classe operaia bianca – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il colpo di Stato che non fu tale https://www.carmillaonline.com/2021/03/29/il-colpo-di-stato-che-non-fu/ Mon, 29 Mar 2021 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65420 di Paul Mattick

[Traduciamo e pubblichiamo, con il permesso dell’autore, alcune considerazioni sulle cause e possibili letture dell'”assalto” a Capitol Hill, del 6 gennaio di quest’anno, da parte dei sostenitori di Donald Trump. L’articolo è stato precedentemente pubblicato sul numero di febbraio del magazine statunitense The Brooklyn Trail, dedito alla critica politica, artistica e culturale.]

Si sarebbe potuto pensare che l’uscita di Trump dalla Casa Bianca avrebbe posto fine alla costante preoccupazione – e non solo da parte degli esponenti di sinistra – per la minaccia di una rinascita del fascismo da [...]]]> di Paul Mattick

[Traduciamo e pubblichiamo, con il permesso dell’autore, alcune considerazioni sulle cause e possibili letture dell'”assalto” a Capitol Hill, del 6 gennaio di quest’anno, da parte dei sostenitori di Donald Trump. L’articolo è stato precedentemente pubblicato sul numero di febbraio del magazine statunitense The Brooklyn Trail, dedito alla critica politica, artistica e culturale.]

Si sarebbe potuto pensare che l’uscita di Trump dalla Casa Bianca avrebbe posto fine alla costante preoccupazione – e non solo da parte degli esponenti di sinistra – per la minaccia di una rinascita del fascismo da lui rappresentata1. Però, il modo tipicamente bizzarro in cui ha affrontato la sua sconfitta elettorale ha portato ancora una volta un’ondata di preoccupazione per il ritorno dello spettro con la camicia nera o brune del passato.

Lo storico Timothy Snyder, scrivendo per il «New York Times Magazine», è inorridito davanti all’ Abisso Americano che si sarebbe aperto a causa del disprezzo di Trump per la democrazia elettorale: «Mi è stato chiaro a ottobre», ha scritto Snyder, «che il comportamento di Trump preannunciava un colpo di stato …»2. Il comportamento che aveva in mente era soprattutto la propensione di Trump a mentire, e la sua conseguente descrizione come “falso” da parte di fonti di informazione che intendono contraddirlo. Nel suo racconto, il cuore del fascismo è la “Grande Bugia” (Big Lie): «Finché [Trump] non è stato in grado di imporre qualche bugia veramente grande, qualche fantasia che ha creato una realtà alternativa in cui le persone potevano vivere o morire, il suo prefascismo non è stato all’altezza della cosa stessa». Per Snyder, quel ponte è stato attraversato con l’insistenza del presidente sul fatto di aver stravinto le elezioni e la sua richiesta ai sostenitori di marciare sul Campidoglio per impedire la certificazione della falsa vittoria del suo avversario.

È difficile affrontare l’insulsaggine di queste idee. Il fascismo, una politica volta a sfruttare le energie nazionali nella lotta per il potere politico-economico, si riduce a una propensione a raccontare enormi fandonie; l’idea che «quando ci arrediamo alla verità, concediamo il potere a coloro che hanno la ricchezza e il carisma di creare spettacolo al suo posto»3, finge che il potere della classe dirigente si basi effettivamente sul consenso dei governati. Alla fine, però, persino Snyder deve accettare il fatto che non c’è stato un colpo di Stato e rinviarne dunque il pericolo reale alle prossime elezioni. Tuttavia, è facile capire perché coloro che gestiscono davvero le cose – gli amministratori delegati aziendali che per il momento stanno tagliando i loro contributi ai PAC repubblicani, i “due miliardari della California” che «hanno fatto ciò in cui legioni di politici, pubblici ministeri e mediatori di potere, che avevano provato a farlo per anni, avevano sempre fallito», zittendo Trump bloccando i suoi account Facebook e Twitter4 – sono inorriditi davanti alla manifestazione in Campidoglio. La disaffezione dalla stabilità sociale definita dalle norme della democrazia elettorale americana è altrettanto inquietante per i manipolatori ufficiali dell’ideologia, della stampa e dell’accademia, che stanno scoprendo fino a che punto è arrivato il disprezzo per la loro autorità concettuale.

Circa 70 milioni di persone hanno votato per Donald Trump, dopo averlo visto in azione per quattro anni (e inazione, riguardo alla crisi covid-19, così come per tante altre promesse non mantenute). Dal momento che, in realtà, non ha raggiunto nessuno degli obbiettivi per cui la maggior parte di loro presumibilmente lo ha votato – dal finanziamento di posti di lavoro infrastrutturali al rilancio dell’industria del carbone, porre fine alla corruzione politica o persino costruire un grande, “bellissimo” muro per tenere fuori gli immigrati – chiaramente questo livello di sostegno politico è una risposta a qualcosa che è fortemente rifiutato a livello simbolico. Le piccole squadre di suprematisti bianchi e la presenza della bandiera da battaglia confederata, insieme al colore generale e alla distribuzione di genere della folla che ha invaso il Campidoglio, suggeriscono l’importanza tra i trumpisti del sentimento ben consumato che il gruppo più vittimizzato in America sia costituito dai maschi bianchi. E questi sono certamente i termini in cui Trump si è sempre rappresentato.

Certamente, a differenza di Trump, i suoi seguaci sono in realtà trattati piuttosto male: i piccoli imprenditori così preminenti nelle file degli elettori di Trump e i manifestanti di “Stop the Steal (fermare il furto)” vengono cacciati dal business a causa della stagnazione economica, ora accelerata dalla pandemia, che trasferisce inesorabilmente sempre più ricchezza a meno persone e a imprese più grandi; la “classe operaia bianca” sta vivendo un declino salariale da almeno una generazione, insieme ad una sempre maggiore precarizzazione dei posti di lavoro, quando ancora riesce a conservarli. Joe Biden, vecchio alleato di Dixiecrat (democratici del Sud degli Stati Uniti) e tutt’altro che ben disposto, invece, nei confronti di chi svolge i lavori più umili, l’uomo che disse ad Anita Hill5 che “era dispiaciuto per lei”, ha ritenuto necessario scegliere una donna di colore come sua compagna di corsa – come se un presidente nero non fosse già stato un orrore sufficiente da infliggere al maschio bianco – mentre è difficile trovare una pubblicità oggi, da quella per i cereali per la colazione alla gestione patrimoniale, i cui protagonisti non siano modelle o modelli neri. La verità è che, anche se la ricchezza e il potere di ogni tipo rimangono saldamente in (poche) mani bianche, l’Età dell’Uomo Bianco è finita. Non solo gli europei-americani saranno presto una minoranza demografica negli Stati Uniti, ma l’America — anche se rimane la prima potenza — è entrata economicamente e militarmente in declino sulla scena mondiale. L’economia nazionale, con le sue società zombie senza profitto, la bolla delle azioni tecnologiche e l’aumento del debito, personale, aziendale e governativo, richiede l’immiserimento generale degli ordini inferiori.

L’America è stata costruita sul razzismo: sulla schiavitù e sul genocidio. La sua espansione attraverso il continente e poi nel mondo era giustificata dall’idea che gli “anglosassoni”, come rappresentanti del progresso e della civiltà, avessero il diritto di sterminare popoli scomodi e costringere coloro che rendevano schiavi a lavorare per loro. Il trionfo del capitalismo industriale sulla schiavitù delle piantagioni nel 1865 fu suggellato da un accordo tra le élite del Nord e del Sud che imponeva la dominazione bianca nonostante l’abolizione della schiavitù. Ma durante il XX secolo, mentre gli Stati Uniti superavano la Gran Bretagna per importanza economica, militare e politica, lo sviluppo e la globalizzazione dell’economia – spingendo i lavoratori afroamericani dal sud all’industria settentrionale e i dirigenti, politici e generali americani in Medio Oriente, Africa e Asia, nonché in Europa, non come conquistatori ma come partner dominanti anche con colpi di stato localizzati – hanno finito col rendere le basi ideologiche della supremazia bianca sempre più insostenibili. Se la strategia di Nixon rivolta alla “mentalità sudista” segnò l’adozione del razzismo da parte del Partito Repubblicano come base per una coalizione elettorale al servizio della preoccupazione del mondo degli affari per annullare le magre riforme del New Deal, la finta devozione nei confronti della “diversità” è diventata il segno distintivo delle forze neoliberiste che cercavano di trasportare il capitalismo americano nell’economia globalizzata del 21 ° secolo. L’attuale disordine nel Partito Repubblicano è il risultato del conflitto tra i due principi, della supremazia bianca per le classi inferiori e degli affari transnazionali per i pochi della classe superiore. Ciò che li ha tenuti insieme finora è il bianco dominante della parte superiore e l’accettazione obbediente dello status quo da parte di coloro che si trovavano in fondo alla sua gerarchia socio-politica.

È scoraggiante constatare quanto le persone possano essere lontane dalla comprensione di ciò che sta realmente accadendo loro e da cosa possano fare al riguardo. D’altra parte, nonostante i numeri che aderiscono idealmente alla sua bandiera di battaglia, le folle che si sono schierate per Trump a Washington (per non parlare della Florida, dove soltanto poche persone lo hanno accolto) sono state piuttosto scarse rispetto alle masse che hanno dimostrato per mesi e mesi per il principio che le vite nere contano (Black Lives Matter); la vandalizzazione del Campidoglio è stata meno significativa rispetto al rogo di stazioni di polizia e veicoli delle forze dell’ordine durante le manifestazioni avutesi in tutto il paese nel corso dell’anno precedente. Un piccolo numero di manifestanti pro-Trump potrebbe aver usato armi automatiche, ma in realtà non le ha utilizzate. Mentre ci si può aspettare che un pazzo armato qui o là uccida delle persone o faccia saltare in aria qualcosa – sparatorie di massa e attentati non sono certo un fenomeno nuovo, dipendente da Trump – questi non sono squadristi paramilitari ben organizzati e non c’è una seria forza politica in vista che voglia formarli in tale senso. I dimostranti pro-Trump hanno insozzato i bagni democratici del Campidoglio: non prendevano il controllo delle stazioni televisive e delle armerie. Realizzato da una banda di militanti anti-mascherine, questo è stato più un evento da selfie e da super-diffusore di immagini che una significativa opzione sul potere. L’antisemitismo, si diceva, è il socialismo degli sciocchi e il trumpismo è, al massimo, il protofascismo degli sciocchi: l’America, semplicemente, non può essere di nuovo grande.

Gli appassionati di cospirazione, le mini-milizie, i militanti per il diritto di riaprire le piccole imprese e dimostrare la propria libertà individuale corteggiando la malattia, rappresentano reazioni al più importante abisso che si è aperto davanti all’America e al mondo: l’abisso di una stagnazione economica di tal profondità e durata da suggerire un’accelerazione del declino capitalista. Poiché i governi devono attingere le loro risorse dall’economia, questo declino stesso ostacola la capacità degli Stati di gestirlo, di contenere i danni e stabilizzare la società. Più trilioni immaginari possono essere pompati nel sistema finanziario, ma ciò non ripristinerà la redditività delle imprese private; gli sfratti possono essere rinviati, ma il problema degli affitti e dei mutui non pagati, sia per gli inquilini che per i proprietari, non scomparirà. Le istituzioni caratteristiche della società attuale, come la democrazia elettorale, stanno crollando insieme alle fondamenta di tale società. Né la celebrazione retroattiva dell’iniziativa individuale, sventolando la bandiera di Gadsden del 17756, né l’altrettanto arretrata rinascita dell’antifascismo, che chiede una rinascita del New Deal, porteranno a una via d’uscita da questo abisso.

Al contrario, le dimostrazioni della scorsa primavera, che chiedevano qualcosa di nuovo – la fine dell’oppressione sistematica di alcune persone da parte di altre persone e la fine della difesa poliziesca dello status quo da parte dello stato – hanno mostrato la possibilità di una via da seguire, così come i tentativi delle persone di tutto il mondo, con i loro sforzi, di affrontare la sfida del COVID-19, di fronte alle incompetenza dei governi. Ora apparentemente provato non solo dalla malattia e dalla morte, ma anche dall’incapacità di Black Lives Matter di compiere ulteriori progressi nei confronti delle forze dell’ordine, quel movimento dovrà rivivere e riconfigurarsi come una lotta per la sopravvivenza di massa se si vuole attraversare l’abisso. Nell’attuale caos dell’informazione, della disinformazione, della paura del disastro e del desiderio di vita, dobbiamo concentrarci sui tentativi di creare un nuovo modello di vita, non di preservarne o ravvivarne uno vecchio. Non si può tornare indietro, ma solo andare avanti, nell’abisso o attraverso di esso.

lunedì 20 gennaio 2021


  1. Per discutere di questa domanda su “The Brooklyn Trail”, si veda Michael Mann, Is Donald Trump a Fascist? Field Notes, maggio 2017, e Editor’s Note: End Times Politics, Field Notes, aprile 2020  

  2. T. Snyder, The American Abyss, «New York Times Magazine», 17 gennaio 2021, p. 33  

  3. Ibid., p. 32.  

  4. Kevin Roose, Nel sottrarre il megafono a Trump, Twitter mostra dove si trovi ora il potere , «New York Times», 9 gennaio 2021.  

  5. Anita Faye Hill, è un’avvocata e docente statunitense. Divenne nota a livello nazionale nel 1991, quando accusò il candidato della Corte suprema degli Stati Uniti d’America Clarence Thomas, il suo supervisore al Dipartimento dell’Istruzione degli Stati Uniti e alla Commissione per le pari opportunità di lavoro, di molestie sessuali – N.d.T.  

  6. Christopher Gadsden fu un generale americano che durante la guerra d’indipendenza utilizzò per primo la bandiera con il serpente a sonagli su sfondo giallo con la scritta “Don’t tread on me”, ovvero “Non calpestarmi”. La bandiera di Gadsden di fatto costituì una delle prime bandiere dei neonati Stati Uniti d’America. Oggi è spesso utilizzata da chi rivendica il libero possesso delle armi – N.d.T.  

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Lotteremo da una generazione all’altra* https://www.carmillaonline.com/2016/11/23/lotteremo-generazione-allaltra/ Wed, 23 Nov 2016 22:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34768 di Sandro Moiso

gilbert David Gilbert, AMORE E LOTTA. Autobiografia di un rivoluzionario negli Stati Uniti, a cura di Giacomo Marchetti e Nora Gattiglia, MIMESIS 2016, pp. 400, € 26,00

Ho appena finito di leggere il libro di Gilbert e un brivido di commozione e, forse, di rabbia mi percorre tutto dalla nuca al resto del corpo. E’, senza ombra di dubbio, una delle testimonianze più sincere e commoventi che sia mai uscita dalla penna di un rivoluzionario. Rivoluzionario inteso nel senso più ampio del termine e, per giunta, condannato alla detenzione ben oltre la fine dei suoi giorni.

Condannato a [...]]]> di Sandro Moiso

gilbert David Gilbert, AMORE E LOTTA. Autobiografia di un rivoluzionario negli Stati Uniti, a cura di Giacomo Marchetti e Nora Gattiglia, MIMESIS 2016, pp. 400, € 26,00

Ho appena finito di leggere il libro di Gilbert e un brivido di commozione e, forse, di rabbia mi percorre tutto dalla nuca al resto del corpo. E’, senza ombra di dubbio, una delle testimonianze più sincere e commoventi che sia mai uscita dalla penna di un rivoluzionario. Rivoluzionario inteso nel senso più ampio del termine e, per giunta, condannato alla detenzione ben oltre la fine dei suoi giorni.

Condannato a settantacinque anni di reclusione il 6 ottobre 1983, quando aveva 39 anni, David dovrebbe infatti finire di scontare la sua pena nel 2058, all’età di 115 anni. Basterebbe questa sola considerazione a dimostrare quanto folle, oltre che iniquo, sia un sistema giudiziario, quello statunitense, che si vorrebbe equo e moderno. Ma che nei fatti non lo è e che si dimostra ancora una volta crudele (ai limiti del sadismo oppure addirittura superando gli stessi), classista, razzista e inumano oltre ogni dire.

Condanna arrivata a seguito di una rapina finita male, molto, con alcuni militanti, una guardia giurata e due agenti di polizia uccisi, messa in atto dal BLA (Black Liberation Army) il 20 ottobre 1981 e di un processo che definire “farsa” sarebbe ancora troppo poco. Fatti che costituiscono la trama degli ultimi, terribili otto capitoli delle memorie dell’autore e che hanno segnato in maniera drammatica la sua vita e le sue scelte, non solo politiche.

Un autentico disastro umano e politico per un militante che, oltre a non essere presente sul luogo della sparatoria nel corso della rapina del 1981, aveva precedentemente aderito ai Weather Underground proprio per la loro scelta di evitare al massimo lo spargimento di sangue nel corso delle loro azioni dimostrative.

Una vita, comunque, quella di Gilbert, pienamente travolta dalla corrente di lotte che dalle iniziali mobilitazioni per i diritti civili degli afro-americani e delle altre minoranze etniche presenti sul territorio degli Stati Uniti, a partire dalla fine degli anni ’50 e dai primi anni ’60, lo avrebbe portato ad una piena coscienza anti-imperialista, attraverso la lotta contro la guerra in Vietnam, e alla scelta della lotta armata fatta dai Weathermen, poi Weather Underground, fin dal 21 maggio del 1970 quando Bernardine Dohrn emise la sua “Dichiarazione di guerra” contro l’imperialismo.

Ma se la lettura del testo può essere fatta in parallelo a quello di Bill Ayers, recentemente ripubblicato in Italia,1 è anche vero che allo stesso tempo ne costituisce un po’ il contraltare.
Tanto la ricostruzione di Ayers risulta infatti essere “epica”, tanto la lettura dei fatti e delle scelte data da Gilbert risulta “problematica”. E, quindi, sotto molti punti di vista, più utile.

Il percorso di quella organizzazione appare, nelle sue pagine, più tortuoso e più complesso di quello precedentemente dipinto. Qui la scelta classista appare spesso contraddittoria e di minor importanza rispetto alle scelte anti-imperialiste, anti-razziste, anti-machiste e femministe.
Contraddittoria non per i dubbi sulla sua valenza generale, mai significativamente messa in discussione, ma per le difficoltà che già in quegli anni si rilevavano nell’inquadrare o anche solo nel comunicare con il proletariato bianco, con la working class bianca con un discorso di carattere rivoluzionario.

Da questo punto di vista il testo di Gilbert si rivela oggi di grande importanza, soprattutto per comprendere anche le radici di un fenomeno, quello della vittoria elettorale di Trump, che ha stupito soltanto coloro che erano in malafede oppure molto poco informati sulla situazione economica, sindacale e politica della classe operaia bianca negli Stati Uniti.

Afferma ad un certo punto l‘autore: ”ogni volta che avevo visto dei radicali bianchi addentrarsi sul serio nel marxismo-leninismo, li avevo visti scivolare verso un ruolo predominante dato al proletariato, per lo più bianco, sulle lotte di liberazione nazionale in veste di maggior forza rivoluzionaria; e, accanto a tutto ciò, un glissare sulle problematiche dell’egemonia bianca e del privilegio imperialista per cercare una base di sostegno già pronta, cosa che comunque non si ottenne mai, nel proletariato. […] Capii che il problema non era tanto la teoria quanto il passato ben radicato del privilegio bianco (con i benefici materiali che ne conseguivano) e i vantaggi tratti dall’imperialismo. Le ripetute virate verso l’opportunismo bianco caratterizzavano anche movimenti che non si ispiravano affatto al marxismo-leninismo, come il populismo e il movimento suffragista. La teoria non era la causa del problema quanto piuttosto una sua razionalizzazione assunta da gruppi che volevano appropriarsi della bandiera ‘rivoluzionaria’ senza schierarsi fermamente a fianco dei popoli di colore che erano sotto un attacco omicida.” (pag.262)

Durante la guerra in Vietnam la classe operaia bianca delle grandi fabbriche fu toccata solo marginalmente dalle lotte contro di essa e soltanto là dove furono, come a Detroit,2 gli operai Neri a prendere l’iniziativa sia sul piano salariale che organizzativo e politico.
Così la scelta classista per i Weather apparirà prioritaria soltanto a partire dalla fase “finale” della loro storia, quando il movimento giovanile, anti-razzista e contrario alla guerra in Vietnam comincia ad arretrare, sia per il venir meno delle sue ragioni (la fine della guerra indocinese) quanto per i colpi subiti (l’uccisione e la reclusione di centinaia di militanti Neri legati al Black Panther Party e/o affini), sia ancora per le divisioni di ordine ideologico che iniziavano a prendere il sopravvento all’interno dei movimenti sia giovanili che afro-americani.

E’ questa la fase che si apre con la pubblicazione del testo più celebre prodotto dalla direzione del Weather Underground, quel “Prateria in fiamme”,3 che presentava comunque una versione ”marxista-leninista” di quell’esperienza che non sempre combaciava con la realtà della storia e dell’evoluzione della stessa organizzazione.

Proprio le riflessioni di Gilbert, che quell’impostazione allo stesso tempo criticò e finì poi col condividere per un periodo, ci permettono ancora una volta di verificare come la scelta partitica spesso, nel corso delle lotte del secondo dopoguerra o almeno dal ’68 in avanti, sia avvenuta in seguito alla sconfitta o all’arretramento dei movimenti, nel tentativo disperato e troppo spesso inutile di ridare vita a qualcosa che già non poteva più esistere. Aggravandone la crisi con scelte o dispute di carattere ideologico sempre più distanti dai “movimenti reali”.

Se, infatti, una miriade di gruppuscoli ha sempre cercato, sia durante l’esplodere delle lotte che alla loro fine, di contendersi la direzione oppure le spoglie mortali delle stesse, è sicuramente vero che tale pratica magari non è riuscita a deviarne le forze mentre queste erano in attività, ma ha contribuito a deturparne o a modificarne la memoria e l’indirizzo con le forzature interpretative successive. In questo senso l’accuratezza e l’onestà della ricostruzione degli eventi americani di quegli anni, insieme ad una autocritica a tratti spietata e feroce, fanno delle riflessioni di Gilbert un insegnamento irrinunciabile e severo.

david_smiling2 Per quanto la gentilezza e la mitezza dell’autore, che già traspariva nella sua intervista contenuta in coda al documentario di Sam Green e Bill Siegel The Weather Underground,4 contribuiscano a rendere più leggere le descrizioni delle dispute, delle battaglie e dei passaggi che hanno accompagnato la nascita e il declino dei movimenti armati statunitensi,5 ciò non toglie certo una certa durezza e implacabile lucidità al discorso condotto da Gilbert.

L’uomo che nel settembre del 1982 ebbe a dichiarare, durante il processo che lo avrebbe condannato alla ‘morte’ carceraria: “Il governo che ha rovesciato napalm sul Vietnam, che fornisce le bombe a grappolo che uccidono civili in Libano, che addestra torturatori in Salvador ci chiama ‘terroristi’. I governanti che si sono arricchiti con generazioni di schiavi che lavorano e lavoratori resi schiavi…ci etichetta come ‘criminali’. Le forze di polizia dell’Amerika che hanno ucciso 2000 persone di colore negli ultimi cinque anni e che imbottiscono di droga le comunità ci dicono che ‘non abbiamo rispetto per la vita umana’. Noi non siamo né terroristi né criminali. E’ proprio perché amiamo la vita, perché gioiamo di fronte allo spirito umano, che siamo diventati combattenti per la libertà contro questo sistema razzista, imperialista e mortifero.” (pag. 339)

Quest’uomo non fa sconti, né a se stesso, né a tutte quelle azioni o scelte che, troppo spesso, si sono trasformate nel contrario di ciò che avrebbero voluto, comprese le lotte di liberazione nazionale, per cui era sceso sul sentiero di guerra. E, soprattutto, non fa sconti al sessismo e al razzismo che troppo spesso hanno caratterizzato i comportamenti, anche involontari, di leader e militanti della sinistra radicale.

Valga come esempio il fatto che la stessa rapina che finirà con il segnare tragicamente la vita dell’autore deriva dalle differenti difficoltà di finanziamento incontrate dai gruppi radicali neri rispetto a quelli bianchi. Mentre per i secondi infatti era più facile ricevere aiuti e finanziamenti anche dai settori meno impegnati o liberal del movimento, per i primi le rapine o gli espropri per l’auto-finanziamento erano pressoché inevitabili. Con il conseguente aumento dei rischi legali e fisici per i militanti coinvolti.

Ci sono parole che fanno male nella sua lettura, ma che allo stesso tempo aiutano a comprendere, davvero, gli errori propri e non solo altrui. La lotta contro l’imperialismo e contro la schiavitù economica, sessuale e razziale da esso prodotta non può svolgersi un passo alla volta oppure privilegiando un aspetto, una classe, un sesso o una razza rispetto agli altri. Tutto deve essere portato avanti insieme. Questo è l’insegnamento principale che possiamo e dobbiamo trarre dalle sanguinanti pagine del libro e che già i movimenti più importanti di oggi sembrano aver intrapreso oppure iniziato a ri-tracciare.

Così sarebbe opportuno pubblicare un’antologia dei suoi scritti, per esempio tratti da quel No Surrender che già è stato pubblicato negli USA nel 2004. Proprio perché quello slogan, tratto dall’esperienza della resistenza vietnamita, con cui ho intitolato questa recensione continui ad avere come per David un senso. Mentre per ora i lettori dovranno accontentarsi della bibliografia, proposta dai curatori in chiusura, che propone un’ampia scelta di testi di Gilbert rintracciabili on line.

L’unico appunto che si può fare, a questa edizione del testo del militante americano, è dovuto al fatto che i curatori, pur avendo svolto un lavoro egregio, avrebbero in alcuni casi dovuto curare di più la traduzione e/o la spiegazione dei riferimenti al contesto politico-culturale in cui si sono svolti i fatti narrati. David Gilbert usa un linguaggio piano e colloquiale, ma ciò fa sì che l’autore, rivolgendosi ad un pubblico principalmente americano, per forza di cose abbia dato per scontate conoscenze che non appartengono obbligatoriamente al lettore italiano.
Faccio qui di seguito qualche esempio:

1) Quando si parla di football negli Stati Uniti non si intende il calcio (soccer), ma football americano quello giocato con la palla ovale. Si veda, nel testo il passaggio sulla squadra dei Broncos di Denver, un club molto famoso di football americano.

2) Così come è difficile che una guardia carceraria impugni un doppietta a canne mozze. Shotgun andrebbe tradotto con fucile a canna liscia, spesso azionato a pompa per espellere la cartuccia (shot) esplosa ed inserire nella camera di scoppio quella nuova, con un unico movimento della mano; un’arma spesso utilizzata dalle forze dell’ordine, tanto è vero che talvolta è anche denominato riot shotgun.

3) Il libro di Sam Greenlee, The Spook Who Sat by the Door, è stato tradotto in Italia da Garzanti, nel 1970, nella collana Romanzi moderni con il titolo Il negro seduto accanto alla porta, a differenza di quanto erroneamente segnalato in nota.

4) Dire che uno dei protagonisti della lotta e compagno di carcere di Gilbert, Kuwasi Bagaloon, ha fatto parte inizialmente dei Last Poets significherebbe anche segnalare che quel primo gruppo rap afroamericano, fu fondato il 19 maggio 1968 (data del compleanno di Malcolm X), nel quartiere East Harlem di New York. I membri fondatori del gruppo furono Felipe Luciano, Gylan Kain e David Nelson.
I Last Poets continuarono ad evolversi attraverso un gruppo di scrittori di Harlem conosciuti come “East Wind” composto da Jalal Mansur Nuriddin, ex- paracadutista ed ex-detenuto per aver rifiutato di servire l’esercito degli Stati Uniti in Vietnam e convertitosi all’Islam mentre era in carcere, e da Omar Ben Hassan e Abiodun Oyewole, avrebbe anticipato sia il poeta-cantante Gil Scott-Heron, attivo dagli anni settanta, che Grandmaster Flash and the Furious Five, con il loro brano The Message (del 1982), che avrebbero ridato fiato alla coscienza nera
all’inizio degli anni ’80.

Tutto ciò, però, non offusca in alcun modo il lavoro svolto per far conoscere al pubblico italiano un testo così stimolante e significativo. Non solo per la storia passata dei movimenti di lotta americani.

* Dedicato, nel bene e nel male, alla memoria di Fidel Castro rivoluzionario anti-imperialista


  1. Si veda la mia recensione qui: https://www.carmillaonline.com/2016/04/25/huck-ishmael-la-guerra-classe/  

  2. Si veda il mio https://www.carmillaonline.com/2013/08/14/detroit-e-morta-viva-detroit-seconda-parte/  

  3. Tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia nel 1977 dal Collettivo editoriale Librirossi  

  4. Pubblicato in DVD anche in Italia nel 2005. L’intervista si intitola significativamente A Lifetime of Struggle  

  5. Weather Underground Organization e Black Panther Party non furono gli unici ad operare in tale senso  

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