Porloff, protagonista di Transperceneige versione fumetto, però è quasi un flaneur della rivoluzione e il suo itinerario è più un vagabondaggio che solo per caso lo porterà a raggiungere la testa del treno, il percorso di Curtis (interpretato nel film da Chris Evans) ha almeno velleità rivoluzionarie, anche se, nel suo impulso tutto muscolare, l’eroe intende prendere il potere senza sapere poi bene cosa farsene. Si mette in scena una ribellione di corpi senza testa: il mondo è il treno e il treno è il mondo e nessuno, tra chi lo guida e chi si fa guidare, può contestare questo dato di fatto. Per questo i compromessi sono necessari e il rivoluzionario dovrà allearsi con un esperto di sistemi di sicurezza dipendente da una sostanza allucinogena – un po’ il suo alter ego negativo – e sostenere tutta una serie di combattimenti con il piccolo esercito di sbirri che proteggono l’ordine costituito. L’obiettivo è quello di arrivare fino alla locomotiva, rimuovere Wilford (il capo carismatico, circonfuso quasi da un’aureola sacrale) e sovvertire la brutale organizzazione vigente senza un progetto chiaro di gestione alternativa. I luoghi comuni anche qui abbondano: le rivolte già previste come elemento per mantenere l’equilibrio interno del sistema (un po’ Orwell e un po’ Matrix); l’assassino disposto a nutrirsi dei propri simili che diventa capo della rivolta; il capo carismatico che cederà il proprio ruolo al leader degli insorti: chi uccide il re diventa re; la presa di potere rivoluzionaria risolta con un duello “a due” come in un western; e così via.

Almeno da un punto di vista spettacolare però il film funziona; scenografia e regia sono incisive; tutto il cast, in particolare Chris Evans e Tilda Swinton, efficace e, come prodotto di intrattenimento, non c’è troppo da eccepire. Se rifiutiamo ogni pretesa di interpretazione “politica”, possiamo anche divertirci e ritenerci soddisfatti: come il suo successore Parasite, anche Snowpiercer è un lavoro complessivamente riuscito. Il problema sorge invece quando si vuole allungare troppo il brodo e – sfruttando il nome ormai assurto, a torto o a ragione, al Pantheon dei sommi, del cineasta coreano – si cerca di trasformare in serie Tv un testo ben conchiuso proprio nel suo formato breve.

La serie, sviluppata dallo showrunner Greame Manson, condivide con l’omonimo film di Bong Joon-ho l’ambientazione, ma cronologia e trama sono differenti. I fatti raccontati nella pellicola del 2013 si svolgono 15 anni dopo l’apocalisse e principalmente nel Fondo, fra gli ultimi vagoni; il serial visibile sulla piattaforma Netflix, si colloca invece sette anni dopo la glaciazione e, quindi, otto anni prima del film, e molto maggiore spazio viene dato a personaggi e ambienti dei diversi scompartimenti che non sono più quindi, come nel film, solo un territorio ostile da scoprire e conquistare per le avanguardie rivoluzionarie delle carrozze di coda. Il regista coreano figura come produttore esecutivo, così come fra i nomi dei produttori, oltre al suo, compaiono anche quelli di Scott Derrickson (regista di Doctor Strange) e Park Chan-wook (regista di Old Boy e di altri classici del cinema sudcoreano meno noti da noi). Nonostante questi personaggi di rilievo sbandierati; nonostante la raffinatezza del reparto scenografico, che annovera specialisti come Barry Robison, Stephen Geaghan, Paul Alix, Thomas P. Wilkins e Gwendolyn Margetson, a conferire all’ambientazione un’atmosfera sospesa e ambigua di retrofuturo; nonostante le musiche composte da Bear McCreary, che tutti ricorderanno per la colonna sonora di un’altra serie Sci-Fi classica, Battlestar Galactica; il prodotto risulta assai mediocre e di gran lunga inferiore al già non eccelso film. Il fumetto resta alla fine la punta di diamante di tutta la saga multimediale.

Se però film e fumetto almeno erano ben strutturati intorno a un centro, il tema della rivolta sociale – seppur abborracciata – i dieci episodi televisivi tergiversano e debordano, svicolando banalmente sul crime, tanto per allungare il brodo con gli ingredienti più dozzinali, e seguono le indagini di Layton, detective “proletario” cooptato negli scompartimenti “borghesi” per indagare sullo spaccio di droga e medicinali che potrebbe essere all’origine di una catena di omicidi seriali; lo sleuth riluttante, già che c’è, prende anche appunti per scatenare, quando sarà il momento giusto, la rivoluzione: un po’ come voler fare un cocktail fra La Corazzata Potemkin e Assassinio sull’Orient Express

Anche gli attori appaiono poco convinti, dall’attrice premio Oscar Jennifer Connelly (A Beautiful Mind), al rasta, quasi sosia di Bob Marley, Daveed Daniele Diggs, vincitore di un Grammy e di un Tony per il musical Hamilton. La serie spicca come un bell’esempio di dissipazione di risorse ed è utile guardarla: non solo il bello ma anche il brutto va conosciuto. Certo ci sono dei limiti a questa regola: ad esempio la recente serie horror – si fa per dire – Curon, trionfalmente presentata come  debutto di Netflix Italia, è un pastrocchio inguardabile, soporifero e mal scritto sul quale non vale la pena di sprecare neanche un minuto della propria vita di spettatore, ma Snowpiercer non arriva a tanto obbrobrio e una serata con gli amici, a birra, patatine e battute salaci, gliela possiamo anche dedicare… Motivo per cui già la produzione minaccia una seconda stagione: perseverare diabolicum…

 

 

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Il graphic novel tra Maus, Jimmy Corrigan, Sandman e Zerocalcare https://www.carmillaonline.com/2017/10/18/graphic-novel-maus-jimmy-corrigan-sandman-zerocalcare/ Tue, 17 Oct 2017 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39863 di Gioacchino Toni

Punto d’incontro tra romanzo e fumetto, il graphic novel ha conosciuto negli ultimi tre decenni uno sviluppo importante ed a questo particolare media verbovisivo Stefano Calabrese ed Elena Zagaglia hanno dedicato il libro Che cos’è il graphic novel (Carocci editore, 2017).

Quello del graphic novel è un linguaggio che i due studiosi definiscono “vecchio-nuovo”; vecchio perché riprende le tecniche del fumetto introdotte tra il XVIII ed il XIV secolo da artisti come Wiliams Hogarth e Richard Felton Outcault e nuovo in quanto «il romanzo grafico è in grado di superare i fumetti tradizionali in profondità e sottigliezza: oltre [...]]]> di Gioacchino Toni

Punto d’incontro tra romanzo e fumetto, il graphic novel ha conosciuto negli ultimi tre decenni uno sviluppo importante ed a questo particolare media verbovisivo Stefano Calabrese ed Elena Zagaglia hanno dedicato il libro Che cos’è il graphic novel (Carocci editore, 2017).

Quello del graphic novel è un linguaggio che i due studiosi definiscono “vecchio-nuovo”; vecchio perché riprende le tecniche del fumetto introdotte tra il XVIII ed il XIV secolo da artisti come Wiliams Hogarth e Richard Felton Outcault e nuovo in quanto «il romanzo grafico è in grado di superare i fumetti tradizionali in profondità e sottigliezza: oltre a muoversi in ambiti creativi e forme estetiche assai differenti, esso può riutilizzare format discorsivi quali la biografia, l’autobiografia, l’indagine giornalistica e il reportage storico-cronachistico, il cosiddetto graphic-journalism» (p. 8).

Nel saggio di Calabrese e Zagaglia vengono passati in rassegna gli elementi semiotici che distinguono il graphic novel tanto dalle immagini fisse che dalle narrazioni verbali, visto che questo particolare linguaggio verbovisivo si presenta come un sistema semiotico caratterizzato dalla multimodalità (parole/immagini) e dalla simultaneità (con il tempo codificato secondo un “sistema spazio-topico”). Dal momento che su questa parte del volume ci siamo soffermati in un intervento pubblicato recentemente dalla rivista «Il Pickwick» [qua], dedichiamo questo scritto alla parte del saggio di Calabrese e Zagaglia che ripercorre, sin dalla nascita, alcune tappe importanti della storia della narrazione grafica con particolare attenzione ad alcuni rilevanti case study.

Il termine graphic novel viene introdotto sia per indicare una modalità testuale diversa rispetto a quella del fumetto che per presentare il prodotto come forma letteraria complessa indirizzata ad un lettore tendenzialmente adulto. I confini delineati da questa etichetta restano decisamente incerti: si tratta di un libro figurativo che racconta una storia lunga o diverse storie brevi, che ricorre ad una modalità seriale o autoconclusa, che generalmente rispetta le convenzioni tipiche del fumetto o veicola istanze autobiografiche, storiche, giornalistiche ecc. Secondo alcuni studiosi il termine viene coniato da Richard Kyle attorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento per divenire d’uso alla fine del decennio successivo, ma è a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta che il termine ha iniziato ad indicare una tipologia testuale precisa e non più esperimenti editoriali frammentati ed estemporanei.

Inevitabilmente occorre partire dal fumetto, che secondo diversi studiosi prende vita negli anni Trenta dell’Ottocento e si sviluppa con la pubblicazione delle vignette nelle edizioni domenicali dei quotidiani americani. È soltanto a partire dagli anni Trenta del Novecento che i comic books permettono ai fumetti di essere commercializzati e distribuiti al di fuori dei quotidiani, prima per pubblicizzare altri prodotti, poi in maniera del tutto autonoma con protagonisti eroi e supereroi. «Con i supereroi degli anni Trenta e Quaranta, in inquietante simultaneità con l’imporsi delle dittature in alcuni paesi occidentali, il fumetto conosce grande fortuna e si espande sia come numero di lettori, sia per elaborazione di sottogeneri narrativi, sino a divenire un simbolo della nascente potenza culturale degli Stati Uniti» (p. 13).

Con gli anni Cinquanta e l’inizio della Guerra Fredda i supereroi risultano inadatti a “risolvere” la mutata situazione ed il clima politico-culturale nordamericano tende ad indicare nel fumetto uno strumento di corruzione morale, oltre che di scarso rilievo culturale. Nel 1954 in America entra in vigore il Comix Code, un vero e proprio codice di censura che proibisce, tra le altre cose, la rappresentazione della violenza e del sesso, la presenza di alcolici e tabacco e, soprattutto, vieta di criticare o irridere le autorità. Ad essere preso di mira, sottolineano Calabrese e Zagaglia, è specialmente il codice iconico, per la sua immediatezza ed a fare le spese di questa regolamentazione sono soprattutto le narrazioni gialle o horror anche se, nonostante le censure, negli anni Cinquanta non mancano produzioni interessanti, come nel caso della rivista satirico-demenziale “Mad” creata nel 1952 dal fumettista Harvey Kurtzman o di Master Race di Bernie Krigstein che nel 1955 affronta il tema dei campi di sterminio.

Nei primi anni Sessanta rinascono i fumetti di supereroi uscendo dal mero ambito adolescenziale e venendo a contatto con il mondo della pop art. Con il 1968 nasce anche il fumetto underground ed autori come Robert Crumb, Eric Stanton e Gilbert Shelton non mancano di realizzare opere satiriche, sessualmente più audaci, con riferimenti autobiografici e con una smaccata presenza di critica politica. Tali trasformazioni contribuiscono all’avvicinano del fumetto alla narrativa romanzesca.

Anche in Europa si danno importanti novità: sul finire degli anni Sessanta escono in Italia opere come Una ballata del mare salato (1967) di Hugo Pratt e Poema a fumetti (1969) di Dino Buzzati, mentre in Francia e in Belgio si pubblicano riviste destinate a restare nella storia come “Pilote” (dal 1959) e “Á Suivre” (dal 1978). Se l’ondata innovativa degli anni Sessanta tende a perdere slancio verso l’inzio degli anni Ottanta, insieme all’assopirsi delle spinte controculturali nel clima genereale del rappel à l’ordre, occorre evidenziare che si aprono comunque nuove strade soprattutto grazie a pratiche di autoproduzione.

È in questo periodo che le nuove narrazioni visive iniziano ad essere indicate come illustrated novel, graphic album, comic novel e graphic novel. Tra i primi autori del nuovo genere debbono essere ricordati illustratori inglesi come Alan Moore, Neil Gaiman, Warren Ellis e Grant Morrison. I due studiosi sottolineano anche l’importanza della rivista “Raw”, fondata nel 1980 da Art Spiegelman e Françoise Mouly, che nel corso di un decennio lancia in ambito statunitense autori come Charles Burns, Robert Crumb e Chris Ware. Nel corso degli anni Novanta il graphic novel definisce meglio alcune sue caratteristiche che lo differenziano sempre più dal fumetto tradizionale, e conquista un suo spazio editoriale e distributivo.

Calabrese e Zagaglia sottolineano come tale tipo di grafica narrativa abbia uno sviluppo internazionale che tocca, oltre gli Stati Uniti, anche il Sudamerica, l’Europa e l’Estremo Oriente. In Giappone, ad esempio, soprattutto a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, Osamu Tezuka realizza un vero e proprio “cinema di carta” che conduce allo story manga, un racconto a fumetti autoconcluso rivolto ad un pubblico di bambini ed adolescenti.

A partire dalla metà degli anni Cinquanta, in Giappone, un gruppo di nuovi autori inizia a proporre akahon ispirati all’hard boiled e rivolti ad un pubblico adulto che aprono le porte al movimento gegicka, diffuso da riviste come «Kage» e «Machi», che abbandona le semplificazioni e le deformazioni dei manga in favore di uno stile molto più realistico. Se in un primo momento il gegika ha successo tra i giovani lavoratori delle grandi aree industriali scarsamente acculturati, successivamente, a partire dagli anni Sessanta, alcune produzioni gegika si prestano a dare voce alle proteste ed alla critica sociale di studenti, intellettuali ed attivisti politici.

Attorno alla metà degli anni Ottanta il mondo dei fumetti vede l’uscita di alcune opere che ne cambiano la fisionomia. Se per quanto riguarda l’universo dei supereroi la svolta può essere individuata nell’uscita di Watchman (1986-87) di Alan Moore e Dave Gibbson e Batman. Il ritorno del cavaliere oscuro (1986) di Frank Miller, è con Maus (1986) di Art Spiegelman che si assiste alla canonizzazione del genere graphic novel ed alla sua ascesa nell’ambito della cultura letteraria, tanto che nel 1992 l’opera di Spiegelman riceve una menzione speciale da parte del Comitato del Premio Pulitzer.

Maus, comparso la prima volta nel 1972 come short story in un’antologia, poi pubblicato in maniera frammentata da «Raw», viene poi pubblicato in due volumi distribuiti da Pantheon. Il lavoro di Spiegelman è incentrato attorno alla questione della Shoah e presenta due storie che si intrecciano: in una Vladek Spiegelman racconta al figlio, Art Spiegelman stesso, la sua esperienza dell’Olocausto in Polonia, mentre nell’altra storia si narra del rapporto problematico tra i due.

Il primo volume, Mio padre sanguina storia (A Survivor’s Tale. My Father Bleeds History) narra le vicende dei genitori di Art fino alla loro deportazione ad Auschwitz ed introduce i problemi tra padre e figlio. Il secondo volume, intitolato E qui sono cominciati i miei guai (And Here My Troubles Began) narra invece la vita dei genitori di Art all’interno del campo di sterminio e i loro tentativi, una volta sopravvissuti, di ricostruirsi una vita prima in Svezia, poi in America, fino ad un brusco ritorno al presente narrativo.

Secondo Calabrese e Zagaglia la «prima ragione della notorietà di Maus è la complessità del suo impianto narratologico, in grado di mixare simultaneamente più livelli diegetici, moltiplicando il potenziale semantico ed espressivo di ciascuno di essi» (p. 19). In Maus la narrazione comprende due diversi piani temporali e ricorre a due narratori: «gli eventi della Seconda guerra mondiale in Polonia vissuti dal padre si dipanano fianco a fianco, a riquadri alternati, con quelli del 1980 vissuti dal figlio a New York, e la narrazione si sposta in avanti e indietro, con improvvise analessi e prolessi tra la storia intradiegetica della sopravvivenza di Vladek alla persecuzione nazista e i suoi racconti extradiegetici al figlio Art, metanarratore che sutura le due storie e crea Maus. Così il lettore entra in un labirinto degno di un racconto di Borges: Vladek è un narratore verbale intradiegetico, Art agisce sia come narratore extradiegetico del plot all’altezza cronologica del 1980, sia come narratore visivo che assume le narrazioni extra- e intradiegetiche in un blend di potente fascino» (pp. 30-31).

Gli studiosi sottolineano come la narrazione in Maus risulti decisamente complessa ed aperta ad interpretazioni differenti, sulla falsariga dei romanzi modernisti e postmodernisti. «Il metanarratore Art opera su diversi livelli […] e questo raffinato cocktail dei suggerimenti di un narratore onnisciente con le conoscenze del tutto limitate e anguste del personaggio (controfigura del lettore reale) influisce sulla nostra capacità di orientamento […] Questa multimodalità permette ancora una volta la giustapposizione della rappresentazione oggettiva e soggettiva, dell’eterodiegesi e dell’omodiegesi, del passato e del presente, del discorso tra i personaggi e del discorso “interiore” di un personaggio» (p. 31). Inoltre, il confine tra il livello narrativo di Vladek che riguarda la storia della Shoah ed il livello narrativo post-testimoniale di Art, riferito al problema della memoria storica, è offuscato da metalessi visive in cui si miscelano passato e presente.

Visto che il padre di Art racconta un frammento reale della storia della Shoah, Maus potrebbe essere pensato come visual life-narrative, storia orale-grafica; non a caso il primo volume è stato premiato come “biografia”. «In realtà, Maus è domiciliato in uno spazio intergenerico e intersemiotico e la sua stessa ricchezza espressiva dipende radicalmente da questa ontologica, immanente interstizialità: la voce di Vladek domina il testo e, come in ogni storia orale del folklore, solo attraverso la storia personale di Vladek il lettore può comprendere gli eventi storici descritti. L’universale è nel particolare, tanto quanto l’autobiografia si dissolve in una biografia» (p. 32).

Circa il ricorso semiotico agli animali presente in Maus, gli studiosi sottolineano come questo non abbia soltanto lo scopo di teriomorfizzare una società cinica e corrotta ma anche, in modo opposto, di «antropomorfizzare una violenza senza volto e senza ragionevolezza» (p. 34). Se la presenza di uomini teriomorfizzati palesa che ogni rappresentazione visiva è una finzione, ciò, suggeriscono Calabrese e Zagaglia, frantuma «il dogma formale del realismo operando, con gli strumenti semplici di un graphic novel, la complessiva “desantificazione dell’Olocausto” […] Le metafore animali funzionano proprio in virtù delle loro profonde incongruenze, dove i conti semantici sembrano non tornare mai: il lettore tende a dare un’interpretazione generalista di topi come persone, piuttosto che degli ebrei come topi, e ciò accade in quanto uno dei segni distintivi della tradizione animale nei fumetti sembra essere la “curiosa indifferenza verso la natura animale dei personaggi”» (p. 35). Nei fumetti meno dettagliata è la raffigurazione di un personaggio, più ci si apre all’universalità ed all’identificazione empatica dei lettori; la semplicità dei disegni in Maus contribuisce dunque alla “universalizzazione” dei topi.

Con la pubblicazione di Jimmy Corrigan. Il ragazzo più in gamba sulla terra (Jimmy Corrigan, the Smatest Kid on Earth), uscito prima come serial fiction (1993-2000), poi nella versione one-shot (2000), Franklin Christenson Ware, più noto come Chris Ware, si rivolge direttamente ad un pubblico che egli stesso definisce nell’introduzione al volume del 2000, dotato di sufficienti «mezzi per intrattenere un dialogo semantico soddisfacente con il teatro pittografico ivi offerto» (Ware, p. 3, trad. it.).

Il racconto grafico di Ware si presenta indubbiamente di lettura complessa, con un tipo di impaginazione degerarchizzata e labirintica, strutturato secondo un «double plot a sviluppo elicoidale ove si rincorrono due storie ambientate in epoche diverse» (p. 60). La prima storia, ambientata negli anni Ottanta del Novecento, racconta del solitario trentaseienne Jimmi Corrigan che si trova inaspettatamente a dover incontrare il padre mai conosciuto prima, la seconda, ambientata a fine Ottocento, narra invece del rapporto tra il nonno ed il bisnonno di Jimmi. In entrambi i casi si tratta di storie che affrontano il difficile rapporto padre-figlio, «con i padri [che] giocano sempre un ruolo negativo [mentre] i figli incassano passivamente i colpi inferti dal contesto sociale e al tempo stesso vi si mostrano resilienti» (p. 62).

L’impaginazione proposta da Ware risulta decisamente innovativa; la forte regolarità geometrica, infranta dall’introduzione di microvarianti, conferisce alla pagina un aspetto che Calabrese e Zagaglia definiscono «quasi carcerario, claustrale almeno quanto la vita del protagonista […] La direzione abituale di lettura […] è smentita, o almeno sottoposta a forti turbolenze, poiché ciascuna planche si presenta come una combinazione di blocchi quadrangolari, dove l’immagine di grandi dimensioni costituisce un blocco unitario, mentre un mosaico di quattro, sei, otto, dodici piccoli panels ne costituisce un altro» (p. 63). Altra caratteristica importante segnalata dagli studiosi è l’uso della simmetria che viene utilizzata da Ware per enfatizzare le «opposizioni binarie che strutturano l’evoluzione spazio-temporale della storia, come ad esempio interno/esterno, passato/presente, giorno/notte» (p. 63).

Particolarmente interessante risulta l’approfondimento che Calabrese e Zagaglia dedicano al rapporto di Ware con i supereroi della sua infanzia. Secondo i due autori è possibile cogliere un parallelismo parodico tra la figura del supereroe e quella del padre assente; per certi versi Ware ha bisogno di eliminare una volte per tutte la figura del supereroe, propria dei fumetti, per poter dar vita al graphic novel. Si tratterebbe di una rottura necessaria con il mondo dell’infanzia (con i fumetti e con la figura del padre, pur se padre-assente) al fine di poter divenire adulti (dunque, artisticamente, poter entrare nel mondo del graphic novel). Ware, nella sua narrazione grafica, mette in scena il suicidio di un supereroe nell’indifferenza generale con tanto di titolone sul giornale. «Periodizzando i supereroi, il graphic novel diventa […] lo specchio critico del contesto storico-sociale» (p. 66). A questo punto gli studiosi individuano nel kidult il particolare tipo di lettore capace di specchiarsi in tale «labirintica parodia” del fumetto più mainstream» (p. 66).

In effetti, stando alle indagini effettuate in diversi paesi europei, mente il lettore-tipo di romanzi è soprattutto di genere femminile e di età compresa tra i trenta ed i cinquantaquattro anni, quello di graphic novel è invece in maggioranza di genere maschile e di età compresa tra i quattordici ed i ventiquattro anni. Si tratta dunque un soggetto «in fase di formazione permanente, che alimenta la propria Bildung attraverso porzioni massicce di visual storytelling. Proprio come la ricezione del romanzo settecentesco rifletteva le ansie del ceto medio, i graphic novel rivelano oggi i bisogni dei kidults e le loro ansie predittive circa un futuro sempre più impredicabile, irretito solamente da progetti a tempo determinato: narrazioni adatte ai tempi labili e a spazi empatici, fatte per rappresentare individualità uniche, ciò che spiega l’ambientazione realistica degli intrecci, l’attualità dei temi e la loro rilevanza storica […] Le peripezie vissute dai protagonisti diventano agli occhi dei kidults una parabola, un momento di passaggio da cui si esce trasformati, dove il fatto eccezionale di cui l’intreccio parla diventerà il momento in cui prende corpo una nuova identità” (p. 93). Non è un caso, fanno notare i due studiosi, che l’eroe del graphic novel non si trovi mai alla fine della storia nella medesima condizione esistenziale del punto di partenza.

Eliminati dalle storie i supereroi tradizionali, i protagonisti di graphic novel come Jimmy Corrigan errano alla ricerca di una collocazione all’interno di un mondo instabile e precario «in cui lo stato di crisi sembra essere il centro propulsivo dell’esistenza» (p. 67). È dunque con tale retorica del fallimento che il graphic novel, secondo Calabrese e Zagaglia, ha surclassato, almeno dal punto di vista qualitativo, il fumetto e, soprattutto, pare essersi conquistato un futuro tutto da scrivere e disegnare.

The Sandman (1988-96) di Neil Gaiman è da molti considerato una pietra miliare nella costituzione del graphic novel; si tratta di una delle pubblicazioni degli anni Novanta del Novecento che maggiormente ha contribuito a trasformare il formato della pubblicazione e l’estetica della narrazione grafica allontanandola dal fumetto tradizionale.

Ad essere ripreso in questo caso è proprio un supereroe, seppur minore, degli anni Quaranta del Novecento, dotato della facoltà di entrare nei sogni degli individui per poi proteggere i bambini dagli incubi. Gaiman trasforma il personaggio totalmente; il suo «Sandman viola le regole relativamente a ciò che rende un personaggio popolare nel settore dei fumetti dominato dai supereroi. Invece di criminali da combattere e vite da salvare, la preoccupazione del protagonista è quella di mantenere “The Dreaming”, ossia l’infinito orizzonte psichico in costante cambiamento che visitiamo ogni notte durante il sonno […] Tutto ruota intorno alla lenta trasformazione psicologica del protagonista: Sandman è la personificazione dei sogni e delle storie, un essere metafisico che ha pieno governo sulla vita dell’umanità. Egli è originariamente presente come un essere immortale: lui e i suoi fratelli creature divine immortali che si chiamano Destino, Morte, Distruzione, Desiderio, Disperazione e Delirio – sono i sette Eterni che incarnano e regolano l’esistenza umana» (p. 85).

In Sandman si rintracciano due livelli narrativi: uno è riconducibile alle diverse storie indipendenti derivate dalle pubblicazioni mensili, e l’altro sembra ricombinare le diverse storie in un unico grande affresco del personaggio. Si tratta comunque di una narrazione non lineare che salta avanti e indietro nel tempo a velocità diverse. «Tematicamente, Sandman si focalizza sull’idea di cambiamento e dell’inevitabile necessità di adattarsi alle trasformazioni dai contesti storico-ambientali, tanto che le arcature narrative della prima serie muovono da un Sandman riluttante alla metamorfosi e bisognoso di apprendere l’arte dell’adattamento; passo dopo passo si trova di fronte a esperienze che sconvolgono le sue certezze e lo conducono a rompere le sue abitudini, sino a mettere in discussione le proprie decisioni passate e le proprie credenze» (pp. 86-87).

Uno dei fenomeni più rilevanti degli ultimi tempi nell’ambito della narrazione grafica è sicuramente quello di Zerocalcare (Michele Rech), autore che, formatosi nell’ambito dell’autoproduzione grafica, nell’ambiente dei centri sociali romani, nel 2012 pubblica prima l’albo La profezia dell’armadillo, poi il graphic novel Un polpo alla gola, ottenendo, in entrambi i casi, un notevole successo.

«Zerocalcare può essere definito il primo fenomeno di una cultura giovanile italiana degli anni Dieci del nuovo millennio, capace di raggiungere un pubblico vasto ed eterogeneo ricorrendo ad un linguaggio inventato, uno slang giovanile romanesco postdialettale, che ricorda la lingua meticcia anglo-polacca di Vladek in Maus. Manifesto di una cultura pop che sa rappresentare un’ampia fascia di lettori e lettrici, l’abilità di Zerocalcare è quella di fotografare la condizione giovanile in cui i lettori si immedesimano totalmente: nelle storie di Zerocalcare è rappresentata la quotidianità di un trentenne contemporaneo, disoccupato, nevrotico e cinico, che viene messo alla prova e fallisce regolarmente affidandosi però a una coscienza ironica» (p. 132). Il protagonista di questi graphic novel è lo stesso Zerocalcare che si presenta, sostengono i due studiosi, come una sorta di hikikimori nostrano ed il punto di forza dell’autore sarebbe da ricercarsi soprattutto nel forte rapporto con i lettori.

Kobane Calling si proietta al vertice delle classifiche dei libri di fiction più venduti «anche se paradossalmente ciò avviene con un testo di graphic journalism declinato in prima persona e a focalizzazione interna, per cui la realtà di Kobane è restituita attraverso gli occhi, le nevrosi, i dubbi e le difficoltà oggettive del protagonista-autore. Per questo, il graphic reportage alterna vignette dal realismo quasi documentario a passaggi “cartoonati” per rendere al meglio l’iperrealismo della situazione» (pp. 132-133).

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