Claudia Attimonelli – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche inquiete. Il nero, il punk, il teschio… Processi di estetizzazione del malessere https://www.carmillaonline.com/2020/08/19/estetiche-inquiete-il-nero-il-punk-il-teschio-processi-di-estetizzazione-del-malessere/ Wed, 19 Aug 2020 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61486 di Gioacchino Toni

Claudia Attimonelli, Estetica del malessere. Il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 170, € 13.00

«Attraversando il nero è pressoché inevitabile interrogarsi sulle sue estremità ove si ritrovano mescolate le dinamiche che investono la darkness e la blackness, il lusso e lo sporco, il lutto e l’estasi, il punk e l’uniforme, Grace Jones e Charlotte Rampling, Adolf Hitler e Siouxsie Sioux.» – «Al tramonto degli anni Settanta, dandy e punk ricevettero una consacrazione sancita dall’unione di vertigine e caduta del quale repertorio iconografico [...]]]> di Gioacchino Toni

Claudia Attimonelli, Estetica del malessere. Il nero, il punk, il teschio nei paesaggi mediatici contemporanei, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 170, € 13.00

«Attraversando il nero è pressoché inevitabile interrogarsi sulle sue estremità ove si ritrovano mescolate le dinamiche che investono la darkness e la blackness, il lusso e lo sporco, il lutto e l’estasi, il punk e l’uniforme, Grace Jones e Charlotte Rampling, Adolf Hitler e Siouxsie Sioux.» – «Al tramonto degli anni Settanta, dandy e punk ricevettero una consacrazione sancita dall’unione di vertigine e caduta del quale repertorio iconografico si sarebbe nutrito il mondo della moda e del lusso per decadi a venire senza quasi dover muovere un dito per rinnovarsi.» Claudia Attimonelli

Teschi, vampiri, zombie, junkie ed estetica black da tempo sono parte integrante dell’iconografia occidentale. Visto che le scene urbane e mediatiche contemporanee celebrano l’immaginario dell’anomia e del disagio, viene da domandarsi perché male e malessere hanno proliferato nel corso dei secoli al punto da essere oggi percepiti come del tutto ordinari aspetti del quotidiano.

Attraverso gli studi visuali, la mediologia e la sociosemiotica, Claudia Attimonelli, nel suo Estetica del malessere (2020), uscito per la collana Anomalie Urbane, recentemente inaugurata da DeriveApprodi, indaga l’iconografia di tale fenomeno nel solco della schiavitù dei neri (tragica origine), passando in rassegna una serie di produzioni visuali, musicali, vestimentarie e artistiche coinvolte in questo processo di “estetizzazione del malessere” che integra il male nel quotidiano rendendolo innocuo e banale.

In tale scenario nero – segnato da teschi, macchie, sudiciume, malessere, disagio, anomia e morte –, il male, da pericolosamente banale (H. Arendt), per mezzo di un processo di estetizzazione «attraverso subdoli e lusinghieri travestimenti, continua il suo incedere tardo novecentesco, a tratti indolente, altrimenti risoluto, che con determinazione lo fa capillarmente accomodare tra le pieghe confortevoli del malessere comune del nuovo Millennio». (p. 84)

Nei contesti urbani il disagio è da tempo al centro di forme vestimentarie e cosmetiche derivate dall’intrecciarsi di “sprezzatura del lusso” ed elementi “dell’underground”. L’estetica mainstream ha ampiamente saccheggiato la vita disagiata di strada (dalle culture giovanili metropolitane agli homeless), dando luogo a linguaggi che, pur mantenendo traccia del malessere esistenziale, incarnano forme di coolness o di chic. Il mondo della moda ha attinto a piene mani dall’abbigliamento dei clochard – capi oversize, lacerati, macchiati, indossati stratificati uno sull’altro –, dalle fogge militari già détournate dagli street stile, dal nomadismo urbano giovanile e pendolare: ecco allora i vari “clochard couture”, “military chic” e “treveller style”, in un “contagio delle lontananze” in cui si intrecciano esteticamente hipster e pariah.

Il processo di estetizzazione di anomia e margini, oltre che la moda ha investito l’ambito mediale in un imperversare di estetiche postapocalittiche, paesaggi corrotti e scenari estremi: basti pensare al dilagante fenomeno zombie che, soprattutto a partire dal nuovo Millennio, si inserisce all’interno di una più vasta ascesa di un immaginario survivalista. Secondo Attimonelli il ricorso a

stilemi capaci di esaltare i tratti più vistosamente molli e decadenti quali l’usura dell’abito e le macchie, i buchi, i tagli negli indumenti, i bordi dell’abito che terminano in liminari contorni cenciosi, non vanno intesi come un nuovo decadentismo, né tanto meno come tracce che rinviano all’appartenenza a comunità marginali o vicine al piccolo crimine, bensì, in quanto manifestazioni di un afflato mondano esse incarnano la tragicità del quotidiano détournata in una sorta di disagio agiato. (p. 92)

La studiosa si sofferma anche sull’insistenza con cui viene fatto ricorso nella contemporaneità alla rappresentazione del cuore e del teschio. L’immagine del Sacro Cuore di Gesù – abitualmente posto al centro di una raggiera dorata con tanto di croce, corona alla sommità e intrecci di spine – viene introdotta in epoca barocca ma una volta disgiunta dalla tradizionale collocazione al centro del petto di Cristo, il Sacro Cuore diviene un feticcio a sé.

Dal punto di vista semiologico il trasferimento segnico-simbolico che ha visto il cuore nel corso dei secoli, da organo del corpo umano divenire rappresentazione di un sentimento potente quale l’amore (sia divino che terreno), ha avuto luogo a partire da un “residuo segnico non tradotto” […] un sovrappiù di significato, una sorta di pleonasma semiosico, […] un’eccedenza extra-anatomica, qualcosa che supera il mero organo vitale per espandersi placidamente insieme alla stessa estetica barocca. Ivi, infatti, troviamo un trionfo della significanza (la passione) sul significato (la vita viva) veicolato dal significante (il muscolo cardiaco). Una tale ridondanza semiosica si esprime attraverso la forma semplice e universalmente riconosciuta del cuore, laddove il colore rosso vivo e la collocazione al centro del petto coincidono con l’umanità e, per estensione, anche con i sentimenti connessi con la Vita. Seguendo questo filo rosso ritroviamo la rappresentazione cardiaca nella postmodernità. È il cuore fiammeggiante che gronda sangue, dai riflessi cromati e potenzialmente ammalato di carcinoma quello che oggi abita nelle ampollose ed enfatiche complex emoticon della rete e non più il simbolo scarno degli anni Ottanta né quello noto nelle scritte minimali delle t-shirt I love NY. Non è raro, infatti, rinvenire su schiene, braccia, nuca e polpacci, colorati tatuaggi che riportano il cuore trafitto dalla cui ferita sgorgano gocce lacrimose di sangue; talvolta il taglio della ferita cristiano – una breve linea rossa – diviene un occhio allorché alla misericordia del cuore palpitante di Cristo si associa l’illuminazione del Buddha. (p. 97)

Passando dalle danze macabre medievali, alle orrorifiche immagini barocche e alla sua versione più stilizzata novecentesca, il teschio è giunto sino ai nostri giorni e proprio grazie a questa sua evoluzione minimale, con il suo immaginario mortifero, è stato assorbito dall’industria della moda.

Il quotidiano si è connotato sempre di più di uno spettro immaginifico potente. Il subdolo addomesticamento del memento mori di hamletiana memoria si è insediato viralmente con la sua espressione di vacuità postumana e con la sua macabra onnipresenza ovunque, dalle t-shirt alle custodie per smartphone, soppiantando l’emanazione del terrore maligno che non riusciva più a esprimere la propria vocazione intimidatoria. […] Per la post-umanità del nuovo Millennio l’ordinario è l’anomico che può distinguersi, resistere. Dopo una pandemia che ha allontanato ogni essere umano dall’altro, mentre una marea di corpi si riversa in strada e lancia nelle acque torbide dei fiumi le statue del colonialismo americano, si avverte l’approssimarsi di un futuro che non deve costruirsi sul valore della sola cultura bianca occidentale: black lives matter. Il punk, il dandy, l’afrodark, sono le estetiche radicali del disagio ad alta implicazione segnica e sociale per quanto riguarda il genere, le relazioni interrazziali, i diritti. (pp. 104 e 112)

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Processi di ibridazione. La carne, lo schermo e l’inner space contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2020/07/13/processi-di-ibridazione-la-carne-lo-schermo-e-linner-space-contemporaneo/ Mon, 13 Jul 2020 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61115 di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli [...]]]> di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli individui tendono a rinunciare a qualsiasi relazione sociale significativa non gestita attraverso i media tecnologici, è su come gli attuali schermi, sempre più piccoli e leggeri, si stiano progressivamente fondendo con il corpo dell’utente perdendo la loro natura di medium, di strumento intermedio tra due diverse realtà, che riflette il sociologo Vanni Codeluppi nel suo contributo Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media – al volume curato da Carlo Bordoni, Il primato delle tecnologie (Mimesis 2020)1, in cui sono raccolti scritti di diversi autori sul rapporto tra tecnologia e individuo.

Nell’epoca della convergenza mediatica, tecnolgica e culturale il messaggio veicolato dagli schermi elettronici non è più vincolato alla superficie del supporto e tende a essere instabile, mutando costanemente sottoposto tanto alle strategie dell’industria dell’intrattenimento quanto ai desideri e all’uso autonomo praticato dagli utenti2.

Con lo schermo elettronico, il “vedere sopra” dei supporti fissi, ma anche il “vedere attraverso” tipico della prospettiva rinascimentale e frutto di una strategia visiva tesa a catturare lo sguardo dello spettatore, vengono sostituiti dalla promessa di “vedere dentro”, cioè all’interno del mondo mediatico. Lo spettatore rimane all’esterno dello schermo, ma si può muovere in sintonia con esso e non è più costretto a rimanere immobile dentro lo spazio, come accadeva con le forme precedenti di schermo, quale ad esempio quella che caratterizzava la televisione tradizionale. Ha così la sensazione di essere costantemente in contatto con lo schermo e di poter esercitare un controllo su quella realtà a cui lo schermo stesso gli consente di accedere3.

Da ciò l’individuo deriva la gratificante sensazione di essere, attraverso lo schermo, in contatto con l’intero mondo e di poter influire su di esso. Tutto ciò è ulteriormente rafforzato dai dispositivi tattili che suggeriscono una fusione tra strumenti e corpo dell’utente richiamando quella “nuova carne” indagata dal cinema di David Cronemberg passando dalla mutazione allucinatoria del corpo (Videodrome, 1983) fino a un interfaccia tra essere umano e game in cui universo reale e universo del gioco si con-fondono definitivamente (eXistenZ, 1999) dando luogo a un vero e proprio nuovo corpo-ambiente.

Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione. (Brian O’Blivion, Videodrome)

Come in Videodrome, anche in eXistenz Cronenberg insiste sulla centralità del corpo nella relazione tra essere umano e macchina in quanto luogo in cui si iscrive l’esperienza dell’individuo.

È collegato con te, sei tu l’alimentazione: il tuo corpo, il tuo sistema nervoso, il tuo metabolismo, la tua energia. Quando sei stanco si scarica e non funziona più correttamente (Allegra Geller, eXistenz)

La macchina innestata nel corpo umano risponde tanto alla necessità del capitalismo di estendere gli ambiti da cui estrarre profitto, quanto all’insufficienza della realtà quotidiana percepita dagli individui e al desiderio di un suo superamento alla ricerca di un nuovo mondo. Al regista canadese interessa mostrare la sempre più marcata indistinguibilità tra carne biologica e quella tecnologica, l’ibrido della “nuova carne”.

Se alla sua nascita il surrealismo, attraverso il recupero delle pulsioni vitali rimosse e il dar loro libero sfogo all’interno della realtà quotidiana, mirava al raggiungimento di quella completezza, quello stato di realtà superiore (surrealtà), comprendente tanto il livello conscio quanto quello inconscio, la filmografia cronemberghiana sembra voler rileggere tale ricerca di realtà superiore alla luce dei nuovi tempi contemplando l’interfacciarsi dell’essere umano con le macchine, soprattutto mediatiche.

Tali questioni sono al centro anche di Black Mirror (dal 2011 – in produzione, Channel 4 – Netflix), serie televisiva che forse più di ogni altra induce a riflettere sul rapporto tra individuo e tecnologie e sul pericolo del controllo. Scrive a tal proposito Claudia Attimonelli Corpo in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror (Rogas 2018) – che

il senso del titolo Black Mirror è analogico al finale di Videodrome (1983), quando Max Renn fuggendo lontano crede d’essersene liberato, ma è proprio quando gli schermi sono spenti e i dispositivi dormienti che le pratiche agiscono sui corpi online, a loro insaputa. “Lunga vita alla nuova carne”, esultava Renn, e all’alba del nuovo millennio Black Mirror ripropone i dilemmi della nuova condizione postumana.4

Suggestioni surrealiste sono prensenti anche in James Ballard che nelle sue opere ha indagato l’immaginario contemporaneo individuando proprio nell’inner space il luogo di conflitto tra differenti concezioni di libertà individuale e collettiva in cui si danno i maggiori cambiamenti epocali determinati soprattutto dai media. In un’intervista rilasciata al nostro Sandro Moiso nel 1992, recentemente data alle stampe in una curatissima edizione – J. Ballard, All that Mattered was Sensation (Krisis Publishing 2019)5 –, lo scrittore sostiene che se in generale è difficile definire il confine tra sogno e realtà, ciò lo è a maggior ragione ai giorni nostri:

l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger? Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale di un campo d’erba che cresce. Schwarzenegger rappresenta le più grandi mitologie commerciali della fine del XX secolo. Tristemente l’erba potrebbe morire domani a causa dello smog o dei gas emessi dalle macchine che passano lungo la strada. Questa differenza tra realtà e sogno è molto difficile da analizzare e, in diversi modi, il sogno è la nostra realtà. È più sensato pensare che i nostri sogni siano reali6.

Antonio Tursi Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi 2018) – ha approfondito le caratteristiche di tali nuovi scenari concentrandosi in particolare sul loro carattere politico-conflittuale e mettendo in luce come il rapporto tra corpi e immaginario (soprattutto tecnologico) risulti storicamente meno oppositivo di quanto sembri7.

L’intenso ricorso contemporaneo a schermi che tendono ad annullare la distanza che separa lo spettacolo rappresentato al loro interno e il fruitore incide sul modo con cui gli esseri umani conoscono la realtà sociale, dunque su quest’ultima stessa. A proposito dello schermo, nel suo scritto Codeluppi sottolinea come questo sia anche uno strumento di vertinizzazione, di messa in vetrina della realtà, in linea con un modello comunicativo introdotto dalle vetrine dei negozi, imposto socialmente sin dalla prima metà del Settecento8, poi affinato nel corso dei secoli successivi con l’ampliamento degli spazi commerciali e, negli ultimi decenni, con «l’adozione da parte dei principali ambiti sociali di quella particolare logica di rappresentazione visiva che contraddistingue le modalità comunicative appartenenti alla vetrina, non a caso una specie di grande schermo ante litteram»9.

Seguendo tale ragionamento, gli attuali youtuber, influencer, net attivisti ecc. rappresenterebbero allora alcuni degli esiti contemporanei di quel processo che ha preso via nelle metropoli europee attorno alla metà del XVIII secolo e che ha portato alla ribalta figure provenienti dalla folla generando un processo di estetizzazione del pubblico. Scrivono a tal proposito Claudia Attimonelli e Vincenzo SuscaUn oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis 2020)10 – occupandosi della serie telvisiva di Chris Brooker:

I diversi dispositivi caratterizzanti la vita metropolitana e le sue propaggini mediatiche hanno assecondato la progressiva traduzione del quotidiano e persino del triviale dall’altra parte degli schermi, delle cornici e delle vetrine, confondendoli tra loro in un incidente tanto spettacolare quanto gravido di conseguenze. Tra di esse, la prima e la più importante tra tutte – anche della democratizzazione della politica – è l’estetizzazione delle masse, che siamo stati abituati ad interpretare come la loro definitiva emancipazione, considerandola un affrancamento della cultura bassa nei confronti di quella alta. La sua onda lunga, a ben vedere, ci conduce dalle chiacchiere nei café londinesi costituenti i prodromi dell’opinione pubblica borghese alle chat di Telegram e ai dialoghi di Twitter, dalle prime fotografie raffiguranti gente ordinaria nella seconda metà dell’Ottocento alla celebrazione del quotidiano su Instagram, dalla raffigurazione di donne e uomini senza qualità come comparse nella Hollywood degli anni Trenta alle stories di Snapchat e ai video degli youtuber. Piaccia o meno il suo risultato, è qui in atto il divenire opera del pubblico, una dinamica della quale Black Mirror svela il compimento inatteso, i passaggi oscuri e gli effetti perversi.11

È difficile definire quanto si sia spinto in avanti il processo di ibridazione tra corpo e schermo, quanto l’immaginario contemporaneo risulti plasmato da tale con-fusione e quanto sia sottoposto a un processo di colonizzazione volto a estrarne profitto. Attimonelli e Susca, suggeriscono di

spostare la prospettiva ai bordi dello specchio nero, dove non troviamo che paradossi relativi a ciò che crediamo di conoscere in merito al nostro corpo venuto a contatto con le tecnologie immersive, del controllo, delle realtà virtuali e del gaming. Lasciando proliferare i margini del corpo, estendere i suoi orifizi e cedere le sue parti molli, si sovvertono, nostro malgrado, gerarchia e funzioni tradizionali degli organi e ci vengono restituite immagini oscene, destabilizzanti e triviali. Il nostro corpo abita la diaspora delle istantanee esternalizzate e collocate in memorie digitali accessibili a chiunque, il nostro corpo è irrimediabilmente di Altri. Non tutti sono pronti a questa mutazione.12

In Black Mirror la negatività con cui è spesso presentata la pulsione all’ibridazione del corpo con altro da sé, sostiene Claudia Attimonelli, sembrerebbe derivare dal timore della perdita di centralità dell’umano in una postmodernità segnata da una relativizzazione a cui, non di rado, si tende a rispondere con rigurgiti nostalgici per una fantomatica età dell’oro non più ripristinabile. «Rinegoziare costantemente, così com’è richiesto dalla serialità televisiva, il grado di umanità a partire dalla “fine del corpo umano” sembra essere il movente per Chris Brooker a ogni nuova stagione»13.

Guardando a Black Mirror come a un’anticipazione del nostro futuro, sostiene Attimonelli, sembra di scorgere

il cambio di paradigma che vedeva nel tecnocentrismo il contrario dell’antropocentrismo. Nel declino dell’antropocene sono altri i punti di fuga da considerare. A tratti sembra ci si orienti verso scenari diretti da principi tecnocratici e imbevuti di datacrazia […] Intorno a sistemi postmedievali di tortura del corpo si dipana l’immaginario dell’autodeterminazione, confessione, liberazione, valutazione, punizione, sperimentazione e iniziazione. Con l’emergere di queste forme neo-tribali veicolate da totem ad altissima tecnologia e intelligenza artificiale, nel silenzio della cultura scritta, nella sottomissione ai linguaggi elettronici, nell’“emozione pubblica”, sono i corpi a riprendere potere e vantaggio sul linguaggio. Esso, infatti, risulta essere fallimentare nella sua organizzazione tradizionale, non serve più a spiegare e retrocede dinanzi alle reazioni inedite della carne elettronica14.

Con una buona dose di ironia, oltre che di abilità autopromozionale, la notte in cui è stato eletto Donald Trump i produttori di Black Mirror, quasi a far risuonare la voce del professore Brian O’Blivion, predicatore della Chiesa Catodica in Videodrome, hanno lanciato un meme con la scritta “I realizzatori di Black Mirror confermano che l’elezione americana non è un episodio di Black Mirror” facendo seguito al profilo di Twitter della stessa produzione in cui si riportava: “Questo non è un episodio. Questo non è marketing. Questa è la realtà”15.

È andato in loop, non ne uscirà finché non dirai una battuta che appartiene al dialogo del gioco (Allegra Geller, eXistenz)

Di certo l’inner space dell’epoca della vetrinizzazione spinta, derivato (anche) dall’ibridazione corpo-schermo, è un ambito di conflitto. È altrettanto certo che tale conflitto non potrà essere risolto dal messianico arrivo di un eroe coadiuvato dal suo mentore in stile Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski. In qualche modo occorrerà arrangiarsi. In tal caso il vecchio slogan punk Do it yourself andrebbe però declinato al plurale.


  1. C. Bordoni (a cura di), Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020. Testi di: Cosimo Accoto, Carlo Bordoni, Vanni Codeluppi, Derrick de Kerckhove, Lelio Demichelis, Ernesto Di Mauro, Pierpaolo Donati, Adriano Fabris, Ubaldo Fadini, Marcello Faletra, Umberto Galimberti, Domenico Gallo, Riccardo Gramantieri, Giuseppe O. Longo, Michel Maffesoli, Alberto Oliverio, Matteo Rima, Carlo Sini Bernard Stiegler, Stefano Tani. 

  2. Sulle questioni concernenti la convergenza mediatica, tecnolgica e culturale si vedano i lavori di Henry Jenkins, in particolare il volume H. Jenkis, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007. L’idea che vedeva nella digitalizzazione un viatico per potenziare enormemente le capacità umane dispensando libertà, informazione e una generale propensione al bene comune viene contestata da vari studiosi. Pablo Calzeroni sostiene che i media digitali tendono ad amplificare gli effetti più alienanti del mezzo televisivo; interattività e connettività, anziché migliorare la qualità delle relazioni sociali, sembrano piuttosto averle ulteriormente impoverite incrementando isolamento ed alienazione sociale. P. Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano Udine 2019. Sul volume si veda: G. Toni, Nemico (e) immaginario. Desoggettivazione ed immaginario antisociale, Carmilla, 20 gennaio 2020. Altrettanto impietoso nei confronti delle possibilità emancipatorie digitali è Jonathan Crary che accusa il sistema tecnologico-mediatico attuale non solo di esercitare una funzione di sorveglianza e di indirizzo di tutte le informazioni prodotte on line, ma anche di intercettare e sfruttare la destabilizzazione umana dilatando i tempi e i modi di comunicazione, lavoro e consumo. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino 2015. 

  3. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, in C. Bordoni (a cura di) Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 33-34. 

  4. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immagini, culture e media della società digitale, Rogas, Roma 2018, p. 101. 

  5. James Ballard, All that Mattered was Sensation, Krisis Publishing, Brescia 2019. Testo bilingue con intervista e prefazione di Sandro Moiso e un saggio critico di Simon Reynolds. Sulle tematiche affrontate nel volume si vedano: G. Toni, J.G. Ballard e l’immaginario come luogo di conflitto, Il lavoro culturale, 18 dicembre 2019; S. Moiso, Un profeta per il XXI secolo, Carmilla, 8 gennaio 2020; S. Moiso, Leggere J.G. Ballard al tempo della pandemia, Scenari, 16 aprile 2020; S. Moiso, Wonderland, puntata del 16 gugno 2020, Rai 4, visibile su Rai Play

  6. James Ballard, All that Mattered was Sensation, op. cit., pp. 37-38. 

  7. A. Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica, Meltemi, Milano 2018. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2]

  8. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 

  9. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, cit. p. 35. 

  10. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, Mimesis, Milano-Udine 2020. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2] 

  11. Ivi, pp. 273-274. 

  12. Ivi, p. 175. 

  13. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror, cit. p. 97. 

  14. Ivi, pp. 102-103. 

  15. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, cit., p. 141. 

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Nemico (e) immaginario. Linee di fuga e conflitto oltre l’oscuro riflettere di Black Mirror https://www.carmillaonline.com/2020/04/28/nemico-e-immaginario-linee-di-fuga-e-conflitto-oltre-loscuro-riflettere-di-black-mirror/ Tue, 28 Apr 2020 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59302 di Gioacchino Toni

«Il grande assente dalle scene di Black Mirror è il corpo vivo del quotidiano, la poesia senza scrittura di quanti rosicchiano spazi e tempi di libertà interstiziale giocando tra il lecito e l’illecito, sospesi tra la sottomissione e l’insurrezione, di chi in modo surrettizio distorce il senso delle macchine, delle merci e delle comunicazioni in nome dell’ebbrezza di essere insieme, sfiorando il piacere anche nella dissipazione estrema del soggetto moderno» (Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca)

Anche il Web è un campo di battaglia, un ambito di conflitto, per quanto asimmetrico. [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il grande assente dalle scene di Black Mirror è il corpo vivo del quotidiano, la poesia senza scrittura di quanti rosicchiano spazi e tempi di libertà interstiziale giocando tra il lecito e l’illecito, sospesi tra la sottomissione e l’insurrezione, di chi in modo surrettizio distorce il senso delle macchine, delle merci e delle comunicazioni in nome dell’ebbrezza di essere insieme, sfiorando il piacere anche nella dissipazione estrema del soggetto moderno» (Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca)

Anche il Web è un campo di battaglia, un ambito di conflitto, per quanto asimmetrico. Certo la rete è territorio in cui imperversano dominio, alienazione, profitto e mercificazione, come denuncia la serie ideata da Charlie Brooker, ma non mancano, nemmeno lì, stratagemmi di sottrazione, di resistenza e sovversione.

Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca, nel volume Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis 2020), sottolineano come la serie, mancando di cogliere la complessità del reale, si riveli «uno spettacolo tanto fine dal punto di vista della concezione estetica, dell’architettonica e degli effetti speciali quanto superficiale sul piano sociologico, con particolare riferimento alla sociologia dell’immaginario e della vita quotidiana. Ad un’analisi puntuale, non è meramente un racconto che smaschera l’ideologia dominante nelle sue pratiche e nei suoi obiettivi, ma si pone anche come un suo specchio e strumento. L’una e l’altro appaiono disinteressati a cogliere il brulichio culturale in fermento al di là degli schermi e oltre i dispositivi di potere in campo.» (p. 69)

La rivoluzione industriale ha comportato un’estensione del dominio dell’alienazione ben oltre lo spazio lo spazio e il tempo del lavoro; se nelle pellicole che hanno messo in scena la tradizionale alienazione operaia questa si dava soprattutto nel momento del confronto lavorativo con la civiltà delle macchine durante la produzione, mantenendo momenti di libertà al di fuori di essa, in Black Mirror – es. 15 Millions Merits (15 milioni di celebrità, ep. 2, serie 1, 2011), Nosedive (Caduta libera, ep. 1, serie 3, 2016) e White Christmas (2014) – , sostengono Attimonelli e Susca, gli individui si presentano come «corpi post-umani integralmente assorbiti dalla tecnostruttura e dalle sue ramificazioni, senza più alcun margine di autonomia, salvo quello concesso da errori di sistema che, sebbene fatali, rappresentano i soli ed ultimi passi possibili per raschiare un residuo di libertà.» (pp. 88-89) Ad essere mostrata è pertanto una civiltà del tutto priva di godimento in cui l’esistenza è completamente in balia dell’alienazione.

A che livello, si chiedono gli studiosi, è allora possibile «intercettare uno iato dalla condizione associata con lo scambio tra la forza-lavoro del proletario versus il salario nell’Ottocento e il dono di sé del soggetto contemporaneo sotto forma di docilità nel rendere trasparenti i dati personali, nell’essere tracciati e nell’accogliere le multiple ingiunzioni provenienti dall’esterno della sfera personale?» (p. 70) Ad un modello che si regge sulla retribuzione sembra affiancarsi, più che sostituirsi, un modello fondato su un principio emotivo, affettivo e simbolico, piuttosto che materiale. Ciò non significa, sostengono Attimonelli e Susca, che non vengano monetizzate le attuali forme di socialità digitale, ma piuttosto che «ciò ha luogo a un piano troppo distante dalla sfera del vissuto perché possa essere considerato centrale su quello sociologico, semiologico e psicologico.» (p. 71)

L’immaginario collettivo pare ancora percepire la cultura digitale «come una dimensione intimamente legata all’abitare, a ciò che è spontaneo e gratuito nel senso etimologico del termine: gratuitus da gratia, la grazia, una forma di favore e di benevolenza senza ragione, pagamento o aspettazione di compenso.» (pp. 71-72) «Per quanto ingenuo possa sembrare […] lo spirito del Web e del suo corrispettivo negli scenari urbani è animato da una logica della comunicazione che privilegia le aree semantiche della comunità, della comunione e del comune. Ne consegue un investimento personale e societale ben più sostanzioso di quello agito tramite il denaro: esso ha a che vedere con la carne e con la fantasia, con i sentimenti e con le emozioni, con qualcosa al contempo più materiale e più immateriale degli scambi commerciali o finanziari. Per questo contempla un darsi completo, indiscriminato e irreversibile. Fatale, quindi, ma non secondo la visione univoca e soverchiante evocata da Black Mirror.» (p. 72).

Da parte sua Black Mirror, secondo i due studiosi, non mostra alcun piacere che non si riveli falso, distorto o perverso. I pochi barlumi di felicità che si riscontrano nelle puntate della serie assumono le sembianze di passioni fredde presto destinate alla disillusione: reificate dallo specchio dei media, nella logica semplificata di Black Mirror esse finiscono per divenire «cose tra le cose nel sistema degli oggetti, merci attorno ad altre merci. Frantumate in schegge disorganiche, finiscono per ferire la carne e demolire la psiche degli esseri umani.» (p. 75)

Per oltrepassare la parzialità della lettura proposta dalla serie, incentrata com’è sulla denuncia della perdita della soggettività, è necessario cogliere vie e pratiche di fuga in quella che troppo frettolosamente viene letta come mera passività dei soggetti. Nonostante la cupezza del discorso portato avanti da Black Mirror, almeno in alcune sue puntate – ad esempio in Hang the Dj (ep. 4, serie 4, 2017), San Junipero (ep. 4, serie 3, 2016) e Black Museum (pe. 6, serie 4, 2017) –, Attimonelli e Susca ritengono sia possibile intravedere qualche breccia nella serie e nel nostro quotidiano.

Su quelli che possono essere considerati i limiti dell’approccio critico veicolato dalla serie, si sofferma anche Federico Tarquini in un suo scritto intitolato Illusione (in Mario Tirino e Antonio Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale (Rogas Edizioni, 2018). Il regime visuale proposto da Black Mirror, sostiene lo studioso, da un lato tende a presentare il dispositivo digitale come superamento della visione biologica umana, dall’altro non manca di palesare come esso determini una particolare etica dello stare insieme in cui sono banditi i segreti. Se, come sostiene Georg Simmel, il segreto è un elemento costituente delle relazioni sociali, ne deriva che la sua esclusione imposta dalla tecnologia finisca per dare luogo ad una società in cui risulta estremamente difficile avere legami affettivi.

Nel regime visuale di Black Mirror, sostiene Tarquini, muta anche il rapporto tra visione e memoria. «Nell’era della rappresentazione questo legame si è espresso contemplando sia ciò che i propri occhi han visto, sia ciò che si presume di avere visto e che magari non si ricorda proprio per l’eccessivo tempo trascorso. Vista, visione, racconto, spazio e tempo si sommano in questo rapporto rendendo sofisticatissima l’azione della memoria nella cultura occidentale» (pp. 130-131). Il regime visuale della serie pare presupporre che a causa del dispositivo tecnologico, comportante l’espulsione dalla dimensione della memoria di tutto ciò che non appare certo e verificabile, si attui il superamento di tale complesso procedimento e tutto ciò viene presentato come un’amara illusione di progresso.

In The Entire History of You (Ricordi pericolosi, ep. 3, serie 1, 2011) ciò che sembra garantire un potenziamento della memoria e dell’esperienza quotidiana dell’individuo si rivela un dispositivo che lo condanna all’impossibilità di godere di relazioni affettive, dunque alla solitudine. «Insistendo così vigorosamente sul convincimento che le tecnologie infliggano un generale processo di falsificazione al piano del reale, Black Mirror sembra voler affermare l’illusione come ciò che caratterizza l’esperienza collettiva e personale dei media e delle tecnologie.» (p. 131). Nella serie l’illusione viene presenta come l’effetto principale del regime visuale imposto dalla tecnologia. Tale alterazione del rapporto tra percezione e conoscenza, suggerisce Black Mirror, conduce alla falsificazione del reale in ossequio alla volontà di un potere distopico talmente sofisticato da ottenere, attraverso la falsificazione, appunto, l’assoggettamento volontario degli individui ad una condizione alienata.

«La raffinata e coinvolgente linea narrativa che lega tutti gli episodi della serie sembra […] patire un limite teorico tipico del pensiero critico, ovvero sottostimare l’azione del soggetto quando entra in contatto con un qualsiasi medium» (p. 133). Da questo punto di vista la serie diverge da quelle letture critiche che vedono nel rapporto tra individuo e media un livello di complessità molto maggiore rispetto a quella proposto dalla serie di Charlie Brooker, una complessità colta, ad esempio, già da Walter Benjamin e dallo stesso Herbert Marshall McLuhan. Se il compito di Black Mirror è quello di metterci di fronte all’imbarbarimento in cui siamo precipitati, questo compito è svolto egregiamente. Prendere atto di ciò è certo indispensabile ma è giunto il momento di smettere di piangersi addosso volgendo mestamente lo sguardo al passato e imparare a leggere le linee di fuga e il conflitto nelle forme in cui si dispiegano qua e ora e, soprattutto, che possono darsi, più fragorosamente, in futuro.


Nemico (e) immaginario – serie completa

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Nemico (e) immaginario. Happycrazia e barlumi di rabbiosa umanità https://www.carmillaonline.com/2020/03/19/nemico-e-immaginario-happycrazia-e-barlumi-di-rabbiosa-umanita/ Thu, 19 Mar 2020 22:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58608 di Gioacchino Toni

«a fronte di un mondo organizzato sul principio del controllo e della valutazione, che estende a tutti la condizione della libertà vigilata, l’istituto penitenziario, luogo per eccellenza elaborato nella modernità al fine di punire e curare la devianza e ristabilire la “normalizzazione” dell’esistenza, in ossequio al vivere civile della società, si pone ormai per Black Mirror non in quanto gabbia, ma come una sorta di riserva dove gli umani possono esprimere in modo esacerbato ciò che resta del loro istinto – un’animalità smarrita e pervertita in rabbia. È l’ultimo rifugio dell’individuo, l’unica parentesi in cui questi può manifestare [...]]]> di Gioacchino Toni

«a fronte di un mondo organizzato sul principio del controllo e della valutazione, che estende a tutti la condizione della libertà vigilata, l’istituto penitenziario, luogo per eccellenza elaborato nella modernità al fine di punire e curare la devianza e ristabilire la “normalizzazione” dell’esistenza, in ossequio al vivere civile della società, si pone ormai per Black Mirror non in quanto gabbia, ma come una sorta di riserva dove gli umani possono esprimere in modo esacerbato ciò che resta del loro istinto – un’animalità smarrita e pervertita in rabbia. È l’ultimo rifugio dell’individuo, l’unica parentesi in cui questi può manifestare se stesso senza preoccuparsi dell’apprezzamento altrui. Al contrario, la vita collettiva, plasmata com’è da una solida alleanza di leggi neoliberali, reti sociali e tecniche di sorveglianza, appare come un sistema carcerario a cielo aperto da cui urge affrancarsi.» (pp. 54-55)

Così scrivono Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca analizzando la celebre serie televisiva ideata da Charlie Brooker nel volume Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis, 2020). Circa il come affrancarsi da una deriva paradossale in cui una minima traccia di umanità residua la si riscontra in qualche impeto rabbioso di chi vive la reclusione estrema del penitenziario, residuo moderno resistente ai cambiamenti, Black Mirror (dal 2011), sostengono gli studiosi, sembra invitare ad un rigetto della felicità illusoria ed effimera da cui si è quotidianamente bombardati da quell’happycrazia neoliberista in cui ogni «barbaglio di benessere dissimula in realtà uno specchio nero frantumato, la nostra vita ridotta a pezzi indistinguibili, disorganici e impotenti.» (p. 56)

Episodi come Playtest (Giochi Pericolosi, ep. 2, serie 3, 2016), 15 Millions Merits (15 milioni di celebrità, ep. 2, serie 1, 2011), White Bear (Orso Bianco, ep. 2, serie 2, 2013), insieme ad altri, sostengono Attimonelli e Susca, sottolineano come l’impressione di disporre del mondo intero attraverso un clic, celi di fatto la resa, più o meno cosciente, dell’essere umano alla subordinazione, al controllo e alla manipolazione operata da big data, social profiling, algoritmi ed intelligenza artificiale.

Questa costante sollecitazione all’attenzione a cui è sottoposto l’individuo ridotto a “carne elettronica” dai ritmi digitali, ha finito per negarlo in quanto soggetto dotato di un punto di vista. Dentro e fuori dal web, sostengono i due studiosi, si palesa una situazione di “orgia permanente” in cui l’individuo gode dell’altrui presenza solo nel concedersi, «come in una sorta di prostituzione sacra, sullo sfondo di una petite grande mort. […] Ecco perché possiamo suggerire che la “prostituzione generale” dell’esistenza segnalata e paventata da Marx nella sua analisi del modo di produzione capitalista sia oggi in corso di realizzazione, in modo integrale, ben oltre l’ambito della produzione e della sfera sessuale.» (pp. 51-52)

Episodi come White Christmas (Bianco Natale, 2014), Arkangel (ep. 2, serie 4, 2017) e Black Museum (ep. 6, serie 4, 2017), illustrano perfettamente come «in sintonia con il ritmo e con la morfologia delle nostre esistenze digitali, delle reti sociali e di ogni forma di interconnessione che scandisce il nostro vissuto, la condivisione ininterrotta dell’esperienza, l’essere-insieme incessante e la disponibilità illimitata nei confronti dell’altro afferenti al regno dell’always on, dello sharing, dei follower, dei fan, della geolocalizzazzione, ma anche dei sistemi di videosorveglianza, che ne rappresentano il contraltare oscuro, delineano la totale cessione dell’individuo, nella carne e nello spirito, a corpi che gli sono estranei. Questo cedimento, è il caso di sostenere, appare tanto più considerevole quanto più assecondato senza particolari forzature, per usare un eufemismo, da quanti vi sono coinvolti, i quali non mancano di apostrofarlo con cuoricini, like, smiley, sticker, Gif ed emoji entusiasti nel mentre avvertono di starne soffrendo e subendo le conseguenze tramite da un lato la riduzione della libertà personale, dall’altro l’incremento vertiginoso dello stress, dell’ansia e della sensazione d’impotenza.» (pp. 52-53)

Tutto ciò, continuano Attimonelli e Susca, è ben esemplificato dall’episodio Nosedive (Caduta Libera, ep. 2 serie 3, 2014), in cui gratificazione personale, successo e felicità degli individui dipendono dall’approvazione sociale ottenuta dai “contatti” in base al grado di soddisfacimento delle attese. Svuotata di ogni possibilità decisionale autonoma, la protagonista cade in uno stato di alienazione e angoscia che ne inibisce ogni libertà d’azione finendo paradossalmente per ritrovarne qualche residuo soltanto nello stato di prigionia, quando si lascia andare ad un’incontrollata reazione rabbiosa, nei confronti del vicino di cella, accumulata nel corso di un’esperienza esistenziale frustrante. Il suo è un sussulto disperato e rabbioso che incarna la violenza strutturale di un sistema rivelatosi spietato, un sussulto però capace di palesare un barlume, per quanto brutale, di istinto umano sopravvissuto.

Denunciare l’imbarbarimento in cui ci si accorge, quasi improvvisamente, di essere precipitati potrebbe non bastare. «Stiamo tutti morendo», sembra suggerirci la celebre serie televisiva, «o forse siamo già morti nel mentre la nostra esistenza è gonfiata, augmented ed estesa all’inverosimile tramite protesi, reti digitali, banche dati, algoritmi e tecnologie connettive in grado d’integrare la nostra coscienza, potenziare il nostro sentire e attualizzare le nostre fantasie.» (p. 47)

«Vediamo tutti quegli attori e cantanti che in tv o sui social, belli come il sole, invitano sorridendo la gente a restare a casa. Ma un operaio come fa?» Così si esprimeva un operaio brianzolo pochi giorni dopo l’esplosione delle disperate e rabbiose insurrezioni nelle carceri, in pieno dilagare del contagio e dell’inasprirsi di quello stato d’emergenza che, passo dopo passo, sembra essere divenuto elemento strutturale della contemporaneità.

Ci si spaventa facilmente di fronte a qualche barlume di una rabbia che, per quanto possa tragicamente assumere indirizzi irrazionali, pare comunque derivare da un disperato tentativo, del tutto umano, di riappropriarsi di se stessi in risposta a un sistema alienante strutturato sui principi della mercificazione, dello sfruttamento, del controllo e della valutazione, sistema che di umano pare davvero avere sempre meno.

What if? E se… a spaventare cominciassero ad essere i riflettori dell’happycrazia ed il luccichio dei suoi testimonial sorridenti, cosa potrebbe succedere?

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Nemico (e) immaginario. I riflessi di Black Mirror https://www.carmillaonline.com/2019/03/15/nemico-e-immaginario-i-riflessi-di-black-mirror/ Thu, 14 Mar 2019 23:50:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51530 di Gioacchino Toni

«Black Mirror è una monade: un’opera […] capace di tenere in sé le tensioni di un’epoca. È la rappresentazione più tangibile di una serie di angosce che accompagnano quelle azioni sempre più frequenti e, ormai, sempre più tangibili riassumibili nell’uso della tecnologia» Mario Tirino e Antonio Tramontana

Il successo globale ottenuto dalla celebre serie ideata da Charlie Brooker, che ha preso il via nel 2011 ed è ancora in produzione, inizialmente andata in onda su Channel 4 per poi passare su Netflix, oltre a dipendere da alcune indovinate scelte strategiche [...]]]> di Gioacchino Toni

«Black Mirror è una monade: un’opera […] capace di tenere in sé le tensioni di un’epoca. È la rappresentazione più tangibile di una serie di angosce che accompagnano quelle azioni sempre più frequenti e, ormai, sempre più tangibili riassumibili nell’uso della tecnologia» Mario Tirino e Antonio Tramontana

Il successo globale ottenuto dalla celebre serie ideata da Charlie Brooker, che ha preso il via nel 2011 ed è ancora in produzione, inizialmente andata in onda su Channel 4 per poi passare su Netflix, oltre a dipendere da alcune indovinate scelte strategiche di ordine produttivo e distributivo, ha sicuramente a che fare con la sua capacità di mettere il pubblico di fronte a problematiche e contraddizioni relative al rapporto dell’essere umano con l’ambiente tecnologico-mediatico contemporaneo. Questioni che coinvolgono il pubblico direttamente, persino nell’atto di fruire della serie stessa attraverso uno dei tanti dispositivi digitali, specchi neri, in cui il concreto e il visionario si confondono.

«La spettatorialità di Black Mirror, tuttavia, si caratterizza come un’esperienza al limite dell’incubo. Infatti, quegli stessi media attraverso i quali egli interagisce con la comunità dei fan sono oggetto dell’angosciante narrazione della serie. In termini più chiari, la serie di Brooker svela il potenziale angoscioso di un sistema mediale che è assai prossimo a quello in cui si muovono i suoi spettatori, i quali, così, sono protagonisti e spettatori della trasformazione antropologica raccontata sullo schermo. È in questa dinamica che si condensa il meccanismo del riflesso: gli specchi neri di smart TV, tablet, smartphone sui quali si proiettano le immagini digitali della serie, creando nello spettatore una fascio di reazioni emotive dall’angoscia alla paranoia, al terrore di smarrire il senso del proprio “stare al mondo”. Inoltre, i media, della cui terrificante evoluzione Black Mirror narra, sono gli stessi ambienti socioculturali in cui esperiamo grossa parte dell’esperienza quotidiana» (pp. 30-31).

Black Mirror si presenta, pertanto, come uno specchio i cui riflessi non possono lasciare indifferenti; le aberrazioni che vi si trovano riflesse sono anche le nostre, senza troppe distinzioni tra chi approccia gli schermi per mero intrattenimento e chi lo fa armato di nobili visioni critiche. Nel momento stesso che ci si rapporta con i dispositivi mediatici si è costretti a fare i conti con i loro/nostri riflessi e tutti, indistintamente, ci si trova di fronte al problematico rapporto quotidiano con una ambiente altamente tecnologizzato.

Sulla fortunata serie britannica è da poco uscito il volume curato da Mario Tirino e Antonio Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale (Rogas Edizioni 2018). Vengono qui affrontati da diverse voci diciassette lemmi utili a indagare la serie con l’obiettivo di interpretare il mutamento culturale, mediatico e di immaginari in corso nell’attuale società digitale globalizzata. I differenti contributi, come sottolinea Alfonso Amendola nell’Introduzione al volume, «si orientano attorno a tre macro aree, tra loro frequentemente intrecciate: i conflitti dell’immaginario causati da un “salto di qualità” ne rapporto tra uomo e tecnica […]; la trasformazione effettiva dei sensi e delle facoltà umane, generata appunto da tali conflitti […]; la fenomenologia dell’esperienza mediale nell’era della post-televisione» (p. 16).

A differenza di diversi altri prodotti culturali distopici recenti, la serie britannica si presenta in un formato antologico in cui ogni puntata risulta indipendente dalle altre. «Liberata dalle regole imposte da una trama rigida, la narrazione di Black Mirror è piuttosto ancorata al problema specifico posto in ogni puntata [in ciascuna  delle quali] vi è una tecnologia con problematiche differenti e in ognuna si percepisce uno stato d’animo singolare» (p. 21). La ricchezza della serie, secondo i curatori del volume, risiederebbe proprio nel suo affrontare un variegato ventaglio di questioni senza mai farlo in maniera esaustiva. «Da tale ricchezza ognuno ricava qualcosa: dalla semplice condanna moralistica di certi usi della tecnologia ai tentativi, spesso raffinati, di trovare vie di fuga dinnanzi all’inevitabile. Tutto ciò contribuisce a riunirne un pubblico ampio e variegato, mettendo insieme soggetti affascinati dalla distopia e pensatori che tentano di decrittare i geroglifici della nostra epoca» (pp. 21-22).

Se da sempre l’essere umano ha trovato nella tecnica quelle protesi utili a completare le sue deficienze biologiche e per modificare i contesti in cui agisce in base ai suoi desideri, ciò vale anche per la tecnologia digitale. «Ogni tecnologia porta con sé un proprio mondo immaginario, ed è a partire dalla compresenza di questi due elementi (gesto e parola, materia e simboli, tecnica e immaginario) che occorre indagare le sfide imposte dall’epoca dominata dalla tecnologia digitale» (p. 27). Scrivono a tal proposito Tirino e Tramontana: «L’elemento su cui agisce l’avvento di una nuova tecnologia è l’altro polo della nostra corporeità: l’immaginario. L’operazione tipica consiste nella capacità di una nuova tecnologia di trasformare l’immaginario. La tecnologia digitale, così com’è stato per tutte le altre grandi epoche tecnologiche che ci hanno preceduto, riorganizza i nostri gesti tecnici nella misura in cui l’immaginario si ridistribuisce attorno all’evento dell’elemento innovativo» (p. 27).

La tecnologia digitale, sostengono i curatori del volume, com’è stato per tecnologie precedenti, è una “tecnologia caratterizzante”, un “aggregato tecnologico” capace di individuare ed aggregare idee apparentemente distanti tra loro. «È nell’essere una tecnologia caratterizzante che oggi si ridefinisce il centro attorno a cui si coagulano le nostre energie psico-fisiche, così da ergersi a elemento in grado di riorganizzare sia l’attività microscopica della vita quotidiana sia il funzionamento delle “grandi” istituzioni sociali. In questo ordine di problemi Black Mirror tira il suo fendente nel cuore pulsante di quest’epoca e contribuisce a dare una forma alle inquietudini nutrite da ore e ore di utilizzo di tecnologia digitale- provando a sintetizzare in un’unica immagine gli effetti di una realtà sociale dominata da una specifica tecnologia caratterizzante. Se si dovesse osare una classificazione degli episodi, si potrebbe dire che Black Mirror ha per oggetto due tipi di tecnologie: quelle legate alla relazione con il bios e quelle legate al controllo e manipolazione dello spaziotempo» (pp. 27-28).

Mentre i dispositivi-protesi ridefiniscono «l’immaginario che ognuno si costruisce del proprio sé» succede che «attraverso sistemi e architetture, viene riscritto il perimetro d’intervento in cui ognuno di noi agisce in qualsiasi istante della nostra vita». Black Mirror «mette in scena un universo frastagliato di protesi e forme di relazioni rappresentate in forma distopica che si potrebbero riunire, per parafrasare un classico della psicologia sociale [George Herbert Mead, Mind, Self and Society (1934)], nella seguente formula: tecnologia, Sé e società. A partire da questa triade fondamentale, la tecnologia digitale ha il compito di coniugare due elementi del tutto differenti e, in qualche misura, contrapposti: l’individuo e la società» (p. 28).

A risultare interessante nella serie, sostengono Tirino e Tramontana, non è tanto il contenuto delle sue narrazioni distopiche, quanto piuttosto la “forma” mediale che incarna: «una sorta di virus che attacca gli ambienti e le piattaforme attraverso cui viaggia, denunciandone le alienanti conseguenze sulla viva “carne” degli individui del nuovo millennio» (p. 34).

Il fatto che Black Mirror viva negli stessi habitat mediali che prende di mira rappresenta un’interessante contraddizione su cui riflettere, così come qualche riflessione merita il fatto che nemmeno chi approccia la serie (e la realtà) armato di pensiero critico possa “chiamarsi fuori” da tali habitat contestati dalla serie.

Il glossario proposto dal volume è composto da diciassette lemmi affrontati da altrettanti autori/autrici: Algoritmo (Mario Pireddu), Atmosfera (Giulia Raciti), Audience (Antonella Mascio), Corpo (Claudia Attimonelli), Democrazia (Milena Meo), Esperienza (Vincenzo Susca), Illusione (Federico Tarquini), Interazione (Antonio Tramontana), Memoria (Damiano Garofalo), Morte (Alessandro Sntoro), Paranoia (Mario Tirino), Phatos (Ivan Pntor Iranzo), Paura (Fabo d’Andrea), Schermo (Fabio La Rocca), Serialità (Angela Maiello), Tecnica (Antono Lucci) e Zootecnica (Pier Luca Marzo).

Nel lemma Serialità, affrontato da Angela Maiello, si insiste su come la scelta antologica operata Black Mirror eviti la presenza di quei personaggi ricorrenti che divengono protagonisti in tanti prodotti seriali attraverso processi di formazione, elaborazione e trasformazione. Non vi sono nemmeno elementi narrativi correlati tra di loro in grado di conferire continuità al racconto. Non abbiamo qua la classica esplorazione narrativa seriale che procede lungo le due canoniche direzioni complementari: l’orizzontalità (lo sviluppo del marco-racconto su un prolungato arco temporale, spesso su più stagioni) e la verticalità (l’approfondimento drammaturgico su brevi storie aperte e chiuse all’interno dei singoli episodi). In Black Mirror il tema-conduttore esplorato verticalmente che lega episodi non correlati tra loro è dato dal rapporto tra l’essere umano e l’ambiente ad alto tasso digitale e mediale. «Questo “eccesso di tecnica”, per così dire, viene variamente declinato, e dunque serializzato, nei singoli episodi» (p. 224).

A livello verticale la studiosa individua quattro forme principali, non di rado intrecciate tra loro, di “eccesso di tecnica” presenti nella serie: quella dell’utilizzo delle immagini mediali e loro spettacolarizzazione (ad es. The National Anthem. Messaggio al Primo Ministro, Episodio 1, Prima stagione); quella del controllo e della sorveglianza (Arkangel, Episodio 2, Quarta stagione); quella della società mediatizzata (Hated in the Nation. Odio universale, Episodio 6, Terza stagione); quella della memoria e dell’accumulo dei dati (es. The Entire History of You. Ricordi pericolosi, Episodio 3, Prima stagione).

È a livello orizzontale, indispensabile al meccanismo della serializzazione, che secondo Maiello risiede la peculiarità di Black Mirror: il piano orizzontale è un piano extra-diegetico coincidente con il presente tecnologico in cui si vive. «La macro-storia orizzontale, all’interno della quale i singoli episodi possono essere sviluppati, coincide con il nostro presente, con l’accelerazione tecnologica che caratterizza la nostra epoca, con l’incertezza e il disorientamento che l’innovazione tecnologica produce, ogni qual volta una nuova prassi o un nuovo dispositivo si impongono collettivamente, mettendo in questione comportamenti e abitudini che vengono ormai dati per scontati, naturali» (p. 225).

La marco-storia orizzontale della serie, continua la studiosa, coincide anche con la narrazione mediatica che si fa dell’innovazione tecnologica che ha i due suoi poli opposti nei demonizzatori e negli estasiati. Ciò rende difficile la collocazione temporale della serie: si parla dell’umanità di oggi o di quella del futuro? La serie oscilla costantemente tra il tempo della verticalità (un futuro più o meno lontano) e quello dell’orizzontalità (il presente della narrazione mediale). «La marco-storia della serie coincide con la nostra contemporaneità e ciò si riflette negli approfondimenti verticali, interpretati in chiave distopica o fantascientifica, dei singoli episodi e delle specifiche stagioni» (p. 226). La storia orizzontale che conferisce coerenza narrativa alla serie, appare incentrata sullo squilibrio e sull’instabilità che segnano il contemporaneo rapporto tra l’essere umano e l’ambiente altamente tecnologizzato in cui vive.

«Il nostro presente, ovvero la narrazione orizzontale di Black Mirror, è il tempo dello squilibrio, e gli episodi sviluppati verticalmente ripropongono e declinano domande che sono sempre già presupposte dalla storia orizzontale, perché ritornano continuamente nella nostra quotidianità: come comportarsi in questa fase di accelerazione e instabilità? Come possiamo giocare i nostro ruolo rispetto a cambiamenti velocissimi e inaspettati? In che modo possiamo diventare attori responsabili di un processo che non possiamo dominare interamente, come un oggetto a noi estraneo dal momento che è costitutivo del nostro stesso essere umani? Come gestire le nuove competenze e le inedite facoltà? È questo il nucleo tematico della serie: la possibilità di una responsabilità digitale, che non si traduce nell’utilizzo responsabile, ovvero moderato, dei media e dei dispositivi tecnologici o nell’utilizzo per i giusti fini, bensì nell’esatto opposto, lo svincolamento della tecnica da qualsiasi fine che possa condannare o giustificare la pervasività […], e il quotidiano esercizio tecnico e creativo, ovvero quella che potremmo definire una educazione tecno-estetica […] che permetta di esplorare produttivamente le inattese potenzialità della tecnologia [al fine] di assumercene la responsabilità diretta» (p. 228).

Tre, secondo la studiosa, sono le strategie argomentative a cui ricorre la serie per porre il problema della responsabilità digitale: quella del dominio della tecnologia sull’uomo (es. Arkangel, Episodio 2, Quarta stagione); quella della fuga dalla tecnologia (es. The Entire History of You. Ricordi pericolosi, Episodio 3, Prima stagione); quella della concretizzazione di nuove possibilità esperienziali (es. Be Right Back. Torna da me, Episodio 1, Seconda stagione).

In conclusione del suo intervento Angela Maiello sottolinea come i protagonisti dei singoli episodi abbiano in comune con lo spettatore (l’unico protagonista ricorrente, quello della narrazione orizzontale) il bisogno di giungere ad un nuovo punto di equilibrio con l’ambiente fortemente tecnolgizzato/mediatizzato. Come tutti i racconti seriali, anche Black Mirror vive «della partecipazione attiva dello spettatore e della riflessività che essa genera» (p. 231); ciò, secondo la studiosa, può rivelarsi un’occasione da cogliere per riflettere collettivamente sulle modalità con cui l’essere umano deve imparare a rapportarsi con un ambiente fortemente digitalizzato e mediatizzato.

 

Serie completa di “Nemico (e) immaginario

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