colonialismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 05:01:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La rivoluzione come una bella avventura /1: Asia ribelle 1900-1930 https://www.carmillaonline.com/2024/11/13/la-rivoluzione-come-avventura-1-asia-ribelle-1900-1930/ Wed, 13 Nov 2024 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85272 di Sandro Moiso

Tim Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 776, 45 euro

Non vi può essere dubbio alcuno che ogni grande rivoluzione abbia rappresentato sicuramente, per i suoi protagonisti più o meno famosi come per le generazioni e le classi sociali coinvolte, sia un evento drammatico che avventuroso. Con una forte prevalenza del secondo elemento rispetto al primo, soprattutto quando ad agire nel suo nome sono stati giovani militanti tutt’altro che restii ad adattarsi alle logiche normalizzatrici del tempo in cui erano nati e degli stessi partiti che avrebbero dovuto rappresentare [...]]]> di Sandro Moiso

Tim Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 776, 45 euro

Non vi può essere dubbio alcuno che ogni grande rivoluzione abbia rappresentato sicuramente, per i suoi protagonisti più o meno famosi come per le generazioni e le classi sociali coinvolte, sia un evento drammatico che avventuroso. Con una forte prevalenza del secondo elemento rispetto al primo, soprattutto quando ad agire nel suo nome sono stati giovani militanti tutt’altro che restii ad adattarsi alle logiche normalizzatrici del tempo in cui erano nati e degli stessi partiti che avrebbero dovuto rappresentare il cambiamento sociale.

Così la serie di articoli che ha inizio con la presente recensione del bellissimo testo di Tim Harper, per i motivi suddetti ed altri ancora, vuole costituire per chi scrive, oltre che la ricostruzione di momenti storici particolarmente significativi e convulsi dal punto di vista socio-politico e militare, ancora una volta un omaggio sia al genio letterario di Emilio Salgari che a quello politico dell’amico e compagno di riflessione teorica Emilio Quadrelli, recentemente scomparso.

Il primo per la gran mole di libri avventurosi prodotti, in cui il tratto anticoloniale e antimperialista si accompagnava, sia che si trattasse dei romanzi del ciclo del Borneo e della Malesia che di quelli ambientati nelle Filippine durante la guerra ispano-americana del 1898 oppure di quelli dei fuggiaschi dalle prigioni siberiane dello zarismo o, ancora, ambientati sulle grandi pianure del West durante le guerre indiane, una ricca mole di osservazioni decisamente antirazziste che, nell’insieme, contribuirono a formare generazioni di futuri scrittori e rivoluzionari. Come lo stesso Che Guevara che, prima di diventare egli stesso un personaggio da avventure leggendarie a Cuba, in Africa e, infine, in Bolivia, aveva letto tutti i romanzi dell’autore italiano1, intendendoli sempre come parte fondamentale della sua formazione rivoluzionaria.

Il secondo per la concezione dell’audacia necessaria per i rivoluzionari nel momento in cui si pongano il problema dell’azione destinata a combattere e rovesciare l’esistente. Un’audacia nell’osare che deve costituire, nella riflessione di Quadrelli, la diretta conseguenza dell’espressione piena e cosciente della soggettività della classe, al di là ed oltre i limiti imposti da qualsiasi tipo di ortodossia comunista, socialista o d’altro genere ancora2.

E nel libro di Tim Harper di avventura, determinazione e audacia ce n’è davvero moltissima, come ben si adatta ad un progetto che, sorto sotto il tallone dell’imperialismo e colonialismo occidentale nel momento della sua massima espansione e forza militare, dovette sembrare ai più, soprattutto tra coloro che rappresentavano le potenze coloniali europee a cavavllo tra XIX e XX secolo, davvero incredibile e folle.

Tim Harper è, dal 2020, a capo della School of the Humanities and Social Sciences e Direttore del Centro per la Storia e l’Economia dell’Unversità di Cambridge, oltre che essere membro, da quest’anno, della Accademia Britannica. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla Storia del Moderno Sud-est asiatico e le connessioni globali di quella regione. Il suo primo libro, The End of Empire and the Making of Malaya (1999), costituiva uno studio sulla guerra, la ribellione comunista e il raggiungimento dell’indipendenza sia della Malesia che di Singapore.

Da allora ha pubblicato, insieme a Christopher Bayly, un resoconto storico in due volumi della Seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze nell’Asia meridionale e del Sud-est: Forgotten Armies (2004) e Forgotten Wars (2007). Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale (uscito originariamente come Underground Asia: Global Revolutionaries and the Assault on Empire nel 2020) costituisce il suo lavoro più recente. Oltre a ciò ha collaborato a svariate riviste, come «Modern Asian Studies», con una grande mole di articoli e contributi compresi in raccolte di saggi.

La ricerca appena pubblicata in Italia da add editore è stata accolta e segnalata come libro dell’anno sia dall’«Economist» che dal «Financial Times». E, sostanzialmente, prende avvio da una annotazione contenuta in un un pamphlet anonimo del 1913, di autore indiano, a metà fra il manuale bellico e l’esortazione alla rivolta: «Come può liberarsi dal terrore chi dal terrore è oppresso? Come possono gli schiavi ottenere la libertà? Ecco la risposta: con la “Bomba”».

A inizio Novecento l’Asia coloniale – l’immensa rete di località marittime, passi montani, piantagioni e vie d’acqua compresa tra l’oceano Indiano e le coste orientali cinesi – costituiva una polveriera pronta a mandare in frantumi gli imperi europei. Da Bombay a Shanghai, da Singapore a Manila, le banchine dei porti e i transatlantici che facevano la spola dall’Europa diventarono la via d’accesso di idee anarchiche e marxiste, oltre che il teatro di un continuo scambio di personalità, traduzioni, ricette politiche tanto varie quanto originali. I pellegrini di questo sottosuolo antimperiale – come il futuro Ho Chi Minh, Sun Yatsen, la nemesi di Gandhi M.N.Roy e Mao Zedong – hanno tutti un ruolo nelle vicende narrate, ma non sono necessariamente i protagonisti, anche se quasi tutti avrebbero finito col convergere verso una nuova Mecca, la Mosca dei primi anni Venti, per poi diffondere in Asia il verbo di un mondo che non sarebbe più stato lo stesso.

Confermando in tal modo come la Rivoluzione russa e la successiva fondazione dell’Internazionale Comunista all’interno del paese dei Soviet più che servire alla causa della liberazione del proletariato dell’Europa Occidentale, soprattutto dopo la fallita e disastrosa avanzata sulla Polonia del 1920 fermata alle porte di Varsavia, sia servita alla liberazione dell’Asia dal giogo imperiale e coloniale europeo.
Come afferma l’autore nella Premessa:

Ho scritto dalla prospettiva di attori diversi, molti dei quali oggi trascurati dalle storie nazionali, partendo da ciò che sapevano, vedevano o pensavano sarebbe stato possibile. Ricostruendo le loro vicende, ho cercato di non indulgere troppo nel giudizio postumo dello storico. Con il senno di poi, molti potrebbero sembrare degli sconfitti; invece, con i loro trionfi, i fallimenti e le avversità che hanno attraversato, hanno segnato a fondo il futuro dell’Asia.
Questo libro fornisce consapevolmente una visione eccentrica, nel senso più letterale del termine, della storia asiatica, traccia la geografia ribelle della rete clandestina dei rivoluzionari asiatici, descrivendone le traiettorie e illustrando come certi contesti abbiano contribuito alla nascita di nuove idee e strategie di lotta. Racconto di vite vissute negli interstizi degli imperi, di battaglie in cui lo Stato nazionale non era il fine ultimo e nemmeno l’ordine naturale del mondo futuro. Sebbene gran parte dei protagonisti del libro si trovassero su posizioni assai distanti, spesso in violento contrasto, in tutti era vivo l’impegno per una «nazione umana mondiale», secondo la definizione del giornalista, scrittore e militante indonesiano Mas Marco Kartodikromo. Questi intellettuali sottolineavano con particolare enfasi di vivere in un’epoca di transizione, in un tempo e in uno spazio tra l’impero e la nazione. O forse, per essere più precisi, accanto all’impero e alla nazione. Mas Marco Kartodikromo e i suoi contemporanei celebravano un «mondo in movimento» e un «mondo sottosopra». Parole che rimandavano a un’idea di Asia – e del mondo nel suo complesso – più aperta di quanto non fosse mai stata e forse non sarebbe stata mai più 3.

In un contesto in cui rivoluzione anticoloniale e rivoluzione proletaria si svilupparono inizialmente in un breve tempo, anteriore allo sviluppo di qualsiasi successivo dogmatismo, in cui si concretizzò in “un’onda inarrestabile di consapevolezza collettiva” volta a liberarsi dalla violenza, dai soprusi e dallo sfruttamento coloniale più implacabile. Un contesto, però, che ci rivela anche come tali istanze rivoluzionarie fossero ben distanti dalle successive affermazioni nazionalistiche espresse a rivoluzioni avvenute e, altrettanto, dalla attuale conflittualità antioccidentale espressa dai BRICS, sia ristretti che allargati.

Terroristi, ammutinati, femministe con i capelli a caschetto, doppiogiochisti, tipografi clandestini, facinorosi che s’imbarcarono come marinai: tra fonti d’archivio, stampa dell’epoca e documenti privati, Tim Harper ripercorre, in un affresco affascinante e magistrale, le traiettorie avventurose degli uomini e delle donne che, attraverso l’intero continente ma anche attraverso i mari e gli oceani, posero le basi del mondo di oggi. Le cui radici affondano forse più in quelle aree e in quelle rivolte che non in Occidente e nelle sue sempre parziali rivoluzioni.

E’ un racconto epico quello che attende il lettore in queste pagine, attraversato da decine di vicende individuali e collettive che sarebbe qui troppo lungo riassumere, ma di cui vale la pena di raccontare almeno alcuni episodi. Come quella di Pham Hon Thai, il giovane rivoluzionario vietnamita che nel giugno del 1924 aveva attentato alla vita di Martial Merlin, governatore generale dell’Indocina francese recatosi in visita all’isola di Shamian, una delle più antiche enclave coloniali in terra cinese, posizionata di fronte a Canton, la più grande città autonoma del continente.

Città già attraversata da contraddizioni estreme di carattere nazionale, sindacale, militare, politico e sociale, che nel 1923 divenne sede del neonato governo nazionalista di Sun Yat-sen, che controllava tutte le sei province meridionali, mentre il resto della Cina era ancora suddiviso fra cricche militari capeggiate dai cosiddetti «signori della guerra», in continua lotta tra loro per succedere agli ultimi eredi della dinastia Qing.

Nei primi mesi del 1924 venne presa la fondamentale decisione di creare una base militare indipendente del governo nazionalista e di fondare l’accademia militare di Whampoa, a una ventina di chilometri da Canton. Una delle sue principali funzioni sarebbe stata la formazione politica, tanto che i giovani radicali cinesi, coreani e del Sudest asiatico sgomitavano per essere ammessi. Canton, ora il centro ideale della nuova nazione, era un luogo di intense sperimentazioni sociali in nome dell’unità e del progresso, ed esportava nuove idee e pratiche: un faro per l’Asia libera4.

Mentre l’isola di Shamian, era posta al di là di un canale largo appena trenta metri e unita alla terra ferma da due ponti sigillati all’ingresso da filo spinato e sorvegliati rispettivamente da soldati sikh e vietnamiti.

In quell’avamposto dell’Occidente, costruito su un banco di sabbia artificiale di circa ventidue ettari nel cuore della città cinese, risiedevano cinquecento cittadini britannici, un centinaio di francesi e una manciata di tedeschi, americani e giapponesi. In seguito all’intervento anglo-francese in Cina del 1860, il porto di Canton, soggetto ai trattati di pace, era stato suddiviso in due concessioni extraterritoriali: una, che occupava i quattro quinti dell’isola, era amministrata dagli inglesi; l’altra, dai francesi. […] I piroscafi e le cannoniere europee ormeggiati al Bund – la banchina nella zona meridionale di Shamian – navigavano lungo il fiume delle Perle, una delle vie d’acqua interne più trafficate del mondo, affollata di sampan cinesi, giunche, enormi battelli a ruota a propulsione umana, case sull’acqua e flower boats, i leggendari bordelli galleggianti. A nord e a est, i due ponti collegavano Shamian alla vecchia periferia occidentale di Canton, con il suo labirinto di mercati e botteghe, abitata da oltre un milione di cinesi. Per questi ultimi l’isola era un luogo «quasi proibito»: per accedervi era necessario il permesso del consiglio cittadino di Shamian, che ne limitava comunque l’ingresso a zone ben precise, mai dopo mezzanotte, e beninteso con il divieto di calpestare i prati. [Motivo per cui] All’epoca Shamian era al centro di forti tensioni patriottiche ed era sostanzialmente sotto assedio. Come scrisse un giornalista locale: «Chiunque, a parte i collaborazionisti cinesi, mettendo piede su quest’isola segnata dal marchio dell’infamia sentirebbe il cuore accendersi di rabbia e disprezzo»5.

Ma fu proprio in quel contesto, ultra-sorvegliato e protetto, che il giovane Pham Hon Thai osò applicare il metodo indicato dall’anonimo libello indiano del 1913 citato in apertura di questa recensione.

Il 19 giugno 1924 sua eccellenza Martial Merlin, governatore generale dell’Indocina francese, fece il suo ingresso in quella polveriera. Arrivò in serata da Hong Kong, dove aveva fatto tappa rientrando da una visita in Giappone e nel Nord della Cina, in tempo per partecipare a una cena nella concessione britannica di Shamian. Merlin apparteneva alla prima generazione di funzionari civili coloniali e aveva raggiunto l’attuale posizione dopo un turbolento periodo di servizio nei nuovi possedimenti francesi in Africa. Se all’inizio della carriera aveva sostenuto la politica di «associazione» con le élite native, i cosiddetti évolués, nel corso dell’ultimo incarico in Senegal aveva adottato la posizione opposta: gli évolués, ammoniva, erano déracinés («sradicati») ed era compito della Francia ripristinare la coesione sociale di fronte agli «appelli individualistici e alle promesse fallaci degli agitatori di professione». […] La cena, per una cinquantina di invitati, si tenne nel salone principale, con le grandi finestre aperte sulla strada. In occasione della visita, il governo di Canton aveva disposto un rigido sistema di sicurezza su entrambe le rive del canale. I due ponti di pietra che collegavano l’isola alla città erano chiusi e presidiati. Agenti di polizia, seppure non armati, pattugliavano le strade. Gli ospiti si sedettero a tavola alle 20:30; dieci minuti dopo, mentre veniva servita la minestra, un uomo «molto ben vestito» si affacciò a uno dei finestroni. Secondo un testimone oculare, si mise a osservare la tavolata «come farebbe chiunque, gentiluomo o coolie». Poi, tutto a un tratto, lanciò all’interno una ventiquattrore che finì dritta sul tavolo, mandando in frantumi piatti e bicchieri. Dopo qualche secondo la valigetta esplose. Il boato rimbombò per tutta l’isola6.

L’esplosione fece diversi morti e numerosi feriti tra i commensali, anche se non raggiunse l’obiettivo principale, ma con il suo fragore esplose nella via illuminando l’aria, proprio come la «bomba proletaria» cantata da Francesco Guccini quasi cinquant’anni dopo7. Innescando una serie di eventi che, nonostante la morte del giovane attentatore, inseguito e ferito dagli agenti e successivamente morto suicida, avrebbero scosso il continente dalla Cina all’Indocina francese.

Ma era stato già prima, al momento del coinvolgimento delle truppe coloniali nel primo conflitto mondiale, che l’antagonismo tra colonizzati e colonizzatori si era acuito. Come in quel lunedì 15 febbraio 1915, festa del Capodanno cinese, quando il 5º Fanteria Leggera indiano si ammutinò alla caserma Alexandra di Singapore. Il reggimento, composto interamente da truppe musulmane, era il pilastro della guarnigione dell’isola. Intorno alle 15:00 erano stati sparati dei colpi, quando i soldati avevano tagliato le linee telefoniche militari. Gli ufficiali britannici del reggimento erano fuori servizio, riposavano a casa o sulla spiaggia, e la notizia della rivolta tardò a diffondersi. Nessuno, a quanto pare, pensò di dirlo alla polizia. Così un gruppo di ribelli si diresse verso la Chinatown di Singapore, uccidendo i britannici incontrati lungo la strada. Altri si diressero verso una batteria vicina, presidiata da Sikh reclutati localmente dalle Guide degli Stati Malesi: uccisero l’ufficiale britannico e lanciarono le armi contro le Guide, ma la maggior parte di loro fuggì nella giungla vicina. La più numerosa e risoluta banda di ribelli si diresse a ovest verso il campo di Tanglin, dove erano detenuti 307 internati e prigionieri di guerra tedeschi, e offrì loro armi e libertà. Ma le gerarchie coloniali tennero: nelle parole riportate da un tenente di marina, “un ufficiale tedesco non combatte senza la sua uniforme o nelle file degli ammutinati”. Alcuni militari e alcuni uomini d’affari, tuttavia, colsero l’occasione per fuggire. Nei confusi combattimenti in tutta l’isola, 47 soldati e civili furono uccisi: cinque cinesi e malesi morirono, ma la maggior parte erano britannici, presi di mira sui campi da golf, in auto e in carrozze. Le loro donne e i loro bambini si ritirarono – “come le immagini cinematografiche dei profughi belgi” – sui piroscafi nel porto, provocando una brutta rissa razziale quando le donne eurasiatiche e altre donne asiatiche tentarono di unirsi a loro. Gli inglesi persero il controllo della loro fortezza sull’isola per due giorni e la fragilità di fondo della società coloniale fu messa a nudo8.

Ma non solo, poiché ancora una volta la rivolta contro la guerra e l’occupazione coloniale era partita proprio da coloro che avrebbero dovuto ubbidire agli ufficiali. Anticipazione non soltanto delle successive rivoluzioni asiatiche, ma anche delle insurrezioni nelle trincee europee del 1916 e 1917 che portarono in Russia alla Rivoluzione di Febbraio prima e a quell di Ottobre poi. E successivamente alla capitolazione tedesca dopo l’insurrezione dei soldati, dei marinai e degli operai nel 1918. Chiudendo idealmente un cerchio che ancora oggi ha qualcosa di importante da ricordarci e suggerirci. Come lo splendido testo di Harper riesce ancora a fare con qualsiasi lettore appassionato di rivoluzione e di avventura.


  1. Si vedano in proposito: P. I. Galli Mastrodonato, Emilio Salgari. The Tiger Is Still Alive!, Fairleigh Dickinson University Press copublished by The Rowman & Littlefield Publishing Group, Lanham (Maryland- USA) – London (UK) 2024 e S. Moiso, Il Magister e il Capitano. Sogno e immaginario guerrigliero in S. Moiso, A. Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis edizioni, Milano-Udine 2023, pp. 119-138.  

  2. Per cogliere tutta la riflessione sul tema da parte di Emilio Quadrelli, si vedano: E. Quadrelli, György Lukács, un’eresia ortodossa, in corso di pubblicazione su «Carmillaonline» e, ancora, L’altro bolscevismo. Lenin, l’uomo di Kamo, DeriveApprodi, Bologna 2024 e, infine, sempre dello stesso, Cronache marsigliesi capitoli 7 e 8: la guerra civile in Francia, «Carmilaonline», 6 e 13 luglio 2023.  

  3. T. Harper, Asia ribelle. Assalto agli imperi e rivoluzione globale, add editore, Torino 2024, pp. 21-22.  

  4. T. Harper. op. cit., p. 29.  

  5. Ibidem, pp. 27-28.  

  6. Ivi, pp. 30-31.  

  7. F. Guccini, La locomotiva, nell’album Radici del 1972.  

  8. Si veda in proposito proprio il capitolo 7, Navi fantasma (1915) in T. Harper, op. cit.  

]]>
E allora Hamas? La violenza degli oppressi e i dilemmi della sinistra occidentale https://www.carmillaonline.com/2024/08/02/e-allora-hamas-la-violenza-degli-oppressi-e-i-dilemmi-della-sinistra-occidentale/ Fri, 02 Aug 2024 04:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83501 di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza [...]]]> di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria. Credo che questo sia un buon punto di partenza per chi vuole esprimere la doverosa e piena solidarietà con la lotta del popolo palestinese mantenendo allo stesso tempo uno sguardo lucido sulle posizioni in campo.
Queste considerazioni sulla violenza si possono trovare nel pamphlet Gaza davanti alla storia di Enzo Traverso, sebbene non appartengano direttamente all’autore che le riprende da Jean Améry, un sopravvissuto ai campi di sterminio della Seconda guerra mondiale. Si tratta di riflessioni che partono proprio dalla condizione dei prigionieri nei lager nazisti. Se qualcuno si scandalizzasse per il paragone tra i palestinesi perseguitati dal colonialismo sionista e gli ebrei vittime del genocidio hitleriano si deve notare che è lo stesso Améry che, riflettendo sugli scritti di Fanon, accosta “l’oppresso, il colonizzato, il detenuto del campo di concentramento, forse anche lo schiavo salariato sudamericano” nelle sue considerazioni sulla violenza.1

Il rovesciamento tra la vittima di ieri e il carnefice di oggi non è l’unica inversione di cui prende atto Traverso riflettendo sulla tragedia di Gaza. Definire i palestinesi come “animali umani” (come ha fatto ultimamente il ministro della difesa israeliano Gallant) o “scarafaggi drogati dentro una bottiglia” (come fece nel 1983 dal capo di stato maggiore dell’esercito Eitan) rimanda immediatamente a stereotipi antisemiti importati in Medio Oriente. Questi “animali umani” che sgusciano fuori dai tunnel per colpire un esercito di occupazione, inoltre, non possono che evocare la tragica lotta degli ebrei nel ghetto di Varsavia nel 1943. La parte più estremista dell’attuale governo di Netanyahu, in aggiunta, apprezza esplicitamente la formula di “spazio vitale” israeliano applicata all’intera Palestina storica. Un apprezzamento che dimentica come questo concetto nasce per opera dei pangermanisti che consideravano le frontiere stabilite dal diritto internazionale come pure astrazioni, rivelatrici di un pensiero disincarnato di marca ebraica. Infine, sono proprio gli antisemiti dichiarati di ieri ad essere i più pronti a denunciare il presunto razzismo antiebraico di chi si oppone al sionismo (salvo continuare a coltivare in segreto i loro vecchi e osceni sentimenti, come ha mostrato l’inchiesta di Fanpage).
Va bene, si dirà, queste sono sottigliezze intellettuali, mentre l’azione di Hamas è stata cosa ben più concreta. Si sarebbe trattato di un’azione terroristica, di più, di un pogrom, figlio di una concezione fondamentalista e, al fondo, antisemita dell’organizzazione palestinese. Di fronte a queste accuse, bisogna osservare che l’attacco di Hamas non può essere definito un pogrom, se le parole devono avere un significato determinato. Perché Hamas non è al potere in uno stato in cui gli ebrei sono una minoranza oppressa, come nella Russia zarista. È evidente che l’utilizzo del termine pogrom serve solo a marchiare l’organizzazione islamica con lo stigma dell’antisemitismo.
Ma si può parlare di terrorismo? Traverso sostiene di sì perché l’attacco di Hamas aveva l’esplicito intento di rovesciare sulla popolazione israeliana il terrore vissuto per decenni dai palestinesi. Per questo motivo non esita a condannare questa azione. Lo ripete più volte. L’oppressione subita non giustifica l’eccidio di civili innocenti così come “la profonda paura esistenziale” degli ebrei, che nasce dalla lunga storia dell’antisemitismo culminata nella Shoah, non rende Israele ontologicamente innocente. 

Eppure, non si può assolutamente parlare di ragioni opposte ed equivalenti. È vero che quelle dei palestinesi e degli israeliani, come sostiene Edward Said citato da Traverso, sono memorie incrociate che si ignorano e si negano a vicenda: la prima è incentrata su una vicenda storica fatta di espropriazione, sradicamento, espulsione dalla propria terra, occupazione e privazione dei propri diritti; la seconda sulla conquista dell’indipendenza, sulla riappropriazione di una terra cui si avrebbe diritto per decreto biblico e sul riscatto da parte di un popolo di vittime. Ma da queste memorie opposte nascono azioni che, ripetiamolo insieme allo storico italiano, non possono essere considerate equivalenti: l’esistenza di un esercito di occupazione è in sé condannabile, mentre le azioni della resistenza sono di per sé legittime, anche quando sono violente, salvo poter essere criticate per gli specifici mezzi che di volta in volta sono utilizzati.
Il fatto è che la questione della violenza degli oppressi e degli sfruttati è oramai diventata un tabù e fa bene Traverso a richiamarla in tutta la sua crudezza.

Decenni di politiche memoriali focalizzate quasi esclusivamente sulla sofferenza delle vittime, tese a presentare la causa degli oppressi come trionfo dell’innocenza, hanno eclissato una realtà che appariva ovvia in altri tempi. Gli oppressi si ribellano ricorrendo alla violenza e la loro violenza non è bella né idilliaca, talvolta è anzi raccapricciante.2

È falso pensare che i movimenti di liberazione e il terrorismo siano due fenomeni privi di relazioni. Per quanto deplorevole, sostiene Traverso, l’uccisione di civili è sempre stata l’arma dei deboli nelle guerre asimmetriche: questo è stato vero per il Fronte di liberazione nazionale in Algeria, per i vietcong in Vietnam, per l’African National Congress di Mandela in Sud Africa, per l’OLP di Arafat prima degli accordi di Oslo e anche per l’organizzazione ebraica Irgun prima della nascita di Israele.
Marco Revelli, recensendo il testo di Traverso, ha negato l’analogia tra questi esempi storici e l’attacco di Hamas perché in quest’ultimo ci sarebbe qualcosa che va oltre il massacro di civili innocenti: c’è la ricerca consapevole della rappresaglia indiscriminata di Israele contro la stessa gente di Gaza, la deliberata provocazione del martirio di massa come strumento di propaganda e di proselitismo.3 La questione è certamente importante, ma nel testo di Traverso si risponde in anticipo a questa obiezione. L’autore di Gaza davanti alla storia cita infatti Giorgio Bocca il quale, affrontando il tema del terrorismo della lotta partigiana in Italia contro i nazi-fascisti, parla di “un atto di moralità rivoluzionaria” finalizzato a provocare e inasprire il terrorismo dell’occupante. Si tratta, sostiene ancora Bocca, di “autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E una pedagogia impietosa una lezione feroce”.4 

Insomma, è necessario abbandonare le ingenue illusioni in cui la sinistra occidentale si culla troppo facilmente:

La linea di demarcazione tra il terrorista e il combattente non è sempre chiara; le due figure si sovrappongono. L’immagine sublime del combattente come eroe immacolato è un mito; quella stereotipata del terrorista come bruto, fanatico, esaltato e crudele, inebriato dalla hybris della morte e del sangue, è altrettanto falsa.5

L’immagine di Hamas come un esercito di belve assetate di sangue contrapposto alla visione dello stato di Israele come un’isola democratica in mezzo all’oceano oscurantista del mondo arabo fa parte di un arsenale ideologico che attinge a piene mani all’orientalismo di cui ci parla Edward Said, sempre citato da Traverso. I suoi assiomi, storicamente essenziali per l’autodefinizione dell’Occidente in contrapposizione all’Oriente, sono rimasti i medesimi: civiltà contro barbarie, progresso contro arretratezza, illuminismo contro oscurantismo. La cosa singolare è che gli ebrei per secoli hanno rappresentato l’Oriente interno nel mondo Europeo. Con la fondazione dello stato di Israele hanno invece attraversato la “linea del colore”: sono diventati bianchi (compresi gli israeliani di provenienza non occidentale, di cui è stato di fatto cancellata la storia) in contrapposizione al mondo musulmano che, a seguito delle dinamiche migratorie, è diventato il nemico interno (oltre che esterno) per eccellenza, oggetto di razzismo sistemico. L’immaginaria dicotomia ontologica istituita dall’orientalismo, aggiunge però Traverso, oggi muta di segno: se nel XIX secolo l’Occidente pretendeva di diffondere la civiltà attraverso le sue conquiste, oggi si sente una fortezza assediata. E per questo diventa più feroce, fino al punto di non farsi scrupolo di perpetrare un genocidio trasmesso in diretta attraverso la TV e i social. 

L’utilizzo del concetto di genocidio è fonte di infinite polemiche, anche nella sinistra radicale. Traverso, sulla base della definizione della Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948 e della sentenze della Corte internazionale di giustizia dello scorso gennaio, sostiene che è pienamente legittimo. Personalmente ritengo questo dibattito un po’ stucchevole, a maggior ragione dopo le ultime catastrofiche previsioni della rivista The Lancet (che ovviamente non possono essere prese in considerazione da Traverso): tenendo conto dei morti accertati fino all’inizio di luglio 2024 e delle immani e deliberate distruzioni di tutte le infrastrutture civili di Gaza, si può stimare, prudenzialmente, che ci saranno fino a 186.000 decessi dovuti direttamente e indirettamente alla guerra, pari al 7,9% della popolazione della Striscia.
Per evitare inutili polemiche si può aggiungere che 
lo sterminio dei palestinesi non è un obiettivo in sé per Israele perché il fine ultimo dello Stato ebraico è la pulizia etnica della Palestina storica. C’è dunque una differenza significativo rispetto a quanto avvenne agli ebrei sotto la Germania nazista. Ma, è questo il punto messo in evidenza da Traverso, occorre superare un immaginario popolare per il quale un genocidio “deve assomigliare all’Olocausto per meritare questo titolo”. Diversi possono essere i mezzi (proiettili, camere a gas, machete, carestie provocate o non contrastate, bombardamenti sistematici pianificati dall’intelligenza artificiale) e gli obiettivi (sterminio con motivazioni razziali, conquista e sottomissione, sostituzione di una popolazione autoctona). Nel caso specifico, non essendoci le condizioni concrete per un esodo di massa forzato della popolazione, sia per la resistenza palestinese sia per l’ovvia indisponibilità degli stati limitrofi, la pulizia etnica, se perseguita fino in fondo, tende inesorabilmente a trasformarsi in un genocidio.

Seppur ammettiamo la possibilità di un esito estremo delle azioni belliche di Israele, non dobbiamo comunque riconoscere che il massacro di Gaza è una guerra riparatrice di fronte all’improvvisa apparizione del male, alla fulminea esplosione di odio rappresentata dall’attacco del 7 ottobre? Insomma, per quanto terribile sia la risposta dello stato ebraico non siamo di fronte a una colpa che si configura al massimo come eccesso di difesa? La cattiva coscienza dell’Occidente qui si esprime qui alla massima potenza. Il 7 ottobre, qualsiasi cosa si pensi della legittimità dei mezzi utilizzati da Hamas,  è “una tragedia metodicamente preparata da chi vorrebbe oggi indossare i panni della vittima”6 ci dice Traverso snocciolando i dati di una triste contabilità che non può lasciare adito a dubbi: tra il 2008 e il 6 ottobre 2023 l’esercito israeliano ha ucciso più di 6.300 palestinesi, di cui oltre 5.000 a Gaza, ferendone 158.440, mentre le vittime israeliane delle azioni di Hamas e altri gruppi palestinesi sono state 310 e i feriti 6.460; nel solo 2023, fino al 6 ottobre, Tsahal aveva ucciso aveva ucciso 248 palestinesi nei territori occupati e ne aveva arrestati 5.200.
E non è tutto. Ci sono altri numeri che smascherano l’ipocrisia di chi oggi, dopo anni di oblio, torna a parlare della soluzione a due stati per il cosiddetto conflitto israelo-palestinese: “Dopo l’annessione di Gerusalemme, in cui sono stati trasferiti almeno 200.000 coloni, l’insediamento di altri 500.000 in Cisgiordania e la distruzione di Gaza, l’ipotesi di due stati è diventata oggettivamente impossibile”.7 Questi dati testimoniano in modo incontrovertibile che Israele ha sistematicamente boicottato gli accordi di Oslo che avrebbero dovuto portare alla creazione dello stato palestinese con l’obiettivo di affossare per sempre le rivendicazioni dei palestinesi. 

Ma quali sono queste rivendicazioni? From the river to the sea Palestine will be free recita uno dei più famosi slogan che i media mainstream si ostinano a considerare antisemita perché alluderebbe a una cacciata degli ebrei dal loro stato. E se il suo significato fosse completamente diverso? Se esso ci prospettasse l’idea di un unico stato laico e binazionale, in grado di garantire a tutti i cittadini ebrei e palestinesi uguali diritti, come sosteneva vent’anni fa Edward Said? Un’idea che certamente non era il solo a sostenere. 

Il progetto di uno stato federale binazionale è stato a lungo quello dell’OLP e di una corrente della sinistra israeliana antisionista, il Matspen. Prima della nascita di Israele, esso era al centro di un movimento allora conosciuto come ‘sionismo culturale’.8

Oggi questa prospettiva appare quanto mai lontana. Eppure, sostiene Traverso, rimane più credibile della ipotesi, strumentalmente resuscitata dai paesi occidentali, dei due stati che, a parte il suo esplicito rifiuto da parte di una recente risoluzione del parlamento israeliano, richiederebbe una pulizia etnica incrociata dei rispettivi territori. “La storia è fatta di pregiudizi che vengono abbandonati e che a posteriori appaiono come stupidi anacronismi. A volte le tragedie servono ad aprire nuovi orizzonti”9, commenta Traverso facendo appello a una buona dose di ottimismo della volontà. 

Avviandoci alle conclusioni, bisogna ammettere senza ipocrisie che in mancanza dell’attacco del 7 ottobre il progetto di cancellare la questione palestinese dall’agenda internazionale attraverso la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi sarebbe andato avanti senza particolari ostacoli. Una circostanza che impedisce di sottovalutare il ruolo di Hamas, nonostante tutte le riserve che si possono avere nei confronti dell’organizzazione islamica.

Il massacro del 7 ottobre va condannato e l’ideologia fondamentalista dei suoi esecutori può certamente essere criticata, ma negare l’appartenenza di Hamas alla resistenza palestinese invocando la sua natura terroristica non è serio ne utile.10

In sede di commento, bisogna notare che Hamas non è solo parte della resistenza. Come afferma perentoriamente Jodi Dean in un articolo che le è costato il sollevamento dai suoi compiti di insegnamento nei democratici Stati Uniti:La lotta per la liberazione palestinese oggi è guidata dal Movimento di Resistenza Islamico — Hamas. Hamas è sostenuto dall’intera sinistra palestinese organizzata”.11 In realtà, per quanto se ne possa capire dall’esterno, la situazione della sinistra sembra più articolata. Quel che si può dire con ragionevole certezza e che, nell’ambito delle formazioni progressiste palestinesi, esiste una parte che “si schiera con le forze islamiche sul piano della resistenza condivisa all’anticolonialismo, ma prende le distanze sul piano dell’agenda sociale, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP)”.12 Si tratta di una posizione che appare basata sulla convinzione che per competere con gli islamisti occorre farlo nella resistenza. Non chiamandosene fuori. E dunque insieme ad Hamas che oggi è l’organizzazione militarmente e politicamente più forte. Un ragionamento che potrebbe far pensare ai comunisti iraniani che nel 1979 parteciparono attivamente alla rivoluzione in Persia per poi essere massacrati dalle forze di Khomeini. Un precedente storico che non è destinato per necessità a ripetersi, ma che rappresenta un monito da tenere in dovuta considerazione.

Queste riflessioni sono veramente troppo parziali per ambire a chiudere il discorso. Vogliono piuttosto mettere in luce quali sono i problemi che abbiamo di fronte. E forse, da un punto di vista concettuale, il problema più grosso oggi è rappresentato dal fatto che la crisi dell’egemonia occidentale ci costringe a rivedere molte delle nostre posizioni. Il socialismo, la laicità, l’universalismo umanista ecc. entravano nelle lotte dei popoli colonizzati al seguito delle merci e ai capitali che invadevano le loro terre. Sembra che oramai l’Occidente abbia molto di meno da offrire sia sul piano delle idee che su quello materiale. Franz Fanon, in una fase storica molto diversa da quella attuale, ammoniva i popoli in lotta contro il colonialismo che il nazionalismo “se non si trasforma molto rapidamente in coscienza politica e sociale, in umanesimo, porta a un vicolo cieco”.13 Possiamo ancora considerare attuale questo avvertimento? Di certo, se esso deve valere ancora oggi, abbiamo bisogno di un umanesimo e di una coscienza politico-sociale ben più articolate di quanto abbiamo pensato in passato, capaci di accogliere la complessità di un mondo che oramai presenta differenti e divergenti configurazioni spazio-temporali dello sviluppo capitalistico.  Anche se questa complessità più che una forma di multipolarismo oggi produce una sorta di caos sistemico foriero di foschi scenari bellici.
E tutto quanto detto vale a maggior ragione in Palestina se vogliamo arrivare a una qualche soluzione che eviti esiti terrificanti come pulizia etnica e genocidio. La resistenza armata dei palestinesi è un passaggio ineludibile in questo processo. Ma non bisogna mai dimenticare che uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria.  


  1. Cfr. Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 64-65. 

  2. Ivi, p. 65. 

  3. Marco Revelli, Traverso, Gaza davanti alla storia,
    https://www.doppiozero.com/traverso-gaza-davanti-alla-storia. 

  4. Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, 1966, p. 135. 

  5. E. Traverso, Gaza davanti alla storia, cit. p. 70. 

  6. Ivi, p. 13. 

  7. Ivi. p. 82-83. 

  8. Ivi, p. 88-89. 

  9. Ivi, p. 88. 

  10. Ivi, p. 72. 

  11. Jodi Dean, Palestine speaks for everyone,
    https://www.versobooks.com/blogs/news/palestine-speaks-for-everyone.  

  12. Abdaljawad Omar, La questione di Hamas e la sinistra
    https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/28323-algamica-la-questione-palestinese-oggi-e-la-crisi-della-sinistra-occidentale.html

  13. Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007. p.137. 

]]>
Le chimere del frontismo e dell’antifascismo elettoralistico: il cadavere ancora cammina https://www.carmillaonline.com/2024/07/10/le-chimere-del-frontismo-e-dellantifascismo-elettoralistico-ovvero-il-cadavere-ancora-cammina/ Wed, 10 Jul 2024 19:15:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83389 di Sandro Moiso

“Il risultato peggiore, per le sorti della classe proletaria, è l’entrata nel tronfio affasciamento antifascista della parte proletaria che aveva finalmente imboccata la via originale ed autonoma” (Amadeo Bordiga)

Nel corso degli anni Novanta, quando chi scrive faceva ancora parte di una ristretta compagine militante dal chiaro riferimento bordighista, che in seguito avrebbe dato vita alla rivista «n+1», un circolo politico di estrema destra scrisse al medesimo gruppo chiedendo un contatto per una eventuale collaborazione, una volta considerate le possibili affinità di vedute.

La risposta del militante più anziano, allora alla guida dello stesso, fu ferma [...]]]> di Sandro Moiso

“Il risultato peggiore, per le sorti della classe proletaria, è l’entrata nel tronfio affasciamento antifascista della parte proletaria che aveva finalmente imboccata la via originale ed autonoma” (Amadeo Bordiga)

Nel corso degli anni Novanta, quando chi scrive faceva ancora parte di una ristretta compagine militante dal chiaro riferimento bordighista, che in seguito avrebbe dato vita alla rivista «n+1», un circolo politico di estrema destra scrisse al medesimo gruppo chiedendo un contatto per una eventuale collaborazione, una volta considerate le possibili affinità di vedute.

La risposta del militante più anziano, allora alla guida dello stesso, fu ferma e decisa, perché: «tra comunisti e fascisti non possono esistere punti in comune e soltanto le condizioni storiche ci impediscono di rapportarci con questi nell’unico modo possibile. Ovvero a colpi di fucile.»

Molta acqua è passata sotto i ponti da quel tempo ad oggi ma, nonostante il fatto che le divergenze di vedute su molti aspetti dell’agire politico abbiano poi portato il sottoscritto a lasciare l’esperienza bordighista, quelle poche parole sono rimaste scolpite nella memoria di chi scrive come chiaro insegnamento. Perché ponevano alcuni ordini di problemi che oggi gran parte della sinistra presunta radicale sembra per molti aspetti ancora ignorare.

Il primo, naturalmente è quello costituito dal semplice fatto che tra l’interpretazione comunista e rivoluzionaria della realtà e delle sue contraddizioni economiche, sociali e politiche, e quella fascista e reazionaria delle stesse non può esistere alcunché di comune, al contrario di quanto recentemente sostenuto da formazioni che, pur rivendicando la vicinanza del proprio agire politico all’esperienza della sinistra antagonista, hanno invece fatto proprie le posizioni nazionaliste e populiste tipiche del fascismo.

Il secondo, altrettanto importante, è che la reazione fascista intesa come espressione del dominio di classe in periodi di difficoltà del modo di produzione capitalistico non si può combattere sul piano delle idee o delle convulsioni parlamentari ed elettoralistiche, ma soltanto con una strenua battaglia condotta nelle piazze, strada per strada e in ogni altro spazio politico-sociale che si voglia contendere all’avversario. Quest’ultimo sempre inteso, però, non come erronea deformazione del capitalismo democratico e liberale, ma come sua intima, ultima e definitiva moderna essenza.

Quest’ultima considerazione era già tutta compresa nella relazione sul Fascismo che Amadeo Bordiga aveva presentato, all’epoca dell’affermazione di Mussolini, durante il IV Congresso della Terza Internazionale nel 1922. Una riflessione che si poneva di traverso rispetto qualsiasi teorizzazione di fronte unico dall’alto o interclassista destinato a impedire la vittoria della “reazione fascista”, intesa come nemica non soltanto del proletariato e dei lavoratori ma anche delle stesse classi borghesi al potere e del sempiterno liberalismo.

Una posizione, quella della Sinistra Comunista e di Bordiga, criticata più volte ad opera di chi un Fronte antifascista avrebbe poi perseguito fino alla creazione del CLN e alla susseguente azione politica volta non a superare il fascismo insieme al modo di produzione di cui era stato il prodotto politico e il custode armato, ma soltanto a ristabilire l’ordine liberale e parlamentare precedentemente superato. Senza nulla mutare sul piano dei rapporti sociali di produzione e di proprietà dei mezzi per conseguire l’arricchimento privato a scapito del lavoro socialmente realizzato. Come avrebbe poi ancora affermato l’unico “comunista italiano” degno di questo nome:

Senza dare infatti importanza alcuna al pronostico o al compulsamento delle statistiche dei risultati, cui da oltre trent’anni contestiamo anche questa ultima affermata utilità di indice quantitativo delle forze sociali, e senza quindi tentare il freddo schizzo o ammirare la pallida fotografia in numeri dell’oggi [dimostreremo come] In diverse situazioni e sotto mille tempi, la storia ha convinto che migliore diversivo della rivoluzione che l’elettoralismo non può trovarsi.
[…] Se questo ancora una volta rammentiamo, è per stabilire lo stretto legame tra ogni affermazione di elettoralismo, parlamentarismo, democrazia, libertà, ed una sconfitta, un passo indietro del potenziale proletario di classe. La corsa all’indietro ebbe il suo compimento senza più veli quando […] in situazioni capovolte, il potere del capitale prese l’iniziativa di guerra civile contro gli organismi proletari. La situazione era capovolta in grande parte per il lavoro della borghesia liberale e dei socialisti democratici, della stessa destra annidata nelle file nostre, [che] dettero mano alla preparazione delle aperte forze fasciste, usando all’uopo magistratura, polizia, esercito (Bonomi) per contrattaccare ogni volta che le forze illegali comuniste (sole, e in pieno “patto di pacificazione” da quei partiti firmato) riportavano successi tattici (Empoli, Prato, Sarzana, Foiano, Bari, Ancona, Parma, Trieste, ecc.). Che in questi casi i fascisti, non avendolo potuto da soli, coll’aiuto delle forze dello Stato costituzionale e parlamentare massacrassero i lavoratori e i compagni nostri, bruciassero giornali e sedi rosse, non costituì il massimo scandalo: questo scoppiò quando se la presero col Parlamento ed uccisero, ormai post festum, il deputato Matteotti. Il ciclo era compiuto. Non più il Parlamento per la causa del proletariato, ma il proletariato per la causa del Parlamento. Si invocò e proclamò il fronte generale di tutti i partiti non fascisti al di sopra di diverse ideologie e diverse basi di classe, con l’unico obiettivo di unire tutte le forze per rovesciare il fascismo, far risorgere la democrazia, e riaprire il Parlamento. Più volte abbiamo riportato le tappe storiche: l’Aventino, cui la direzione del 1924 del nostro partito partecipò, ma da cui dovette ritirarsi per la volontà del partito stesso che solo per disciplina aveva subito le direttive prevalse a Mosca, ma ancora serbava intatto il suo prezioso orrore, nato da mille lotte, ad ogni alleanza interclassista; poi la lunga pausa e la ulteriore scivolata nella emigrazione, fino alla politica di liberazione nazionale e guerra partigiana, come più volte abbiamo spiegato che l’uso di mezzi armati ed insurrezionali nulla toglieva al carattere di opportunismo e tradimento di una tale politica. Non seguiremo qui tutta la narrazione. Fin da prima del fascismo italiano e dall’altra guerra ne avevamo abbastanza per sostenere che nell’Occidente di Europa mai il partito proletario doveva accedere a parallele azioni politiche con la borghesia “di sinistra” o popolare, della quale da allora si sono viste le più impensate edizioni: massoni anticlericali una volta, poi cattolici democristiani e frati da convento, repubblicani e monarchici, protezionisti e liberisti, centralisti e federalisti, e via. Di contro al nostro metodo che considera ogni moto “a destra” della borghesia, nel senso di buttare la maschera delle ostentate garanzie e concessioni, come una previsione verificata, una “vittoria teorica” (Marx, Engels) e quindi un’utile occasione rivoluzionaria, che un partito rettamente avviato deve accogliere non con lutto ma con gioia, sta il metodo opposto per cui ad ognuna di quelle svolte si smobilita il fronte di classe e si corre al salvataggio, come pregiudiziale tesoro, di quanto la borghesia ha smantellato e schifato: democrazia, libertà, costituzione, parlamento1.

Lasciando il tempo e lo spazio per riprendere ancora più avanti le osservazioni di Bordiga sulla farsa elettorale e la sue reale funzione controrivoluzionaria, occorre qui sottolineare come in Francia, nonostante l’imbecille esultanza sulla sconfitta elettorale di Marine Le Pen e del suo partito populista (si badi bene alla scelta dell’aggettivo), questo quadro si sia ripetuto per l’ennesima volta e all’ennesima potenza.

Tra l’inizio di giugno e la prima tornata delle elezioni legislative francesi il carrozzone autoritario, bellicista e centralizzatore, spacciato per liberal-democratico, europeista aveva subito, particolarmente in Francia e Germania, uno scossone senza precedenti con uno spostamento di voti che, pur rimanendo valide le osservazioni di Bordiga più sopra riportate, indicava una sorta di ribellione degli elettori, o almeno di ciò che rimane ancora attivo del corpo elettorale, contro le politiche della Banca centrale europea e dei suoi rappresentanti politici a livello istituzionale e nazionale.

In particolare in Francia, dove il traballante presidente della Repubblica, ha scelto la sera stessa della “sconfitta europea” di indire nuove lezioni legislative, creando ad arte la “paura” per un’ascesa del “fascismo” al governo della nazione. Scelta un tantino azzardata che ha visto alla fine della prima tornata elettorale una situazione in cui il partito del presidente ridursi al lumicino, con il Rassemblement National e gli alleati in testa con il 33,14% dei consensi; Nuovo Fronte Popolare con il 27,99%; il partito del presidente Ensemble con il 20,4% e i Repubblicani con 10,7% .

Mentre alle precedenti elezioni legislative i risultati elettorali avevano visto il partito della Le Pen raggiungere il 18,68% con 89 seggi; il partito di Macron il 25,75% al primo turno e il 38,57 al secondo, con 245 seggi; la sinistra della Nouvelle Union Populaire il 25,8% al primo turno e il 31,60 al secondo, con 131 seggi e i gollisti repubblicani (non ancora divisi dalla scelta elettorale dell’ex-leader Eric Ciotti) il 10, 42 con 61 seggi.

E’ stato dopo il risultato del primo turno che la sinistra e il suo (?) leader Jean-Luc Mélenchon hanno gettato del tutto la maschera di strumenti del mantenimento dell’ordine borghese il/liberale, dichiarando aprioristicamente un patto di desistenza per tutti quei collegi in cui il secondo turno avrebbe potuto vedere una possibile triangolazione elettorale tra rappresentati del RN, del Fronte popolare e del partito di Macron. Che, ricordiamolo sempre, è un sostenitore e promotore dello sforzo bellico europeo nel contesto del confronto militare sul fronte ucraino. Questione dirimente che, da sola, avrebbe dovuto essere sufficiente a promuovere il rifiuto di qualsiasi alleanza elettorale con lo stesso.

Cosa che, invece, ha aperto la strada ad un sostanziale salvataggio del partito del presidente che è uscito dal secondo turno con 168 seggi a fronte dei 182 seggi al Nuovo fronte popolare e dei 143 alla Le Pen. Che, comunque, esce tutt’altro che sconfitta dal confronto elettorale, considerato che «nel 2017 il Rassemblement National aveva solo 6 deputati nell’Assemblea nazionale. Nelle elezioni legislative del 2022 è balzato a 89 deputati. Il 7 luglio ne ha ottenuti 143, il che è il contrario di un fallimento […] Inoltre ha raccolto quasi 10 milioni di voti – nel 2022 ne aveva ottenuti solo 4,2 – contro i 7,4 milioni del Nouveau Front Populaire e i 6,5 milioni del centro macroniano»2.

Così la scelta “radicale” del Fronte Popolare invece di contribuire ad affossare definitivamente il guerrafondaio Macron, soddisfacendo la volontà di milioni di francesi che, da un lato o dall’altro della barricata3, si erano illusi di poter eliminare le sue politiche repressive, economiche e militari con il voto, ha finito col salvaguardarne il governo, considerato che al momento attuale, nonostante la prosopopea melenchoniana, il presidente ha per ora respinto le dimissioni del primo ministro Attal chiedendogli di rimanere ancora in carica in attesa degli sviluppi della situazione politica venutasi a creare con il voto. In cui nessuno ha raggiunto la maggioranza assoluta dei seggi e in cui i conteggi per le alleanze possibili per raggiungerla si rivelano difficili e contraddittori.

Almeno in apparenza, considerato che fin dai giorni successivi al primo turno una parte dell’elite macroniana si era dichiarata indisponibile a votare i candidati di sinistra ritenendoli, come ha affermato il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire alla radio France Inter: «un pericolo per la nazione», aggiungendo che, pur incoraggiando gli elettori a scegliere candidati di altri partiti di sinistra nei luoghi in cui un candidato centrista si è ritirato dalla corsa, non avrebbe “mai” invitato a votare Lfi (La France Insoumise).

Rivelando che, alla fin fine, la borghesia “liberale” preferirà sempre la Destra reale alla Sinistra “radicale”, anche se fittizia e niente affatto “Insoumise”. Di modo che al secondo turno lo schieramento rappresentato dal desistente Mélenchon ha perso il 2,44% degli elettori rispetto al primo turno, fermandosi a 7.005.527 di voti. Abbastanza rispetto ai 6.315.555 del blocco macroniano, poco guardando i 10.110.011 raccolti dai lepenisti. In un contesto in cui l’affluenza elettorale è aumentata rispetto alla prima tornata del 30 giugno.

Tutto sommato, come hanno confermato i voti, senza indebolire la destra lepenista che ha quasi raddoppiato i seggi rispetto al 2022 e che, in futuro, a fronte di proteste sociali e difficoltà economiche, potrebbe diventare la “miglior scelta” per la borghesia e l’imprenditoria francese. E che oggi non lo è ancora forse soltanto perché non abbastanza centralizzatrice e fascista, nell’intima essenza del termine che poco ha a che fare con il “semplice” razzismo4 o la negazione dei diritti di alcune categorie sociali (la cui repressione ha sempre funzionato benissimo anche solo per mezzo della Chiesa e dei partiti ad essa affiliati, anche quando si definiscono ”democratici”) e molto con la riorganizzazione e centralizzazione delle decisioni di carattere economico-industriale e finanziario e l’integrazione della classe lavoratrice nelle esigenze dello Stato e dell’imprenditoria.

Ora, per non tradire ulteriormente l’assunto bordighiano sulla scarsa significatività politica del voto e delle elezioni, dal punto di vista di classe, occorre ricordare, come ha fatto recentemente un bell’articolo comparso su Infoaut5, che dal punto di vista elettorale e politico esistono comunque, in Francia, due ben distinti punti di vista che continuano a segnare uno spartiacque, in termini di analisi e di percezione dei fenomeni, «tra chi pratica il terreno della lotta, attraverso forme di organizzazione proprie e specifiche all’interno dei quartieri popolari dove vive la maggior parte delle persone razzializzate e chi invece proviene dalla tradizione dei movimenti di lotta “della metropoli”, che pur avendo visto negli ultimi 10 anni una composizione di classe differenziata, sono per la maggior parte portati avanti da persone bianche». Per continuare, poi, sostenendo che:

Da questi ultimi, infatti, il sostegno al NFP viene interpretato nei termini di una necessità contingente che vede una forma di ricomposizione del politico su un piano di carattere emergenziale, legato a doppio filo ad una narrazione di segno quasi apocalittico che descrive la possibile (e probabile) vittoria dell’RN come l’avvento del fascismo tout court.
[…] La sensazione che emergeva da quel contesto era che, per la prima volta, gran parte dei movimenti di lotta metropolitani sentissero molto concreto il rischio connesso ad uno stato di guerra civile, ovvero di uno scontro sociale in seno alla società dispiegato in maniera quasi-permanente, e nel quale una delle due forze in campo esiste, ma non è sufficientemente organizzata, mentre l’altra, quella fascista, avrà dalla sua parte il governo e vedrà la polizia come suo principale alleato. Diciamo per la prima volta, perché ci sembra che il punto stia tutto qui: nella percezione inedita del rischio di venire “espulsi” dal quadro di un ordine politico di cui si può scegliere di fare parte, sebbene in maniera più o meno critica o totale – in quanto bianchi, in quanto cittadini francesi ed anche, in parte, in quanto militanti politici. Un rischio che si intravede verosimilmente all’orizzonte è dunque quello di non ricadere più sotto la “protezione” e la tutela di risorse ancora esigibili da una forma di diritto repubblicano, quello di non giocare più la partita su un terreno in qualche maniera conosciuto e regolamentato, ma di avere, improvvisamente, a che fare con il dispiegamento di una violenza che fa collassare l’ordinamento sociale sulla legge del più forte, e lo fa avvalendosi di tutte le tecniche di contro insorgenza che le forze armate sperimentano da secoli nelle colonie, nelle periferie – e, parzialmente, anche nei recenti scontri di piazza e sgomberi delle autonomie – e di tutti i principi di esclusione sociale propri di un ordinamento giuridico che si struttura su fondamenta patriarcali, razziste e classiste6.

Sottolineando così quella percezione di una possibile guerra civile dispiegata dallo Stato e dalle forze del dis/ordine di cui chi scrive va parlando su Carmilla e in altre sedi e testi da diverso tempo a questa parte7, ma che deve accompagnarsi anche al punto di vista di chi quella “guerra civile” già la vive da anni sulla propria pelle.

È inevitabile non constatare una differenza tra questa percezione del tutto giustificata che si ritrova nei milieux militanti francesi e quella di chi, invece, questa violenza la sperimenta da sempre sulla propria pelle all’interno dei quartieri popolari, proprio perché essa è la cifra dell’imposizione di un ordine sociale. L’ordine democratico – che al grado zero della biopolitica si fa garante anche solo della mera sopravvivenza di chi ne fa parte – non esiste per la maggior parte degli abitanti dei quartieri se non nella forma del nemico. […] Lo ricorda una madre dei comitati «Verità e Giustizia» (nati in Francia per volontà di chi ha avuto figli o parenti assassinati dalla polizia) che: «i quartieri popolari ed i loro abitanti razzializzati sono sotto attacco da anni».
Nel corso della marcia per Nahel, a Nanterre – organizzata proprio da uno di questi comitati al cui centro sta soprattutto la mamma, Mounia – una compagna dei quartieri afferma che: «Il fascismo, nei quartieri popolari, c’è già: negli omicidi della polizia, nell’ordine sociale razziale imposto con la violenza, nel modo in cui i fascisti marciano pubblicamente per Parigi minacciandoci di morte mentre in mezzo a loro si trovano apertamente dei poliziotti che sostengono e partecipano alle loro spedizioni punitive».
Questa testimonianza evidenzia bene la discrasia tra soggettività non razzializzate, che concepiscono il possibile avvento al governo dell’estrema destra nei termini di uno “choc”, di un cambiamento annunciato, ma che vede un’accelerata nel suo inveramento, e una componente che invece riconosce il fascismo quotidianamente, perché espressione militarizzata e ultraviolenta di un dominio imposto da un ordine repubblicano di cui essi non possono fare parte perché “neri, arabi, abitanti di banlieue”. Il fascismo si presenta nei quartieri popolari sotto forma di una costante invarianza, tesa ad imporre manu militari un ordine che include ed esclude sulla base della linea del colore, che su di essa determina i rapporti di classe e di dominio all’interno dello Stato, e che necessita di un altissimo grado di violenza per assicurare la propria riproduzione.
[…] Questa questione della guerra civile – che da parte popolare e del fronte antifascista viene ripresa comprensibilmente nei termini di una “guerra razziale” – è già qua nel momento in cui la polizia spara impunemente nei quartieri, nel momento in cui è stata organizzata addirittura una raccolta fondi per il poliziotto assassino di Nahel che ha raggiunto oltre un milione e mezzo di euro. In Francia, uccidere un ragazzino dei quartieri non solo è permesso e previsto dalla legge, ma un pezzo di paese è convintamente disposto a sostenere economicamente l’assassino: fare i sicari della repubblica all’interno dei quartieri popolari può diventare, come in ogni conflitto informale parastatale, un’attività lucrativa.
Nel corso della rivolta del 2023, la sollevazione nei quartieri popolari è stata enorme, in termini di numeri di giovani e giovanissimi coinvolti, di obiettivi attaccati, di radicalità. Per l’occasione, le istituzioni avevano dovuto accompagnare la risposta repressiva dispiegata alla rievocazione di discorsi imperniati su cliché etnico-razziali: la violenza “improvvisa e incontrollabile” che può essere ricondotta solo ad un certo tipo di identità, quella nera, araba e soprattutto musulmana – confessionalmente esteriore ai principi fondanti dell’ordine sociale repubblicano d’impronta europea e occidentale8.

Colonialismo interno e internazionale (si pensi soltanto alle diverse valutazioni date dal governo fracese e dagli altri governi europei sui crimini di guerra quando si tratti di fronte russo-ucraino oppure di Gaza e delle operazioni militari là condotte da Israele e dalle sue forze armate) che si sposano nella repressione interna di un proletariato razzializzato e per questo non ancora recepito come tale dalla sinistra istituzionale e parlamentarista che più che di una questione di classe pare farne troppo spesso una questione di diritti individuali o di carità cristiana.

Proletariato ghettizzato che rappresenta il vero pericolo per la borghesia benpensante e “illuminata” francese ed europea, che in questi giorni non ha brindato tanto al fatto che la l’estrema destra non abbia raggiunto “le più alte cariche dello Stato”, come aveva paventato Macron qualche giorno prima della second tornata elettorale, quanto piuttosto all’esser riuscita ancora una volta a racchiudere la rabbia dei quartieri periferici nel recinto elettoralistico, sempre e comunque destinato alla sconfitta e al mantenimento dell’ordine borghese. Mentre già a Sinistra, anche nella stessa France Insoumise, circolano le voci di un possibile appoggio della parte moderata ad un governo non facente capo al Nuovo Fronte Popolare9.

Una sconfitta in cui l’apparente “caos” post-elettorale potrebbe garantire la formazione di un governo tecnico, come già ventilato nei giorni scorsi, magari retto da Christine Lagarde o da altri rappresentanti della Banca Centrale europea, autentico centro del comando capitalistico e finanziario sulla società e l’economia del continente. Da un punto di vista non impregnato di banali e semplificatori ideologismi, l’autentica espressione del “fascismo europeo”.

Il ciclo si è dunque svolto così. Punto di partenza: leale alleanza fra tre schiere di egualmente fervidi amici della Libertà per annientare la Dittatura e la possibilità di ogni Dittatura. Uccisione della Dittatura Nera. Punto di arrivo: scelta fra tre vie ognuna delle quali conduce a una nuova Dittatura più feroce delle altre. L’elettore che vota non fa che scegliere tra Dittatura diverse. Due metodi fanno qui storicamente bancarotta, sotto tutti i punti di vista, ma soprattutto sotto quello della classe proletaria che a noi interessa. Il primo metodo è quello dell’impiego dei mezzi legali, della costituzione e del parlamentarismo con un vasto blocco politico al fine di evitare la Dittatura. Il secondo è quello di condurre la stessa crociata e formare lo stesso blocco sul terreno della lotta con le armi, quando la dittatura è in atto, al solo democratico fine. I problemi storici di oggi li scioglie non la legalità ma la forza. Non si vince la forza che con una maggiore forza. Non si distrugge la dittatura che con una più solida dittatura. È poco dire che questo sporco istituto del Parlamento non serve a noi. Esso non serve più a nessuno. […] L’inviato di un giornale londinese ha descritto una scena alla quale giura di aver assistito con i suoi occhi mortali, ben sano di mente e libero da fumi di droghe, in una valle del misterioso Tibet. Nella notte lunare il rito aduna, forse a migliaia, i monaci vestiti di bianco, che si muovono lenti, impassibili, rigidi, tra lunghe nenie, pause e reiterate preghiere. Quando formano un larghissimo cerchio si vede qualcosa al centro dello spiazzo: è il corpo di un loro confratello steso supino al suolo. Non è incantato o svenuto, è morto, non solo per la assoluta immobilità che la luce lunare rivela, ma perché il lezzo di carne decomposta, ad un volgere della direzione del vento, arriva alle nari dell’esterrefatto europeo. Dopo lungo girare e cantare, e dopo altre preghiere incomprensibili, uno dei sacerdoti lascia la cerchia e si avvicina alla salma. Mentre il canto continua incessante egli si piega sul morto, si stende su di lui aderendo a tutto il suo corpo, e pone la sua viva bocca su quella in disfacimento. La preghiera continua intensa e vibrante e il sacerdote solleva sotto le ascelle il cadavere, lentamente lo rialza e lo tiene davanti a sé in posizione verticale. Non cessa il rito e la nenia: i due corpi cominciano un lungo giro, come un lento passo di danza, e il vivo guarda il morto e lo fa camminare dirimpetto a sé. Lo spettatore straniero guarda con pupille sbarrate: è il grande esperimento di riviviscenza dell’occulta dottrina asiatica che si attua. I due camminano sempre nel cerchio degli oranti. Ad un tratto non vi è alcun dubbio: in una delle curve che la coppia descrive, il raggio della luna è passato tra i due corpi che deambulano: quello del vivo ha rilasciato le braccia e l’altro, da solo, si regge, si muove. Sotto la forza del magnetismo collettivo la forza vitale della bocca sana è penetrata nel corpo disfatto e il rito è al culmine: per attimi o per ore il cadavere, ritto in piedi, per la sua forza cammina. Così sinistramente, una volta ancora, la giovane generosa bocca del proletariato possente e vitale si è applicata contro quella putrescente e fetente del capitalismo, e gli ha ridato nello stretto inumano abbraccio un altro lasso di vita10.


  1. A. Bordiga, Il cadavere ancora cammina, Sul filo del tempo, 1953.  

  2. Luigi Mascheroni, intervista a Alain de Benoist, “Élite contro il popolo. All’Eliseo è riuscito un golpe istituzionale. Le Pen? Non è morta”, il Giornale 9 luglio 2024.  

  3. Una parte consistente dell’elettorato lepenista è arroccato in quella Francia del Nord e del Nord est un tempo baluardo dei PCF che, con la chiusura di fabbriche e miniere, ha visto la diffusione di una vasta e motivata disillusione nei confronti delle promesse della Sinistra che ha fatto sì che l’aumento dell’affluenza sia andato tutto a favore della destra (fonte: Askanews, 1 luglio 2024). Si veda a tale proposito anche Aurélie Filippetti, Gli ultimi giorni della classe operaia, il Saggiatore, Milano 2004.  

  4. Che si sviluppò ben prima dell’avvento del Fascismo e che, come hanno rivelato i recenti movimenti di rivolta contro i monumenti dedicati a schiavisti ed esponenti del colonialismo “bianco” occidentale, proprio nelle concezioni e nelle pratiche del liberalismo imperiale ottocentesca affonda le sue reali radici. Si veda, a tal proposito, il recentissimo: C. Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’Impero britannico, Giulio Einaudi editore, Torino 2024 (edizione in lingua originale inglese 2022).  

  5. Tempo delle elezioni e tempo della rivolta, InfoAut – giovedì 4 luglio 2024.  

  6. Tempo delle elezioni e tempo della rivolta, InfoAut – giovedì 4 luglio 2024.  

  7. Si veda: S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo millennio, il Galeone Editore, Roma, 2021.  

  8. Tempo delle elezioni e tempo della rivolta, cit.  

  9. Si veda, a solo titolo di esempio, la seguente notizia riportata dall’agenzia ANSA in data 9 luglio: PARIGI, 09 LUG – Dissidenti de La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon hanno proposto agli ecologisti e ai comunisti – altre due componenti del Fronte Popolare insieme ai socialisti – di creare un nuovo gruppo parlamentare. Fra i dissidenti ci sono dirigenti di primo piano di Lfi, come Clémentine Autain, François Ruffin e Alexis Corbière. In una lettera ai vertici dei Verdi e del Pcf – di cui ha dato notizia la tv Bfm -, annunciano di non voler più far parte del gruppo degli Insoumis. La presa di distanza da Lfi e dall’ipotesi di Mélenchon premier potrebbe essere il primo passo verso una trattativa per creare una coalizione con i moderati.  

  10. A. Bordiga, Il cadavere ancora cammina, cit.  

]]>
Elogio dell’eccesso/5: Giorgio de Santillana, “the cat who walks alone” https://www.carmillaonline.com/2024/04/04/elogio-delleccesso-5-giorgio-de-santillana-the-cat-who-walks-alone/ Thu, 04 Apr 2024 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81750 di Sandro Moiso

Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 438, 15 euro

In tutto il tempo moderno, rivoluzione ha significato l’irreversibile. Ha portato con sé la vera Storia. Che è poi la fuga in avanti. Pure c’è un vecchio senso che ci è ancora nascosto, noto ai rivoluzionari autentici: il ritorno alle origini. ( Giorgio de Santillana – Riflessioni sul Fato)

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha [...]]]> di Sandro Moiso

Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 438, 15 euro

In tutto il tempo moderno, rivoluzione ha significato l’irreversibile. Ha portato con sé la vera Storia. Che è poi la fuga in avanti. Pure c’è un vecchio senso che ci è ancora nascosto, noto ai rivoluzionari autentici: il ritorno alle origini. ( Giorgio de Santillana – Riflessioni sul Fato)

Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale. (Amadeo Bordiga, “Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole”, 1965)

La ripubblicazione da parte delle edizioni Adelphi di Le origini del pensiero scientifico di Giorgio de Santillana, apparso per la prima volta nel 1961 e tradotto in italiano nel 1966 nella versione di Giulio De Angelis riproposta anche per l’attuale edizione, permette non soltanto di affrontare un tema importante per la riflessione filosofica e scientifica, ma anche di riscoprire uno scienziato e filosofo cui, ad esempio, sia Wikipedia che l’Enciclopedia Italiana Treccani concedono uno spazio fin troppo esiguo, al limite dell’insignificanza. Oltre a ciò, tale riscoperta, potrebbe condurre ad una riflessione su quanto il pensiero e le conoscenze antiche siano state rimosse, se non in alcuni casi negate, per fare spazio alla “Ragione” illuministica e alla scienza applicata e strumentale successiva alla “Rivoluzione” industriale.

In fin dei conti i due spunti di riflessione si ricollegano poiché la negazione delle conoscenze scientifiche anteriori alla rivoluzione scientifica avvenuta a cavallo tra XVI e XVII secolo è proprio ciò che il filosofo della scienza di origini italiane ha contribuito a smontare con tutta la sua opera. Non tanto per quanto riguarda le “scoperte” effettuate quanto, piuttosto, per la concezione che per troppo tempo ha fatto sì che, tra gli antichi, soltanto ai greci fosse riconosciuto la stessa capacità di osservazione e astrazione che poi avrebbe caratterizzato la “scienza” moderna.

Non sappiamo quasi niente del pensiero, vuoi religioso vuoi scientifico, degli uomini dell’Età della Pietra. Ma dobbiamo indubbiamente a quegli ingegnosi tecnologi i principi fondamentali del trattamento della materia e dell’energia: suscitar il fuoco nel focolare, scoprire il principio della leva per lo scaglialancia, sfruttare la tensione e la torsione per far sfrecciare il dardo nell’aria, chiudere la trappola con uno scatto, fissare la scure al manico. Poiché le prime cose son sempre le più difficili, guardiamoci bene dal ritenere queste conquiste qualcosa di naturale. Ancora meno ovvie sono le conquiste della rivoluzione neolitica e dell’Età del Bronzo: la semina del grano, la fonditura, la tessitura, l’arte del vasaio, e tutti i mestieri. E neppure è facile capire come venne agli uomini l’idea di elevare piramidi a gradini quadrangolari che fungevano da abitazione ai loro dei. Solo culture altamente sviluppate possono esser state capaci di compiere imprese del genere. Gli umanisti e i filologi che si occupano di storia possono ben considerarle conquiste rudimentali, gli ovvi inizi di una società ancora legata alla terra. A costoro potremmo opporre ciò che aveva da dire Galileo, che di queste cose se ne intendeva: «E parmi che molto ragionevolmente l’antichità annumerasse tra gli Dei i primi inventori dell’arti nobili, già che noi veggiamo il comune de l’ingegni umani esser di tanta poca curiosità … L’applicarsi a grandi invenzioni, mosso da piccolissimi principii, e giudicar sotto una prima e puerile apparenza potersi contenere arti maravigliose, non è da ingegni dozinali, ma son concetti e pensieri di spiriti sopraumani».
Dunque, niente di molto «primitivo» in tutto ciò. Un tempo gli studiosi davano per scontata l’identità del nostro passato con i «selvaggi» contemporanei che si astengono ostinatamente dalla produzione del cibo e quindi sono stati schedati sotto la voce «Età Paleolitica». Il «primitivo» degli studiosi ottocenteschi era semplicemente «pre-logico», un fanciullo che raccontava a se stesso storie ingenue, che noi ascoltiamo con divertita condiscendenza. La scala del Progresso partiva di lì1.

Giorgio de Santillana (1900-1974) prende spunto da colui che è considerato il fondatore del moderno metodo sperimentale scientifico per tornare a quei secoli, troppo spesso considerati oscuri, durante i quali la specie, nel muovere coscientemente i primi passi sulla superficie terrestre, elaborò le sue capacità logiche e razionali, ben prima che il pensiero borghese, di origine rinascimentale e illuminista, dividessero le età del mondo tra quelle considerate razionali e quelle irrazionali o primitive, insieme alle culture che ne avevano costituito la manifestazione epifenomenica.

Se, infatti, la critica illuministica della religione aveva un reale fondamento politico, l’estensione della critica alla superstizione che ne reggeva ancora la funzione sociale a tutte le conoscenze che avevano accompagnato la crescita delle società umane precedenti e “altre” finiva infatti col condannare all’oblio, senza possibilità di appello, non soltanto le forme prevalentemente folkloriche di tante conoscenze tradizionali, ma anche, e forse prevalentemente, quelle che avevano formato il substrato conoscitivo della resistenza comunitaria all’emersione del capitalismo mercantile e della sua “scienza” (in cui iniziava ad esser considerata come tale anche quella “economica”) come forma dominante di indirizzo della produzione e riproduzione sociale. Dando così inizio a una prima e definitiva cancel culture, ben più radicale e totalizzante di quella ritenuta attualmente tale.

Una trasformazione che era iniziata proprio nello stesso periodo della nascita e dello sviluppo delle moderne pratiche scientifiche che, in età rinascimentale dopo aver puntato menti e cannocchiali verso l’universo che circondava un pianeta che sempre meno avrebbe costituito il centro del cosmo creato da Dio per l’Uomo, avrebbero iniziato a stabilire, sulla Terra, precisi e più saldi confini nazionali, proprietari, sociali e conoscitivi. Confini che iniziavano a segnalare l’appropriazione privata o di classe non soltanto delle ricchezze materiali socialmente prodotte, ma anche di quelle immateriali ricollegabili alle conoscenze necessarie per la gestione dell’ambiente e delle società2.

Una modificazione del “potere conoscitivo” che oltre a ridurre enormemente, all’interno delle società “occidentali”, il potere che le donne si erano conquistate all’interno delle comunità di villaggio3, si era riappropriato del potere giudicante dell’Inquisizione e dei tribunali ecclesiastici, “razionalizzandolo” e trasformandolo in un sistema di leggi che, una volta liberato dall’ingombro di carattere religioso, poteva presentarsi come “libero”, “indipendente” e più equo, ponendo il cittadino non più davanti al giudizio di Dio, ma a quello dello Stato (che sostituiva il primo nella funzione della distribuzione del premio e/o del castigo)4.

Sarà proprio de Santillana, in un’opera realizzata con Hertha von Dechend, a ricollegare le rivoluzioni scientifiche del XVI secolo, senza mai nominarle, con quelle operate millenni prima dai nostri antenati, quando le conoscenze del cielo, delle costellazioni, dei loro movimenti stagionali e degli equinozi, per dirla in breve “astronomiche”, costituivano un elemento importante per l’orientamento durante i viaggi e l’organizzazione della produzione sociale5. Ma la vera novità nell’opera di de Santillana e von Dechend era costituita dal fatto che il “mito” e i miti perdevano la loro connotazione primitiva e “irrazionale” per rientrare, invece, in una forma razionalizzata di conoscenza scientifica che, in età spesso precedenti l’invenzione della scrittura, poteva essere memorizzata e trasmessa oralmente da una generazione all’altra. Una forma di conoscenza, priva di copyright e brevetti “scientifici”, che apparteneva alle comunità che l’avevano prodotta. Come avrebbe affermato la von Dechend nella nuova introduzione all’edizione tedesca del 1993:

De Santillana era approdato alla storia delle scienze esatte e alla storia delle idee partendo dalla fisica, e dopo essersi occupato a fondo della filosofia della natura nell’antichità. Io ero partita dall’etnologia storico-culturale, e più precisamente da Leo Frobenius. Avevamo in comune un profondo disagio nei confronti del modo dominante di interpretare e di giudicare tradizioni che non si erano espresse nella «lingua» a non famigliare, e cioè nell’idioma scientifico coniato dai Greci, in ragione del quale le nostre scienze portano nomi greci e i nostri concetti fondamentali – da «assioma» a «ipotesi», da «prassi» a «simmetria» e a «sistema» – sono vocaboli greci […] proiettando così all’indietro fino alla Grecia la concezione del mondo divenuta usuale a partire da Newton.

Per continuare poi ancora ricordando che:

Delle numerose cause del nostro disagio ne citeremo qui una soltanto: l’incompatibilità dei risultati matematico-tecnici che si possono dimostrare, in quanto si possono misurare, per le culture antiche, con il livello delle corrispondenti tradizioni «mitiche». Per fare un esempio specifico, l’incompatibilità delle piramidi e della loro disposizione esatta con l’apparente chiacchiericcio dei testi delle piramidi e del libro dei morti. Due sono le spiegazioni possibili: o gli Egizi non hanno costruito le piramidi […] oppure le moderne traduzioni dei testi sono fondamentalmente sbagliate. Il fatto che parecchi dei nostri contemporanei preferiscano impelagarsi in ipotesi di architetti extra-galattici piuttosto che ammettere l’esistenza di Egizi dotati di competenze eccezionali dimostra chiaramente come una semplicistica fede nel progresso e una storiografia improntata a un evoluzionismo volgare ci rendano più difficoltoso l’accesso alle civiltà antiche6.

Giorgio de Santillana era nato a Roma il 30 maggio del 1900 e avrebbe lasciato l’Italia nel 1936 a seguito delle crescenti restrizioni imposte dal regime agli accademici di origine ebraiche. Negli Stati Uniti svolse tutta la carriera successiva al MIT di Boston, dove sarebbe diventato noto come «the cat who walks alone» per l’abitudine di fare passeggiate notturne nel campus, probabilmente per scrutare quella volta celeste che così tanto avrebbe indirizzato i suoi studi. Nel 1955 pubblicò The crime of Galileo, un’indagine approfondita della crisi del Rinascimento e della condanna dello scienziato, ma nel frattempo si era imbattuto nelle riflessioni di Giordano Bruno per il quale il contenuto della filosofia egizia, in sostanza, non era altro che “astronomia”.

Dopo l’incontro con Hertha von Dechend a Francoforte nel 1958, le sue ricerche subirono una brusca virata verso un campo di studi che lo attraeva da tempo.

Per uno storico che ha esplorato l’inesorabile affermarsi del razionalismo scientifico, si tratta forse della massima sfida speculativa: risalire alle origini remote della scienza, verso un periodo anteriore all’invenzione della scrittura, di cui rimane un materiale documentario insolito, fatto di una prodigiosa abbondanza di miti e leggende accumulate nel corso dei secoli, le cui tracce sopravvivono in forme eterogenee […] Miti e leggende di provenienza diversa, in molteplici varianti, spesso incongrue, e per loro natura ostili al concetto e refrattarie alla formalizzazione.
[…] La sua «fuga verso le antiche età» (come descriveva le sue ultime ricerche nella conferenza di Palazzo Torlonia nel 1966) non è una semplice fuga saeculi, ma la ricerca di una visione sinottica in cui occorre complettere tutti i livelli dell’essere7.

Le idee espresse da de Santillana e von Dechend nel Mulino di Amleto sono molto ardite e soltanto oggi possono, forse, essere comprese appieno, in un momento in cui il declino dell’Occidente e delle sue cosmogonie politiche, economiche e scientifiche si fa sempre più evidente. Motivo per cui la convinzione dei due autori dell’esistenza di conoscenze astronomiche avanzate già in epoca neolitica, può fare il paio con l’attuale scoperta del peso del pensiero e dell’agire coloniale sull’emarginazione delle culture e delle società “altre”, sottomesse e definite primitive per pure esigenze di carattere imperialistico e di dominio e sfruttamento economico.

Fatto sta che, secondo de Santillana, queste conoscenze astronomiche avanzate erano divenute già di difficile interpretazione nella civiltà egizia e babilonese, e l’astrologia ne era solo una tardiva degenerazione […] Le grandi idee cosmologiche sembrano fiorire soprattutto tra nomadi e navigatori e, tra popoli che non possedevano ancora una scrittura, e venivano trasmesse per via unicamente verbale e mnemonica, in un linguaggio intessuto di storie e altamente tecnico, che pur essendo di natura non matematica, era tuttavia dominato, se non ossessionato, dalla precisione (perché ciò che non è esatto è ingiusto). Secondo de Santillana la perdita di questo tesoro di conoscenze arcaiche […] sarebbe essenzialmente dovuta a «due grandi sciagure nella storia». La prima avvenuta quando l’uomo abbandona il nomadismo e si mette a coltivare la terra. La seconda, quando l’uomo ha inventato la scrittura. Con il suo avvento, intorno al 4000 a. C., si forma «una classe in grado di fissare i dati e conservarli per farne uno strumento di potere. La scrittura nasce fondamentalmente come contabilità… con la sua invenzione cessa il pensiero e inizia l’amministrazione»8.

Sicuramente l’invenzione della scrittura segna l’atto di nascita delle società divise in classi, mentre l’ipotesi di una scienza “diversa” da quella affermatasi in Occidente dal XVI secolo ad oggi non è estranea nemmeno al pensiero scientifico contemporaneo.
Infatti, come ricorda Eugene P. Wigner, vincitore del Premio Nobel per la fisica nel 1963, ricostruendo il percorso della sua formazione scientifica a Princeton, fu forte la confusione quando qualcuno gli manifestò le sue perplessità riguardo al fatto che, nello scegliere i dati su cui verifichiamo le nostre teorie, operiamo una selezione alquanto ristretta.

«Se costruissimo una teoria su fenomeni che trascuriamo e trascurassimo invece alcuni dei fenomeni che attirano la nostra attenzione, non arriveremo forse ad un’altra teoria che, pur avendo poco a che fare con la precedente, spieghi altrettanti fenomeni di questa?». Bisogna ammettere che non abbiamo alcuna certezza che non possa esistere una teoria cosiffatta9.

Da cui consegue, sempre secondo il Premio Nobel, che “le leggi di natura sono tutte proposizioni condizionali, e che si riferiscono soltanto a una parte minima della nostra conoscenza”10.

E’ un pensiero radicale quello di de Santillana, radicalismo che forse è alla base della scarsa considerazione che, come si è affermato all’inizio, ne ha ridotto le note biografiche su Wikipedia o sull’Enciclopedia italiana, ma che può essere ancora foriero di interessanti e utili riflessioni, anche per chi non si interessi direttamente di storia della scienza e del pensiero scientifico. Ed è forse questo il motivo per cui può rendersi necessaria la lettura a quasi sessant’anni dalla sua prima pubblicazione italiana del saggio qui “recensito”: Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C. Saggio in cui si rivela centrale, proprio per l’attinenza con quanto fin qui riportato, il sesto capitolo, L’universo del rigore (pp. 122-147), dedicato a Parmenide di Elea, una colonia greca dove il filosofo nacque intorno al 525 a. C. Oltre ad essere il promulgatore di un codice di leggi per cui, per generazioni, gli Eleati furono soliti raccogliersi una volta l’anno per riconfermare la loro fedeltà alla costituzione di cui era stato il promotore,

per caso sappiamo anche, attraverso testimonianze frammentarie, che dette contributi importanti alla geometria e all’astronomia; classificò le figure geometriche; insegnò a riconoscere nella Stella del Mattino e nella Stella della Sera (Lucifero e Vespero) un unico pianeta; delimitò sul globo terracqueo le cinque zone in cui è suddiviso dai tropici e dai circoli artici; se poi si deve credere a Teofrasto, che è il nostro più autorevole informatore, fu lui, primo tra i pitagorici, a proclamare la sfericità della Terra e la teoria che la Luna brilla di luce riflessa. Nonostante questi grandi contributi scientifici la sua gloria deriva da un campo diverso: è famoso come inventore della implicazione logica11.

Scrisse una sola opera i versi, intitolata Della Natura, suddivisa in due parti, una «Via della Verità» che tratta delle necessità del pensiero in se stesso, e una «Via dell’Opinione» che sembra dovesse costituire un’ambiziosa cosmogonia unita a una teoria fisica, anche se di questa seconda parte sono sopravvissuti solamente frammenti così miseri da renderne impossibile la ricostruzione del piano generale. Così, come afferma ancora de Santillana: «Il poema è stato descritto come “ispirato dal rapimento della logica pura” e come il primo testo filosofico in senso moderno, ma la sua diretta attinenza al pensiero scientifico ci sembra sia stata trascurata»12.

In realtà, anche se la «Via della Verità» venne consacrata come «fondamento della metafisica», a causa del fatto che molti suoi contemporanei dovevano aver pensato che a quell’uomo fosse stato concessa, nel trattare dell’Essere e del Non-Essere, la visione di cose inesprimibili,

vi sono tuttavia prove innegabili del fatto che Parmenide, affrontato sul suo terreno, appartiene a buon diritto anche alla scienza. Se interpretiamo il termine “Essere” non come una misteriosa potenza verbale, ma come una parola tecnica che designa qualcosa che il pensatore aveva in mente ma non poteva ancora definire, e sostituiamo ad esso una x nel contesto dell’argomentazione di Parmenide, ci sarà facile vedere che vi è un altro concetto, e solo uno, che può essere messo al posto di x senza dar luogo a contraddizioni in qualsiasi punto del testo; quel concetto è il puro spazio geometrico (per designare il quale mancava ai Greci una parola, conoscendo essi solo termini relativi come “luogo”, “aria”, “respiro”, “vuoto”). Inoltre, esso è costruito gradualmente, usando il principio di indifferenza o ragion sufficiente, che già era noto ai predecessori naturalisti di Parmenide; ma esso è ora applicato per la prima volta coscientemente come strumento fondamentale della logica scientifica, mentre Platone e Aristotele discutono l’Essere con strumenti logici diversi e tutt’altro che scientifici13.

Fermiamoci qui, soltanto per notare che de Santillana riesce a cogliere e sottolineare un momento fondamentale della perdita delle conoscenze scientifiche precedenti la civiltà classica e come questo sia forse la causa principale della riduzione a “filosofia” di ogni precedente conoscenza tecnica.
Dando inizio a quel “trionfo” della cultura classica umanistica che ancora ci perseguita e limita ogni nostra reale prospettiva di conoscenza del passato e del futuro (e delle loro possibili culture e conoscenze).

Conoscenze tutt’altro che mesmeriche o metafisiche, ma che soltanto l’ignoranza dei posteri, già all’epoca, ha potuto relegare a “misteri” e culti misterici.
Così come, tutto sommato, la scienza del capitale, ha cercato di fare con tutte le conoscenze un tempo utili alla conduzione della società umana e, troppo spesso, relegate a credenze, miti e aspetti folklorici inadatti alla conoscenza necessaria allo sviluppo degli interessi materiali dello stesso.

Ma questa considerazione finale su un grande storico della scienza e della conoscenza e la sua opera “eccessiva”, che lo ha relegato a camminare da solo, o quasi, nella notte della ricerca storica, non sarebbe completa se non si cogliesse in tutto ciò anche la condanna di coloro che, nel pensarsi “critici” del capitale e del suo modo di produzione e della sua scienza, finiscono col trattare i popoli e le conoscenze altre con la stessa logica da “sbaracco”, accettando di fatto l’irrazionalismo senza essere capaci,invece di cogliere le logiche e la profonda razionalità connesse a quelle stesse conoscenze. Scambiando la scienza con la magia e riducendo le competenze cosmologiche ad astrologia da quattro soldi.


  1. G. de Santillana, Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 A.C. – 500 D.C., Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 16-17.  

  2. Su tali argomenti, si vedano: C. Maier, Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 ad oggi, Giulio Einaudi Editore, Torino 2019 e R. Kurz, Ragione sanguinaria, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014.  

  3. Si vedano ancora: M. Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, Edizioni Tabor 2021 e S. Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2015.  

  4. Si vedano in proposito: R. Mandrou, Magistrati e streghe nella Francia del Seicento, Laterza Editore, Bari 1971 e I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1979.  

  5. G. de Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adelphi Edizioni, Milano 1983 (prima edizione americana 1969).  

  6. H. von Dechen, Prefazione all’edizione tedesca in G. de Santillana, H. von Dechen, op. cit., edizione riveduta e ampliata, Adelpi 2000, pp. 12-13. Sull’influenza rimossa delle culture egizie e africane sul quella cultura si veda ancora M. Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, il Saggiatore, Milano, 2011. Per la provenienza “extra- galattica” delle conoscenze degli antichi si vedano le numerose opere di Peter Kolosimo, pseudonimo di Pier Domenico Colosimo (1922-1984), all’epoca giornalista di area marxista-leninista e corrispondente del quotidiano «l’Unità». L’eccesso di scrupolo “progressista” lo portò a diventare uno dei maggiori esponenti dell’archeologia misteriosa e della teoria degli antichi astronauti. Per le sue opere di maggior successo la casa editrice Sugar creò un’apposita collana “Universo sconosciuto”. Dal 1960 si era avvicinato al maoismo e si occupò anche di astronautica, sessuologia, parapsicologia ed esobiologia.  

  7. M. Sellitto, La scienza, prima del mito (e dopo) in G. de Santillana, H. von Dechend, Sirio. Tre seminari sulla cosmologia arcaica, a cura di S. D’Onofrio e M. Sellitto, Edizioni Adelphi, Milano 2020, pp. 158-159.  

  8. M. Sellitto, op. cit., pp. 161-162.  

  9. E.P. Wigner, The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sci­ences, conferenza tenuta alla New York University nel 1959 ora in E.P. Wigner, L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali, Edizioni Adelphi, Milano 2017, p. 12.  

  10. E.P. Wigner, op. cit., p. 21.  

  11. G. de Santillana, Le origini del pensiero scientifico, op. cit., p. 123.  

  12. Ivi, p. 124.  

  13. ibidem, pp. 130-131.  

]]>
Alle radici della Rivoluzione industriale: la schiavitù https://www.carmillaonline.com/2024/03/06/alle-radici-della-rivoluzione-industriale-la-schiavitu/ Wed, 06 Mar 2024 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81300 di Sandro Moiso

Eric Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 370, 24 euro

Eric Eustace Williams (Trinidad, 25 settembre 1911 – Trinidad, 29 marzo 1981) è stato professore di Scienze politiche e sociali presso l’Howard University di Washington D.C. Fondatore nel 1956 del partito “People’s National Movement” di Trinidad e Tobago, è considerato da alcuni come il “padre della nazione” dopo aver portato la colonia britannica all’indipendenza il 31 agosto 1962 e allo status di repubblica il 1º agosto 1976, divenendone anche Primo ministro, carica che ricoprì fino alla sua [...]]]> di Sandro Moiso

Eric Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 370, 24 euro

Eric Eustace Williams (Trinidad, 25 settembre 1911 – Trinidad, 29 marzo 1981) è stato professore di Scienze politiche e sociali presso l’Howard University di Washington D.C. Fondatore nel 1956 del partito “People’s National Movement” di Trinidad e Tobago, è considerato da alcuni come il “padre della nazione” dopo aver portato la colonia britannica all’indipendenza il 31 agosto 1962 e allo status di repubblica il 1º agosto 1976, divenendone anche Primo ministro, carica che ricoprì fino alla sua morte.

E’ considerato come uno dei più noti storici dei Caraibi, insieme a Cyril Lionel Robert James, soprattutto per il suo libro intitolato “Capitalismo e schiavitù”, appena pubblicato in Italia da Meltemi editore. Frutto di uno studio del 1944, la ricerca costituisce un’opera imprescindibile per la comprensione dello sviluppo e del successo dell’Impero britannico e della Rivoluzione industriale. Collegando la seconda alla tratta atlantica degli schiavi e ripercorrendone l’ascesa e la caduta, tra Settecento e Ottocento, e sostenendo che l’impiego di schiavi neri nell’Impero britannico – e, di conseguenza, il fenomeno del razzismo – abbia avuto inizio per ragioni di natura esclusivamente economica, ovvero promuovere il capitalismo industriale attraverso il reperimento di manodopera a basso costo, l’autore caraibico smonta e disvela la fasulla retorica liberale sull’umanitarismo che l’avvento del capitalismo e della rivoluzione industriale avrebbe portato con sé.

In Eric Williams l’impegno politico e l’attività di ricerca storica non andarono mai separate, come dimostra nella Premessa William Darity Jr.:

Fervente nazionalista trinidadiano, Williams mostrava verso i suoi concittadini un sentimento misto, tanto di profondo attaccamento quanto di alterigia. Negli anni immediatamente precedenti all’indipendenza, tra il 1955 e il 1962, egli si propose espressamente di portare la sua erudizione dentro al dibattito politico tenendo una serie di tortuose conferenze in una piazza del centro, nel cuore della capitale Port of Spain. I suoi discorsi contribuirono a rendere il luogo popolarmente noto come l’“Università di Woodford Square”. Eric Williams era l’insegnante e il suo uditorio riceveva delle vere e proprie lezioni accademiche di storia trinidadiana, caraibica e transatlantica, in particolare riguardo al commercio degli schiavi, alla schiavitù e al colonialismo europeo1.

Fu proprio su quella piazza che, il 15 gennaio 1956, Eric Williams lanciò il People’s National Movement (PNM), il partito politico di cui da lì in poi sarebbe stato alla guida per un quarto di secolo. Woodford Square, che prendeva il nome da un governatore coloniale razzista e corrotto dei primi dell’Ottocento, Sir Ralph James Woodford, fu ironicamente anche il luogo in cui si sarebbero radunati gli ideatori del movimento per il Black Power negli anni Settanta, trovandosi a discutere con lo stesso Eric Williams quando, durante il periodo della sua leadership, questi dovette affrontare lo status contraddittorio di essere a capo di un paese a predominanza nera sulla cui scena nazionale si stava imponendo l’attivismo del Potere Nero. Contraddizione che non fu mai risolta.

Tra il 1968 e il 1970, infatti, il movimento per il Black Power si era andato sviluppando a Trinidad e Tobago a partire dall’interno della Lega degli Studenti Universitari presso il Campus di Sant’Agostino dell’Università delle Indie Occidentali e si unì al sindacato dei lavoratori dei giacimenti petroliferi. In risposta alla sfida, lanciata dal Black Power durante il Carnevale dl 1970, Williams replicò con una trasmissione intitolata “Io sono per il Black Power” e introdusse un prelievo del 5% per finanziare la riduzione della disoccupazione e fondò la prima banca commerciale di proprietà locale. Tuttavia, questo intervento ebbe scarso impatto sulle proteste e il 3 aprile 1970 un manifestante fu ucciso dalla polizia. Il 18 aprile i lavoratori dello zucchero entrarono in sciopero e si parlò di uno sciopero generale. In risposta a ciò, Williams proclamò lo stato di emergenza il 21 aprile e arrestò 15 leader del Black Power.

Williams fece poi ancora altri tre discorsi in cui cercò di identificarsi con gli obiettivi del movimento Black Power, rimescolando il suo gabinetto e rimuovendo tre ministri e tre senatori, ma proponendo anche un disegno di legge sull’ordine pubblico che avrebbe limitato le libertà civili nel tentativo di controllare le marce di protesta. Disegno di legge che, però, dopo l’opposizione pubblica fu ritirato.

Anche se Eric William, una volta al governo, mostrò probabilmente i limiti e le contraddizioni di un cambiamento politico che non era seguito a una radicale rivoluzione nei confronti del dominio coloniale, lo stesso può essere considerato come uno dei più lucidi e spietati critici di quel “paternalismo” umanitario di cui il capitalismo britannico aveva voluto indossare i panni per giustificare con il “progresso” la propria secolare politica di rapina e oppressione che non era certo finita con la fase dell’accumulazione primaria. In cui pirati, come Sir Francis Drake, e schiavisti si erano contraddistinti e messi in bella mostra; tanto da far dire ad Adam Smith che è “il gentiluomo di ventura” (ovvero il corsaro descritto in termini più gentili) a rappresentare il primo e vero self-made man della tradizione individualista liberale.

La sua moderna critica del sistema di produzione che aveva sfruttato la manodopera schiava per incrementare il proprio sviluppo e i propri profitti non fu ben vista negli ambienti dell’Università di Oxford dove l’autore aveva studiato con ottimi risultati e soltanto con il ritorno oltre Atlantico, dove riuscì a ottenere un incarico come professore di Scienza politica e sociale presso la Howard University, che mantenne dal 1938 al 1948, riuscì a completare e a pubblicare le sue ricerche, iniziati già in Gran Bretagna con una tesi intitolata The Economic Aspects of the Abolition of the West Indian Slave Trade and Slavery – un po’ macchinoso rispetto alla precisa definizione di Capitalism and Slavery.

Prima di tornare nelle Indie occidentali, Williams aveva provato senza successo – con sei case editrici – a pubblicare la sua dissertazione del 1938 per l’Università di Oxford, e non era riuscito a ottenere un incarico accademico in nessuna università britannica. Questi ostacoli emersero nonostante Williams si fosse laureato con la lode, avesse difeso con successo la sua tesi davanti a una commissione formata dai più celebri storici dell’imperialismo di Oxford e malgrado si fosse classificato come il miglior studente del dottorato di ricerca in Storia della stessa università2.

Fu così che la ricerca, con il titolo con cui è diventata nota e con cui è stata pubblicata anche qui da noi, fu pubblicata nel 1944 dalla University of North Carolina Press. Evidentemente, una Università americana che, sarcasticamente Williams definiva come la “Oxford dei nei”, poteva allora permettersi di pubblicare un lavoro all’epoca troppo scomodo per il cuore degli studi imperiali inglesi, anche se anche all’Università di Howard i corsi fossero ancora « dominati da una premessa esplicita secondo cui la civiltà era il prodotto della razza bianca del mondo occidentale».

Ecco, proprio contro questa premessa, tutt’altro che soltanto sottintesa, o perlomeno contro l’apporto umanitario e civilizzatore degli imperi occidentali nei confronti del resto del mondo e dei popoli non bianchi, si rivolgeva l’analisi di Eric Williamsa. Così, in primo luogo, la sua tesi

si impegnava a sostenere, in modo dettagliato e ricco di evidenze, che l’abolizione britannica del commercio degli schiavi nelle Indie occidentali – ed eventualmente anche l’emancipazione delle persone in stato di schiavitù nei medesimi territori – era stata il frutto di un calcolato egoismo economico e strategico da parte dei funzionari inglesi. Williams si schierava così contro la scuola di pensiero che vedeva la causa primaria dell’abolizione e dell’emancipazione in un mutamento della moralità, in un travolgente sentimento umanitario nazionale3.

In secondo luogo, l’autore sostiene « come sia stata la schiavitù a produrre il razzismo, non viceversa». Sostenendo che il razzismo è un’ideologia emersa per fornire una potente razionalizzazione a una pratica assolutamente immorale ma economicamente profittevole.

La terza ipotesi che domina ampie sezioni di Capitalismo e schiavitù è l’argomento secondo cui il commercio degli schiavi africani e lo schiavismo nei Caraibi hanno alimentato lo sviluppo industriale britannico, facendo della schiavitù il fondamento storico del capitalismo inglese. Williams sostiene che la tratta e lo schiavismo sono stati cruciali per lo sviluppo economico britannico lungo tutto il XIX secolo, e che una volta affermatosi il progetto del “ciclo manifatturiero” essi hanno visto anch’essi declinare la loro importanza4.

Quest’ultima ipotesi è quella che lo avvicina di più a Marx, anche se è difficile capire se vi fu su di lui un’influenza diretta del pensatore tedesco, magari per il tramite di Cyril L. R. James (Port of Spain, 1901– Londra, 1989) di cui fu allievo, oppure, come si sostiene nella premessa:

È più probabile che – sempre che di influenza di Marx su Capitalismo e schiavitù si possa parlare – essa sia provenuta indirettamente dall’approccio di storia economica della Howard University, e in particolare da quello dell’economista Abram Harris.
Harris aveva anticipato l’analisi di Williams sulla relazione tra schiavitù nelle Americhe e industria britannica nel seguente pregnante passaggio di una sua pubblicazione del 1936, The Negro as Capitalist:

“Nella coltivazione della terra e nell’estrazione delle materie prime del Nuovo Mondo fu utilizzato dapprima il lavoro degli indiani e dei bianchi. Alla fine quello dei neri africani ebbe la precedenza su tutti gli altri e prese a esser visto come la fonte di un’offerta di forza lavoro quasi inesauribile e a basso costo. L’Africa ha rifornito il mondo occidentale non solo di lavoro ma anche di molto dell’oro necessario all’economia monetaria delle nazioni dell’Europa occidentale. In sintesi, l’introduzione del lavoro africano nelle Indie occidentali britanniche e i profitti ottenuti dal traffico di questa forza lavoro e dei suoi prodotti, oltre che dallo sfruttamento del continente africano per l’oro nei secoli XV e XVI, sono stati fondamentali per quell’accumulazione di capitale sulla cui base è stato costruito il sistema industriale inglese nel corso del Settecento. Analogamente, negli Stati Uniti, i profitti che il traffico degli schiavi ha portato al New England sono stati un fattore importante nella crescita dell’industria marittima e, al contempo, una fonte di surplus di ricchezza per l’industrialismo americano”5.

Nel capitolo XXXI del primo volume del Capitale, Marx aveva esplicitamente sostenuto che la schiavitù del “Nuovo Mondo” aveva costituito il pilastro cruciale dell’ascesa dell’industria britannica, motivo per cui “la schiavitù velata degli operai salariati in Europa aveva bisogno del piedistallo della schiavitù sans phrase del Nuovo Mondo”, sostanzialmente in piena sintonia con la terza ipotesi di Capitalismo e schiavitù. Ma il Moro di Treviri aveva trattato ancora il tema della schiavitù e del suo ruolo nel mantenimento della potenza dell’industria britannica anche nel corso della guerra civile americana quando, insieme al sodale Engels, aveva sostenuto la causa del Nord e di Lincoln, invitando gli operai ad arruolarsi nelle file dell’esercito federale, non per motivi “umanitari” ma per colpire, abolendo la schiavitù e il sistema delle grandi piantagioni del Sud degli Stati Uniti, una importantissima fonte di materie prime a basso costo che ancora alimentavano l’industria britannica e il suo colonialismo, diretto e indiretto.

Ecco allora che le riflessioni di Williams manifestano tutta la loro potenza ancora oggi, non soltanto nei confronti di un modo di produzione odioso che vuole, invece, fingersi sempre come il più umano e il più giusto possibile, ma anche di quella cancel culture che del primo è ancora succube, poiché soffermandosi sulla cancellazione delle “ingiustizie” non coglie lo stretto rapporto che intercorre tra queste e il sistema di produzione e riproduzione della vita che lo ha fondato e tutt’ora lo fonda, accontentandosi, troppo spesso e come sottolinea ancora William Darity nella sua premessa, di chiedere riparazioni e rimborsi per i torti subiti dagli antenati. Un risoluzione monetaria di crimini e oppressioni di cui proprio lo scambio mercantile e monetario hanno costituito, da sempre, la premessa.

In questo caso, occorre poi ancora sottolineare che, come afferma Williams in altra parte del testo, la progressiva abolizione della schiavitù non è dovuta a una nuova morale o a una progressiva perdita di convenienza economica della stessa, ma anche alla lotta vittoriosa degli ex-schiavi che, proprio nelle Antille, ad Haiti, avevano sconfitto militarmente sia le armate francesi, anche nella loro versione rivoluzionaria, che quelle inglesi inviate per sostituirle approfittando della debolezza della Francia già impegnata su troppi fronti. In questo caso è sicuramente da rilevare l’influenza di C. L. R. James e della sua opera: prima Toussaint L’Ouverture, pubblicata nel 1936, e successivamente The Black Jacobins: Toussaint L’Ouverture and the San Domingo Revolution, del 19386.

Riconosciuto come “il punto di partenza per una nuova generazioni di studi”, Capitalismo e schiavitù resta ancora oggi una lettura essenziale per chi voglia comprendere la modernità e il mondo post-coloniale.


  1. W. A. Darity Jr., Premessa a E. Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, p. 9.  

  2. W. A. Darity Jr., op. cit., p. 11.  

  3. Ibidem, p. 12.  

  4. Ibid, pp. 13-14.  

  5. Ibid, pp. 14-15 

  6. trad. franc.: Les Jacobins noirs. Toussaint Louverture et la Révolution de Saint-Domingue, trad. di Pierre Naville, Parigi, Gallimard, 1949 e successivamente, in italiano, I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco, Milano, Feltrinelli, 1968.  

]]>
C’era una volta… oppure c’è ancora Marx? https://www.carmillaonline.com/2024/02/14/cera-una-volta-oppure-ce-ancora-marx/ Wed, 14 Feb 2024 21:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80491 di Sandro Moiso

Marcello Musto, Alfonso Maurizio Iacono (a cura di), Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione, Carocci editore, Roma 2023, pp. 350, 32 euro

Si adopera l’espressione «marxismo» non nel senso di una dottrina scoperta o introdotta da Carlo Marx in persona, ma per riferirsi alla dottrina che sorge col moderno proletariato industriale e lo «accompagna» in tutto il corso di una rivoluzione sociale e conserviamo il termine «marxismo» malgrado il vasto campo di speculazioni e di sfruttamento di esso da parte di una serie di movimenti antirivoluzionari. (Amadeo Bordiga – Riunione di Milano, 7 settembre 1952)

Occorre [...]]]> di Sandro Moiso

Marcello Musto, Alfonso Maurizio Iacono (a cura di), Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione, Carocci editore, Roma 2023, pp. 350, 32 euro

Si adopera l’espressione «marxismo» non nel senso di una dottrina scoperta o introdotta da Carlo Marx in persona, ma per riferirsi alla dottrina che sorge col moderno proletariato industriale e lo «accompagna» in tutto il corso di una rivoluzione sociale e conserviamo il termine «marxismo» malgrado il vasto campo di speculazioni e di sfruttamento di esso da parte di una serie di movimenti antirivoluzionari. (Amadeo Bordiga – Riunione di Milano, 7 settembre 1952)

Occorre iniziare dalla perentoria e sintetica frase pronunciata da Amadeo Bordiga più di settant’anni fa per cogliere lo smarrimento che al giorno d’oggi può cogliere un certo numero di militanti antagonisti ogni qualvolta sentono usare il nome del filosofo di Treviri oppure il termine che ne indica l’opera e la sua interpretazione da parte di terzi.

Condizione che, spesso, trasmette un’idea di inutile deja vù o, ancor peggio, di opportunistica rivendicazione di una dottrina ridotta a fantasma di se stessa proprio ad opera di coloro che un tempo, ora sempre meno, a Marx ed Engels si richiamavano, magari insieme al nome di Lenin o di altri appartenenti al periodo dello stalinismo trionfante e dell’opposizione allo stesso.

Per far uscire l’opera di Marx da questa sorta di terra di nessuno in cui è stata relegata, grazie anche all’assenza di una significativa ripresa della lotta di classe, può risultare utile la lettura del volume collettivo appena pubblicato da Carocci editore che raccoglie i contributi di quattordici studiosi di fama mondiale, appartenenti a diversi ambiti disciplinari e provenienti da vari paesi, nei quali si prova ad offrire uno sguardo più moderno e attualizzato sulle idee del filosofo tedesco riguardo all’ecologia, ai processi migratori, alle questioni di genere, al modo di produzione e riproduzione capitalistico, alla composizione del movimento operaio, alla globalizzazione e alle possibili caratteristiche di un’alternativa allo stato di cose presente.

Marcello Musto il primo dei due curatori, che insegna Sociologia alla York University di Toronto in Canada, può essere considerato forse il principale marxologo del tempo presente, grazie anche alla pubblicazione di opere quali L’ultimo Marx (Donzelli, 2016), Karl Marx – Biografia intellettuale e politica (Einaudi, 2018) e, ancora con Carocci editore, Ripensare Marx e i marxismi (2011).
Mentre Alfonso Maurizio Iacono, l’altro curatore, insegna Teoria e storia dei sistemi filosofici all’Università di Pisa ed è autore di numerose opere, tra le quali vanno ricordate Teorie del feticismo (Giuffrè, 1985), Autonomia, potere, minorità (Feltrinelli, 2000), L’illusione e il sostituto (Bruno Mondadori, 2010) e Studi su Marx (ETS, 2018).

Dopo aver sottolineato il rinnovato interesse nei confronti di Marx a partire dalla crisi iniziatasi nel 2008, Musto, nella sua introduzione al testo, ci ricorda che Il capitale non fu l’unico progetto rimasto incompiuto del filosofo e rivoluzionario tedesco.

La spietata autocritica di Marx aumentò le difficoltà di più di una delle sue imprese e la grande quantità di tempo che dedicò a molti progetti che voleva pubblicare era dovuta all’estremo rigore a cui sottoponeva tutto il suo pensiero. Quando Marx era giovane, era noto tra i compagni di università per la meticolosità. Si racconta che si rifiutasse «di scrivere una frase se non era in grado di dimostrarla in dieci modi diversi». E’ per questo che il giovane studioso della sinistra hegeliana pubblicò ancor meno di molti altri. La convinzione di Marx che le sue informazioni fossero insufficienti e i suoi giudizi immaturi gli impediva di pubblicare scritti che rimanessero sotto forma di abbozzi o frammenti1.

Già questo basterebbe a differenziarlo da tanti suoi successivi emulatori e seguaci, sia nella superficialità con cui tante volte hanno dato alle stampe testi poco rigorosi, ma molto ideologici, quanto da coloro che hanno fatto di ogni sua affermazione un’autentica e immutabile parola di veritas.

Alcuni dei testi pubblicati da Marx non devono essere considerati come la sua parola definitiva sui temi in questione. Ad esempio, il Manifesto del Partito comunista è stato considerato da Friedrich Engels e Marx come un documento storico della loro giovinezza e non come il testo definitivo in cui venivano enunciate le loro principali concezioni politiche. Inoltre, bisogna tener presente che gli scritti di propaganda politica e quelli scientifici spesso non sono combinabili. Questo tipo di errori è molto frequente nella letteratura secondaria su Marx2.

Questa mancata contestualizzazione dell’opera spesso si accompagna a un timore reverenziale nell’interpretarla, fin dalla sua morte, a partire dalla quale forse anche lo stesso Engels fu responsabile di un eccesso di imbalsamazione cercando di fissare in una forma definitiva, ad esempio, sia il secondo che il terzo libro del Capitale di cui esistevano varie stesure in forma di appunti, nessuna delle quali aveva convinto del tutto l’autore.

Nasceva così, probabilmente, proprio dal lavoro comprensibilmente rispettoso di Engels, nei confronti dell’amico scomparso, un’interpretazione “dottrinaria” che spesso si è preoccupata più del “monumento Marx” che dell’effettiva utilizzazione della sua opera. Cosicché spesso l’interpretazione della sua opera è stata fin troppo spesso collegata alla mera dinamica di sviluppo delle forze produttive, mentre, in particolare, è stata in seguito dimostrata anche la rilevanza che Marx assegnò alla questione ecologica, a quella delle migrazioni e a quella coloniale.

E proprio a questi tre, attualissimi, temi sono rivolti numerosi saggi tra quelli contenuti in Ricostruire l’alternativa Marx, in particolare in quelli di Silvia Federici su Genere, razza e riproduzione sociale in Marx: una prospettiva femminista; quello di Kohei Saito su L’accumulazione originaria come causa del disastro economico ed ecologico e, ancora, quello di Pietro Basso su Marx sull’esercito industriale di riserva e le migrazioni: vietato abusarne.

Ci si accontenterà qui, per necessità di spazio espositivo, di prendere in esame il saggio di Pietro Basso che, senza nulla togliere all’importanza degli altri citati e non, ha il merito di occuparsi di una questione particolarmente sentita all’interno del dibattito politico contemporaneo e, allo stesso tempo, di rivelare l’abuso fatto, in nome di un “marxismo” superficiale e travisato, dell’opera del rivoluzionario (autentico) tedesco.

Nella rinnovata attenzione al suo pensiero, è toccato a Marx esser chiamato in causa, da sinistra e perfino da destra, in particolare in Italia e in Germania, per legittimare con la sua autorità le politiche di “chiusura delle frontiere” agli immigrati che impazzano in Europa, e spesso fuori dall’Europa. Si tratta di uno sfacciato abuso del pensiero di Marx, compiuto facendo riferimento alla sua analisi della funzione dell’esercito industriale di riserva e delle migrazioni nel capitalismo, ma falsificandola (in parte) e amputandola (del tutto) delle sue conclusioni politiche. Mi occuperò qui di tale abuso prendendo in considerazione la logica di alcuni falsari di successo (Diego Fusaro, Wolfang Streeck, Sahra Wagenknecht)3.

Per poter fare ciò, Basso riprende l’originale riflessione di Marx sull’importante categoria, ai fini dell’analisi della struttura sociale ed economica capitalistica, “esercito industriale di riserva”, presentata fin dai Grundrisse tra le contraddizioni chiave insopprimibili del modo di espansione del capitale. Per dirla con le parole dello stesso Marx: « Il capitale tende sia ad aumentare la popolazione lavoratrice [questo aumento è il primo presupposto dell’aumento del plusvalore – N.d.A.], sia a porre incessantemente una sua parte come sovrappopolazione – popolazione inutile fino al momento in cui il capitale può valorizzarla»4.

Anche se ai tempi di Marx, che prendeva in esame soprattutto lo sviluppo del capitalismo in Gran Bretagna, il problema migratorio era rappresentato soprattutto dalle relazioni e dalle rivalità che intercorrevano tra la manodopera inglese e quella irlandese, ciò non toglie che il fondatore del pensiero e dell’agire rivoluzionario moderno fosse sufficientemente attento alle dinamiche e all’evoluzione di quel rapporto e, in particolare, a ciò che la forzata emigrazione irlandese finisse con l’avere sugli irlandesi stessi e le loro lotte, sia che queste fossero a carattere nazionale che sindacale.

In tale contesto, in cui il capitale tende ad usare ogni arma ideologica e non soltanto per dividere al suo interno il proletariato, Marx si schierò sempre apertamente e risolutamente a favore della «collaborazione sistematica tra occupati e disoccupati per infrangere o indebolire le conseguenze rovinose sulla propria classe di quella legge naturale della produzione capitalistica […] ogni solidarietà tra occupati e disoccupati turba infatti il “puro” gioco di quella legge»5.

Per Marx, quindi, la produzione da parte del capitale di un esercito industriale di riserva è una legge, non un evento passeggero, un’occasionale disfunzione del capitalismo legata a questa o quella politica sociale, ovvero – per stare in tema – a questa o quella politica migratoria. E l’unica forza che può contrastarla è la lotta unitaria tra proletari occupati e disoccupati. Omettere tale doppia conclusione, storico-teorica e politica, è falsificare in modo impudente il pensiero marxiano e marxista in materia6.

A più riprese, Marx, parlando dei vasti spostamenti forzati di popolazioni da un continente all’altro dovuti alle esigenze del colonialismo che alimentavano lo sviluppo del capitalismo, «sostiene a più riprese che il capitale si alimenta di una “doppia schiavitù”: la schiavitù salariata, indiretta, in Europa, e la schiavitù “pura e semplice”, diretta, degli sfruttati di colore nelle colonie»7.

Veniamo ora gli utilizzatori/falsificatori del pensiero di Marx. Costoro si richiamano all’analisi marxiana dell’esercito di riserva e del suo inquadramento delle migrazioni come migrazioni forzate, distorcendoli e amputandoli delle loro conclusioni politiche, per tentare un’operazione impossibile: farne un argomento forte del loro nazionalismo “sociale”. […] Un fritto misto di verità e spudorate falsificazioni. La verità-confessione è che Fusaro e suoi sodali sognano l’avvento di uno Stato nazionale che sia capace di regolamentare l’anarchia del capitale e del mercato, e sia forte, italianissimo, fino al punto di essere sovrano rispetto alla “power-élite globalista” – un vuoto idealismo antistorico che ignora le barriere che si sono frapposte in passato, e ancor più si frappongono oggi, a un tale sogno retrogrado. A seguire un coacervo di mistificazioni sinistreggianti. Sfugge a questo “filosofo” (Diego Fusaro- N.d.R.) e ai suoi sodali rosso-bruni che nelle società occidentali è in atto una acutissima polarizzazione di classe, classe capitalistica versus classe-che-vive-del-proprio-lavoro, e la più radicale sussunzione di sempre del politico all’economico, anche nelle singole nazioni, non solo alla scala globale8.

Il filo rosso del recupero moderno del pensiero e dell’opera di Karl Marx si svolge, tra le pagine e i saggi raccolti nel testo, attraverso queste e altre necessarie e importanti riflessioni che hanno, tutte, il merito di presentare un Marx svecchiato dalle antiche appropriazioni ideologiche e adattissimo, se interpretato conseguentemente e non “falsificato”, a funzionare ancora come metro di paragone per ciò che è rivoluzionario separandolo dalle vuote e, troppo spesso reazionarie, chiacchiere di maniera. Non resta dunque, a chi scrive, che lasciare ai lettori il piacere di scoprire, ancora una volta insieme a Marx, una possibile alternativa all’attuale modo di produzione e ai suoi flagelli ambientali, sociali, economici, militari, razziali e di genere.


  1. M. Musto, Introduzione a Marcello Musto, Alfonso Maurizio Iacono (a cura di), Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione, Carocci editore, Roma 2023, pp.13-14.  

  2. Ivi, p. 14.  

  3. P. Basso, Marx sull’esercito industriale di riserva e le migrazioni: vietato abusarne in Ricostruire l’alternativa Marx, op. cit., p.219.  

  4. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 414.  

  5. Marx, Il capitale, Libro I, a cura di A. Macchioro e B. Maffi, UTET, Torino 1974, p. 815.  

  6. P. Basso, op. cit., p.222.  

  7. Ivi, p. 223.  

  8. Ivi, pp. 227-229.  

]]>
In attesa di un altro mondo: tre film sulla fine del sogno americano https://www.carmillaonline.com/2024/01/17/in-attesa-di-un-altro-mondo-tre-film-sulla-fine-del-sogno-americano/ Wed, 17 Jan 2024 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80746 di Sandro Moiso

Ha avuto inizio a Venezia, il 9 gennaio di quest’anno, una rassegna cinematografica “itinerante” di tre film e documentari di tre registi italiani under 40 che hanno vissuto parte della propria vita negli Stati Uniti e che hanno deciso di raccontarne aspetti sociali, ambientali e politici molto al di fuori dell’immagine che troppo spesso viene proiettata dai media di ciò che un tempo era definito come American Way of Life.

La rassegna, che proseguirà in altre città italiane (Bassano del Grappa, Brescia, Roma e Genova) fino al 15 marzo 2024, comprende: Stonebreakers (Italia 2022, 70 minuti) di [...]]]> di Sandro Moiso

Ha avuto inizio a Venezia, il 9 gennaio di quest’anno, una rassegna cinematografica “itinerante” di tre film e documentari di tre registi italiani under 40 che hanno vissuto parte della propria vita negli Stati Uniti e che hanno deciso di raccontarne aspetti sociali, ambientali e politici molto al di fuori dell’immagine che troppo spesso viene proiettata dai media di ciò che un tempo era definito come American Way of Life.

La rassegna, che proseguirà in altre città italiane (Bassano del Grappa, Brescia, Roma e Genova) fino al 15 marzo 2024, comprende: Stonebreakers (Italia 2022, 70 minuti) di Valerio Ciriaci, West of Babylonia (Italia – USA 2020, 82 minuti) di Emanuele Mengotti e Last Stop Before Chocolate Mountain ( Italia 2022, 90 minuti) di Susanna Della Sala.

Il titolo della medesima rassegna è già per sé indicativo del contenuto dei tre pregevoli film presentati: Rovine d’America. E, in effetti, anche se si occupano di soggetti, località, problematiche e, dunque, storie spesso molto diverse tra di loro ciò che li accomuna è proprio il discorso su una civiltà giunta al suo tramonto. Una società che è stata modello e guida per il mondo occidentale almeno a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale e che oggi vede i suoi miti, i suoi presupposti politico-economici e l’immaginario che ne è derivato volgere rapidamente al tramonto.

Una sorta di Sunset Boulevard su cui si muovono emarginati, ribelli, sognatori, outsiders, attivisti, hippie, fuorilegge, irregolari, persone senza fissa dimora che, per mille ragioni diverse, rappresentano allo stesso tempo il futuro e il passato della decadenza di un mondo che un tempo si poneva al centro dell’economia, della politica, dell’immaginario e della cultura mondiale e che oggi cerca ancora di rinnovare i suoi fasti in un proseguio di guerre senza fine e senza speranza di uscita o di vittoria.

I tre film non parlano di guerra o guerre, ma almeno nel caso dei film di Emanuele Mengotti e Susanna Della Sala lo scenario bellico fa da contorno ai luoghi e alle vicende narrate, visto che in prossimità sia di Slab City che di Bombay Beach esistono ancora poligoni di tiro e di addestramento per l’esercito e l’aviazione degli Stati Uniti, mentre in quello di Valerio Ciriaci si fanno più che evidenti le linee di faglia di una guerra civile americana che, più che una proiezione dell’immaginario “politico” di Donald Trump e dei suoi sostenitori come vorrebbe la narrazione liberal europea, si profila come una concreta realtà possibile proprio a causa delle divisioni sempre più profonde e radicalizzate che attraversano la società di quella che un tempo, e soltanto in funzione mitopoietica, poteva essere rappresentata come Land of the Free.

Le tre opere cinematografiche, estremamente lucide e personali, mostrano un’America spezzata, alle prese con la crisi di un mito che ha affascinato milioni di persone in tutto il mondo, mentre contemporaneamente è in atto un conflitto culturale che coinvolge i suoi abitanti ed è oggetto di dibattito anche fuori dai suoi confini. La rassegna è nata dunque dall’esigenza di creare «un momento di discussione a proposito di una terra in trasformazione, dove dalle rovine di un passato spesso idealizzato sentiamo oggi levarsi un potente grido di liberazione, che ci dice che quel modello non è più tale. Fare i conti con il passato non significa congelarlo, ma affrontarlo e riaprire la discussione, per attualizzarlo», come affermano i tre registi, che in momenti diversi saranno presenti alle proiezioni proprio per confrontarsi con il pubblico, nei mesi in cui il dibattito intorno alle prossime elezioni presidenziali americane inizierà a farsi più intenso e acceso.

West of Babylonia (qui il trailer) è il primo film di una trilogia dedicata all’Ovest degli Stati Uniti. Un caleidoscopio di personaggi e storie che vivono ed abitano a Slab City, in California, dove si vive senza acqua corrente e senza elettricità. Le strade sono sterrate e la popolazione (gli “Slabber”) oscilla tra le 400 persone d’estate e le 4000 d’inverno. Gli Slabber sono giovani e anziani, hippy e neonazisti, fuorilegge, artisti. Tutti accomunati dalla voglia di essere liberi e di non dover rispondere alle regole della società americana. Tutto ciò che sta al di fuori di Slab City per loro è “Babylonia”.

Slab City nasce sul terreno di una base militare attiva durante la Seconda Guerra Mondiale. Nei primi anni cinquanta le persone iniziarono a dimorarvi, mentre negli anni ottanta si ebbe un vero e proprio boom di residenti, in un paesaggio che ricorda le ambientazioni dei film western e, allo stesso tempo, un mondo apocalittico simile a quello prospettato da Mad Max. Il deserto di Sonora, uno dei più aspri e inospitali del pianeta1, circonda con la sua stupefacente bellezza, la vita di coloro che rifuggendo il mondo hanno creato per sé un altro modo di esistere. Prossimo, però, più a quello che potremmo immaginare descritto nelle cronache di un dopo-bomba più che all’evoluzione in direzione di una società più giusta o utopica.
Il film, perfetto nelle immagini ma con qualche difetto per quanto riguarda i sottotitoli italiani2, è stato presentato in concorso ufficiale al Biografilm di Bologna nel 2020 e ha fatto parte della media library di Vision du Réel.

Last Stop Before Chocolate Mountain (qui il trailer) è nato da un’esperienza di vita personale e il suo percorso creativo è stato un lungo processo durato quattro anni. Come afferma la regista: « rappresenta per me un luogo universale e metaforico in cui ci mettiamo a confronto con noi stessi, risvegliando il nostro impulso creativo, nel miraggio di una liberazione individuale. Il film racchiude l’anelito collettivo, disperato e gioioso al tempo stesso, verso l’accettazione e il senso di appartenenza.»

Bombay Beach è un luogo a sud della California, 350 chilometri a sud-est di Los Angeles, conosciuto per il suo lago tossico, il Salton Sea. Meta turistica tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta di artisti quali Frank Sinatra e i Beach Boys, adesso città in gran parte abbandonata del declino ambientale ed economico.

Il lago Salton Sea è poco profondo, senza sbocco sul mare e altamente salino, situato all’estremità meridionale della California. Nel corso di milioni di anni, il fiume Colorado aveva creato in quel territorio un deposito alluvionato, creando fertili terreni agricoli e spostando costantemente il suo corso principale e il suo delta. Il fiume scorreva alternativamente nella valle o deviava intorno ad essa, creando rispettivamente un lago salato o un bacino desertico asciutto. Il livello del lago è dipeso quindi per secoli dai flussi del fiume e dall’equilibrio tra afflusso e perdita per evaporazione.

L’attuale lago si è formato da un afflusso di acqua dal fiume Colorado nel 1905. A partire dal 1900, infatti, un canale di irrigazione è stato scavato dal fiume Colorado al vecchio canale del fiume Alamo per fornire acqua alla Imperial Valley per l’agricoltura. Le paratoie e i canali hanno subito un accumulo di limo, motivo per cui furono effettuati una serie di tagli sulla riva del fiume Colorado per aumentare ulteriormente il flusso d’acqua. Però, l’acqua delle inondazioni primaverili ha superato gli argini del canale, deviando una parte del flusso del fiume nel bacino di Salton per due anni prima che le riparazioni fossero completate. L’acqua nel letto del lago precedentemente asciutto ha creato il lago moderno, che è di circa 24 per 56 km nel suo punto più largo e più lungo.

All’inizio del XX secolo il lago si sarebbe prosciugato, se non fosse stato che gli agricoltori usavano grandi quantità di acqua del fiume Colorado per l’irrigazione e lasciavano che l’eccesso fluisse nel lago. Negli anni ’50 e ’60, l’area divenne così una meta turistica, in cui crebbero hotel e case vacanza, di cui alcuni motivi di attrazione erano costituiti dal birdwatching e dalla pesca.

Negli anni ’70, a causa del cambiamento dei sistemi di irrigazione, gli scienziati lanciarono un allarme perché il lago avrebbe continuato a ridursi e diventare più inospitale per la fauna selvatica. Mentre, negli anni ’80, la contaminazione da deflusso agricolo ha favorito l’inquinamento e la diffusione di epidemie perniciose tra la fauna selvatica. Si sono così verificate massicce morie di uccelli, soprattutto dopo la scomparsa di diverse specie di pesci, da cui dipendevano, dovute all’enorme aumento della salinità dell’acqua. Cosa che spesso ha contribuito a rovinare il litorale del lago a causa dell’accumulo delle loro carcasse e a rovinare, riducendolo sempre di più, il turismo.

Susanna Della Sala documenta ed esplora le cause che hanno portato al tracollo di questa città fantasma, attraverso le voci di alcuni outsider del posto. Un’anziana e coraggiosa donna, Sonia, che manda avanti una delle poche attività di ristoro rimaste aperte; uno dei suoi figli, Adam, un rapinatore di banche in pensione, un artista in fuga da Los Angeles e il figlio squattrinato di un principe italiano.

In tal modo la regista scopre un universo dove tutto ciò che è “non allineato” diventa una forma di espressione di sé stessi, un mezzo per poter vivere insieme in un territorio privo di leggi. Così chi ha deciso di restare dando vita ad una piccola comunità dove l’arte, non solo guarisce gli animi, ma rende Bombay Beach un luogo magico, finisce con l’indicare una via per una rinascita. Individuale e collettiva.

La creazione, da parte di questa eccentrica comunità, di un festival artistico annuale, la Biennale di Bombay Beach, ha in tal modo iniziato ad attirare nuovamente dei visitatori, artisti, intellettuali, organizzatori di eventi e appassionati che vengono attirati dalla vitalità del posto.

Last Stop Before Chocolate Montain, un film dalla fotografia, sceneggiatura e colonna sonora praticamente perfette, vincitore di tre premi all’ultimo Festival dei Popoli di Firenze, non vuole essere una risposta alla crisi generale attuale, ma una dimostrazione che anche dalle rovine di ciò che si è stati si può ripartire.

Stonebreakers (qui il trailer) racconta, invece, cosa è accaduto negli Stati Uniti nel 2020, durante la rivolta Black Lives Matter a seguito dell’omicidio di George Floyd e le elezioni presidenziali, quando ha avuto inizio una vera e propria battaglia attorno ai monumenti storici. Un conflitto culturale e politico che ha iniziato a mettere in discussione il racconto della Storia d’America, insieme alla sua celebrazione attraverso le statue di Cristoforo Colombo, dei confederati e dei padri fondatori.

Il film ha partecipato a festival internazionali e nel 2022 ha ottenuto diversi premi: il Premio per la distribuzione Imperdibili, la menzione della Giuria e il Premio del pubblico Mymovies al Festival dei Popoli, il Premio per il Miglior montaggio e per la Migliore produzione di film documentario all’History Film Fest, infine il Premio Suono e Territori al Festival Mente Locale – Visioni sul Territorio.

Tra i tre è forse quello che maggiormente indica una strada collettiva per il superamento di una condizione sociale che non è soltanto quella degli afro-americani, dei nativi e dei latinos privati di risorse e diritti, ma anche di coloro che, pur sentendosi convintamente e intimamente “americani”, come ad esempio gli italo-americani così legati all’immagine di Cristoforo Colombo, dimenticano l’espropriazione della memoria operato a danno della loro comunità e di tutti coloro che in passato hanno contribuito allo sviluppo della nazione e dell’economia americane, senza però poterne cogliere i frutti più ricchi e importanti, sempre riservati alla classe dominante e agli imprenditori, banchieri e finanzieri, ieri come oggi autentici robber barons del capitalismo americano.

Mentre nei primi due film si assiste, lo si voglia o meno, al declino di una classe media bianca impoverita e marginalizzata, sostanzialmente con poche speranze di superare l’impasse in cui si è venuta a trovare, tra delusioni, sconfitte e crisi degli ultimi decenni, in quest’ultimo si assiste, attraverso le lotte diffusesi su tutto il territorio degli Stati Uniti, da Richmond a Minneapolis, dall’Arizona al South Dakota, passando per la Virginia, Washington, New York, Philadelphia, il Massachusetts e tanti altri luoghi ancora, ad una sorta di rinascita collettiva orbitante intorno a due fuochi precisi: quello delle lotte dei popoli espropriati di terre, diritti e identità reale, in nome di un melting pot mai realmente paritario, e quello per il superamento di una concezione degli Stati Uniti, del loro ruolo e del loro divenire, che deve fare i conti con una Storia che, sia da parte repubblicana che democratica, non ha mai smesso di presentare evidenti ingiustizie travestite da libertà e uguaglianza e una narrazione quasi del tutto “sbiancata” della formazione dello Stato e del potere.

Una storia in cui il militarismo svolge, come nelle parate del Giorno del ringraziamento, una funzione centrale, ma ormai indifendibile. Esattamente come la mostruosa presenza dei volti dei presidenti americani scolpiti principalmente, tra il 1927 e il 1941 durante la presidenza di Franklin Delano Roosevelt, il presidente celebre per la collaborazione interclassista iniziatasi con il New Deal, sulla cima del Monte Rushmore, posto al centro delle Black Hills e dei territori sacri per le tribù native dell’Ovest.

Alte 18 metri ciascuna, quelle sculture rappresentano i presidenti George Washington (1732-1799), Thomas Jefferson (1743-1826) Theodore Roosevelt (1858-1919) e Abraham Lincoln (1809-1865), scelti in quest’ordine perché rappresenterebbero rispettivamente la nascita, la crescita, lo sviluppo e la stabilità della nazione, espropriando completamente la memoria di coloro che erano un tempo i custodi di quel territorio, i Lakota Sioux, per i quali quel gruppo montuoso portava il nome di Tȟuŋkášila Šákpe ovvero Six Grandfathers (Sei Nonni).

Un ultimo appunto prima di finire: l’attualità dell’ultimo film è data anche dai drammatici eventi che si stanno svolgendo in Medio Oriente e, in particolare, a Gaza e nei territori palestinesi. E’ infatti impossibile, sentendo le storie di espropriazione territoriale, culturale e sociale narrate nel film di Valerio Ciriaci, non riandare immediatamente con il pensiero alla situazione palestinese, anch’essa non unica ma comunque estremamente paradigmatica di tutto ciò che si intende per imperialismo, colonialismo e genocidio.

Tre film, tre crisi convergenti (socio-economica, ambientale e politica), un unico grande quadro di disfatta del mito americano e dell’Occidente, così come si è voluto narrare fino ad ora.
Tutti e tre disponibili anche in streaming su Zalab View, la piattaforma on line creata da ZaLab, una delle più importanti realtà produttive e distributive nell’ambito del cinema del reale. Mentre per chi volesse organizzare altre proiezioni pubbliche è necessario scrivere un’email all’indirizzo: rovinedamerica@gmail.com


  1. Si veda W. Atkins, Tre grandi fuochi. Il deserto di Sonora, USA, in W. Atkins, Un mondo senza confini. Viaggi in luoghi deserti, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 261- 302.  

  2. Perché, ad esempio, doggy è stato tradotto con doge, là dove invece significa, senza ombra di dubbio, cagnolino o cucciolo?  

]]>
No, non è soltanto una questione di genere https://www.carmillaonline.com/2023/11/02/non-e-soltanto-una-questione-di-genere/ Thu, 02 Nov 2023 21:00:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79714 di Sandro Moiso

Rafia Zakaria, Contro il femminismo bianco. Appunti per un cambiamento radicale, add editore, Torino 2023, pp. 240, 18 euro

Rafia Zakaria è nata a Karachi in Pakistan ed è stata costretta a un matrimonio combinato a 17 anni con un uomo pakistano-americano, da cui è fuggita nel 2002, quando aveva 25 anni a causa delle violenze domestiche perpetrate dallo stesso. Dopo essersi iscritta alla facoltà di legge e aver conseguto una laurea specialistica in filosofia politica, è diventata avvocato, femminista, giornalista e scrittrice. Ha scritto per The «Nation», «Guardian Books», «The New Republic», «Boston Review», «Al Jazeera» [...]]]> di Sandro Moiso

Rafia Zakaria, Contro il femminismo bianco. Appunti per un cambiamento radicale, add editore, Torino 2023, pp. 240, 18 euro

Rafia Zakaria è nata a Karachi in Pakistan ed è stata costretta a un matrimonio combinato a 17 anni con un uomo pakistano-americano, da cui è fuggita nel 2002, quando aveva 25 anni a causa delle violenze domestiche perpetrate dallo stesso. Dopo essersi iscritta alla facoltà di legge e aver conseguto una laurea specialistica in filosofia politica, è diventata avvocato, femminista, giornalista e scrittrice. Ha scritto per The «Nation», «Guardian Books», «The New Republic», «Boston Review», «Al Jazeera» ed è editorialista di « Dawn» (il più importante giornale di linguaa inglese del Pakistan). Oltre che di “Against White Feminism: Notes on Disruption” (W. W. Norton & Company. New York 2021), è anche autrice di “The Upstairs Wife: An Intimate History of Pakistan” (Beacon Press. Boston 2016) e “Veil (Object Lessons)” (Bloomsbury Academic. London 2017). E’ musulmana, si identifica come una femminista musulmana e ha lavorato a favore delle vittime di abusi domestici.

Il libro appena tradotto in italiano dalle edizioni add, critica l’enfasi che il pensiero femminista convenzionale pone sulle esperienze delle donne bianche escludendo quella delle donne di colore, motivo per cui, fin dalla sua uscita in lingua inglese nel 2021, molti commentatori hanno accusato Zakaria di minare il movimento femminista e di fare il gioco del patriarcato attraverso i suoi attacchi al femminismo bianco.

Partiamo da quest’ultimo punto per comprendere invece l’importanza di un testo che esce mentre tutto il furibondo odio razziale, per anni appena mascherato dietro una facciata liberal e perbenista, sta esplodendo in Europa a causa della situazione venutasi a creare in Palestina a seguito degli attacchi subiti da Israele il 7 ottobre. Un testo che, fin dalle prime pagine, affonda il bisturi dell’analisi nelle radici ottocentesche del “femminismo bianco”. Prima di fare ciò, però, l’autrice chiarisce, fin dalle prime pagine, che:

Una femminista bianca è una persona che rifiuta di riconoscere il ruolo che la bianchezza, con il conseguente privilegio razziale, ha avuto e continua ad avere nell’universalizzare le preoccupazioni, l’agenda le convinzioni delle emministe bianche, spacciandosi per quelle di tutti i femminismi e di tutte le femministe. Non bisogna essere bianche per essere femministe bianche. […] Il termine descrive una serie di presupposti e comportamenti integrati nel femminismo occidentale mainstream, anziché l’identità razziale dei suoi soggetti. E’ pur vero, tuttavia, che la maggior parte delle femministe bianche sono in effetti bianche e che la bianchezza è al centro del femminismo bianco.[…] Più in generale per essere femministe bianche è sufficiente essere persone che accettano i benefici confriti dalla supremazia bianca a spese delle persone non bianche, pur affermando di sostenere la parità di genere e la solidarietà con ttte le donne. [quindi] questo libro è una critica della bianchezza all’interno del femminismo: vuole indicare cosa va reciso e cosa distrutto, affinché possa essere sostituito da qualcosa di nuovo e di migliore. Spiega perché gli interventi che si sono limitati ad aggiungere donne nere, brown e asiatiche alle strutture di potere esistenti si sono rivelati un fallimento1.

Diciamolo pure, sono affermazioni forti che sembrano essere una semplificazione delle profonde contraddizioni sociali che ruotano intorno alle questioni di parità di genere e di differenza di classe e di linea del “colore”, ma hanno un pregio evidente poiché non temono di sbattere in faccia al lettore quella crisi dell’universalizzazione dei valori occidentali e bianchi attraverso cui viene letta ancora troppo spesso la complessità di un mondo che si è fatto sempre più grande, per tramite della globalizzazione non tanto economica quanto delle contraddizioni che lo animano anche fuori dell’ormai ristretto perimetro del mondo bianco o occidentale qual dir si voglia.

Una visione colonialista, dal punto di vista culturale ma non solo, che ha sempre ritenuto di poter affermare che ciò che entro i propri confini era dato, anche troppo facilmente, per scontato doveva essere tale e valido in ogni altra parte del globo, in ogni altra società e per ogni altra cultura. Compresi i valori di una Sinistra, talvolta anche radicale, che per certi versi, fin dalle origini era stata segnata da un severo stigma colonialista, legato ad una pretesa superiorità del mondo che l’aveva prodotta. Sostituendo troppo spesso il compito imperialista kiplinghiano dovuto al white man burden (fardello dell’uomo bianco) con una sorta di proletarian or social democratic burden originato da certe riflessioni risalenti a Engels e, soprattutto, a Karl Kautsky2.

Un primo esempio di una concezione di tale natura viene alla luce nel racconto che la narratrice fa di una nota e acclamata drammaturga femminista che in un articolo pubblicato su «Glamour» nel 2007, a proposito delle violenze , degli stupri e delle mutilazioni genitali subiti dalle donne della Repubblica Democratica del Congo, però, più che dar voce alle donne congolesi, sottolinea con enfasi ripetuta «ciò che lei fa e sente, anziché su ciò che vede e ascolta, dimostra che il suo obiettivo è evidenziare il ruolo cruciale che lei, donna bianca, riveste nella vita di queste donne».

L’articolo di Eve Ensler su «Glamour» dimostra in che modo il complesso del salvatore bianco si interseca al femminismo nel XXI secolo. Una donna bianca si arroga il compito di parlare a nome di altre donne stuprate e brutalizzate, collocandosi nel ruolo di salvatrice, veicolo attraverso cui giungerà l’emancipazione. E’ anche un esempio di come il dramma “laggiù” sia usato come trmine di paragone per giudicare i successi delle donne in Occidente. ”Come siamo fortunate”, sono indotte le lettrici a concludere le lettrici dell’articolo, scuotendo tristemente la testa per le circostanze in cui vivono le donne in parti del mondo meno civilizzate3.

Ma questa attitudine a fornire un’immagine salvatrice della donna bianca ha, come si diceva all’inizio, radici lontane, guarda caso risalenti all’epoca coloniale, quando

I ruoli di genere ottocenteschi e il privilegio maschile limitavano notevolmente la libertà delle donne bianche nei loro paesi d’origine. Partire per le colonie era un’occasione di fuga eccezionale. In India o in Nigeria le donne avevano un vantaggio notevole, il privilegio bianco. Seppur subordinate agli uomini, in virtù del colore della pelle erano comunque considerate superiori rispetto ai soggetti colonizzati, superiorità che garantiva loro automaticamente un maggior potere e una maggiore libertà.
«In questo paese sono una persona! Sono una persona» esclamava un’affettuosa Gertrude Bell ai genitorin el marzo 1902. Scriveva dal monte Carmelo, a Haifa, dove si era recata pe rimparare l’arabo e sfuggire alle risatine sgarbate della società londinese. […] L’esotico Oriente offriva spazio a volontà per le signore londinesi fuori tempo massimo per il mercato matrimoniale e, come scoprì ben presto Gertrude, i privilegi dell’Impero compensavano gli svantaggi del genere. Davvero lei era una “persona” lì a Gerusalemme perché, a differenza di casa, la bianchezza la collocava sopra gran parte dell’umanità. […] L’esempio di Bell mostra che per alcune donne bianche inglesi le primissime esperienze di libertà al di fuori della casa e del focolare coincidevano con le esperienze di superiorità imperiale oltre i confini della Gran Bretagna e dell’Europa4.

Fermiamoci ancora una volta a riflettere e cerchiamo di cogliere come l’osservazione dell’autrice travalichi la condizione femminile per farci comprendere come tale “privilegio imperiale” potesse essere condiviso e motivo d’orgoglio anche per coloro che, maschi o femmine, pur appartenendo agli strati sociali inferiori della società classista bianca, potevano usufruire di maggiori vantaggi nelle colonie, naturalmente ancora a discapito dei colonizzati.

Miserabile privilegio che riempiva e riempie ancora d’orgoglio i pieds-noir francesi in Algeria oppure i coloni, violenti e altezzosi, dei nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania. O che nutriva i sogni “popolari” in stile Faccetta nera delle avventure coloniali italiane in Libia e in Etiopia. Celebre canzonetta che riuniva in sé sia la pretesa coloniale dell’italico Homo expugnator che la condizione di sottomissione della donna colonizzata, e che sta alla base ancora oggi di un immaginario e di uno sguardo sull’”altro” e l’”altra” in cui il razzismo si mescola al desiderio di dominare chi sta più in basso, un tempo manifesto nelle colonie e oggi lungo le arterie periferiche delle grandi città percorse di notte da cacciatori di squallide e miserabili avventure erotiche a poco prezzo.

Retaggio di una mentalità coloniale che, spesso inconsapevolmente, si esplicita nell’attitudine liberale a rimuovere qualsiasi simbolo identitario delle culture altre, come nel caso del velo per le donne o della proibizione di indossare la kefia in Francia e in Germania. Quel velo diventato nell’Algeria coloniale, come ci ricordava Frantz Fanon, in uno scritto del 1959:

la posta di una battaglia grandiosa per cui le forze di occupazione mobiliteranno i loro mezzi più svariati e potenti e il colonizzato svilupperà una stupefacente forza di inerzia. […] Prima del 1954, più esattamente dagli anni 1930-35, ha inizio la battaglia decisiva. I responsabili dell’amministrazione francese in Algeria, preposti alla distruzione della peculiarità del popolo, incaricati dalle autorità di procedere ad ogni costo alla disgregazione delle forme di esistenza suscettibili di evocare d vicino o da lontano una realtà nazionale, concentrano il loro massimo sforzo sull’uso del velo, concepito in questo caso come simbolo della condizione della donna algerina. Un simile atteggiamento non è la conseguenza di un’intuizione fortuita5.

Come sia andata poi a finire lo sappiamo dai libri di storia, così come in Afghanistan, dove l’uso del burqa, conseguenza di tradizioni locali indipendenti dalle prescrizioni religiose dell’Islam, fu usato come pretesto per giustificare una presunta “guerra per le donne” in quell’area. Anche quella andata a finire senza liberazione delle stesse, ma con un’ennesima catastrofe militare. Per finire, per amore della Storia, andrebbe poi ancora qui ricordato che i Vespri siciliani, che nel 1282 diedero vita alla cacciata della presenza angioina in Sicilia con una ribellione a furor di popolo, scoppiarono proprio a causa del tentativo di un soldato francese di strappare il velo dal volto di una donna di Palermo, in occasione del Lunedì dell’Angelo di quell’anno.

E’ uno sguardo a 360 gradi quello che il testo ci invita a sviluppare, in un conteso in cui l’intrecciarsi della questione coloniale con quella di genere può dar vita ad una miscela esplosiva, molto pericolosa per l’ordine costituito sia ad Ovest che a Est, a Nord come a Sud. Motivo per cui è preferibile lasciare alle lettrici e ai lettori più attente/i e più interessate/i scoprire, pagina dopo pagina, tutti gli esempi, i casi, le storie e le ipotesi di lavoro e di lotta proposti da Rafia Zakaria, riportando qui, però, le considerazioni svolte dalla stessa proprio nelle pagine finali del libro.

Mentre stavo finendo di scrivere il libro, mi ha sopraffatto un senso di inquietudine. Separando le donne in bianche e non bianche, molte donne che amavo e rispettavo avrebbero potuto leggere le mie parole come un’accusa nei loro confronti […] E’ un riflesso della nostra società dilaniata e dei vividi contorni emotivi che la discussione sul razzismo suscita in noi. […] A questo scopo ho provato a costruire una tesi che favorisca la possibilità di vedere il mondo attraverso gli occhi di altre donne. E’ una sfida individuale e collettiva e dobbiamo partire dalla consapevolezza che le donne non bianche l’affrontano da secoli, mosse non da chissà quale empatia o interesse razziale, ma dal bisogno di sopravvivere in un mondo governato dai bianchi. E’arrivato il momneto che le donne bianche si uniscano al lavoro e condividano il fardello.
[…] Questo libro è una tesi a favore di un femminismo posizionato ontro una frontiera molto specifica, quella della bianchezza – in cui la bianchezza non è intesa come una categoria biologica, ma come l’insieme di pratiche e idee emerse dal sostrato della supremazia bianca, eredità dell’impero e della schiavitù. Al momento il femminismo è spaccato rispetto a quella frontiera, rendendo impossibile un “noi” donne davvero unito, in parte perché non siamo disposte a discutere e affrontare ciò che la bianchezza ha fatto al femminismo, ciò che gli ha rubato. Ma la bianchezza può essere recisa attraverso uno stravolgimento dichiarato e visibile delle strutture di potere. Dobbiamo abbandonare l’appendice dell’inclusione […] Dobbiamo denunciare chi continua ad aggrapparsi alle storie , ai racconti e alle forme di esclusione, anche aggrappandosi alla tradizione. E le femministe che hanno sfruttato troppo a lungo il privilegio della bianchezza per impostare un femminismo a cascata devono lasciare spazio a un femminismo disposto a battersi per smantellare l’establishment6.


  1. R. Zakaria, Contro il femminismo bianco. Appunti per un cambiamento radicale, add editore, Torino 2023, pp. 9-10.  

  2. Sulle differenze tra il pensiero di Friedrich Engels e quello di Karl Marx si vedano: H. Jaffe, Marx e il colonialismo, Jaca book, Milano 1977 e il più recente K. Saito, L’ecosocialismo di Karl Marx, Lit Edizioni, Roma 2023.  

  3. R. Zakaria, op.cit., p. 26.  

  4. Ivi, pp. 28-29.  

  5. F. Fanon, L’Algeria si toglie il velo (1959) in Fanon 1 – Opere scelte di Frantz Fanon, volume primo (a cura di G. Pirelli), Giulio Einaudi Editore, Torino 1971, pp. 150-151.  

  6. R. Zakaria, op.cit., pp. 231-234.  

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 23: Israele perduta tra le sue guerre https://www.carmillaonline.com/2023/11/01/il-nuovo-disordine-mondiale-23-le-guerre-perdute-di-israele/ Wed, 01 Nov 2023 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79758 di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e [...]]]> di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e filo-occidentale più in generale, non ha potuto fare a meno di notare che in quei 76 secondi di messaggio, filmato e trasmesso da Hamas il 30 ottobre dall’inferno di Gaza, le parole e l’urlo di Danielle Aloni, la donna presa in ostaggio insieme alla figlia di sei anni durante l’incursione del 7 ottobre, segnano una definitiva rottura di fiducia tra gli ebrei di Israele e l’attuale capo del governo Benyamin Netanyahu, la sua conduzione di una guerra scellerata e la pericolosità di una politica di occupazione coloniale sempre più genocidaria e arrogante. Ma non solo.

L’urlo di Danielle, insieme ai sondaggi che rivelano come un israeliano su due sia contrario all’operazione di terra a Gaza1, rivela una frattura più profonda. Quella che formalmente ha iniziato a manifestarsi da tempo con le dimostrazioni di piazza contro il governo Netanyahu, ma che da tempo una parte della comunità ebraica denunciava e continua a denunciare, dentro e fuori le mura del ghetto dorato di Israele.

Anche se, soprattutto qui nell’Italietta dell’opportunismo e del fascismo sempre strisciante e servile e del razzismo d’accatto, i media mainstream continuano ad usare termini bellicosi e insultanti nei confronti della comunità arabo-palestinese che da 75 anni rivendica il diritto al governo della propria terra senza imposizioni coloniali di alcun genere, esiste una storia di riflessioni sul destino di Israele e le sue origini provenienti proprio dall’interno del mondo e della cultura ebraica. Motivo per cui, qui di seguito, si cercherà di delineare ciò che Domenico Quirico ha sintetizzato nell’epigrafe posta in apertura di questo articolo attraverso le parole di storici, politici e filosofi di origine ebraica. Rimuovendo quindi quella stupida affermazione di “principio” secondo cui qualsiasi protesta o condanna anti-sionista va accomunata immediatamente all’anti-semitismo.

Come ricorda in uno dei suoi testi più importanti uno degli storici israeliani che da decenni si battono per una revisione della storiografia dello Stato di Israele e sull’uso mitopoietico della Shoa, senza negarla ma inserendola in un contesto non più metafisico (il male assoluto), ma incastonato in un quadro storico e culturale, oltre che sociale ben più complesso:

Nel 1938, con la ribellione araba contro il Mandato sullo sfondo, David Ben-Gurion dichiarò:
«Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi quelli che si difendono, diciamo solo una mezza verità. Per quanto riguarda la sicurezza e la vita, noi siamo quelli che si difendono… Ma questa lotta è solo un aspetto del conflitto, che nella sua essenza è politico. E politicamente noi siamo gli aggressori, loro quelli che si difendono».
Ben-Gurion aveva ragione, naturalmente. Il sionismo era colonizzatore ed espansionista, sia in quanto movimento sia in quanto ideologia2.

Il mito del diritto al rientro degli Ebrei nei loro “millenari” territori d’origine, negando successivamente quello dei Palestinesi espulsi con la Nabka seguita alla dichiarazione dello Stato di Israele, si fondava sull’opera di un ebreo austriaco, giornalista, laico e privo della conoscenza della lingua ebraica, Theodor Herzl (1860- 1904), che a seguito dell’affaire Dreyfus (1894-95) di fatto inventò il movimento politico sionista.

Egli riassunse il suo punto di vista in un pamphlet profetico-programmatico di 30.000 parole: Der Judeenstaat (Lo Stato ebraico), pubblicato nel 1896, col sottotitolo Un moderno tentativo di soluzione della questione ebraica. […] Uno Stato siffatto avrebbe potuto essere utile alle grandi potenze sia in quanto «avamposto contro la barbarie», sia in quanto avrebbe risolto il problema della convivenza tra ebrei e gentili3.

I discorsi che abbiamo sentito negli ultimi giorni, ma anche negli anni precedenti, sulla barbarie di Hamas è dunque l’ultima manifestazione di una concezione razzista che il sionismo, non soltanto nel suo intimo, ha sempre portato con sé. Talvolta travestito sotto le spoglie del miglior utilizzo del territorio oppure sotto l’abito militare violento della rimozione e stermino dei “barbari”, ogni qualvolta questi osassero alzare la testa per non accettare una condizione schiavile a cui i colonizzatori li volevano ridurre e mantenere. E’evidente che una constatazione del genere ricorda una storia secolare di oppressione e sfruttamento coloniale non soltanto in Palestina (tutto sommato abbastanza recente), ma in ogni angolo del mondo in cui, a partire dal XV secolo, le potenze coloniali europee hanno fatto sentire il rombo dei loro cannoni e lo schioccare della frusta ai popoli sottomessi degli altri continenti.

Uno schiavismo, che come ricordava già Marx, non aveva nulla a che fare con quello delle società antiche, ma che ha costituito uno degli assi portanti del capitalismo, fin dalle sue origini. Uno schiavismo che sta alla base dei campi di concentramento usati dall’Uomo bianco in Sud Africa, in Nord America, in Australia, in India e successivamente qui in Europa con i lager e il gulag.

A testimonianza di ciò, occorre qui ricordare quanto scrisse Primo Levi, a proposito dell’intimo rapporto che legava l’industria pesante tedesca con l’amministrazione dei Lager, collegando per questo motivo i lager non alla metafisica del “male assoluto”, ma alla logica spietata dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale4.

Non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all’economia faraonica e ad un tempo di una saggia decisione pianificatrice: era palesemente opportuno che le grandi opere e i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.
I campi non erano dunque un fenomeno marginale e accessorio: l’industria bellica tedesca si fondava su di essi; erano un’istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata, e da parte delle autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e perfezionato, nel caso di una vittoria dell’Asse5.

Come si è affermato prima, le osservazioni e le note di Primo Levi rimettono sui giusti binari della Storia il tema della Shoa e dell’antisemitismo, liberandolo dai miti giustificazionisti dello stato di Israele per integrarlo all’interno dello sviluppo delle forme concentrazionarie che hanno reso possibile l’espandersi dello sfruttamento capitalistico, dal Panopticon di Bentham agli istituti carcerari privati americani di oggi, nati proprio come investimenti per l’utilizzo di manodopera a basso costo6.

Aggiungeva, però, poi ancora Levi:

Ora, il fascismo non vinse: fu spazzato, in Italia e in Germania, dalla guerra che esso stesso aveva voluto [e] il mondo […] provò sollievo al pensiero che il Lager era morto, che si trattava di un mostro appartenente al passato, di una convulsione tragica ma unica […]. E’ passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo era stato prematuro […] ci sono campi di concentramento in Grecia, Unione Sovietica, in Vietnam e in Brasile. Esistono, quasi in ogni paese, carceri, istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui, come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo7.

Non ha smesso di promettere la vittoria del bene contro l’”asse del male” e dei valori occidentali su quelli dei “barbari”. Trasferendosi talvolta là dove, invece, avrebbe formalmente dovuto essere escluso. Come sottolinearono allarmati, in una lettera al New York Times del 2 dicembre 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt.

Fra i fenomeni più preoccupanti dei nostri tempi emerge quello relativo alla fondazione, nel nuovo stato di Israele, del Partito della Libertà (Tnuat Haherut)8, un partito politico che nell’organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti Nazista e Fascista. È stato fondato fuori dall’assemblea e come evoluzione del precedente Irgun Zvai Leumi, una organizzazione terroristica, sciovinista, di destra della Palestina.
L’odierna visita di Menachem Begin, capo del partito, negli Stati Uniti è stata fatta con il calcolo di dare l’impressione che l’America sostenga il partito nelle prossime elezioni israeliane, e per cementare i legami politici con elementi sionisti conservatori americani. […]
Prima che si arrechi un danno irreparabile attraverso contributi finanziari, manifestazioni pubbliche a favore di Begin, e alla creazione di una immagine di sostegno americano ad elementi fascisti in Israele, il pubblico americano deve essere informato delle azioni e degli obiettivi del Sig. Begin e del suo movimento.
Le confessioni pubbliche del sig. Begin non sono utili per capire il suo vero carattere. Oggi parla di libertà, democrazia e anti-imperialismo, mentre fino ad ora ha apertamente predicato la dottrina dello stato Fascista. È nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere, dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro.
[…] All’interno della comunità ebraica hanno predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Come altri partiti fascisti sono stati impiegati per interrompere gli scioperi e per la distruzione delle unioni sindacali libere. Al loro posto hanno proposto unioni corporative sul modello fascista italiano. Durante gli ultimi anni di sporadica violenza anti-britannica, i gruppi IZL e Stern inaugurarono un regno di terrore sulla comunità ebraica della Palestina. Gli insegnanti che parlavano male di loro venivano aggrediti, gli adulti che non permettevano ai figli di incontrarsi con loro venivano colpiti in vario modo. Con metodi da gangster, pestaggi, distruzione di vetrine, furti su larga scala, i terroristi hanno intimorito la popolazione e riscosso un pesante tributo9.

Giudizio rafforzato da quanto dichiarato 34 anni dopo da Primo Levi in un’intervista rilasciata a Giampaolo Pansa a seguito del massacro di palestinesi avvenuto all’epoca a Sabra e Chatila in Libano.

Per Begin «fascista» è una definizione che accetto. Credo che lo stesso Begin non la rifiuterebbe. E’ stato allievo di Jabotinski: costui era l’ala destra del sionismo, si proclamava fascista, era uno degli interlocutori di Mussolini. Sì, Begin è stato suo allievo […] Begin sta in piedi soprattutto con i voti dei giovani e degli immigrati recenti, cioè non dei profughi dell’Europa Orientale, bensì di quegli ebrei che vengono dai paesi del Medio Oriente o che sono nati in Israele. E’ tutta gente che nutre una forte animosità nei confronti degli Stati vicini, dai quali spesso provengono, e ciò, in una certa misura, spiega questa guerra e quel che è avvenuto durante la guerra. La mia condanna comunque è totale10.

Secondo Hannah Arendt (1906-1975), storica e filosofa ebreo-tedesca e una dei più influenti teorici politici del XX secolo, uno «Stato ebraico» non si sarebbe limitato a distruggere l’entità palestinese, come già aveva denunciato nella lettera citata prima, ma si sarebbe rivelato pregiudiziale per la stessa comunità ebraica di Palestina. Uno Stato-nazione che traeva la propria legittimità da una potenza straniera e lontana era, a suo avviso, foriero di sicuro disastro.

Il nazionalismo è piuttosto nefasto quando s’appoggia unicamente alla forza bruta della nazione. Un nazionalismo che riconosce la necessità di dipendere dalla forza di una nazione straniera è ancora peggiore. E’ questo il destino incombente sul nazionalismo ebraico e sul progettato Stato ebraico, inevitabilmente circondato da Stati Arabi e popolazioni arabe. Persino una maggioranza di ebrei in Palestina – anzi, perfino il trasferimento di tutti gli arabi di Palestina, come i revisionisti [sionisti] richiedono apertamente – non cambierebbe, nella sostanza, una situazione in cui gli ebrei devono, nello stesso tempo, chiedere la protezione di una potenza estera contro i loro vicini e pervenire a un accordo efficace con loro. […] se i sionisti continueranno a ignorare i popoli del Mediterraneo e a guardare unicamente alle grandi potenze lontane, finiranno coll’apparire strumenti o agenti di interessi estranei e ostili. Gli ebrei che conoscono la loro storia dovrebbero rendersi conto che una situazione del genere condurrebbe inevitabilmente a una nuova ondata di odio anti-ebraico, l’anti-semitismo di domani11.

Ma i nemici non sarebbero stati soltanto fuori dalla comunità ebraica, visto che la stessa Arendt avrebbe in seguito manifestato i suoi timori per le critiche e minacce ricevute a seguito della pubblicazione del suo reportage sul processo Eichmann tenutosi in Israele (La banalità del male, Feltrinelli 1964).

Coloro che sono dalla mia parte mi scrivono lettere private, ma nessuno più osa farle circolare in pubblico. E con ragione: sarebbe estremamente pericoloso, poiché un’intera e assai ben organizzata muta [mob] di cani rabbiosi si scaglia subito su chiunque osi fiatare. Insomma siamo al punto in cui ciascuno crede in quello in cui tutti credono: in vita nostra abbiamo spesso vissuto questa esperienza12.

Basti pensare all’omicidio di Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano favorevole alla pace di Oslo, assassinato nel novembre 1995 da un estremista ebreo.
Oppure a quegli storici israeliani come Benny Morris, Ilan Pappe, Norman Finkelstein, Tom Segev, Shlomo Sand che per le loro ricostruzioni obiettive della storia dello stato di Israele e della cacciata dei palestinesi con la Nabka oppure per la critica dell’uso esagerato e ideologico della Shoa per giustificare i crimini contro i palestinesi, sono stati criticati, minacciati e perseguitati e, in alcuni casi (Finkelstein, figlio di sopravvissuti ai lager), costretti a recarsi in esilio all’estero a causa degli attentati subiti.

La violenza contro i Palestinesi si è dunque sempre accompagnata, in Israele alla violenza e alla repressione contro il dissenso interno. Fino a oggi, fino a quel video di cui si è parlato in apertura che è stato censurato dai canali televisivi israeliani in nome dell’unità e della sicurezza nazionale. Secondo Michel Warschawski, (figlio di un rabbino, nato in Francia nel 1949, trasferitosi ancor sedicenne a Gerusalemme e fondatore del movimento anti-sionista Alternative Information Center fin dal 1984):

Per giustificare dinanzi l’opinione pubblica locale e internazionale la violenza nei confronti dei civili, è indispensabile «decivilizzare» tale popolazione. Di qui l’uso sistematico, nei territori palestinesi occupati del concetto di terrorismo: la sanguinosa repressione di una popolazione è mascherata sotto il nome di «guerra contro il terrorismo». Non sono più donne e bambini che vengono dilaniati dalle bombe a frammentazione; non sono più intere famiglie che lo stato d’assedio condanna alla miseria e talvolta alla morte per fame: sono dei terroristi. Anche il concetto di guerra ha la sua importanza: lascia intendere che, di fronte alla quinta potenza militare del mondo, non c’è una popolazione civile, ma un’altra forza militare, e che ciò giustifica l’uso di carri armati, di elicotteri da combattimento e di aerei da caccia. […] è l’intera società palestinese che diventa il nemico; è essa che bisogna sradicare «come un cancro», come dirà un comandante in capo dell’esercito, Moshe Yaalon. […] Nonostante lo stato d’assedio e i bombardamenti, nonostante tutti i morti e i feriti, nonostante le massicce distruzioni e i colpi inferti alle istituzioni civili e militari, nessun segno di capitolazione è vista. La determinazione dei palestinesi e delle palestinesi, di ogni tendenza si esprime nella loro ostinata volontà di rimanere sul posto e di condurre una vita normale in mezzo alle distruzioni. […] Ma, come tutti gli imbecilli gallonati del mondo, i generali israeliani, compresi quelli che hanno deposto l’uniforme per diventare ministri, sono convinti che quello che non sono riusciti ad ottenere con l’uso della forza, lo otterranno usando una forza ancora maggiore13.

Aggiungendo una considerazione proprio sulla condizione reale di Israele:

Per ironia della storia, il sionismo che voleva far cadere le mura del ghetto ha creato il più grande ghetto della storia ebraica, un ghetto super-armato, certo e capace di estendere in permanenza il suo territorio, ma pur sempre un ghetto, ripiegato su se stesso e convinto che, al di fuori delle sue mura c’è la giungla, un mondo radicalmente e irrimediabilmente antisemita che non ha altro obiettivo che quello di distruggere l’esistenza degli ebrei, Nel Medio Oriente e su tutta la Terra14.

E sottolineando all’epoca, ancora a proposito degli accordi di pace di Oslo, che:

nel corso dei sette anni di «processo di pace», i palestinesi hanno assistito a una creazione di più del 40 per cento della colonizzazione ebraica su terre dalle quali Israele si era impegnato a ritirarsi entro cinque anni […] il periodo di Oslo è quello del più classico rapporto coloniale nei confronti degli autoctoni: favori, creazione di una classe di intermediari per gestire la vita quotidiana della popolazione occupata, polizia indigena per mantenere l’ordine15.

Ricostruzione di una situazione in cui, più che la crescita o meno di Hamas tra una popolazione che ancora a settembre di quest’anno, secondo un sondaggio, riteneva per il 53% che solo la lotta armata possa condurre alla formazione di uno Stato palestinese contro un 20% ancora convinto dell’utilità di quegli accordi, si è oggi resa evidente agli occhi di tutti la perdita di consenso dell’Autorità palestinese. Probabilmente per essere stata la “migliore” interprete, insieme a i suoi ormai corrotti leader, di quella ipotesi di accordo.

Il misto di nazionalismo offensivo e di vittimismo provoca all’interno della società israeliana una violenza che non è facile misurare dall’esterno. Eppure basta ascoltare le trasmissioni dei dibattiti alla Knesset per rendersene conto: [dove] si fa a gara a chi presenta il progetto di legge più drastico non solo contro i «terroristi» ma contro ogni forma di dissidenza in Israele. La Corte suprema e i media, ma spesso anche la polizia e la Procura16, pur facendo parte delle strutture di polizia o militari., vengono regolarmente denunciati come anti-ebraici, e persino come «mafia di sinistra». […] La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha , fra l’altro, come obiettivo la rovina del popolo di Israele.
[…] Questa scelta rischia, d’altro canto, di trascinare nella tormenta una parte importante delle comunità ebraiche sparse nel mondo. Il comportamento di Israele sulla scena internazionale rende odioso lo Stato ebraico in ogni parte del mondo, senza parlare dei pretesti forniti agli antisemiti di ogni sorta […] L’identificazione incondizionata, nel Nordamerica e in Europa, dei dirigenti delle comunità ebraiche con Israele rischia di avere conseguenze fatali per le comunità che essi pretendono di rappresentare. […] Nella catastrofe che si preannuncia, i portavoce spesso autoproclamati delle comunità ebraiche sparse nel mondo avranno anch’essi la loro parte di responsabilità. Anziché utilizzare l’esperienza accumulata in secoli di vita diasporica per mettere in guardia il giovane Stato ebraico, sono affascinati dalla forza. dall’immagine del parà ebreo che sa essere altrettanto brutale del legionario francese e del marine americano. Godono vedendo degli ebrei che, una volta tanto, non sono esclusi dal diritto, ma hanno finalmente l’occasione di escludere il diritto dalla loro esistenza17.

E’ giunto però il momento di interrompere questa lunga carrellata di giudizi e previsioni sull’azione e il destino dello Stato ebraico in rapporto alla condizione dei Palestinesi e degli interessi “reali” delle comunità ebraiche sia al suo interno che nella diaspora; constatando come tutto quanto è avvenuto dal 7 ottobre in avanti fosse ampiamente prevedibile, se soltanto i governi israeliani e, in particolare, quello di estrema destra di Benyamin Netanyahu, avessero voluto dare ascolto, ancor prima che al Mossad o allo Shin Bet, all’esperienza, alla cultura e alla riflessione di tanti che invece, seppur in misura diversa, sono stati osteggiati, colpiti, insultati all’interno della stessa Israele e dai suoi falsi alleati dei paesi occidentali. I quali ultimi, pur portando il vero fardello storico della Shoa, preferiscono ancora discolparsi appoggiandone qualsiasi sciagurata avventura militare.

Avventura, quest’ultima, destinata comunque a schiantarsi contro un mondo che, nel bene e nel male, sta manifestando sempre più il bisogno di allontanarsi dal modello culturale e politico occidentale. Certo non in nome di valori rivoluzionari e anzi, spesso, in nome di valori tradizionali, patriarcali e autoritari certamente non condivisibili da chi milita ancora nelle forze che intendono rovesciare, una volta per tutte, l’attuale modo di produzione e le sue distinzioni, ormai insopportabili, di classe, religione, “razza” e genere. Troppo spesso mascherate dietro a fumosi discorsi sui diritti, le libertà e la democrazia.

Modo di produzione, caratterizzato da contraddizioni, oltre che di classe, interimperialistiche di carattere geopolitico ed economico, che nel Medio Oriente, nel ruolo coloniale di Israele e nella questione palestinese trovano ancora uno degli snodi più importanti, esplosivi e fragili. Come ben dimostra il fatto che mentre in Ucraina gli Stati Uniti, pur in guerra, hanno potuto far combattere altri eserciti e popoli in nome dei loro interessi, a ridosso di Gaza, minuscola striscia di terra ma tutt’altro che insignificante politicamente, hanno dovuto muovere portaerei, soldati, aerei e sistemi balistici. Esponendosi in prima persona, ma anche cercando opportunisticamente di mascherare i propri interessi imperiali dietro un volto umanitario.

La colpa di Netanyahu, nei confronti degli alleati-padroni, è così quella di aver costretto il gigante americano a mostrare, in maniera confusa, le proprie carte, che sono sempre le stesse, sia nelle mani di Biden che di un presidente repubblicano: America First!
Questo ha indebolito ulteriormente Netanyahu, poiché gli Stati Uniti non potranno appoggiarlo apertamente fino in fondo e potrebbero anche abbandonarlo al suo destino, insieme a quello degli ebrei di Israele.

Molte cose si stanno muovendo nel mondo e non solo per responsabilità di Putin, Netanyahu, Zelensky, Hamas e tanti altri villain proposti in continuazione dai media occidentali come nemici o amici (sempre inaffidabili) da appoggiare o combattere a seconda del caso. Questa novità inizia a pesare sui rapporti internazionali18, a partire dalle Nazioni Unite fino alle divisioni interne all’Unione europea, ma anche sui popoli coinvolti in guerre sempre più feroci e senza altri sbocchi che la distruzione di uno dei contendenti oppure di tutti. Anche questo c’era nell’urlo di Danielle Albani.

Mentre la protervia, l’arroganza e la ferocia contenute nella risposta di Netanyahu durante la conferenza stampa dello stesso giorno non hanno fatto altro che dimostrare la confusione e la debolezza di un governo, di una strategia militare e di un uomo che, puntando tutto su una soluzione militare, hanno già perso. Senza riuscire ad incrinare l’orgoglio di un popolo e la sua capacità di resistere, sostanzialmente, da 75 anni allo stato d’assedio, alle prevaricazioni, alle violenze, ai soprusi, ai sequestri di beni e persone, alle torture praticate nei suoi confronti da ogni governo succedutosi alla Knesset, con la scusa di proteggere efficacemente le comunità ebraiche. Ora quella promessa è venuta meno, nella realtà e nello stesso immaginario degli ebrei di Israele e non basteranno certo le bombe sui campi profughi, sulle donne e sui bambini di Gaza a ristabilire quella fiducia.

Per numerose, già troppo numerose, che siano le perdite palestinesi, Israele ha perso senza aver ancor nemmeno affrontato l’inferno della resistenza in una città distrutta, un assedio il cui eccessivo prolungamento finirebbe con lo scoraggiare più gli assedianti che i difensori di Gaza City oppure la possibile discesa in campo delle milizie di Hezbollah. Che già in passato hanno dimostrato la capacità di di mettere in difficoltà Israele. Con una intensa guerriglia nel Sud del Libano che portò alla ritirata di Israele nel 2000. Oppure nel 2006, quando un’incauta missione di Gerusalemme nel Sud del Libano per liberare due soldati prigionieri si trasformò in 5 settimane di guerra, da cui Israele dovette sottrarsi con un non molto onorevole rapido ritiro.

Terrorismo è un’etichetta che si presta a molte definizioni, ma che, soprattutto, in Occidente serve a designare qualsiasi avversario politico che si opponga all’ordine imperante, anche con l’uso della lotta armata. Prima di Hamas ed Hezbollah sono stati definiti terroristi i combattenti dell’OLP e prima di loro i partigiani italiani (banditen per gli occupanti nazisti e per i fascisti che a loro si appoggiavano), solo per fare degli esempi. Terrorista è chiunque non appartenga all’ordine imperiale del mondo e si rifiuti di essere integrato nello stesso, con l’uso della forza oppure, più semplicemente, si rifiuti di abbandonare la terra su cui è nato e vissuto.

Le forze di sicurezza [israeliane] affermano che la loro azione consiste nel “prevenire il terrore”, ma le testimonianza dei soldati mettono in luce che il termine “prevenzione” è in realtà utilizzato in senso molto esteso, tanto da diventare una parola in codice per intendere qualsiasi tipo di azione offensiva attuata nei Territori. Le dichiarazioni qui raccolte mostrano che una parte significativa delle azioni offensive non mira a prevenire uno specifico atto terroristico, quanto piuttosto a punire, produrre un effetto di deterrenza o a rafforzare il controllo sulla popolazione palestinese. Ma l’espressione “prevenzione del terrore” costituisce una sorta di visto di autorizzazione per qualsiasi azione condotta nei Territori, oscurando la distinzione fra un uso della forza rivolto contro i terroristi e quello che colpisce i civili. La IDF può così giustificare il ricorso a metodi che servono a intimorire e ad opprimere la popolazione in generale19.

Facciamocene una ragione, così come per l’uso del termine anti-semita per chi si oppone al sionismo e al colonialismo israeliano. Siamo in compagnia di Hannah Arendt, Albert Eistein, Primo Levi e Marek Adelman (comandante della resistenza ebraica del ghetto di Varsavia) e tanti altri ebrei che vivono e sono vissuti nella diaspora. Senza sentire il richiamo di uno Stato che più che sforzarsi di esser tale si è trasformato in un ghetto per gli ebrei e per i palestinesi. Che forse un giorno troveranno il modo di liberarsi insieme.

Per ora ci basti registrare ciò che ha affermato un noto giornalista di «Haaretz» e dell’«Economist», Anshel Pfeffer: «Questa è la tragica fine dell’era Netanyahu. E quando dico “fine”, potrebbero passare mesi, forse anche un anno o due. Ma questa è la fine dell’epoca di Netanyahu»20. Prima molto probabilmente, forse ancora prima della fine della guerra in corso. Fatto che lega probabilmente il destino di Bibi a quello di un altro “messianico” difensore dell’umanità e dell’Occidente contro la “barbarie asiatica”: Volodymyr Zelens’kyj21.


  1. cfr. Nadia Boffa, Per ora Netanyahu è messo peggio di Hamas, «Huffington Post» 30 ottobre 2023  

  2. Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, Milano 2001, p. 837.  

  3. B. Morris, op.cit., pp. 33-37  

  4. Non a caso, forse, un ex-generale delle SS, che si occupavano della gestione e amministrazione dei campi di concentramento, Reinhard Höhn (1904-2000), sfuggito come tanti altri dirigenti e tecnocrati del Terzo Reich alla “denazificazione” fu il fondatore del primo istituto di formazione al management nella Germania del dopoguerra. Proprio per questo istituto è passata gran parte della dirigenza d’azienda tedesca: 600.000 persone almeno. Cfr. J. Chapoutot, Nazismo e management, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021 (ed. originale Gallimard 2020).  

  5. Primo Levi, Prefazione 1972 ai giovani, in P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi scuola, Torin 1972, pp. 5-6.  

  6. cfr. Nils Christie, Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag, Elèuthera, Milano 1996.  

  7. P. Levi, Prefazione 1972, cit., pp. 6-7.  

  8. Partito politico da cui deriva e ha le sue radici il partito di Netanyahu, il Likud, fondato nel 1973 proprio da Menachem Begin.  

  9. Albert Einstein e Hannah Arendt (più altri 48 firmatari), lettera al New York Times, 2 dicembre 1948  

  10. P. Levi, «Io, Primo Levi chiedo le dimissioni di Begin», intervista rilasciata a G. Pansa, «la Repubblica» 24 settembre 1982.  

  11. H. Arendt, Zionism Reconsidered ora in Idith Zertal. Israele e la Shoa. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, Torino 2000, p. 165  

  12. Lettera a Karl Jaspers del 20 ottobre 1963 ora in I. Zetal, op. cit., nota 104 a p. 161  

  13. M. Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana , Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 15-49  

  14. M. Warschaski, op. cit., pp. 63-64  

  15. Warschawski, op. cit., pp. 86-90  

  16. Occorrerebbe, forse, analizzare come una serie di successo come Fauda (trasmessa su Netflix), i cui principali attori sono oggi attivi in chiave militare a Gaza, abbia influito sulla formazione di una concezione più dura della funzione della polizia e dei servizi ad essa collegata e nel far ritenere inutile o vile chi non abbia un tale approccio ai problemi inerenti alle condizioni socio-economiche e politiche degli arabi in Palestina  

  17. Ivi, pp. 115-124  

  18. Al di là delle scontate condanne dei bombardamenti israeliani sui campi profughi da parte dei paesi del Golfo, costretti a ciò per non inimicarsi troppo l’opinione pubblica araba, oppure delle minacce provenienti dall’Iran, è da segnalare invece la rottura dei rapporti diplomatici con Israele da parte di vari paesi latino-americani come Cile, Colombia e Bolivia o la condanna della condotta militare israeliana da parte di un paese come il Brasile.  

  19. Premessa a La nostra cruda logica. Testimonianza dei soldati israeliani dai Territori occupati, (a cura di “Breaking the silence”), Donzelli Editore, Roma 2016, p.11.  

  20. A. De Girolamo – E. Catassi, L’ora di Netanyhau è giunta al termine, «Huffington Post» 1 novembre 2023.  

  21. Cfr. qui  

]]>
Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia / 3 https://www.carmillaonline.com/2023/04/16/le-probleme-nest-pas-la-chute-mais-latterrissage-lotte-e-organizzazione-dei-dannati-di-marsiglia-3/ Sun, 16 Apr 2023 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76436 di Emilio Quadrelli

Non, je ne regrette rien

Tra i molti temi che l’intervista ha evidenziato, centrale pare essere la questione della violenza e delle coeve pratiche illegali. Una illegalità che, per gli abitanti dei quartieri popolari, ha ben poco di esotico ma rappresenta la prosaica realtà vissuta quotidianamente. Di ciò si è parlato con un pugile senegalese con alle spalle una “vita di strada” piuttosto intensa. L’approdo nel Collectif, la sistematica pratica sportiva e la successiva politicizzazione lo hanno emancipato da ciò che, per gli abitanti dei quartieri poveri, appare come [...]]]> di Emilio Quadrelli

Non, je ne regrette rien

Tra i molti temi che l’intervista ha evidenziato, centrale pare essere la questione della violenza e delle coeve pratiche illegali. Una illegalità che, per gli abitanti dei quartieri popolari, ha ben poco di esotico ma rappresenta la prosaica realtà vissuta quotidianamente. Di ciò si è parlato con un pugile senegalese con alle spalle una “vita di strada” piuttosto intensa. L’approdo nel Collectif, la sistematica pratica sportiva e la successiva politicizzazione lo hanno emancipato da ciò che, per gli abitanti dei quartieri poveri, appare come un “destino” dal quale è impossibile sottrarsi. Un destino fatto di brevi “carriere criminali” le quali, il più delle volte, conducono a una esistenza fatta di carcere, tossicodipendenza e morte, oltre a una marginalizzazione pressoché assoluta. Dentro le enclave dell’esclusione sociale la guerra per il controllo del territorio, che in alcuni casi si riduce alla gestione di un solo palazzo, è tanto cruenta quanto violenta. Le micro gang che gestiscono lo spaccio sono continuamente in guerra tra loro ma non solo. Con una certa frequenza si assiste a rotture all’interno delle stesse micro gang e allo scatenamento di obbligate “rese dei conti” tra gli appartenenti mentre, nel frattempo, gli scontri con le forze dell’ordine si moltiplicano. Di tutto ciò ne parliamo con il nostro pugile senegalese C. M.

Ciao, hai ascoltato le cose sin qua dette, da te vorrei, per prima cosa, una descrizione di cosa significa vivere in uno dei “quartieri Nord”. In poche parole vorrei che tu riuscissi a descrivermi la vita sociale di questi quartieri nel modo più oggettivo possibile e, in particolare, la vita dei ragazzi.
La vita nei “quartieri Nord” non ha alcun mistero. Come tutti sanno vi è tantissima disoccupazione, molta precarietà e una enorme economia illegale, soprattutto droga. Lì ci cresci, quella è la tua vita. Lo spaccio è la principale attività, anche se qualche gang si dedica ai furti e alle rapine, il grosso è legato allo spaccio. In questa attività sono coinvolti i ragazzi sin dai 13, 14 anni perché in un “quartiere Nord” a quell’età sei già grande. Entri presto in una gang e spesso inizi anche a farti. Così entri in un circolo che ti brucia la vita. L’illegalità non è una scelta ma una via obbligata. A questo aggiungici i comportamenti dei flics con i quali sei, indipendentemente da cosa tu possa fare o non fare, continuamente in guerra. Loro si comportano come se fossero delle truppe di occupazione. Noi siamo la colonia interna, questa la nuda e cruda realtà.

Tu oltre che un pugile sei un attivista politico e sociale. Cosa puoi dire della tua esperienza, come valuti le cose che stai portando avanti?
Mi sembra che le cose che stiamo facendo con la boxe siano molto importanti, abbiamo costruito una realtà importante che ha permesso a molti, me compreso, di acquisire una identità sociale che prima non avevano. Poi è molto importante quanto stiamo facendo come precari e disoccupati anche se credo che, però, abbiamo una carenza grossa rispetto al carcere e alla attività dentro i quartieri. Dovremmo riuscire a costruire qualcosa dentro i quartieri come avevano fatto le Pantere nere. Una organizzazione che sia in grado di trasformare tutta quella rabbia – che lasciata a se stessa finisce in una guerra fratricida tra gang – in qualcosa di positivo, qualcosa che serva veramente alla nostra gente. Poi c’è il carcere e lì c’è proprio un vuoto.

Quindi, secondo te, una delle grosse mancanze è un intervento sul carcere?
A me sembra di sì. Il carcere, per la nostra realtà, non è un imprevisto ma un passaggio praticamente obbligato. Nei confronti del carcere, almeno nei confronti della massa carceraria, vi è un totale disinteresse. Eppure lì passa una fetta di classe. Credo che a noi manchi una esperienza come quella delle Pantere nere, perché penso che dal carcere potrebbero uscirne dei quadri veramente rivoluzionari che potrebbero avere grande peso e influenza per tutta la gente dei nostri quartieri.

Quanto affermato arricchisce di non poco l’insieme di questioni che fanno da sfondo alle vite dei “dannati della metropoli”. Repressione, razzismo, militarizzazione del territorio sono la cornice abituale con la quale devono confrontarsi le “masse senza volto”. Da tempo l’ordine discorsivo dominante a Marsiglia, non diversamente dalle altre metropoli europee, è governato dalle retoriche dell’ “insicurezza urbana” prodotta dall’agire fuori controllo delle nuove classi pericolose1. Ciò, per gli abitanti dei “quartieri popolari”, comporta un costante corpo a corpo con gli apparati polizieschi, un confronto che tuttavia viene affrontato in maniera del tutto impolitica dai primi. Le parole di C. C., una pugile franco algerino di 25 anni, riescono a mettere bene a fuoco tutta la politicità che la questione polizia, repressione e militarizzazione del territorio si porta appresso.

Con C., M., abbiamo parlato del carcere, della condizione illegale in cui molti di voi, almeno in certi momenti della loro vita, hanno vissuto e di come, tutto questo, comporti il dover affrontare continuamente il rapporto con la polizia. Questo problema è affrontato tra voi e, se lo è, in che maniera?
Questo è un problema enorme al quale tutte le nostre vite sono confrontate. La polizia si comporta con noi come un esercito di occupazione, è da questo che dobbiamo partire. Mi chiedi se tra noi abbiamo affrontato questo problema? Sì, lo abbiamo fatto e lo stiamo facendo soprattutto tra noi donne perché siamo noi quelle che subiamo maggiormente l’oppressione poliziesca e razzista. Per prima cosa abbiamo dovuto capire noi stesse che l’essere donne e il non essere bianche ci metteva in una certa condizione, una condizione da colonizzate. In seguito abbiamo compreso che non esistevano vie di uscita individuali, ma solo collettive e che, tutto questo, voleva dire lotta e organizzazione.

Lotta e organizzazione cosa significano concretamente?
Significa, intanto, costruire dei momenti collettivi nei nostri territori, dove vederci, incontrarci, discutere, fare delle attività autogestite. Avere, insomma, delle forme di socialità interamente nostre. In questo modo è possibile rompere la gabbia dell’individualismo che ti porta o a diventare un servo e una spia dei flics o a entrare in qualche gang con l’illusione di fare soldi e diventare qualcuno. Tutto questo, però, non avrebbe alcun senso, perché lascerebbe il tempo che trova, se non ci ponessimo anche il problema dell’autodifesa. Se vogliamo che nei nostri territori le persone ci vedano come una reale via di uscita dobbiamo essere in grado di esercitare la forza. Senza un esercizio della forza diventa tutto inutile. Sicuramente è importantissimo, anzi direi che è la cosa fondamentale, avere uno spazio dove i problemi e le questioni vengono affrontati così come non è meno importante costruire dei momenti di vera e propria scuola politica, ma tutto questo ha senso solo se sei in grado di esercitare la forza. Qua i problemi sono infiniti anche se, alla fine, il principale è la mancanza di soldi. Però, nel frattempo, almeno su alcune cose è possibile intervenire. Dobbiamo imparare a combattere contro chi, dall’interno, sfrutta e umilia la propria gente. Ma qua torniamo al discorso sulla polizia. La polizia governa grazie a tutte quelle figure che, in cambio della loro impunità, permettono il controllo del territorio. Queste agiscono come spie e informatori per cui sono, a tutti gli effetti, parte attiva della dominazione. Far capire, concretamente, che questi possono essere attaccati significa far crescere fiducia e consapevolezza tra le persone. Come vedi, anche in questo caso, si torna alla questione della forza perché per poter lottare occorre, per prima cosa, liberare il proprio territorio da chi ti è nemico ed è del tutto completare della polizia.

Cosa intendi per “scuola politica”?
Come puoi immaginare, la cosa valeva anche per tutte noi, non è che tra noi fosse presente una grande cultura politica. Di conseguenza, non vi sono strumenti per comprendere il vero senso della realtà che ci circonda. L’abitudine è quella di ricondurre tutto alla propria esistenza senza saperla collegare alla sua dimensione generale. Per “scuola politica” non intendiamo delle lezioni intellettuali su questo o quello ma, a partire da un fatto concreto – la storia di uno sciopero, di una organizzazione operaia, di una lotta di liberazione, di una battaglia delle donne e così via – organizziamo delle discussioni, intorno a dei testi, attraverso cui diventa facile dimostrare come l’agire collettivo consenta di raggiungere determinati obiettivi pratici. Poi, sicuramente, c’è chi, a partire da questo, sviluppa anche interessi più approfonditi. Io, per esempio, a partire dallo studio, minimo, della rivoluzione algerina sono passata ai testi di Marx e Fanon ma credo che non vi sarei mai arrivata se non fossi stata smossa da questioni concrete. Noi abbiamo letto e imparato molto da Mao perché nelle sue cose abbiamo sempre trovato un discorso teorico legato alla soluzione di problemi concreti.

Veniamo, così, alla questione polizia e autodifesa.
Noi sappiamo benissimo che non possiamo affrontare, o almeno lo possiamo fare raramente, i flics in campo aperto. Questo è possibile farlo nei cortei e nelle manifestazioni organizzandoci in squadre in grado di portare attacchi a determinate strutture, come banche, multinazionali, luoghi simboli dello stato ma questo è, come dire, quasi routine nel senso che in quei casi il numero di persone attrezzate per fare questo è abbastanza vasto. Tutta un’altra cosa è affrontare i flics sul territorio. Anche in questo caso agire collettivamente è l’arma principale. Se, di fronte a un fermo del tutto ingiustificato o a una irruzione in una casa, non si scappa ma si scende in strada, i rapporti di forza possono cambiare perché, a quel punto, i flics si trovano in svantaggio e non possono affrontare, se non chiamando numerosi rinforzi, la situazione. A quel punto, però, la situazione diventa talmente tesa che basta un nulla per farla esplodere e così, di solito, se ne vanno. Questo atteggiamento, però, non è facile da ottenere perché c’è molta paura, una paura che, in certi momenti, si traduce in rivolta a tutto campo ma, come in tutta la nostra storia abbiamo imparato, queste rivolte sono quasi sempre dei fuochi di paglia che si lasciano alle spalle ben poco. Ciò che serve, invece, è costruire organizzazione, consapevolezza e addestramento.

Vorrei chiudere chiedendoti sia che dimensioni ha, nei vostri territori, il ciclo economico legato allo spaccio sia in che modo, se lo avete fatto, lo affrontate?
Intanto cominciamo con il dire che lo spaccio, seppure sia sicuramente una realtà grossa e importante, riguarda pur sempre una parte, sicuramente considerevole ma pur sempre una parte, degli abitanti dei quartieri. La maggioranza sono operai, precari, disoccupati i quali possono anche lavorare come spacciatori ma non sono, come dire, spacciatori di professione. Quello che vale per lo spaccio vale anche per altre attività illegali.

Scusa se ti interrompo. Vuoi dire che in realtà ciò che avviene è un passaggio, più o meno costante, tra lavoro legale e lavoro illegale?
Sì, possiamo dire che è così. Certo esistono sicuramente gruppi criminali abbastanza organizzati, ma si tratta, almeno come numeri, di realtà limitate. Poi succede che, in assenza di altro, qualcuno per un periodo lavora per questi. Fa un po’ ridere ma esiste anche una precarietà illegale. Comunque questa è la realtà. Per questo lottare per il salario garantito ha anche lo scopo di emanciparci da questa condizione che, in un modo o nell’altro, ciascuna di noi ha conosciuto. Detto questo, però, il problema resta ed è un problema grosso perché, come facilmente puoi capire, spesso spaccio significa tossicodipendenza e tutto ciò che ne deriva. Al momento siamo obbligati a convivere con questa situazione, non siamo in grado di condurre una guerra aperta contro gli spacciatori e non solo e non tanto per una questione di rapporti di forza ma perché lo spaccio è una fonte di sopravvivenza per molti. Tutto questo lo potremmo affrontare in maniera radicale e definitiva solo quando saremo in grado di avere una determinata forza ma, soprattutto, quando avremo vinto la battaglia per garantire a tutti, occupati e non, un salario vero. Il problema dello spaccio e della droga lo si risolve modificando i rapporti di forza con lo stato e il potere politico perché è lì che sta il problema. Affrontare il problema dello spaccio pensando che questo non sia un problema di rapporti di forza, quindi un problema politico, con lo stato e le istituzioni significa demandare alla République e ai suoi flics in veste di assistenti sociali, educatori e via dicendo, un problema che è proprio la République che ha creato.

Solo un ultima cosa: per quale motivo hai equiparato gli assistenti sociali, gli educatori e altre figure simili ai flics?
Perché loro sono l’altra faccia della dominazione, sono delle figure del tutto complementari il cui fine è addomesticarci. Ma noi non abbiamo bisogno di narcotici di stato ma di autonomia politica, lotta e organizzazione.

Le cose ascoltate, per molti versi, parlano da sole. Ciò che nell’insieme emerge è la dimensione “concreta” dell’essere proletario in una città come Marsiglia. La molteplicità dei temi ascoltati obbligherebbe a una serie di riflessioni e ragionamenti che esulano dai limiti che un reportage etnografico obiettivamente comporta. Gran parte dei ragionamenti e riflessioni possiamo tuttavia in parte approfondirli volgendo lo sguardo verso il Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille, il quale mostra non poche “affinità elettive” con il Collectif Boxe. In origine, precari e disoccupati, rimandavano a due realtà distinte ma che a breve giro, sulla base delle non secondarie comunanze, si sono unificate. Questo percorso lo ascoltiamo attraverso le parole di L. B., infermiera precaria di una struttura medica privata, che del Collectif è una delle principali animatrici.

Tu sei una delle fondatrici del Collectif Autonome Précaires, su quali basi nasce questa esperienza?
Intanto nasce su base territoriale nel senso che la condivisione di una determinata condizione lavorativa l’abbiamo socializzata dentro il quartiere. Il nucleo originario del Collettivo nasce a Frais Vallon ma si è allargato abbastanza velocemente in altre zone e oggi siamo una realtà cittadina. La nascita territoriale è in qualche modo obbligatoria perché la precarietà rende, almeno inizialmente, praticamente impossibile organizzarsi sul posto di lavoro. Inoltre, cosa che non bisogna dimenticare, quando si parla di precarietà si parla anche di lavoro del tutto irregolare il che complica ancora più le cose. Prendere atto di una situazione collettiva è stato il primo passo per uscire da quell’individualismo a cui la condizione di precario conduce. La condizione precaria è una condizione che ti isola, che ti porta a pensare che solo tu puoi risolverti i problemi, che non esiste una condizione collettiva anzi, l’assurdo di questa condizione è che ti porta a vedere gli altri come nemici, come gente che può prendere il tuo posto e lasciarti senza lavoro. In quanto precario non hai alcuna possibilità di contrapporti, anche sulle minime cose, con il padrone. Devi accettare tutto, oppure andartene. Tieni anche presente che tanti precari hanno avuto qualche problema con la polizia e hanno precedenti penali e si ritrovano spesso con la polizia sul collo. Abbiamo costruito il Collectif per cercare di dare una risposta a questa situazione. Forse, però, prima bisogna dire un’altra cosa, il primo obiettivo che ci siamo posti è uscire dalla condizione di invisibilità sociale in cui la precarietà sociale ti obbliga. Questo ci è sembrato il problema di fondo. La condizione di precario ti relega nel mondo delle ombre, uscire da questa condizione è stato il nostro primo obiettivo. Oggi essere precario significa essere un marginale, un povero, un escluso e essere deprivati di una dimensione di classe. La stessa sinistra, basta pensare a ciò che è stato scritto in relazione alle rivolte delle banlieue, non parla mai di queste realtà come realtà di classe ma come luoghi della povertà e della marginalità. Pertanto, riacquistare una dimensione di classe, è stato il nostro primo obiettivo.

Quindi, per capirsi, la prima cosa che avete fatto è stato rovesciare le retoriche che, tanto a destra quanto a sinistra, fanno da sfondo a ciò che, nel passato, veniva chiamata questione sociale?
Esattamente. Rimettere al centro la questione di classe è stato il passaggio fondamentale per non cadere nelle trappole del sicuritarismo o del paternalismo assistenzialista che ne è l’esatto aspetto complementare. Il precario e il disoccupato sono considerati o come potenziali criminali o come soggetti da prendere in carico e disciplinare si tratta, cioè, di due forme di stigmatizzazione che deprivano il soggetto di qualunque identità. In questo modo tutta una fetta di società cessa di essere iscritta alla relazione capitale – lavoro salariato con tutto ciò che, inevitabilmente, ne consegue. Lottare come operai e proletari è stato il passaggio costruito dentro il Collectif.

Come si caratterizzano queste lotte e che tipo di strategia hanno?
Qua affrontiamo uno snodo essenziale che, secondo me, ha una valenza che va oltre la lotta in sé. Come si sa, per rimanere nell’ambito del precariato, gran parte di questa forza lavoro è impiegata in posti di lavoro non troppo numerosi, come per esempio la ristorazione o il settore turistico. Si tratta di aprire vertenze, con blocchi e picchetti, davanti a questi posti di lavoro e, al contempo, socializzare questa lotta con volantinaggi e megafonate per arrivare, in alcuni casi, a momentanei blocchi stradali. In questo modo si fa emergere l’invisibilità di questi lavoratori e si apre una vertenza. Coinvolgendo, almeno entro certi limiti, la città. Alla cosa si cerca di dare, chiaramente, la massima visibilità possibile ma anche la messa in campo di una forza rilevante. Per questo, nonostante si tratti di micro vertenze, mobilitiamo gran parte delle forze disponibili. Questo per due motivi. Per prima cosa un certo numero di persone presenti al blocco rende più sicuri i lavoratori scesi in lotta; secondo, questo modello, rompe concretamente l’isolamento in cui i lavoratori pensavano di essere. Se sei, per esempio, in dieci a lavorare in un ristorante e magari solo cinque o sei sono decisi a entrare in sciopero è normale che abbiano dei timori ma se vedono che una cinquantina di persone sono lì a sostenerli, la cosa cambia. Cambia per coloro che non hanno aderito, i quali magari cominciano a avere meno paura, cambia per il padrone che capisce che non può fare il bello e il cattivo tempo come gli pare. A ciò va aggiunto la cassa di risonanza che la lotta si porta dietro e che raggiunge anche altre situazioni le quali, a partire da ciò, possono pensare di mettersi in moto. Questo è ciò che la lotta in sé produce nell’immediato, poi vi è il resto.

Ecco, proprio questo resto sarebbe importante che venisse ben esplicitato.
Intanto c’è una considerazione che potremmo definire strategica e mi spiego. Sappiamo tutti benissimo quanto il lavoro sia frammentato e ciò, in una città come Marsiglia assume dei tratti macroscopici. L’idea, pertanto, di avere grosse lotte, se escludiamo gli scioperi generali ma quello è un altro discorso, è abbastanza difficile. Ciò che dobbiamo sforzarci di fare, questo il nostro obiettivo, è trasformare questa debolezza in forza. Se noi riempiamo la città costantemente di micro vertenze la rendiamo, di fatto, difficilmente controllabile. Sappiamo di non inventarci nulla di nuovo perché non si tratta di far altro che applicare nella metropoli imperialista attuale il principio della guerra nel deserto di Lawrence, ossia mille punture di insetto possono abbattere il rinoceronte. Alla frantumazione del lavoro dobbiamo contrapporre l’apertura di mille fronti. Mille fronti che, però, non rimangono isolati perché le vertenze non vanno viste come solo questioni sindacali ma come questioni politiche. Per questo, anche dentro la più piccola vertenza, cerchiamo di far convergere lì il maggior numero di militanti. In questo modo la vertenza diventa veicolo politico dello scontro tra le classi. Quella della separazione tra lotta politica e lotta economica, assunta in maniera rigida, è un retaggio tardo comunista che sicuramente non ci portiamo dietro. L’altro resto è dato dal giornale che stiamo provando a fare. Un giornale dei precari e dei disoccupati che metta al centro le lotte. Noi riteniamo che sia fondamentale avere un organo che amplifichi e metta in collegamento le lotte. Un giornale che esprima il punto di vista dei precari e dei disoccupati il quale diventa anche uno strumento finalizzato alla costruzione di organizzazione. Avere, chiamiamolo un “nostro giornale”, significa intanto avere una visibilità e rompere quindi le tante gabbie della marginalità ma, sopratutto, significa mettere in collegamento diverse situazioni ed esperienze. L’organizzazione non si costruisce a tavolino ma con e dentro le lotte.

A conclusione di tutto questo vorrei chiederti come siete arrivati a unificarvi con i disoccupati?
Si è trattato di un processo in gran parte scontato. La soglia tra precarietà e disoccupazione è quanto mai sottile per cui le due lotte sono molto simili. La condizione di disoccupato, e tieni presente che qua a Marsiglia è una condizione molto diffusa, è quella che conduce alle maggiori forme di marginalizzazione e criminalizzazione per cui esserci organizzati in quanto disoccupati ha voluto dire rivendicare, per prima cosa, la propria esistenza di classe una condizione che, per di più, tende a farsi tanto endemica quanto strutturale oltre che altamente funzionale all’attuale ciclo capitalista. È strutturale perché l’espulsione di forza lavoro stabilizzata è ormai un dato di fatto, funzionale perché dai disoccupati sono prelevate, volta per volta, quelle quote di forza lavoro momentaneamente necessarie per essere poi nuovamente confinate ai bordi della società. Il percorso dei precari e quello dei disoccupati, pertanto, non poteva che unificarsi. Va aggiunto, anche se questo è tutto un intervento da costruire, che la lotta dei disoccupati non può che affrontare anche la questione della militarizzazione del territorio.

In che senso?
I disoccupati sono identificati come classe pericolosa la quale è principalmente concentrata dentro determinate aree urbane le quali sono oggetto, in nome della sicurezza, di una massiccia militarizzazione del territorio. Ciò che stiamo vivendo è una guerra civile di bassa intensità condotta costantemente dallo stato imperialista nei confronti delle masse subalterne.

(3continua)


  1. Cfr.: E. Ciconte, Classi pericolose. Una storia sociale della povertà dall’età moderna a oggi, Editore Laterza, Roma – Bari, 2022  

]]>