coloni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. L’immaginario storico americano in The Walking Dead https://www.carmillaonline.com/2018/12/26/nemico-e-immaginario-limmaginario-storico-americano-in-the-walking-dead/ Tue, 25 Dec 2018 23:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49623 di Gioacchino Toni

Scrive Giancarlo Poidomani nel saggio Serie Tv e Public History: l’immaginario storico americano in The Walking Dead su «Storicamente», 14  – 20181 che se la Public History si basa su pratiche in grado di rendere più consapevole il rapporto di una società con il passato rendendo visibile oltre che “la cosa” anche la logica culturale e discorsiva degli sguardi di volta in volta implicati e depositati su di essa, «allora [...]]]> di Gioacchino Toni

Scrive Giancarlo Poidomani nel saggio Serie Tv e Public History: l’immaginario storico americano in The Walking Dead su «Storicamente», 14  – 20181 che se la Public History si basa su pratiche in grado di rendere più consapevole il rapporto di una società con il passato rendendo visibile oltre che “la cosa” anche la logica culturale e discorsiva degli sguardi di volta in volta implicati e depositati su di essa, «allora rintracciare gli elementi di un immaginario storico collettivo in alcune serie tv mainstream potrebbe rappresentare uno dei tanti strumenti a disposizione di un public historian».

Con questo spirito lo studioso legge la celebre serie televisiva (dal 2010) ideata da Frank Darabont, tratta dai fumetti (dal 2003) di Robert Kirkman, che prende il via con il risveglio in ospedale del vicesceriffo Rick Grimes in una realtà in cui dilagano gli zombie trovandosi costretto, insieme ad un gruppo di sopravvissuti, a fare i conti con un mondo nuovo popolato da walking dead e da altri scampati al contagio e a dover riscrivere le regole del vivere civile in un contesto che ha ridotto gli esseri umani a preoccuparsi dei bisogni essenziali.

Al centro della narrazione, insieme a un’umanità costretta a vivere in uno scenario post-apocalittico, è ravvisabile l’uomo contemporaneo post Twin Towers, in balia della crisi economica, «con i suoi problemi, i suoi dilemmi, il suo rapporto con la natura, la scienza, la fede, l’altro e il “diverso”». In tale contesto messo in scena da TWD si trovano riferimenti a tematiche di carattere religioso, scientifico, etico, storico, politico e culturale che molto hanno a che fare con l’attualità occidentale, soprattutto statunitense.

Di fronte a una realtà incomprensibile e ad un futuro imperscrutabile, l’essere umano si trova costretto a guardare al passato ma, si chiede lo studioso, a quale passato? Poidomani, rifacendosi alle riflessioni di Arnaldo Testi (“Il passato in pubblico: un dibattito sull’insegnamento della storia nazionale negli Stati Uniti”, «Storica», 6, 1996), scrive: «La serie si richiama ad alcuni capisaldi narrativi ben presenti nell’immaginario storico americano, con riferimenti ai principali eventi, processi, personaggi del processo di costruzione dello Stato e della nazione americana. Nel 1994 questo “canone” storiografico venne sistematizzato nei National Standards for United States History, una raccolta di problemi, idee e concetti relativi alla storia degli Stati Uniti che ogni studente americano tra i 10 e i 18 anni avrebbe dovuto conoscere. Il progetto era nato sotto le amministrazioni repubblicane di Reagan e Bush ed era stato portato a termine durante la presidenza Clinton. Ma l’approccio storico-politico che vi stava alla base era più vicino a quello della cultura liberal e progressista. Nei National Standards la storia veniva considerata come una disciplina di formazione civica, una risorsa strategica in una società democratica, precondizione di una corretta informazione politica».

Nella serie televisiva, sostiene Poidomani, si trovano riferimenti ai National Standards: «i pionieri e il processo fondativo dello Stato e della nazione americana; l’epopea della frontiera e della conquista del West; il genocidio dei nativi americani; la guerra civile e la segregazione razziale; la nascita della superpotenza americana nel XX secolo; il confronto tra la democrazia e i totalitarismi novecenteschi; la controcultura; la tensione verso la wilderness e la cultura nonviolenta; il femminismo». In TWD sono, inoltre, ben rintracciabili concetti e tematiche della storia contemporanea: «statualità, leadership e potere, massa e individuo, uso e abuso delle armi, pena di morte, scontro tra democrazia e totalitarismi, competizione per le risorse, rapporto tra scienza e potere e tra scienza e fede».

Grazie all’outbreak a spaventare il potere non è più quel fantasma che Marx ed Engels dicevano aggirarsi per il mondo ma un’orda di zombi. «Dallo Stato centralizzato nato in età moderna ed evolutosi tra XIX e XX secolo in Stato-nazione si assiste a una regressione a tanti micro-Stati (quasi delle tribù) rappresentati dalle comunità di sopravvissuti che vengono in contatto tra loro e si scontrano nel corso della serie: la Prigione, Woodbury, Terminus, Alexandria, Hilltop, il Regno, i Salvatori, ecc».

A tutto ciò si associano svariati riferimenti a elementi tipici, come la bandiere americana, di quel discorso patriottico presentato «come costituivo del processo di fondazione e di costruzione dello Stato-nazione». L’epopea dei primi pionieri americani aleggia costantemente nella serie: il tentativo dei protagonisti di accaparrarsi provviste e armi rimanda palesemente ai padri fondatori e così come questi ultimi anche i protagonisti di TWD sono costretti «a costruirsi una nuova identità e una nuova etica» rinegoziando i criteri di inclusione ed esclusione sociale e con essi l’affidamento e la gestione del potere. Si riscontrano però anche alcune importanti differenze: mentre gli insediamenti dei coloni si dotarono via via di fortificazioni che condussero alla costruzione di città, i sopravvissuti all’apocalisse zombie sono invece costretti al nomadismo. «Oltre a quella dei Padri pellegrini, la vicenda dei protagonisti di TWD ha come precedente storico immediato quello dei pionieri lanciati alla conquista della “frontiera”. Essa è metafora di un sogno di libertà e di espansione della nazione americana verso ovest alla ricerca di nuovi territori e di nuove opportunità».

Rick Grimes sembra incarnare la figura del leader che intende perseguire il bene comune a discapito dei singoli individui. «Non è difficile paragonare questa figura di un leader costretto, quasi suo malgrado, a prendere decisioni, accettarne la responsabilità e portarne il peso, a quella di un paese come gli Stati Uniti. L’America, infatti, dopo la fine della Prima e della Seconda guerra mondiale e soprattutto dopo il crollo dell’Unione sovietica, si è assunta il ruolo di superpotenza globale alla quale tutto il mondo deve guardare come esempio e come modello. Fino a sobbarcarsi, apparentemente suo malgrado […] compiti ingrati e impopolari di “poliziotto mondiale” e di “paese esportatore” di democrazia. […] Nel “secolo americano” gli Stati Uniti si sono sempre proposti come giovane democrazia repubblicana “sostenuta da Dio”, investiti del diritto-dovere di combattere le dittature e i totalitarismi. È questa una costante della autorappresentazione dell’America novecentesca (che si è assunta il ruolo di superpotenza alla quale tutto il mondo deve guardare come esempio e modello di democrazia) e quindi in lotta con le dittature per affermare a livello mondiale i valori della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione americana: da Hitler e Mussolini a Stalin e Mao, da Saddam Hussein fino a Gheddafi».

Lo scontro tra il gruppo di Rick e i diversi antagonisti riproporrebbe una tipologia di scontro tipicamente novecentesca: Rick viene presentato come leader democratico che si contrappone al Governatore-dittatore: «Tutto il suo discorso è caratterizzato dalla ripetizione della parola “Noi”, quella con la quale inizia la Costituzione americana».

«Grazie ai personaggi di Morgan e di Carol, il mito della wilderness si associa ai concetti di fuga regressiva, rifugio, meditazione e rigenerazione» ma più di loro «è Daryl Dixon il personaggio che incarna la tensione verso la wilderness, non solo come rifiuto della civilizzazione capitalistico-borghese, ma anche come aspirazione verso un mondo più autentico e genuino, contro gli artefatti della civiltà, con le sue ipocrisie e le sue doppiezze. La sua storia personale e familiare lo ha abituato a vivere e a sopravvivere nei boschi e nella natura selvaggia e ostile, imparando molte cose da esperienze dure ed estreme. Egli ricorda per certi aspetti la cultura e la capacità dei nativi americani di vivere a contatto con la natura, sfruttandone le potenzialità ed evitandone i pericoli».

Anche la tematica del femminismo e del rapporto tra i sessi trova spazio nella serie. Scrive a tal proposito Poidomani: «Nell’accampamento provvisorio sorto non molto lontano da Atlanta, dove Rick trova un gruppo di superstiti […], i ruoli sono ben definiti. I maschi pensano alla protezione e alla difesa della comunità dagli zombi. Le donne sono addette alle mansioni “domestiche”: cucinare, accudire i bambini ecc. La divisione sessista dei ruoli sembra fare un salto nel passato, almeno fino agli anni ’50. […] Ma già nel corso della prima stagione, con il diffondersi della “epidemia zombi”, anche le donne devono cominciare a emanciparsi, addestrandosi all’uso delle armi e rendendosi autonome rispetto ai tradizionali ruoli di genere. I due personaggi più importanti, da questo punto di vista, sono Carol e Andrea. La prima è la vittima di un marito violento e maschilista che avrà una vera e propria evoluzione “femminista”, fino a diventare un punto di riferimento nel futuro nuovo “assetto militare” del gruppo capeggiato da Rick. La seconda, provata dalla morte della sorella e disgustata dalla paura che l’ha paralizzata in alcune occasioni, decide di diventare padrona della sua vita, imparando a maneggiare una pistola».

Secondo lo studioso molte serie del nuovo millennio tendono a palesare la centralità delle donne e in TWD «la figura della donna diventa una risorsa simbolica del nuovo mondo»: è ad una bambina, la figlia di Lori, che «è affidato il messaggio di speranza che anche in un mondo post-apocalittico l’umanità sopravvive e si riproduce». Nella serie la speranza di un futuro viene però anche contraddetta: «La comunità nella quale si imbatte Tara nel sesto episodio della settima stagione è formata da sole donne. La leader di questa comunità rivela a Tara che tutte le persone di sesso maschile di oltre 10 anni sono state uccise dai Salvatori. [Con la] eliminazione dell’elemento maschile [svanisce] la possibilità della riproduzione, a conferma della mancanza di speranza per il futuro del genere umano in un mondo post-apocalittico».

«Le esperienze vissute dai protagonisti di TWD dimostrano non solo che il “vecchio mondo” con le sue regole etiche, sociali e civili non esiste più, ma anche che nel “nuovo mondo” non servono più i vecchi valori dell’esperienza, del buonsenso, della saggezza. Questi sono incarnati da due personaggi come Dale e Hershel, gli anziani del gruppo, i quali, infatti, finiscono per soccombere. Il Nuovo mondo è un mondo “giovane” nel quale sono pochi i cinquanta-sessantenni. Nel mondo post-apocalittico non ci sono più prove o testimoni. Non ci sono più documenti. La storia sembra una disciplina inutile e impossibile. Ma prima o poi i sopravvissuti dovranno fermarsi in modo più stabile e, se riusciranno a sconfiggere gli zombi e a trovare un antidoto per l’epidemia, dovranno sforzarsi di ricostruire il proprio passato per lasciare ai Carl e alle Judith una memoria di quello che era il mondo prima dell’apocalisse e quello della lunga “traversata nel deserto”. E a quel punto avranno di nuovo bisogno di storici i quali utilizzeranno qualsiasi tipo di documento, nel senso braudeliano del termine, per ricominciare a scrivere la storia».


 Serie completa di “Nemico (e) immaginario


  1. «Storicamente», 14 – 2018, no. 8. DOI: 10.12977/stor698qua il pdf 

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L’attivista riluttante, dentro il labirinto israelo-palestinese https://www.carmillaonline.com/2017/04/15/lattivista-riluttante-dentro-il-labirinto-israelo-palestinese/ Fri, 14 Apr 2017 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37401 di Giovanni Iozzoli

primavera_breve_coverFrancesco Migliaccio, Primavera breve. Viaggio tra i labili confini di Israele e Palestina, Monitor edizioni, Napoli, 2017, pp. 183, € 15,00

Primavera breve è un racconto di viaggio pieno di storie, facce e umanità. Ma ad essere protagonista del libro è l’idea del Confine e l’attrazione fatale che esercita sull’autore: il confine come espressione materiale e simbolica allo stesso tempo – nella divergente suggestione dell’appartenenza e dell’attraversamento. E quale luogo può esaltare il mistero polisemico del Confine, se non il Medioriente israelo-palestinese?

È un libro denso di vite concrete, dicevamo, [...]]]> di Giovanni Iozzoli

primavera_breve_coverFrancesco Migliaccio, Primavera breve. Viaggio tra i labili confini di Israele e Palestina, Monitor edizioni, Napoli, 2017, pp. 183, € 15,00

Primavera breve è un racconto di viaggio pieno di storie, facce e umanità. Ma ad essere protagonista del libro è l’idea del Confine e l’attrazione fatale che esercita sull’autore: il confine come espressione materiale e simbolica allo stesso tempo – nella divergente suggestione dell’appartenenza e dell’attraversamento. E quale luogo può esaltare il mistero polisemico del Confine, se non il Medioriente israelo-palestinese?

È un libro denso di vite concrete, dicevamo, ma tutte queste vite – le identità, i bisogni, le aspettative, i poteri – sono ordinate e informate dal sistema complesso dei confini plurimi che si sovrappongono nella Palestina occupata. E i confini non rappresentano tanto linee di divisione tra territori, quanto dispositivi che gerarchizzano e disciplinano la vita e decidono i destini: degli implacabili produttori di senso.

Il narratore non racconta molto di sé – si intuisce che è uno dei tanti cooperanti-attivisti-solidali che da decenni si recano in Cisgiordania per sostenere progetti di sviluppo e schierarsi dalla parte della causa palestinese. Ma è un’attivista riluttante, per così dire, dotato di uno sguardo acuto e disincantato, poco propenso a farsi arruolare alla causa senza “conoscere” realmente: e conoscere significa condividere, toccare, attraversare i mondi inconciliabili e sovrapposti che nell’arco di poche decine di chilometri determinano il viluppo di quella che definiamo “questione palestinese”.

È così che il protagonista racconta la sua esperienza in una famiglia di contadini israeliani nel villaggio nazareno di Zippori, per spostarsi poi a Ramallah, a Gerusalemme, fino a ritrovarsi, quasi senza esserne consapevole, nel cuore di una colonia ebraica.

Il suo peregrinare è un attraversamento continuo, spesso quotidiano, di confini di ogni tipo: confini naturali, confini storici ormai superati, confini disegnati dall’Onu, confini amministrativi, confini di fatto, tracciati dalla forza delle armi e dell’occupazione. Muri, cancelli, filo spinato, checkpoint: confini incombenti eppure misteriosamente labili, porosi, dotati di un propria flessibilità politica. Il loro grado di attraversabilità definisce status e gerarchie di chi abita quel reticolo.

Lo sguardo del narratore si posa su ogni pietra, su ogni ulivo, a contemplare l’incredibile e inafferrabile ricchezza di queste terre: etiopi vestiti come galiziani dell’800, contadini israeliani schiacciati dalle multinazionali agrotech, palestinesi rampanti che reclamano il loro futuro di mercato, coloni assai poco religiosi tristemente consapevoli della loro funzione, mano d’opera tailandese che nei campi sostituisce l’insofferente forza-lavoro palestinese.

Ovunque una rassegnata ineluttabilità, una specie di destino comune tra nemici affini, in cui le vite e le storie sono condannate a condividere il medesimo spazio geografico agitato dai flussi della storia.

E sulla storia ci cammini sopra, da quelle parti, letteralmente. Non solo la storia arcaica di profeti e patriarchi, ma la storia violenta e struggente che sta dietro l’angolo della nostra memoria.

Passeggiando tra gli ulivi, il protagonista scopre che il paese attuale di Zippori sorge sulle rovine nascoste del villaggio arabo di Saffurya, che indietro nei secoli fu la città bizantina di Sepphoria. Nel 1948 gli israeliani distrussero il villaggio arabo, radendolo al suolo. Al suo posto pietre e ortiche e, un po’ più in là, il parco archeologico con un piccolo museo:

gli oggetti raccolti – monete, ceramiche – dimostrano che prima dell’ Esilio, il villaggio fu abitato dagli ebrei. Sui pannelli ho letto: 538. Cyrus of Persia allows the Jews to return from Babylonia… 70, The second temple is destroyed. La lingua ebraica scorre parallela all’inglese… L’archeologia si ammanta d’un velo di neutralità e dispone il tempo lungo una linea retta… Ogni reperto può diventare la testimonianza per una narrazione delle origini secondo un intento politico figlio della contingenza (p. 45)

È una terra in cui ognuno rivendica radici millenarie, ma nella quale tutte le identità sembrano posticce e tutti vorrebbero essere altro da ciò che sono, plasmando lo spazio urbano e geografico a misura della loro inquietudine. Poco lontano da Gerusalemme:

la terra mediterranea si è magicamente trasformata in una foresta pregna di nostalgie mitteleuropee… Qual è la patria anelata, qual è la Heimat di questi ebrei ritornanti? Sono i boschi della Germania, della Polonia, la foresta abitata dal bufalo lituano? L’Europa lasciata? Il paesaggio della foresta di Gerusalemme è un incrocio di desideri: un’Europa abbandonata che ritorna nella terra promessa per secoli abbandonata (p. 91)

L’autore-narratore, fedele al suo imperativo di “camminare attraverso” si ritrova a Ramallah in una delle settimanali manifestazioni contro il Muro, a succhiare la sua razione di fumo di lacrimogeni tra l’indifferenza di gran parte della popolazione locale e l’eccitazione degli “internazionali”. Le domande sorgono implacabili, oltre il politicamente corretto del “viaggiatore solidale”:

Voglio dirvi che la Palestina è un mercato a riposo forzato, e so che qualcuno ha iniziato a capirlo. Prevedo che la Palestina sarà uno stato libero, in un futuro non troppo lontano. Vi sarà libertà d’impresa e di scambio, libertà di importare merci e di costruire. Ho l’impressione che noi immaginiamo questo posto come la nazione della fionda, della kefiah, dell’Intifada, delle pietre contro gli occupanti. Io ora vedo Rawabi, una città costruita in pochi anni grazie ai fondi del Qatar: agglomerato di vetro e cemento nato su una collina che un tempo era terrazzato a ulivi. Vedo un campus universitario immenso, ancora in costruzione, e vedo il centro storico restaurato con guest house e vie abbellite con opere di artisti occidentali. Sono luoghi ancora deserti ma in attesa di esplodere (p. 109)

A Gerusalemme egli respira l’aria sospesa del Ramadan nei rioni arabi; poche centinaia di metri più in là, in un quartiere ultraortodosso condivide le ritualità ebraiche con uomini e donne che non si sentono israeliani e considerano il sionismo “un’eresia moderna”.

Confini su confini, contraddizioni su contraddizioni, e il povero cooperante occidentale, stranito, colto, dubbioso e aperto a ogni esperienza, giunge al culmine del suo viaggio dentro questo groviglio bio-politico: una colonia ebraica nella West bank, nei pressi del fiume Giordano. Qui l’occupazione si rivela nella sua nuda brutalità. E anche nella sua povertà, nella perdita progressiva di quell’aura di feroce entusiasmo, di quel sapore di epopea che si collega di solito alla parola “colono”: questi coloni sono poveri, consapevoli di rappresentare coi loro insediamenti, con la loro nuda esistenza, l’avamposto politico di Eretz Israel.

Questa vita diafana da fantasmi barricati in stanze con condizionatore è l’esito del sogno sconsiderato di Israele: avanzare in territorio nemico, dare una terra ai senza terra, usare i corpi dei senza terra per tenere le posizioni (p. 170)

Niente di eroico, sono la prima linea e basta. Fatica, terra, sudore, concessioni governative, costante protezione militare dentro un’enclave blindata e povera di vita, un futuro inafferrabile all’orizzonte. Il narratore sa che sono “oggettivamente” nemici di ogni coesistenza: se arrivasse la pace perderebbero tutto, la terra e il loro ruolo nella società israeliana. Quanti, da quelle parti, vivono sperando che il giorno della pace non arrivi mai?

Un bel libro, non scontato, dalla scrittura sobria ed elegante. Uno sguardo diverso, leggermente obliquo, sugli stereotipi “orientalisti” attraverso cui spesso, anche a sinistra, si legge il conflitto israelo-palestinese.

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