città – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 10:30:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Viaggio al termine della città per rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta https://www.carmillaonline.com/2024/06/25/viaggio-al-termine-della-citta-per-rilanciare-il-principio-speranza-di-unutopia-concreta/ Tue, 25 Jun 2024 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82782 di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e [...]]]> di Gioacchino Toni

Leonardo Lippolis, Viaggio al termine della città. Le metropoli e le arti nell’autunno postmoderno (1972-2001), elèuthera, Milano 2024 (I ed. 2009), pp. 184, € 16,00

La prefazione alla nuova edizione di Viaggio al termine della città di Leonardo Lippolis si apre richiamando la scena del film Jubilee (1978) di Derek Jarman che mostra, in una periferia londinese in abbandono, tre giovani punk appoggiati ad un muro di cemento su cui è tracciata a spray la scritta “post modern”. Alcuni dei paesaggi urbani scelti da Jarman sul finire degli anni Settanta per mettere in scena lo sgretolamento sociale e urbanistico, insieme al frantumarsi delle speranze popolari postbelliche per un futuro, se non radioso, almeno decente, a distanza di pochi decenni sono stati gentrificati sulle macerie di una working class a cui è stata preclusa l’identità collettiva. Occorre riconoscere che l’Iron Lady dai capelli cotonati insediatasi al 10 di Downing Street non si è limitata a vaneggiare messianicamente della “fine della società” ma, per raggiungere lo scopo, non ha mancato di arrotolarsi le maniche dei suoi eleganti ed impettiti tailleur per smembrare a colpi di mannaia gli ultimi brandelli di un tessuto sociale ormai lacero.

Non poteva essere la scena punk londinese, condannata a venire velocemente recuperata e ridotta a patinato fenomeno di consumo per turisti, a scrivere la colonna sonora del funerale di quella civiltà urbana mostrata agonizzante dal film di Jarman; al requiem ha provveduto l’universo musicale post-punk delle vecchie città industriali del nord, come Manchester e Sheffield , città che hanno conosciuto la durezza e la violenza della rivoluzione industriale e che, in apertura degli anni Ottanta, ai figli della working class e della piccola borghesia hanno potuto offrire soltanto alienazione, inquietudine e smarrimento1.

L’associazione tra il concetto di postmoderno e la sensazione di una civiltà urbana al collasso suggerita da Jarman rappresenta una sintesi efficace di quel “viaggio al termine della città” condotto da Lippolis per indagare la crisi della metropoli e dell’immaginario di un’epoca in via di dissoluzione. Lo studioso delimita simbolicamente il crepuscolo di quella civiltà tra due crolli: la distruzione nel 1972, per volontà degli abitanti, del complesso residenziale razionalista di Pruitt-Igoe a Saint-Louis realizzato da Minoru Yamasaki, e l’abbattimento terroristico delle Twin Towers newyorkesi progettate dal medesimo architetto. È in questo lasso di tempo che, secondo lo studioso, è maturata «la sensibilità di un nuovo tramonto dell’Occidente, ben leggibile proprio attraverso la percezione della vita delle grandi metropoli occidentali» (p. 28).

Lippolis propone dunque una lettura della fine della civiltà urbana e delle sue utopie ricorrendo alle categorie della distopia e dell’eterotopia. Ad arginare il diffondersi, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, della improduttiva sensazione di no future, ha provveduto il mito Smart City con cui il capitalismo ha saputo abilmente rispolverare la categoria dell’utopia che si realizza, seppure per una esigua minoranza privilegiata imponendo ai più le banlieue, quando non le bidonville e gli slum.

Come la quarta rivoluzione industriale rivendica la propria filiazione dalle origini della civiltà delle macchine, cosi Smart City ripropone la stessa idea di vita e di felicità della città novecentesca, una macchina che deve aggiornare le risposte ai bisogni utilitaristici dell’uomo moderno: dalla città-fabbrica alla città-fabbrica digitale. In quanto prodotto dell’urbanizzazione capitalistica del mondo, la Smart City è programmata per continuare a distruggere i residui valori storici della vita urbana come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, a volte, democrazia diretta. Ciò che resta dell’agorà pubblica e della vita activa del cittadino inteso come animale politico si smaterializzerà sempre più nella solitudine interconnessa delle piazze virtuali e del distanziamento sociale, nella distrazione annoiata dei nuovi consumi gestiti dal capitalismo della sorveglianza (pp. 11-12).

Così come James G. Ballard ha mirabilmente messo in scena l’alienazione dello spazio urbano dell’ultimo scampolo di Novecento, Philip K. Dick ha saputo prefigurare le degenerazioni del capitalismo più avanzato che hanno condotto all’inospitalità e all’inabitabilità della Terra, alla disumanizzazione di una società ove la merce esercita un potere totalitario, narcotico e religioso, ai processi di ibridazione tra umani e macchine ed al ricorso all’intelligenza artificiale per controllare e sfruttare quel che resta del Pianeta e dell’umanità.

Le ambientazioni dei romanzi di Dick sono spesso città lugubri – mondi urbani terrestri intrisi di solitudine o tetre periferie di colonie extraterrestri –, luoghi in cui l’umanità, sottomessa a stati di polizia e regimi totalitari retti da grandi multinazionali, vive sonnambula e anestetizzata. In molti di questi ambienti urbani tutto e automatizzato e smart: veicoli volanti autopilotati che interagiscono con i passeggeri, case governate da sistemi di sensori e comandi vocali, elettrodomestici e computer comandati a gesti. Vere e proprie anticipazioni di Smart City che non riguardano solo l’hardware ma anche il suo software: la polizia predittiva, al centro del racconto Rapporto di minoranza da cui e tratto il film di Spielberg, è diventata realtà nei dipartimenti di polizia di mezzo mondo che, in attesa dei precog, per prevenire i reati si affidano all’intelligenza artificiale e ai big data.
Dick associa dunque la catastrofe ambientale, sociale e mentale dell’umanità tardocapitalista a un futuro urbano ipertecnologico, con un’insistenza che suggerisce un significativo nesso di causalità. Questa compensazione di una vita ridotta a sopravvivenza tramite illusioni sensoriali e protesi tecnologiche illumina Smart City come surrogato digitale della città novecentesca (pp. 14-15).

Attraverso sapienti riferimenti cinematografici, musicali e letterari, il viaggio di Lippolis tratteggia la città-fabbrica novecentesca, tetra ma conflittuale, e la luccicante, lobotomizzata Smart City, proponendo un percorso che attraversa la crisi della città come luogo di convivenza, mutualismo, reciprocità e, persino, di sperimentazioni di democrazia diretta, delineando un declino dell’immaginario urbano che sembra sancire la morte dell’agorà pubblica e il trionfo della “solitudine iperconnessa” delle odierne piazze virtuali, rivelatesi incapaci di offrire partecipazione reale ed agire politico trasformatore.

Mentre lo story telling dominante impone Smart City come “città radiosa” della quarta rivoluzione industriale, Viaggio al termine della città di Lippolis tenta di rilanciare un “principio speranza” che sappia opporsi tanto alla distopia del no future, quanto all’oblio digitalizzato.

In questo senso, se la fantascienza di Dick rimane una guida fondamentale per intuire la distopia che si proietta al di là degli schermi trasparenti di Smart City, dal punto di vista del pensiero politico occorre rilanciare il “principio speranza” di un’utopia concreta di cui parlava Ernst Bloch alla fine degli anni Cinquanta, unico antidoto al sentimento angosciante di no future annunciato già alla fine degli anni Settanta e oggi apparentemente inscalfibile. Per fare questo diventa necessario riempire quel “deserto della critica” provocato da decenni di decostruzionismo, tornare alle origini del “vicolo cieco dell’economia” imboccato ormai troppo tempo fa e riannodare i fili di un pensiero che risulta tanto meno lontano quanto più coglieva la radice di quel mondo in cui siamo sempre più immersi: la natura catastrofica del cosiddetto progresso; la sempre più evidente antiquatezza dell’uomo rispetto alla civiltà delle macchine; la non neutralità della tecnologia nell’universo capitalistico e il dilagare pervasivo delle sue nocività; il senso della superfluità della vita umana rispetto al totalitarismo dell’homo economicus; la passività, l’isolamento e l’annientamento di ogni esperienza comunitaria indotti dalla mercificazione di ogni aspetto della vita; la distruzione avvilente della plurisecolare morale popolare di giustizia sociale, la common decency, a opera dell’ideologia e della neolingua progressiste (pp. 16-17).


  1. Gioacchino Toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Contesto e radici, in “Carmilla online”, 17 ottobre 2021; Gioacchino toni, Estetiche inquiete. Joy Division e dintorni. Immaginari ed eredità, in “Carmilla online”, 19 ottobre 2021. 

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Contro la smart city https://www.carmillaonline.com/2024/02/06/contro-la-smart-city/ Tue, 06 Feb 2024 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81052 di Paolo Lago

Perfect days (2023) di Wim Wenders mostra una vera e propria ‘mappatura’ dello spazio urbano ad opera del protagonista, Hirayama, che esegue le pulizie delle toilette dei parchi pubblici del quartiere Shibuya di Tokyo. Il personaggio vive in un modesto appartamento vicino a una strada alberata e al mattino si alza per andare al lavoro. Il film ci mostra praticamente in tempo reale le azioni quotidiane svolte da Hirayama: lavarsi, vestirsi, curare le piante, uscire di casa, prendere una lattina di caffè da un distributore automatico e salire sulla sua auto nella quale custodisce tutto il necessario per [...]]]> di Paolo Lago

Perfect days (2023) di Wim Wenders mostra una vera e propria ‘mappatura’ dello spazio urbano ad opera del protagonista, Hirayama, che esegue le pulizie delle toilette dei parchi pubblici del quartiere Shibuya di Tokyo. Il personaggio vive in un modesto appartamento vicino a una strada alberata e al mattino si alza per andare al lavoro. Il film ci mostra praticamente in tempo reale le azioni quotidiane svolte da Hirayama: lavarsi, vestirsi, curare le piante, uscire di casa, prendere una lattina di caffè da un distributore automatico e salire sulla sua auto nella quale custodisce tutto il necessario per il lavoro. Sembra quasi che la ‘mappatura’ della città attuata da Hirayama cerchi di plasmare, lentamente, un nuovo spazio urbano sottratto alle sempre più pervasive “smartificazione” e digitalizzazione. Spostandosi in auto, non mette in funzione apparecchi digitali o connessi ma ascolta esclusivamente canzoni rock americane degli anni Settanta riprodotte da musicassette. Il personaggio guarda quindi lo spazio urbano attraverso il filtro della musica ‘sporca’ proveniente da un apparecchio analogico: il suono, cadenzato dal fruscio del nastro, è infatti lontanissimo dalle algide riproduzioni digitali. Osservando le strade, i palazzi e gli scorci urbani tramite il filtro di una musica proveniente da un ‘altrove’ lontano nel tempo (sia quello a cui appartengono i cantanti e i gruppi rock che quello a cui appartengono le musicassette come oggetti) Hirayama compie una vera e propria decostruzione della Tokyo smart city contemporanea. Il protagonista di questo nuovo film del regista tedesco rimanda inoltre a molti altri personaggi del cinema di Wenders che ‘filtrano’ lo spazio urbano attraverso la musica che ascoltano nella loro auto: basti ricordare il Philip Winter di Alice nelle città (Alice in den Städten, 1974), il quale ‘rilegge’ le città attraversate anche per mezzo di uno sguardo musicale.

La lentezza e la metodicità che il personaggio dedica al proprio lavoro – considerato da chiunque come sordido o dequalificante – introduce la solennità del rito. La lentezza intende caricare di senso il tempo e lo spazio della contemporaneità, perduto nella macina di una comunicazione iperveloce. Come scrive Byung-Chul Han, “l’iper-comunicazione anestetica riduce la complessità, per raggiungere una maggiore velocità. Essa è sostanzialmente più veloce della comunicazione sensata. Il senso è lento, è di ostacolo ai circuiti accelerati dell’informazione e della comunicazione”1. La pulizia dei bagni pubblici rientra nella ritualità che investe la vita quotidiana di Hirayama: i suoi gesti, anche nel momento del lavoro, appaiono quasi venati di una sacralità perduta che si pone in netta contrapposizione con la velocità e l’inconsistenza che dominano l’esistenza degli individui contemporanei. Il protagonista di Perfect days è il costruttore di uno spazio alternativo a quello digitale e iperveloce contemporaneo. Anche nel momento della pausa pranzo dal lavoro, cerca di costruire una nuova spazialità urbana, cerca di sottrarre luoghi e spazi al magma fagocitante della contemporaneità. Si siede infatti sempre sulla stessa panchina, nello stesso parco pubblico, e scatta delle foto agli alberi con un apparecchio analogico, senza porre l’occhio dietro l’apparecchio rifiutando in tal modo di influenzare con il suo sguardo lo scorrere sempre uguale dei ritmi naturali e del movimento del vento tra le foglie degli alberi. La stessa ripetitività con la quale avvengono le azioni del personaggio lungo i giorni della settimana servono per instaurare una nuova temporalità, basata sul rito e su una concezione ‘sacrale’ dell’esistenza, che si oppone alla temporalità compressa e sempre preda di nuovi stimoli sensoriali degli spazi contemporanei. Gli spettatori che non hanno compreso o, peggio, si sono dimostrati infastiditi e annoiati da questa ripetitività di azioni, probabilmente appartengono in tutto e per tutto alla dimensione digitale e iperveloce contemporanea, e non si meritano di meglio. Wenders, con il suo film, ci mostra degli esempi di “immagini-tempo”, per utilizzare un’espressione di Gilles Deleuze: alla temporalità frantumata e veloce delle “immagini-movimento” si sostituisce quella lenta e ‘cristallizzata’ del rito2.

La ripetizione dei gesti e delle azioni domina anche i momenti in cui Hirayama, finito il lavoro, percorre in bicicletta gli spazi cittadini. Egli si muove quasi come un antico eroe epico che, spostandosi, attua una nuova lettura dello spazio3: sovverte, disarticola, smembra e ricostruisce in una dimensione sociale e culturale che si pone contro la concezione ipercontemporanea di smart city. Il personaggio si reca ai bagni pubblici per lavarsi, mettendo in atto un’altra azione rituale e conclude la sua giornata cenando in una tavola calda in una stazione, in mezzo a un frenetico passaggio di persone. Ecco che egli rilegge in modo diverso anche un luogo inserito nella velocità, nella spersonalizzazione e nella massificazione contemporanea. Dentro l’“inferno dell’Uguale”4, Hirayama si ritaglia un piccolo spazio in cui possono ancora valere gesti semplici e antichi, come bere e mangiare dopo aver scambiato sguardi e parole d’intesa con il padrone del piccolo locale. Anche il luogo dove si reca a mangiare nei giorni liberi dal lavoro si presenta come uno spazio dominato dai rapporti umani autentici, una piccola isola nel cuore spersonalizzato della metropoli: una padrona che sembra provenire dal Giappone più arcaico, degli avventori che condividono gioie e dolori e che concludono la serata cantando e suonando la chitarra. Nell’Uguale, egli cerca il Diverso sottraendosi agli obblighi sociali che rendono tutti gli individui uguali fra di loro: la ricerca del divertimento sfrenato, l’utilizzo di apparecchi ultramoderni e iperconnessi, la frequentazione di un certo tipo di ambienti, l’attenzione per le immagini digitalizzate e perfette. Il personaggio parla la propria città in modo diverso rispetto alla massificazione che la società tecnocapitalistica vorrebbe imporre. Come scrive Roland Barthes, infatti, “la città è un discorso, e questo discorso è un vero e proprio linguaggio; la città parla ai suoi abitanti e noi parliamo la nostra città, la città in cui ci troviamo, semplicemente abitandola, percorrendola, guardandola”5.

La città che Hirayama plasma col suo movimento si contrappone nettamente, ad esempio, agli spazi in cui si muovono i personaggi di Parasite (2019) di Bong-Joon-Ho. Non solo gli ambienti ipertecnologici ma anche quelli più poveri, nel film del regista sudcoreano, sono caratterizzati dalla presenza degli smartphone, utilizzati indifferentemente da tutti. Gli sfondi e gli ambienti di Perfect days, nei quali vive e si muove il protagonista, sono caratterizzati dalla materialità di oggetti profondamente reali: le musicassette, i vecchi libri, acquistati in una rivendita di libri usati fuori dai normali circuiti investiti dalla velocità del consumo, la stanza nella quale Hirayama attua il rituale della lenta lettura prima di addormentarsi, le scatole nelle quali vengono riposte le fotografie in bianco e nero scattate agli alberi, le piante e i bonsai di cui si prende quotidianamente cura. La Tokyo ‘costruita’ dal personaggio del film di Wenders assume un carattere profondamente umano: la decostruzione in senso anti-digitale non è rivestita di connotazioni distopiche come, ad esempio, nella serie tv Alice in Borderland, in cui la metropoli giapponese appare devastata e imbarbarita.

La lentezza e la ripetizione su cui insistono le immagini del film intendono quindi costruire una dimensione più umana, ‘detecnicizzata’ e ‘desmartificata’, in cui anche il tempo assume un carattere più lento e legato ad un’esistenza da riempire di significato minuto per minuto. Alla giovane nipote Niko, che si reca a fargli visita, Hirayama dirà infatti che “adesso è adesso e un’altra volta è un’altra volta”, a ribadire la necessità di trasformare ogni attimo in un irripetibile frammento di esistenza. Il personaggio si muove nello spazio urbano per creare – sembra – una dimensione di vita più autentica per sé stesso e per chi gli sta intorno, ricercando un contatto più autentico anche con la vegetazione che ancora riesce a sopravvivere nel magma di cemento della metropoli, non decostruita in inconsistenti immagini digitali, ma consegnata alla memoria in un tenue e cartaceo bianco e nero. Il movimento del personaggio appare perciò – ma questa proposta è solo una delle possibili chiavi di lettura del film – come una strenua lotta di sopravvivenza contro la smart city contemporanea.


  1. Cfr. B.-C. Han, La società della trasparenza, trad. it. di F. Buongiorno, Nottetempo, Roma, 2014, p. 28. 

  2. Cfr. G. Deleuze, L’immagine-tempo, trad. it. Ubulibri, Milano, 1989 e Id., L’immagine-movimento, trad. it. Ubulibri, Milano, 1984. 

  3. Cfr. B. Westphal, Geocritica. Reale Finzione Spazio, trad. it. Armando Editore, Roma, 2009, p. 114. 

  4. Cfr. B.-C. Han, La società della trasparenza, cit., p. 10. 

  5. R. Barthes, Semiologia e urbanistica, in L’avventura semiologica, a cura di C. M. Cederna, trad. it. Einaudi, Torino, 1991, p. 265. 

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Ripensare la città secondo Murray Bookchin https://www.carmillaonline.com/2023/09/14/ripensare-la-citta-secondo-murray-bookchin/ Thu, 14 Sep 2023 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78571 di Gioacchino Toni

Murray Bookchin, Dall’urbanizzazione alle città, traduzione di Elena Cantoni, elèuthera, Milano, 2023, pp. 392, € 24,00

Uscito originariamente nel 1987 con il titolo The Rise of Urbanization and the Decline of Citizenship, divenuto nell’edizione del 1992 Urbanization Without Cities per poi, nel 1995, ampliato, assumere il titolo attuale, From Urbanization to Cities. The Politics of Democratic Municipalism, lungi dall’essere una riflessione sulla pianificazione urbanistica o una critica della vita urbana, il volume di Murray Bookchin intende piuttosto formulare una politica municipalista confederale volta a estendere l’autodeterminazione del cittadino attraverso confederazioni [...]]]> di Gioacchino Toni

Murray Bookchin, Dall’urbanizzazione alle città, traduzione di Elena Cantoni, elèuthera, Milano, 2023, pp. 392, € 24,00

Uscito originariamente nel 1987 con il titolo The Rise of Urbanization and the Decline of Citizenship, divenuto nell’edizione del 1992 Urbanization Without Cities per poi, nel 1995, ampliato, assumere il titolo attuale, From Urbanization to Cities. The Politics of Democratic Municipalism, lungi dall’essere una riflessione sulla pianificazione urbanistica o una critica della vita urbana, il volume di Murray Bookchin intende piuttosto formulare una politica municipalista confederale volta a estendere l’autodeterminazione del cittadino attraverso confederazioni di villaggi, borghi e città in contrapposizione allo Stato-nazione.

A differenza di chi, nel denunciare lo svilimento del ruolo del cittadino nella società contemporanea, ha finito col limitarsi a proporre “soluzioni adattative”, la proposta dell’anarchico Bookchin non si rifà all’idea di conquista del potere statuale da parte di un’élite illuminata agente in nome della collettività, bensì mira a un’estensione delle forme di democrazia partecipativa.

Il volume ricostruisce la storia della città intendendola non come ambito di scambio capitalista e di gratificazione individuale, ma come luogo di una politica democratica partecipata. Così come gli ecosistemi si basano sulla partecipazione e sul mutualismo, altrettanto le città, e chi le abita, devono, secondo l’autore, riscoprire tali qualità, stabilendo relazioni sociali armoniose ed etiche.

Il municipalismo democratico rappresenta dunque una filosofia emancipatrice fondata su principi di autodeterminazione, in cui la politica diventa agire quotidiano in cui le comunità locali assumono nelle proprie mani il potere decisionale. Dalla Comune di Parigi alla rivoluzione curda nel nord-est siriano, il municipalismo democratico si configura come strumento utile a sottrarre potere allo Stato-nazione proponendosi di sostituire alla logica dell’urbanizzazione capitalista quella di una società fondata su principi solidaristici, ecologici ed egualitari.

Al fine di recuperare la politica, la cittadinanza e la democrazia, secondo l’autore, occorre guardare alla città come a un’arena pubblica in cui confrontarsi e discutere di affari pubblici, delle modalità con cui migliorare la vita degli individui in quanto esseri civici.

Nelle sue forme iniziali, la città fu l’arena par excellence per riconfigurare i rapporti umani, passando dalle aggregazioni basate su caratteri biologici, come la parentela, ad altre basate su dati prettamente sociali, come la prossimità abitativa; per l’emersione di forme istituzionali progressivamente più secolari; per il rapido proliferare di relazioni culturali spesso innovative; e per l’universalizzazione di attività economiche precedentemente legate all’età, al genere e alle distinzioni etniche. In breve, la città è stata l’arena storica in cui non casualmente le affinità biologiche si sono trasformate in affinità sociali, rendendola il singolo fattore più rilevante per trasformare un popolo etnicamente determinato in un corpo secolare di cittadini, una tribù campanilista in una civitas universale in cui, con il tempo, lo «straniero» e l’«outsider» potevano diventare membri della comunità senza dover comprovare alcun legame di sangue, reale o mitico, con un antenato comune. Così, non solo i rapporti politici hanno rimpiazzato le parentele, ma il concetto di humanitas condivisa ha rimpiazzato l’esclusività del clan e della tribù, le cui pretese biosociali di essere «il popolo» avevano spesso escluso l’«outsider» configurandolo come «Altro» disorganico, esogeno e spesso minaccioso. La città è stata dunque, storicamente, il luogo in cui sono emersi concetti universalistici come quello di «umanità», e tuttora ha il potenziale di diventare il luogo in cui riaffermare i concetti di autogestione politica e cittadinanza, in cui rielaborare nuovi rapporti sociali e una nuova cultura civica. I passi che hanno condotto dal clan di consanguinei, dalla tribù e dal villaggio alla polis, o città politica; dai fratelli e dalle sorelle di sangue, che acquisivano le proprie prerogative per nascita, a cittadini almeno idealmente liberi di decidere quali responsabilità civiche attribuirsi e quali affinità privilegiare sulla base della propria ragione e dei propri interessi secolari – ebbene, tutti questi passi costituiscono una valida definizione di città (pp. 17-18).

Bookchin analizza l’evoluzione delle città intesa come manifestazione di vita comunitaria, umana, etica ed ecologica che ha saputo valorizzare e potenziare l’individualità dando vita a forme istituite di libertà, individuandone quegli elementi di comunalismo autentico che possono essere recuperati e riformulati.

Lasciare che i grandi attributi civici languiscano nel passato, mentre i «futuristi» cibernetici e postmoderni proiettano l’irrazionalità del presente sul secolo a venire, equivarrebbe a permettere che l’ideale di una società razionale – quella che i grandi rivoluzionari di fine XIX e di inizio XX secolo chiamavano la «Comune delle Comuni» – sparisca dalla memoria delle generazioni future (p. 19).

Non si tratta, sottolinea l’autore, di mitizzare un passato in realtà segnato da vizi, limiti e ingiustizie ma, piuttosto, di riprendere «il concetto ellenico e medievale di città come unione etica di cittadini», guardando alla cittadinanza come a «un processo che comporta la trasformazione sociale e individuale delle persone in partecipanti attivi nella gestione della comunità» (p. 21). Guardare agli esempi del passato non significa dunque individuare modelli ideali da cui attingere acriticamente e astoricamente ma, piuttosto, andare alla ricerca di ciò che di innovativo è stato prodotto in termini di partecipazione attiva e diretta degli individui e delle ragioni dei loro fallimenti o dei loro superamenti in direzione opposta.

È importante distinguere il sociale umano dal politico e, come passaggio successivo, il politico dallo statuale. Abbiamo fatto un tremendo pasticcio confondendo le tre cose, e dunque legittimandone una in virtù della mescolanza con l’altra. Questa confusione ha gravi implicazioni per il presente e per il futuro. Abbiamo perso il senso di cosa significhi essere soggetti politici, demandandone le funzioni e le prerogative ai «politici», di fatto un gruppo selezionato e spesso elitario di persone che esercitano una forma di manipolazione istituzionale detta arte di governo. […] In modo analogo abbiamo perso il senso di cosa significhi essere un cittadino, uno status sempre più ridotto a quello di un mero «elettore» e «contribuente» che riceve passivamente i beni e i servizi erogati da uno Stato onnipotente e dai nostri rappresentanti eletti (p. 309).

Per arginare il rischio di una concentrazione di potere nelle mani di strutture che pretendono di operare in nome della collettività, vanificando nei fatti qualsiasi prospettiva di democrazia diretta, è indispensabile, sostiene Bookchin, incentivare forme di educazione municipale fondate sul faccia-a-faccia, sull’interazione personale, sul confronto concreto, così da promuove lo svilupparsi di una reale democrazia diretta. Dunque la necessità di partire dai piccoli gruppi, dalle associazioni di isolato, dai quartieri per dare vita a pratiche consapevoli che non possono essere facilmente bypassate da qualche istanza avanguardista incline ad arrogarsi il diritto di decidere in nome della collettività.

La cellula vitale che costituisce l’unità di base della vita politica non può che essere la municipalità, da cui tutto discende: dalla cittadinanza all’interdipendenza, dal confederalismo alla libertà. L’unico modo per dare concretezza alla politica è partire dalle sue forme più elementari: i villaggi, le cittadine, i quartieri e le città in cui le persone sperimentano, al di là della sfera privata, il livello più intimo di interdipendenza politica. È a questo livello che possono cominciare a familiarizzarsi con il processo politico, che comporta ben più del semplice gesto di informarsi e andare a votare. Ed è a questo livello che possono uscire dall’insularità della vita familiare – al momento celebrata proprio per la sua introiezione e il suo isolamento – e predisporre quelle istituzioni pubbliche che rendono possibile una vasta partecipazione e consociazione della comunità (p. 366).

Non si tratta, sottolinea più volte Bookchin, di far sparire la città, tanto meno di accettarla per quello che è, ma di «dotarla di un nuovo senso, di una nuova politica, di una nuova direzione, e offrire nuovi ideali di cittadinanza, molti dei quali in larga parte già realizzati nel passato», così che, dal basso, si possa costruire, insieme, «una nuova politica, capace di combinare gli alti ideali della cittadinanza partecipativa al riconoscimento di ciò che la città può diventare nel contesto di una società razionale, libera ed ecologica» (p. 25).

L’auspicio di tale prospettiva non è di certo bastevole al suo realizzarsi, le cose, ricorda l’autore, possono andare diversamente; può essere che

in futuro l’urbanizzazione abbia così completamente divorato la città e la campagna che la comunità sia ormai diventata un arcaismo; che la società di mercato si sia infiltrata in modo così pervasivo nei recessi più profondi delle nostre vite private da cancellare ogni senso di personalità, figurarsi di individualità; che lo Stato abbia ridotto non solo la politica e la cittadinanza a parodie di sé stesse ma che le sue fauci abbiano inghiottito persino l’idea di libertà (p. 372).

Alla luce della destrutturazione del mondo naturale che si aggiunge a quella del mondo sociale, «il recupero del concetto classico di politica e cittadinanza non è soltanto la precondizione di una società libera: è la precondizione della nostra sopravvivenza come specie» (p. 372).

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Il diritto alla città dentro e fuori gli schermi https://www.carmillaonline.com/2023/02/06/il-diritto-alla-citta-dentro-e-fuori-gli-schermi/ Mon, 06 Feb 2023 21:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75418 di Gioacchino Toni

I videogiochi open world, nel loro proporre un mondo virtuale che il giocatore può esplorare in modo relativamente autonomo, sono basati essenzialmente sullo spazio, uno spazio connesso a quello del mondo concretamente esperito. La spazialità di questo tipo di videogame assume frequentemente connotazioni inquietanti e conflittuali soprattutto nelle interazioni con l’ambito metropolitano simulato. Ciò è particolarmente evidente in Red Dead Redemption 2 (2018), un videogame sviluppato e pubblicato da Rockstar Games ambientato tra le praterie, i deserti e le zone che si stanno urbanizzando dell’America settentrionale ottocentesca che il giocatore, [...]]]> di Gioacchino Toni

I videogiochi open world, nel loro proporre un mondo virtuale che il giocatore può esplorare in modo relativamente autonomo, sono basati essenzialmente sullo spazio, uno spazio connesso a quello del mondo concretamente esperito. La spazialità di questo tipo di videogame assume frequentemente connotazioni inquietanti e conflittuali soprattutto nelle interazioni con l’ambito metropolitano simulato. Ciò è particolarmente evidente in Red Dead Redemption 2 (2018), un videogame sviluppato e pubblicato da Rockstar Games ambientato tra le praterie, i deserti e le zone che si stanno urbanizzando dell’America settentrionale ottocentesca che il giocatore, vestendo i panni del cowboy Arthur Morgan, si trova ad attraversare.

Alla politica dello spazio simulato è dedicato il saggio di Jack Denham e Matthew Spokes, Il diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogochi (Mimesis, 2023) [su Carmilla].

Nell’analizzare le interazioni di una quindicina di giocatori ventenni, dieci ragazzi e cinque ragazze, ricorrendo sia a interviste, prima e subito dopo la sessione di gioco, che all’osservazione diretta del gameplay, i due studiosi hanno verificato una marcata contiguità tra la percezione dello spazio concreto e virtuale.

I videogiochi open world possono essere definiti come «esperienze sociali contestate giacché propongono dinamiche di interazione mercificate, ostili e alienanti. Queste caratteristiche – che riflettono una specifica ideologia di design a sua volta basata su una concezione neoliberista della società – ci permettono non solo di contestualizzare, ma di comprendere la riluttanza dei giocatori a interagire con l’ambiente urbano costruito»1

Nella “dialettica triplice dello spazio” formulata sul finire degli anni Sessanta da Hernri Lefebvre2 per decifrare gli spazi sociali si distinguono uno spazio concepito, uno vissuto e uno percepito. Riprendendo la formulazione del francese che vuole lo spazio concepito come quello ordinante la società, teso a rafforzare il controllo egemonico attraverso aspettative e regole imposte dall’alto, con riferimento all’universo videoludico questo è identificabile con il mondo simulato e le regole del gioco pianificate dagli sviluppatori.

Nell’illustrare sul finire degli anni Sessanta le trasformazioni dell’ambiente urbano, Lefebvre3 ha sottolineato come le grandi trasformazioni urbanistiche dell’epoca, pur avendo migliorato le condizioni di vita di alcune zone cittadine, abbiano fatto perdere alla città il suo storico significato legato all’uso: anziché essere costruita e gestita secondo il suo valore d’uso, come accadeva in passato, la città ha finito per essere pianificata e realizzata in base al suo valore di scambio.

Tra i giocatori di Red Dead Redemption 2 è stato percepito il carattere «classista, esclusivo e sofisticato che rigetta e respinge i ruvidi cowboy»4 della città virtuale e non è passato inosservato come il paesaggio americano in evoluzione tratteggiato dal videogioco mostri una «concentrazione della ricchezza in poche mani nello spazio concepito della città»5.

A proposito dello spazio vissuto, della comprensione simbolica rappresentativa, i giocatori hanno individuato all’interno di Red Dead Redemption 2 elementi narrativi evocativi che rinviano al cinema western, a partire dall’immagine stereotipata del cowboy come maschio “duro” e “ruvido”.

Circa lo spazio percepito, inteso come «l’esperienza “dal basso verso l’alto” del giocatore che “accoglie la produzione e riproduzione e le particolari locazioni e caratteristiche di ciascuna formazione sociale”»6, nel libro Il diritto alla città, Lefebvre segnala come i valori urbani siano concepiti in modo esclusivo anziché inclusivo e siano tesi a privilegiare il valore di scambio. «In questo senso, i cowboy come Arthur Morgan sono attivamente ostracizzati: non hanno il diritto di abitare i nuovi spazi industriali e capitalistici»7.

Il genere open world si rivela un’esperienza spaziale che lega fortemente l’universo virtuale a quello non virtuale in cui sono giocati; considerare il gioco come uno spazio isolato non consente di cogliere il suo più ampio contesto sociale. Nonostante promettano estrema libertà al giocatore, i videogiochi manistream risultano spesso intrisi di logiche neoliberiste giustificanti lo sfruttamento classista e di genere, legittimanti l’alienazione, l’industrializzazione e la distruzione delle risorse naturali che il giocatore non può negoziare in quanto imposte dalle regole del gioco.

Il nostro campione considera l’esperienza di gioco in un mondo aperto come la libertà simultanea di esplorare mondi incontaminati dai processi di meccanizzazione e industrializzazione urbana, contrastata da un senso di esclusione nel momento in cui quei panorami sono stati “colonizzati” dal summenzionato nesso tecno-capitalista. I partecipanti allo studio erano, per lo più, studenti universitari, cresciuti in contesti urbani, che risiedono in città. Come tali, essi hanno ben presenti i danni prodotti dalla gentrificazione, dall’urbanizzazione, dall’inquinamento, dalla conflittualità, dalla competizione opprimente del capitalismo. Il videogioco fornisce loro la possibilità di riflettere su questi fenomeni in forma metaforica8.

Red Dead Redemption 2 finisce per riflettere e incoraggiare la partecipazione del giocatore all’imperativo capitalistico della crescita senza limiti, alla colonizzazione e allo sfruttamento delle risorse; il videogioco diviene insomma «una sorta di una rivisitazione ludica e spaziale della “logica egemonica liberale e liberista che assegna un primato assoluto al mercato” tipico degli spazi urbani moderni»9. I giocatori sono così spinti «a riflettere sul “diritto collettivo” di occupare gli spazi e di agire negli spazi, come scrive il Lefebvre del Diritto alla città»10, impattando anche sul modo in cui esperiscono l’esperienza del videogioco.

I giocatori usano le esperienze open world offerte da RDR2 per indulgere nell’“esperienza urbana contemporanea con un’aura di libertà e scelta nel mercato”, usando il tempo a disposizione per aggirare le intenzioni dei programmatori e degli sviluppatori, all’interno di uno spazio giocabile che rispecchia i principali aspetti della moderna economia politica urbana. Non rivendicano alcun “potere di modellare il processo di urbanizzazione” che costituirebbe un diritto alla città virtuale, ma abbracciano il diritto alla città come una forma di resistenza. Sono consapevoli della relazione tra cittadinanza e capitalismo che rimodella e “afferma […] il diritto degli utenti di far conoscere le loro idee sullo spazio e sul tempo delle loro attività” cozzando contro scelte di design non negoziabili11.

Quanto sin qua tratteggiato circa il “diritto alla città”, seppure in maniera decisamente diversa,  è per certi versi al centro anche di film focalizzati sulle periferie parigine come L’Odio (La Haine, 1995) di Mathieu Kassovitz, I Miserabili (Les Misérables, 2019) di Ladj Ly e Athena (2022) di Romain Gavras. Ad essere ostracizzati dalla città disciplinata e disciplinare, in questi casi, non sono i ruvidi cowboy che “vengono da fuori” ma quella riottosa feccia – come la definiva quel galantuomo di Nicolas Sarkozy – confinata nelle periferie metroplitane.

Il film di Kassovitz ha portato sul grande schermo le banlieue francesi di inizio anni Novanta e lo ha fatto raccontando un giorno e una notte di tre giovani amici che, mettendo piede nella Ville Lumière, non possono che vivere sulla loro pelle quanto questa si riveli ostile nei loro confronti. Ed è proprio negli eleganti Champs-Élysées parigini, tra tricolori e inno nazionale cantato all’unisono per celebrare la vittoria dei Bleus ai Mondiali, che si apre il film Ladj Ly. L’unità francese esibita dalla Capitale si rivelerà una maschera incapace di celarne l’inospitalità di fondo nei confronti di chi non può permettersi di abitarla.

L’Odio sembra per certi versi il prologo de I Miserabili, film uscito oltre due decenni dopo e le periferie degli anni Novanta mostrate da Kassovitz rappresentano la premessa alla situazione in cui versano le banlieue contemporanee, veri e propri concentrati di guerra civile quotidiana che, al di là della contrapoposizione tra gendarmi e abitanti, vedono, rispetto al passato, nuovi attori non statali della violenza caratterizzati da originali configurazioni di potere in competizione tra loro con cui i singoli devono fare i conti12.

La banlieue messa in scena dal film si palesa come una prigione labirintica costituita da palazzoni e isolati tra i quali incessantemente si perpetua, in una sorta di loop quotidiano, il pattugliamento dell’anticrimine: uno spazio che, in linea con il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, può dirsi contemporaneamente chiuso in sé e in relazione col mondo, in contatto, ad esempio, con la grande Ville Lumière che la contiene ma che, tuttavia, la contraddice13.

Tutto ciò è ripreso, in questo caso con respiro epico e tragico, anche da Athena di Romain Gavras che, come gli altri film, sbatte letteralmente in faccia allo spettatore la guerra civile che attraversa le periferie occidentali14 ed anche in questo caso, come ne I Miserabili, tutto inizia in un inospitale centro urbano, che però, stavolta, palesandosi direttamente come centrale di polizia, non maschera nemmeno più la sua ostilità nei confronti di chi vive nelle periferie. I tricolori francesi, paradossalmente, vengono fatti sventolare durante il concitato “ritorno a casa” da parte di, obbligato alle periferie, ha ormai deciso di rispondere agli oppressori con il loro medesimo linguaggio pur sapendo che le cose non potranno andare a finere bene.

In banlieue ci si muove sull’istanza del bisogno: il lavoro, la casa, gli spazi, la bestialità dei gendarmi; sofismi ideologici mal si accordano al cemento armato. E ci si muove coi propri vicini, coi parenti e con gli amici. Non si può tracciare una linea di demarcazione netta tra il corpo politico e quello sociale. […] La banlieue è il territorio di sperimentazione del capitale, dove la disarticolazione della vecchia classe operaia è stata presupposto e trampolino per la ristrutturazione dell’intero modo di produzione capitalista interno della Francia (ma similmente è avvenuto per il resto d’Europa). È il più avanzato laboratorio del nemico e pertanto la trincea di prima linea dei subalterni15.

Questo gruppo di film impone non solo una riflessione sui rapporti centro-periferia ma anche sulle tante strutture di potere con cui i singoli abitanti delle banlieue devono fare i conti nella loro quotidiana lotta per vivere una vita degna di questo nome.


 


  1. Jack Denham e Matthew Spokes, Il diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world, in Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, p. 261. 

  2. Hernri Lefebvre, La produzione dello spazio, Pgreco, Milano, 2018. 

  3. Hernri Lefebvre, Il diritto alla città, Ombre Corte, Verona, 2014. 

  4. Jack Denham, Matthew Spokes, Il diritto alla città virtuale: la regressione rurale nei videogiochi open world, cit. p. 274. 

  5. Ibidem

  6. Ivi., p. 279. 

  7. Ivi., p. 283. 

  8. Ivi., pp. 287-288. 

  9. Ivi., p. 288. 

  10. Ibidem

  11. Ivi., pp. 288-289. 

  12. Cfr. Sandro Moiso, I don’t live today / 2: la guerra delle periferie, in “Carmilla”, 26 agosto 2020. 

  13. Gioacchino Toni, Immaginari di guerra civile permanente, in Sandro Moiso, Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone, Roma, 2021, p. 362. 

  14. Cfr.: Sandro Moiso, La nostra guerra civile quotidiana: Athena, in “Carmilla”, 12 ottobre 2022; Guy Van Stratten, “Athena”: quando la rivolta degli ultimi diventa un poema epico, in “Codice Rosso”, 1 novembre 2022. 

  15. Jack Orlando, Parlami di noi. Note di ricerca e militanza in banlieue, in “Carmilla”, 3 gennaio 2003. 

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Il turismo come pratica di consumismo di massa https://www.carmillaonline.com/2021/01/14/il-turismo-come-pratica-di-consumismo-di-massa/ Thu, 14 Jan 2021 22:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64446 di Gioacchino Toni

Sarah Gainsforth, Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile?, Eris, Torino 2020, pp. 64, € 6,00

«Dal canto suo il turismo è eterotopico: genera i propri luoghi, che adatta ai propri fini […] Per diventare turisticamente compatibile, una realtà deve prima estirpare i modi di vita tradizionali in cui affonda le proprie radici» (Rodolphe Christin)

Nel corso degli ultimi decenni sono diverse le città e le zone paesaggistiche che in ogni parte del mondo sono soggette a processi di trasformazione profonda determinati dal turismo di massa. Espulsione dai centri storici [...]]]> di Gioacchino Toni

Sarah Gainsforth, Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile?, Eris, Torino 2020, pp. 64, € 6,00

«Dal canto suo il turismo è eterotopico: genera i propri luoghi, che adatta ai propri fini […] Per diventare turisticamente compatibile, una realtà deve prima estirpare i modi di vita tradizionali in cui affonda le proprie radici» (Rodolphe Christin)

Nel corso degli ultimi decenni sono diverse le città e le zone paesaggistiche che in ogni parte del mondo sono soggette a processi di trasformazione profonda determinati dal turismo di massa. Espulsione dai centri storici degli abitanti economicamente più svantaggiati e delle attività commerciali tradizionali sostituiti rispettivamente da ondate di turisti a cui vengono destinati gli alloggi e da infrastrutture commerciali ad essi dedicate, abnorme concentrazione di popolazione in spazi ridotti (overtourism), aumento dell’inquinamento, edificazione di opere di forte impatto urbanistico-ambientale realizzate al solo scopo di attrarre visitatori ad eventi di breve durata, cancellazione di quell’identità storica, culturale e paesaggistica che erano alla base dell’attrattività delle località. Insomma, il turismo di massa sta letteralmente distruggendo l’ecosistema urbano e naturale di molte zone del pianeta.

Un esempio su tutti. In seguito alla fortunata serie televisiva Game of Thrones, la città di Dubrovnik (Kings Landing, nella fiction) si è vista letteralmente invadere dai turisti: l’80% del milione di visitatori giunti in città nel 2016 è arrivato sul posto con enormi navi da crociera a gruppi di migliaia di passeggeri per volta. Se si sta diffondendo una certa sensibilizzazione – si pensi a Venezia – circa l’impatto delle grandi navi sull’ecosistema, non deve essere sottostimato l’impatto provocato sulle località dallo sbarco della marea umana da esse trasportata. Anche i voli low cost contribuiscono all’overtourism e in alcuni casi nei confronti dei medesimi luoghi messi a dura prova dalle grandi navi.

Dopo aver analizzato il fenomeno Airbnb, vera e propria piattaforma di gentrificazione digitale che sta riplasmando il volto delle città turisticamente più attrattive1 [su Carmilla], con un suo recente libro, la ricercatrice indipendente e giornalista freelance Sarah Gainsforth, Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile? (Eris, 2020), affronta di petto gli effetti del turismo di massa contemporaneo sulle città e sull’ambiente naturale.

Dopo aver ricostruito quella trasformazione del viaggio per pochi in turismo di massa che Rodolphe Christin2 [su Carmilla] ha sintetizzato in maniera efficace affermando che il turista, nato come sperimentatore esistenziale, si è via via convertito in un consumatore del mondo, Gainsforth si preoccupa di evidenziare l’incidenza che su tale processo hanno avuto lo sviluppo dell’economia, le politiche urbanistiche e la cultura, per poi terminare il volume con una riflessione sulla distruttività di questo sistema turistico giungendo a chiedendosi se un altro turismo, sostenibile, sia, oltre che auspicabile, possibile.

Per quanto riguarda il turismo urbano, Gainsforth ricorda come questo sia cresciuto velocemente e in maniera spropositata anche a causa dell’incremento dell’offerta di alloggi turistici a prezzi (inizialmente) convenienti proposta da alcune piattaforme digitali che nel giro di pochi anni hanno trasformato la pratica di condivisione degli alloggi in un business che sottrae le abitazioni ai residenti stabili in favore di turisti di passaggio.

Il turismo di massa ha inoltre contribuito enormemente a rendere le città un po’ tutte uguali; essendosi l’economia locale specializzata in un unico settore, quello turistico, sono state le città ad adeguarsi ai turisti e non l’inverso. Per tentare di arginare l’overtourism si sono mosse alcune amministrazioni comunali attivando meccanismi di regolamentazione del mercato degli affitti di breve durata e si sono sviluppate mobilitazioni dal basso (come nel caso di Barcellona).

Se fenomeni come l’overtourism e la turistificazione dei centri storici sono fenomeni recenti, questi si sono però innestati su processi già in corso da tempo in diverse città e per comprendere come ciò sia potuto avvenire è indispensabile, sostiene Gainsforth, ricostruire i motivi per cui il turismo è diventato un settore portante dell’economia urbana in diverse città.

Secondo la studiosa uno spartiacque importante in tal senso è rappresentato dalla fine degli anni Settanta, quando il consolidato legame tra industrializzazione e urbanizzazione è entrato in crisi e la città si è avviata a trasformarsi da luogo di produzione a centro di servizi. A partire da allora diverse città hanno investito il loro futuro economico sull’innovazione tecnologica e culturale mentre in contemporanea si provvedeva a smantellare il welfare sull’onda della riduzione della pressione fiscale su profitti e rendite, della deregolamentazione dei flussi di capitale e della liberalizzazione del commercio. In tale contesto il settore pubblico ha via via abbandonato il suo storico ruolo di erogatore di servizi trasformandosi in committente di servizi erogati da privati.

Il passaggio da un’economia industriale a una del terziario ha comportato l’abbandono di numerose aree urbane che, da qualche tempo a questa parte, sono state destinate ai nuovi settori economici trainanti, tra cui la stessa produzione culturale: eccoci allora alla stagione dei grandi eventi, dagli Expo ai mega-eventi sportivi, con annessi fenomeni di gentrificazione e trasformazioni urbanistiche in nome del turismo come risorsa, moltiplicatore di lavoro e di ricchezza.

La contraddizione è questa: se le politiche urbane contemporanee sarebbero chiamate a sanare le diseguaglianze e ridurre le dinamiche di esclusione sociale prodotte da un’economia finanziaria, della rendita, i progetti di rigenerazione urbana sono inscritti nello stesso sistema economico che dovrebbero correggere. Per questo il termine “rigenerazione urbana” si riduce spesso a un’etichetta “etica” appiccicata a speculazioni immobiliari private, e il termine “valorizzazione”, tanto ricorrente in queste operazioni, indica non un generico miglioramento di un immobile o di un quartiere, ma la creazione di una rendita. Il turismo è una delle principali strategie di promozione di quartieri, luoghi trattati come prodotti, come brand per attirare capitali privati ed è il pretesto che giustifica la “valorizzazione” immobiliare e finanziaria della città. (p. 17)

Oltre a mostrare i disastri determinati dal turismo come pratica di consumismo di massa, il volume di Sarah Gainsforth ha il merito di invitare a ripensare il turismo a partire da una nuova prospettiva, da un’ecologia popolare.


  1. Sarah Gainsforth, Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, DeriveApprodi, Roma 2019. 

  2. Rodolphe Christin, Turismo di massa e usura del mondo, Elèuthera, Milano 2019. 

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Estetiche del potere. Muralizzazione delle periferie e decontestualizzazione dell’arte di strada https://www.carmillaonline.com/2020/12/27/estetiche-del-potere-muralizzazione-delle-periferie-e-decontestualizzazione-dellarte-di-strada/ Sat, 26 Dec 2020 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63934 di Gioacchino Toni

«Molti degli operatori culturali attivi in strada a partire dai primi 2000 hanno modificato la percezione, l’occupazione e la condivisione di ciò che fino a quel momento veniva considerato lo spazio pubblico. La fisionomia della città, e alcune sue parti divenute “celebri” proprio per gli interventi di autori come Blu, si è modificata in virtù di quelle improvvise e impreviste presenze, spesso pittoriche, che hanno reso la città stessa per alcuni aspetti anche più “preziosa”» (Fabiola Naldi, Tracce di Blu, Postmedia books, 2020.)

«Siamo stati denunciati mentre aiutavamo Blu a cancellare le sue opere. E con questa ci [...]]]> di Gioacchino Toni

«Molti degli operatori culturali attivi in strada a partire dai primi 2000 hanno modificato la percezione, l’occupazione e la condivisione di ciò che fino a quel momento veniva considerato lo spazio pubblico. La fisionomia della città, e alcune sue parti divenute “celebri” proprio per gli interventi di autori come Blu, si è modificata in virtù di quelle improvvise e impreviste presenze, spesso pittoriche, che hanno reso la città stessa per alcuni aspetti anche più “preziosa”» (Fabiola Naldi, Tracce di Blu, Postmedia books, 2020.)

«Siamo stati denunciati mentre aiutavamo Blu a cancellare le sue opere. E con questa ci conquistiamo la denuncia più stravagante e imbecille dell’anno» (Laboratorio Crash, Bologna, marzo 2016).

«Da un lato volete sgomberarci, dall’altro volete rinchiuderci in una teca» (Centro sociale XM24, Bologna, luglio 2019)

Prendendo atto di come le periferie delle città si stiano da qualche riempiendo di murales, Lorenzo Misuraca, in un suo scritto pubblicato su “Il lavoro culturale” nel 20151, si chiede se, al di là degli aspetti positivi, in tale proliferazione non vi sia anche qualcosa di negativo.

Rispetto ai graffiti comparsi sui muri delle città italiane negli anni Ottanta e Novanta, questa più recente ondata di murales, sostiene Misuraca, non pare rappresentare «l’autoaffermazione estetica» di una specifica «comunità underground». Inoltre, rispetto alle precedenti, le ultime produzioni sembrano incontrare un consenso più diffuso.

Che siano nati spontaneamente dal basso o commissionati a livello più o meno istituzionale, i murales delle periferie sembrano svolgere una funzione di riqualificazione urbanistica e culturale e, continua l’autore, il loro linguaggio di strada e per la strada rappresenta un ottimo strumento per veicolare la rinascita di aree urbane periferiche e per rafforzare l’auto-percezione positiva che il quartiere ha di sé. Insomma, la «politica di ridisegno delle periferie» attuata dalle istituzioni, che in alcuni casi organizzano persino tour guidati alla scoperta delle “bellezze sui muri” delle periferie, sembra donare ai sui abitanti l’orgoglio di un’unicità positiva.

A partire da tali premesse, Misuraca si interroga sulle possibili ricadute negative di questa “muralizzazione” delle periferie. Se da un lato il quartiere rischia di scambiare i suoi «bisogni strutturali, come i servizi di prossimità, i trasporti, il decoro urbano, gli spazi culturali e di socializzazione, con la colorazione artistica delle facciate», dall’altro, con il dilagare di tale fenomeno, la street art rischia di giocarsi la sua stessa anima che è quanto la contraddistingue dai manufatti destinati agli ambiti museali e chiusi che nel corso del tempo si sono talmente “addomesticati”, nel loro adeguarsi al gusto medio, da essere divenuti inoffensivi.

«L’arte di strada nasce per parlare ad altri, ai passanti nelle vie, ai nevrotizzati dai ritmi della città, alle famiglie di migranti. Lo fa stendendosi su un muro e lo fa, quando lo fa bene, creando un cortocircuito disturbante con la cultura dominante, che sia il capitalismo, il consumismo, l’autoritarismo, il fatalismo o il familismo clientelare». Converrà interrogarsi sul fatto che le opere di un artista come Banksy finiscono per piacere anche a quelli a cui non l’artista vorrebbe piacere. Attorno alle sue opere si è infatti creato un cortocircuito perverso per cui alcune delle stesse amministrazioni britanniche che un tempo bollavano tali interventi sui muri come atti vandalici, ora si adoperano per tutelare le sue opere da sconsiderati atti di vandalismo.

Non è una novità che un fenomeno di strada rischi di essere riassorbito da un sistema che non perde occasione per ricavare profitto anche da chi magari lo contesta e se qualche artista di strada si adegua, qualcun altro decide di resistere alle lusinghe. «Legittima l’aspirazione del muralista di vivere della sua arte», scrive Misuraca, «ma sorprende la scarsa consapevolezza di come i murales stiano cambiando la propria funzione all’interno della comunicazione pubblica. Da luogo di critica a luogo di ratifica del potere».

Di tale paradosso sicuramente si è accorto Blu, che non a caso «lavora in sinergia con le vertenze sociali e politiche dei territori in cui opera». A rendere evidente tale consapevolezza è la cancellazione, nel dicembre del 2014, operata dallo stesso artista di suoi lavori nel quartiere berlinese di Kreuzberg. «Il motivo è la gentrificazione, la trasformazione di quel quartiere multietnico e popolare in un luogo radical-chic e a vocazione commerciale, e dunque il decadimento della ragione stessa di quell’opera lì».

Nel 2016, in occasione della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano”, che espone alcune opere letteralmente staccate dai muri della città, trasformandole così in pezzi da museo, con il pomposo obiettivo di «salvarle dalla demolizione e preservarle dall’ingiuria del tempo», l’artista Blu, aiutato dagli occupanti di alcuni centri sociali locali, risponde all’essere finito, suo malgrado, nel cartellone della mostra, cancellando le sue opere dipinte in città2.

Se da un alto la muralizzazione delle periferie può diventare una sorta di “trompe l’oleil del cambiamento”, ossia «un’occasione importante di ricodificare tramite l’occhio dello straniero la percezione di se stessi, libera o quantomeno non delimitata da stigmi antichi», dall’altro, il crescente protagonismo istituzionale nel commissionare opere di street art può rappresetare «il germe di una politica comunitaria che sempre di più nasconde il segno sotto il tappeto del simbolo».

Detto che i murales, per quanto affascinanti, non cancellano il disagio sociale e l’isolamento a cui sono condannate le periferie, ciò che colpisce oggi «è invece la velocità con cui queste operazioni culturali vengono pensate, messe in atto, e digerite», scrive Misuraca, tornando sull’argomento sempre su “Il lavoro culturale” in uno scritto del dicembre 20203 che amplia la riflessione a come il capitalismo dei social incida, anestetizzandola, sull’esperienza creativa. Non appena un fatto tocca “corde comuni”, occorre metterlo a profitto istantaneamente, prima che l’interesse collettivo cali.

L’autodistruzione operata da Blu nei confronti delle sue opere è un atto estetico e politico radicale che ha il merito di riportare al centro della scena una riflessione tanto sulla scena urbana che su quella artistica. Non a Blu direttamente, ma attorno a lui sicuramente, è strutturato il libro di Fabiola Naldi, Tracce di Blu (Postmedia books, 2020) che raccoglie alcuni testi che, scrive l’autrice, «hanno vissuto di un momento empatico molto particolare, e hanno condiviso luoghi e contesti di destinazione speciali per la mia carriera e la mia esperienza personale. Ciascun testo che precede l’estratto ripubblicato agisce come un ipertesto, una sorta di scrittura aumentata di ciò che avevo già fatto al tempo».

In una scena artistica contraddistinta da una certa refrattarietà all’agire collettivo, in cui molti operano in solitaria senza un preciso codice espressivo, la cancellazione delle opere operata da Blu nel marzo 2016 rappresenta secondo Naldi «l’apice della parte libera e consapevole di un modo preciso di intendere lo spazio urbano. Certamente ci sono ancora autori che proseguono a lavorare in modo risoluto e a volte ancora antagonista, ma la deriva più decorativa, edonistica e restaurativa detiene il primato».

Riprendendo i ragionamenti di Miwon Know4 a proposito dell’arte pubblica, del site specific e del rapporto tra realizzazione e distruzione, Naldi evidenzia come tanto gli studiosi qaunto gli spettatori casuali contemporanei debbano saper contestualizzare l’intervento estetico al suo contesto di riferimento. Pertanto, «la Street Art può esistere ed essere considerata tale solo se fruita come esperienza fenomenologica conseguente e adiacente allo stesso contesto, fatto per soddisfare il luogo in cui è stato realizzato e privo di valore se spostato, trasferito o modificato». È pertanto inevitabile che l’autore metta in conto, quando non la pianifichi direttamente, la distruzione dell’opera. È nelle regole non scritte della Drawing Art, illegale o meno, il suo essere effimera e instabile.

Scrive Blu poche ore dopo aver operato la cancellazione delle proprie opere: «A Bologna non c’è più Blu e non ci sarà finché i maganti mangeranno. Per ringraziamenti o lamentele sapete a chi rivolgervi». Come a dire che non è nel gesto in sé della cancellazione operata dall’artista che deve essere ricercato l’atto violento; questo deve piuttosto essere individuato nella logica di chi ha davvero distrutto la sua opera murale, «strappandola dalla sua unica e possibile collocazione in nome di una logica di preservazione, fondamentale in altri contesti pittorici ma opposto al lavoro di Blu».

Scrive Naldi che con modalità da attivista politico, «Blu considera buona parte degli interventi che realizza in lotta o in contrapposizione ai vari sistemi locali (diritto alla casa, lotta di autogestione, libero utilizzo delle piattaforme tecnologiche). Solo in quei casi, e solo con l’aiuto di un supporto economico per i materiali pittorici da utilizzare, Blu sceglie di sottoscrivere la battaglia di un singolo gruppo leagato a un singolo territorio, consapevole he la notorietà e il rispetto acquisito nel corso degli anni possano ridisegnare le sorti di una precisa attività anche in nome delle sua presenza. Non si parla mai di riqualificazione urbana, non vi è partecipazione o collaborazione con le istituzioni, ma solo ‘urgenza di “accentuare” una situaizone di emergenza sempre più comune a molte città». Ecco allora che in una data particolare per Bologna, l’anniversario dell’uccisione per mano poliziesca di Francesco Lorusso (11 marzo 1977), con l’aiuto di attivisti dei centri sociali Crash e XM24, Blu decide di ricoprire con il colore grigio le sue opere cittadine.

Dichiara il Centro sociale XM24 di Bologna sotto sgombero nel luglio 2019: «Non dimentichiamo che giornali e politici che oggi elogiano la tutela della Sovrintendenza sono gli stessi che ogni giorno condannano tag, scritte e disegni sui muri, gli stessi che considerano un priorità la “pulizia” della città e che augurano severe condanne a chi fa i graffiti. Gli stessi che apprezzano la “street art” solo se ci intravedono un potenziale profitto. C’è però una realtà evidente: quei pezzi esistono perchè esiste una comunità che li ha fortemente desiderati, voluti, che ne ha scelto i soggetti, il linguaggio, la forma, il contenuto. In un rapporto di scambio continuo fra artiste e artisti chiamati a dipingere e Xm24, stretti in modo inscindibile. Non si può separare un’opera di arte urbana dalla comunità che abita quella porzione di città su cui essa insiste e per cui esiste, senza snaturarla del tutto, e renderla un tristissimo fantoccio vuoto. […] Non consegneremo al Comune un monumento svuotato dal suo contenuto politico e di lotta. Non ci saranno turisti e passanti che si faranno selfie di fronte al fascio spezzato, ai partigiani dipinti, al ritratto del nostro compagno Francesco Lo Russo, e al cane, al topo e al piccione di Xm24, e un Lepore o chi per lui a raccontare in modo addomesticato la storia dello Spazio Autogestito che oggi vogliono sgomberare. Da un lato volete sgomberarci, dall’altro volete rinchiuderci in unateca. Non vi farete belli della nostra storia, della nostra passione, del nostro presente. Non vi daremo la possibilità di provarci».

Un luogo pubblico dovrebbe essere inteso come spazio «condiviso, comune e spesso di passaggio», dunque, a proposito dell’arte pubblica, nelle sue molteplici manifestazioni, occorre secondo Naldi chiedersi cosa sia ora lo spazio pubblico e come si muovano al suo interno coloro che lo abitano. Visto che gli interventi di arte pubblica incidono inevitabilmente sullo spazio e sulla comunità che lo abita, non è che quelle opere vengano realizzate, lette e interpretate come in altri contesti.

È a partire da tali riflessioni, sulla specificità di tali esperienze, che l’autrice ha strutturato un volume che ruota attorno agli eventi espositivi ai quale ha preso parte Blu. Si tratta di un libro strutturato attorno agli scritti con cui l’autrice hanno accompagnato l’artista per un decennio nelle manifestazioni pubbliche e sulla strada, scritti che ora possono essere riletti a posteriori anche, e soprattutto, alla luce delle auto-cancellazioni operate da Blu, da un gesto capace di rafforzare e significare la sua intera produzione artstica e politica allo stesso tempo.


  1. Lorenzo Misuraca, Street art come il trompe l’oeil dello stato sociale. I rischi della “muralizzazione” delle periferie, “Il lavoro culturale”, 13 Maggio 2015. 

  2. Gioacchino Toni, Estetiche del potere. Graffiti, dispensatori d’aura ed ordine pubblico, “Carmilla”, 22 luglio 2016.  

  3. Lorenzo Misuraca, Capitalismo social. Come il capitalismo dei social prosciuga il desiderio e desertifica l’esperienza creativa, “Il lavoro culturale”, 8 Dicembre 2020. 

  4. Miwon Know, One Place After Another: Site-specific Art and Locational Identity, MIT Press, Cambridge, MA, U.S.A 2002. 

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Piattaforme di gentrificazione digitale https://www.carmillaonline.com/2020/11/19/piattaforme-di-gentrificazione-digitale/ Thu, 19 Nov 2020 22:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63329 di Gioacchino Toni

Sarah Gainsforth, Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 192, € 18,00

«Cerchi una casa sull’albero per il weekend o un’intera casa per tutta la famiglia? Qualunque sia la tua destinazione, ti aspetta un caloroso benvenuto. Dietro ogni soggiorno c’è un host, una persona reale pronta a offrirti le informazioni di cui hai bisogno per effettuare il check-in e sentirti a casa». Così il portale Airbnb italiano accoglie il visitatore. Airbnb, spiega Wikipedia, «è un portale online che mette in contatto persone in cerca [...]]]> di Gioacchino Toni

Sarah Gainsforth, Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, DeriveApprodi, Roma 2019, pp. 192, € 18,00

«Cerchi una casa sull’albero per il weekend o un’intera casa per tutta la famiglia? Qualunque sia la tua destinazione, ti aspetta un caloroso benvenuto. Dietro ogni soggiorno c’è un host, una persona reale pronta a offrirti le informazioni di cui hai bisogno per effettuare il check-in e sentirti a casa». Così il portale Airbnb italiano accoglie il visitatore. Airbnb, spiega Wikipedia, «è un portale online che mette in contatto persone in cerca di un alloggio o di una camera per brevi periodi, con persone che dispongono di uno spazio extra da affittare, generalmente privati». Inoltre, riporta che il sito, attivato nel 2007, «al giugno 2012 contava alloggi in oltre 26.000 città in 192 paesi e raggiunse 10 milioni di notti prenotate in tutto il mondo. Gli annunci includono sistemazioni quali stanze private, interi appartamenti, castelli e ville, ma anche barche, baite, case sugli alberi, igloo, isole private e qualsiasi altro tipo di alloggio».

Insomma, un esempio di “sharing economy” di successo che però, con i suoi annunci accattivanti, sottrae unità residenziali dagli affitti a lungo termine. In Italia la percentuale delle unità immobiliari presenti sulla piattaforma è pari al 25% di quelle presenti nel centro storico della città di Firenze. Non solo la diminuzione della disponibilità abitativa per gli affitti a lungo termine ha fatto aumentare questi ultimi in maniera vertiginosa, ma anche contribuito a determinare una vera e propria fuga dalla città. Si calcola che in alcuni quartieri romani del centro la popolazione residente si sia ridotta del 30-40% nel periodo compreso tra il 2014 e il 2018. Nella parte antica della città di Venezia, poi, si è giunti alla parità: il numero di posti letto per turisti corrisponde ormai a quello dei residenti con inevitabili ricadute anche sul commercio di vicinato sempre più rimpiazzato da servizi per turisti1.

Anche le corporation del capitalismo delle start-up e delle piattaforme digitali hanno bisogno dei loro miti fondativi. Ne abbiamo sentite talmente tante di storie di successo che partono da piccoli laboratori in garage messi insieme da amici squattrinati che viene il dubbio si tratti di narrazioni utili a nascondere qualche verità scomoda o fatte circolare quasi per scusarsi di quel che queste romantiche attività sono nel frattempo diventate.

Nel suo Airbnb città merce, Sarah Gainsforth sottolinea come da questo punto di vista la piattaforma Airbnb non faccia eccezione. Al pari di altre piattaforme, anch’essa pare essersi costruita una genealogia immaginaria adeguata a una narrazione retorica abile nel ribaltare la natura parassitaria e ambivalente di tanta “sharing economy”. È anche grazie al ricorso di miti fondativi costruiti a tavolino che Airbnb ha potuto presentarsi come risposta a problemi che in realtà, come dimostra la studiosa, contribuisce a generare.

Il capitalismo delle piattaforme non è che una delle risposte che si è dato il vigente sistema economico egemone proteso nella sua incessante ricerca di nuove opportunità di profitto e da questo punto di vista, sostiene Gainsforth, Airbnb rappresenta, al momento, «la principale success story del capitalismo delle piattaforme e dell’ideologia neoliberale e startuppara, secondo cui ognuno è l’imprenditore di se stesso». Una retorica di lunga data che cela come le piattaforme digitali abbiano «trovato il modo di mercificare sempre nuove risorse, ampliando la sfera di ciò che è possibile mettere a profitto – la casa, il proprio tempo, le città».

Airbnb ha potuto svilupparsi sfruttando «un contesto di recessione economica, di precarizzazione del lavoro, di contrazione dei salari, di aumento del costo della vita e di finanziarizzazione della casa su scala globale. Gli effetti della produzione dello spazio per utenti progressivamente più ricchi, ovvero del fenomeno della gentrificazione, una strategia di crescita economica urbana globale, produce effetti drammatici nei luoghi dove le piattaforme atterrano: le città».

In un contesto in cui il turismo è diventato «uno strumento di produzione di località per l’estrazione di valore dalla città-merce», la natura individualista di Airbnb, celata ad arte da una patina di retorica comunitaria incentrata sul suo permette alle persone comuni di «arrotondare e restare nelle loro case», finisce per essere «uno strumento di accumulazione di profitti e di concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi proprietari assenti che affittano le case a turisti di passaggio, portando al rialzo i valori immobiliari e i canoni di locazione, alla contrazione dell’offerta di case in affitto, e dunque all’espulsione del ceto medio e basso dai centri urbani».

Sarah Gainsforth si propone pertanto di svelare la retorica fasulla di Airbnb liberando «il campo dalle mitologie che accompagnano e legittimano l’avanzata del capitalismo delle piattaforme, radicate nella mentalità americana, su cui la favola di Airbnb si innesta». All’interno di un contesto che continua imperterrito a propagandare i miti dell’american dream, del self-made man e del paese delle pari opportunità, il sogno di possedere una casa, per milioni di americani, ha dovuto fare i conti con le politiche neoliberiste e con il mantra ripetuto che vuole motiva l’aumento delle diseguaglianze con l’ideologia del merito individuale. «Il mito del pioniere alla conquista delle terre selvagge, che diviene il libero imprenditore alla scoperta della frontiera dello spazio digitale. Il mito del creativo, a cui l’ideologia dell’innovazione capitalista accredita molto più merito del dovuto per le immense ricchezze accumulate grazie alle imprese collettive di molti».

Se la favola di Airbnb, sostiene Gainsforth, parte da San Francisco, la sua vera origine va ricercata nei capitali di ventura della Silicon Valley, il cui ecosistema innovativo «alla base del successo delle piattaforme digitali, è il frutto di decenni di ricerche finanziate con fondi pubblici e del lavoro di milioni di lavoratori invisibili, quelli dell’industria tecnologica e dei settori dei servizi, che costituiscono l’infrastruttura fisica dove “l’innovazione” può avvenire, le città».

La concentrazione di ricchezza accumulata dal capitalismo del settore tecnologico ha creato negli Stati Uniti veri e propri monopoli digitali con «circoli chiusi di investitori che si tramandano ereditariamente la ricchezza [che] rendendo invivibili le città per coloro che le abitano e le mandano avanti». È proprio a San Francisco, città dagli affitti vertiginosi, che si è strutturata la resistenza ad Airbnb a partire dalle lotte delle organizzazioni per il diritto all’abitare ed è da quell’esperienza che l’autrice parte per raccontare alcuni casi esemplari di resistenza sociale contro la gentrificazione digitale delle città.


  1. Dati riportati nell’articolo di Stefano Galeotti, Airbnb, da Bologna a Napoli gli affitti brevi “sfrattano” famiglie e studenti. “Il padrone di casa triplica il canone, andiamo in periferia”, Il Fatto Quotidiano, 21 febbraio 2020. 

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Henri Lefebvre e lo spazio/vita https://www.carmillaonline.com/2019/03/21/henri-lefebvre-e-lo-spazio-vita/ Wed, 20 Mar 2019 23:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51421 di Gianfranco Marelli

Francesco Biagi, Henri Lefebvre. Una teoria critica dello spazio, Jaca Book, Milano 2019, pp. 252, € 20

Non si abita lo spazio, si è abitati. Chi lo decide e perché? Quali le conseguenze? Quali le opportunità e le possibilità di ritornare padroni del proprio spazio/destino? Francesco Biagi, nel suo ponderoso studio su Henri Lefebvre, affronta queste e altre problematiche di strettissima attualità ricostruendo il pensiero del filosofo-sociologo francese da sempre impegnato a rinverdire il pensiero e la pratica marxista a partire innanzitutto dalla critica della vita quotidiana per la [...]]]> di Gianfranco Marelli

Francesco Biagi, Henri Lefebvre. Una teoria critica dello spazio, Jaca Book, Milano 2019, pp. 252, € 20

Non si abita lo spazio, si è abitati. Chi lo decide e perché? Quali le conseguenze? Quali le opportunità e le possibilità di ritornare padroni del proprio spazio/destino?
Francesco Biagi, nel suo ponderoso studio su Henri Lefebvre, affronta queste e altre problematiche di strettissima attualità ricostruendo il pensiero del filosofo-sociologo francese da sempre impegnato a rinverdire il pensiero e la pratica marxista a partire innanzitutto dalla critica della vita quotidiana per la sua intrinseca capacità di essere l’espressione più compiuta della modernità capitalista, vera e propria cartina di tornasole che al contempo «contiene simultaneamente le conseguenze nefaste dello sviluppo del capitale e, anche, le possibilità utopiche per ribaltarne il corso. Tale ambivalenza è la cifra entro cui recepire il pensiero di Lefebvre, il quale salda indissolubilmente teoria politica e prassi sociale» [p. 19].

Ed è proprio all’interno di questa griglia di lettura che Biagi espone il percorso teorico e metodologico di Lefebvre; percorso sviluppatosi all’interno del “secolo breve” e vissuto intensamente – dallo scoppio della rivoluzione russa, quando aveva 16 anni, fino alla sua dipartita all’età di novant’anni, due anni dopo la caduta del Muro di Berlino e qualche mese prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica – con l’obiettivo di fare i conti con l’esperienza comunista. Infatti, sarà proprio la critica della vita quotidiana ad essere la lente di ingrandimento grazie alla quale Lefebvre leggerà e analizzerà la complessità del mondo moderno, in modo da poter individuare il punto archimedico in grado di trasformarlo, ad iniziare da una rivisitazione della prassi rivoluzionaria marxista, definitivamente sganciata da interpretazioni strutturaliste che ne avevano limitato e impedito l’afflato utopico e costretta entro le maglie di un determinismo economico-materialista di matrice althusseriana, oppure rimaneggiata in chiave umano-esistenzialista da Sartre, al punto da vanificarne la prassi sociale nonché l’incipiente lotta di classe.

Sì, perché la grandezza del filosofo di Hagetmau è stata quella di sbarazzarsi delle filosofie interpretative più seducenti e à la page del pensiero di Marx, tanto in voga nella Francia del secolo scorso, per affrontare un percorso di ricerca teorica tesa a confutare la presunta scientificità marxista al fine di coglierne concretamente la sua praxis di ribellione. Convinto, soprattutto, che lo sfruttamento cui è sottoposto il proletariato non è un concetto teorico da elaborare all’interno di un pensiero strutturato e definito, quanto una condizione concreta vissuta quotidianamente, necessaria a comprendere i modi, i luoghi e i tempi dello sfruttamento non soltanto circoscritto nel mondo della produzione, ma esteso e ampliato ad ogni aspetto della produzione di un mondo che ne determina la proletarizzazione della propria vita. Un simile approccio ha pertanto permesso a Lefebvre di ripensare e riflettere sui reali fattori che il sistema capitalista impiega per sfruttare il proletariato nella fabbrica/mondo, al punto da ripercuotersi anche al di fuori di essa, attraverso la produzione di un mondo/fabbrica contraddistinta da una vita quotidiana soffocata dalla merce e dai suoi falsi bisogni indotti dallo spettacolo consumistico di beni, generatrice del perbenismo borghese, che – a detta di molti sociologi e intellettuali engagées del secondo dopoguerra – aveva determinato la scomparsa della classe operaia in quanto classe rivoluzionaria.

Come sappiamo, la questione se ritenere il proletariato ormai soddisfatto del benessere raggiunto nel 2º dopoguerra, oppure considerarlo ancora l’agente rivoluzionario in grado di cambiare la società capitalista, è stato al centro del dibattito sviluppatosi all’interno della gauche, soprattutto in ragione del fatto che lo sviluppo economico aveva garantito un progresso sociale tale da consentire anche ai lavoratori un tenore di vita più consono alla disponibilità del consumo del proprio tempo libero, ben oltre il consumo del proprio tempo di lavoro. Tutto ciò aveva determinato la necessità di riconsiderare fino a che punto la qualità della vita dei lavoratori fosse cambiata in rapporto alla maggiore disponibilità di tempo da dedicare alla cura di sé e in che modo questa attenzione alla “vita privata” avesse contribuito a riconsiderare il proprio ruolo di lavoratore in una società sempre più urbanizzata e dedita al consumismo di massa.

Fu proprio durante i corsi di sociologia tenuti da Lefebvre nel 1961 all’Università di Strasburgo che l’analisi e la critica dei concetti riguardanti la quotidianità, l’urbano, lo spazio/tempo sociale, divennero il terreno sul quale furono poste le basi per ripensare la rivoluzione in un regime sociale in cui l’abbondanza delle merci – caratterizzante la società francese ed europea agli inizi de gli anni ‘60 – non poteva non nascondere la povertà, lo sfruttamento e la marginalizzazione subite dalle frange più deboli e reiette ammassate nelle grandi periferie urbane; infatti queste, assieme al significativo numero di studenti aumentati a seguito della scolarizzazione di massa, rappresentarono il nuovo soggetto proletariato in grado di opporsi al processo concentrazionario determinato dall’affermazione dell’ideologia funzionalista applicata all’organizzazione dello spazio urbano, così come l’architettura lecorbusiana andava diffondendo in tutte le metropoli mondiali.

Non a caso, fra i partecipanti di quei corsi di sociologia, figurarono personaggi come i situazionisti Debord e Vaneigem, nonché Jean Baudrillard – allora assistente di Lefebvre – e il giovane studente Daniel Cohn-Bendit che rappresentarono la punta più avanzata nel processo contestatario di lì a breve innescato durante il maggio francese nel 1968. Di tutto ciò Francesco Biagi nel suo lavoro ne offre un ampio resoconto, ravvedendo un importante crocevia dello sviluppo del pensiero di Lefebvre, in quanto permise al filosofo di temprare la propria ricerca sociologica, risalente ad una iniziale analisi delle trasformazioni avvenute durante il processo di urbanizzazione delle campagne francesi nell’immediato dopoguerra, con le trasformazioni conseguenti all’implodere delle città e il formarsi delle periferie, luoghi dove la marginalità urbana viene eletta come prospettiva per « svelare l’autentica realtà sociale, oltre e contro l’immagine di sogno promossa dai dispositivi spettacolari ed edonistici della città a matrice fordista».

Tale punto di vista, oltre a rispecchiare un’interpretazione situazionista della città come spettacolo della merce, avanza l’ipotesi di un’epistemologia sociologica della marginalità, che secondo Biagi, consente di osservare l’intera società a partire dalla periferia, ridefinendo radicalmente l’osservazione sul resto dello spazio urbano in modo da consentirci di «assumere uno sguardo più preciso sulla complessità delle situazioni sociali che ci ritroviamo di fronte. È il particolare punto di vista di chi è oppresso e più debole, di chi vive ai margini come scarto, che ci rende intellettualmente tangibile il concreto stato di salute della vita urbana della città » [p. 96]. Ecco dunque compresa l’attenzione che Lefebvre dedica allo studio della città e al suo farsi territorio urbano complesso e indistinto, in quanto vi intravvede la proiezione della società sul suolo: «una società nella sua interezza, una totalità sociale o una società considerata come totalità, compresa la sua cultura, le sue istituzioni, la sua etica, i suoi valori, in breve le sue sovrastrutture, compresa la sua base economica e i rapporti sociali che costituiscono la sua struttura propriamente detta» [p. 99].

Proprio nel considerare la città quale sineddoche della società, Lefebvre può essere considerato un pensatore della “crisi” della città proiettata sull’intera società; pertanto la sua osservazione sociologica sull’organizzazione dello spazio urbano non è altro che una riflessione sui tempi storici che hanno consentito al sistema capitalistico di affermarsi compiutamente nel tessuto della società attraverso il processo dialettico e conflittuale fra città e campagna, determinando l’obesità dell’urbanizzazione a scapito del dimagrimento dello spazio rurale. Un fenomeno lebbroso che ha infettato l’intero spazio sociale a partire dagli anni ‘50 e ‘60 del Novecento, trasformando l’ambiente rurale e urbano in un “habitat” standardizzato, massificato su larga scala e funzionale alla produzione capitalista globalizzata, al punto da cancellare quasi completamente l’originalità che contraddistingueva la pratica relazionale fra l’uomo e il mondo nelle differenti forme di vita espresse nel modo di “abitare” il luogo attraverso la partecipazione alla vita sociale, il sentirsi parte di una comunità, la possibilità di una vita quotidiana attiva, felice, armonica, per opporsi alla tanto pubblicizzata “vita privata”. Sì … privata di fare in prima persona la propria la storia, perché resa omologa e indistinta in ogni suo ruolo assegnatoli – di lavoratore, di cittadino, di turista, di consumatore del proprio tempo libero – al punto da essere riprodotta in ogni luogo come e più di qualsiasi altra merce in commercio, in quanto “bene” così prezioso da sfruttare e vendere ad libitum.

Concorde con Debord nel considerare proletari coloro che non hanno alcuna possibilità di modificare lo spazio-tempo sociale che la società concede loro di consumare, Lefebvre si chiede assieme al situazionista parigino se una simile realtà, diretta conseguenza dell’incapacità di “saper abitare” – in quanto «il nostro abitare odierno è ossessionato dal lavoro, reso instabile dalla ricerca del vantaggio e del successo, succube dell’industria del tempo libero e dei divertimenti» – , non possa trovare proprio nella critica della vita quotidiana la possibilità di riformulare il progetto rivoluzionario a partire dalla necessità di changer la vie che le avanguardie artistiche del ‘900 avevano manifestato compiutamente e che l’esperienza del proletariato, durante i tre mesi della Comune di Parigi, aveva provato a praticare proprio a partire dalla presa della città e dalla sua riorganizzazione in senso autogestionario e federalista dello spazio sociale.

Anche di questa nuova fase del pensiero del filosofo di Hagetmau, il libro di Francesco Biagi ne dà ampia documentazione, evidenziando puntualmente quanto «nella scena della vita quotidiana, Lefebvre registra una dialettica permanente fra piattezza e straordinarietà dell’esistenza»; una dualità che contrapponendo alla serialità capitalista l’originalità di ogni vita umana, determina un’eccedenza che «non è mai pienamente sussunta e trova espressione in alcuni “momenti” delle pratiche di vita quali l’arte, l’amore e il gioco. In Lefebvre, infatti, è determinante il riferimento alla poiesis del quotidiano, alla riappropriazione utopica di una dimensione estetica caratterizzata da una cifra profondamente rivoluzionaria e indomabile dalla matrice capitalistica; si tratta dell’ipotesi di un’arte di vivere che mira a consolidarsi non solo come mezzo ma come fine» [ p. 181].

Appare del tutto trasparente la simbiosi tra l’analisi lefebvriana e il pensiero situazionista che riceve e offre un’ulteriore radicalità alla critica della vita quotidiana, grazie alla propria esperienza nell’ambito artistico, sottoposto proprio in quegli stessi anni ad una feroce e aggressiva contestazione, con l’obiettivo di liberarlo dalla mordacchia dell’arte per l’arte in cui la società borghese l’aveva costretto e utilizzato al pari di un rossetto per le labbra da porre all’allora funzionalismo architettonico, al fine di ritrovarvi il suo primitivo significato sociale, teso a prefigurare la possibilità di superare l’arte realizzandola nella “costruzione di situazioni”, proprio attraverso la critica dell’urbanistica, la psicogegrafia, il gioco, il détournement. E quale miglior luogo di confronto/scontro con i situazionisti se non l’analisi della Comune di Parigi del 1871, interpretata da entrambi come la prima realizzazione della critica all’urbanistica del prefetto Haussmann da parte del proletariato insorto, finalmente padrone della città e del proprio destino.

Naturalmente, in sintonia con Biagi, lasciamo agli esegeti stabilire chi fra i situazionisti e Henri Lefebvre sia stato il primo a teorizzare il fatto che la Comune fosse stata “il tempo di una festa”, la “sospensione del tempo storico”, l’istante di un’interrotta battaglia che ha consentito ai comunardi di svelare le modalità oppressive del potere, realizzando la critica dello spazio sociale quale pratica dell’utopia concreta a partire dalla conquista della città e la riappropriazione della propria vita. Ci importa invece continuare il percorso che condusse Lefebvre a teorizzare il “diritto alla città” come conseguenza logica del conflitto in atto fra gli emarginati della città/mondo e chi governa il mondo/città in modo concentrazionario; conflitto maturato nella fase dello sviluppo economico fordista – quando l’esigenza di costruire alloggi per una popolazione urbana costantemente in crescita aveva trovato nel funzionalismo architettonico di Le Corbusier il corrispettivo ideologico di un urbanismo finalizzato alla creazione di macchine per abitare – e in seguito imploso con l’affermarsi della globalizzazione neoliberista, in cui le conurbazioni mondiali si sono trasformate in domicili da abitare come macchine, con i suoi abitanti/passeggeri considerati optional smart da poter interscambiare secondo le esigenze connesse al percorso produttivo della merce e riproduttivo della vita delle persone.

A fronte di questo repentino cambiamento dell’assetto urbano, sempre più macchina/dispositivo di controllo e sempre meno luogo abitabile/socializzabile di convivenza partecipativa, il concetto lefebvriano di “diritto alla città” non può e non deve essere inteso come uno dei tanti diritti da aggiungere alla lista dei “diritti universali”. Al contrario deve divenire una pratica in grado di aprire una “breccia” sui possibili modi per intaccare e rodere la produzione dello spazio capitalista; o – per dirla con i situazionisti – un “buco positivo” che lacera lo spazio occupato dal potere e contemporaneamente intraprende la costruzione di situazioni con l’obiettivo di dètourner l’habitat da parte degli insorti, così da poter realizzare l’urbanesimo unitario mediante l’edificazione, non certo di uno “spazio alternativo” e neppure di una “eterotopia” da contrapporre in parallelo all’isotopia imperante, ma il totale rovesciamento della spazialità che segrega il proletariato, lo sfrutta e lo aliena all’interno di città funzionali allo spettacolo della merce. In tal senso il “diritto alla città” – precisa Biagi – è «essenzialmente un esercizio pratico dell’agire politico, è un ambito dell’umano che riguarda la prassi politica radicale indirizzata al raggiungimento di un’autentica democrazia, anche nella sua dimensione spaziale. È il rovesciamento della città come “merce” da parte di chi è escluso, oppresso, e la dialettica ricostruzione di un essere-in-comune della polis come “opera” di coloro i quali la abitano. […]Trasformare il proprio spazio di vita, renderlo utile ai bisogni di tutti è l’autentica via per praticare quell’ideale utopico-pratico che Lefebvre ha chiamato “diritto alla città”. La città come prodotto, come merce è così rovesciata in favore di una città come opera autentica, al servizio – all’uso – di chi la abita.» [pp.203-204].

Certo, Lefebvre era ben consapevole della possibilità che il “diritto alla città” potesse essere recuperato, riciclato e riconquistato dal sistema capitalistico, svuotandone il contenuto sovversivo e riadattandolo ad una visione riformista, allo stesso modo di quanto è stato fatto con il concetto changer la vie, arrivando «a cambiare l’immagine della vita, invece di aver cambiato la vita stessa». Del resto questa è la lettura più comune che viene offerta ogni qualvolta è ripreso il concetto lefebvriano all’interno di una politica urbanistica protesa a migliorare, abbellire lo spazio urbano in modo da renderlo più accogliente, più vivibile, ma soprattutto meno conflittuale. Pure, sono le condizioni stesse dell’habitat urbano – sottoposto ad un processo di implosione delle città, trasformate in luoghi anonimi e al contempo identici per l’effetto dell’espulsione dal centro dei suoi abitanti, dispersi nelle periferie senza soluzione di continuità con la campagna urbanizzata, e la loro sostituzione in abitati per turisti – che individuano nello spazio urbano la posta in gioco di una «contesa fra chi può essere visibile e avere voce e chi invece deve rimanere invisibile e senza possibilità di proferire parola». Contesa che avrà le conseguenze di un Armageddon fra l’apocalisse di un capitalismo predatore delle risorse umane e ambientali, e l’utopia concreta del “diritto alla città”: gesto eroico di chi – come i comunardi parigini del marzo 1871 e i rivoltosi del Maggio 1968 – fino all’ultimo istante saprà coraggiosamente tenere aperta «la piccola breccia utopica contro il tempo della sottomissione».

Per ritornare ad essere abitatori del proprio spazio/destino, in nome della vita contro la sopravvivenza.

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Dialettica della città e spazio dei movimenti https://www.carmillaonline.com/2018/10/16/dialettica-della-citta-e-spazio-dei-movimenti/ Mon, 15 Oct 2018 22:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49130 di Fabio Ciabatti

Henri Lefebvre, Spazio e politica. Il diritto alla città II, Ombre corte, 2018, pp. 141, € 11,90.

La miseria e il degrado urbani sono alcune delle caratteristiche più appariscenti delle società contemporanee a dieci anni dalla scoppio dell’ultima grande crisi mai realmente superata. Non si tratta però di un processo che possa essere attribuito semplicemente ad un mix di austerità, malagestione pubblica e speculazione edilizia. Queste sono solo le cause più prossime che rimandano ad una dinamica più profonda e cioè al rapporto contraddittorio, dialettico, tra città e capitalismo. Henri [...]]]> di Fabio Ciabatti

Henri Lefebvre, Spazio e politica. Il diritto alla città II, Ombre corte, 2018, pp. 141, € 11,90.

La miseria e il degrado urbani sono alcune delle caratteristiche più appariscenti delle società contemporanee a dieci anni dalla scoppio dell’ultima grande crisi mai realmente superata. Non si tratta però di un processo che possa essere attribuito semplicemente ad un mix di austerità, malagestione pubblica e speculazione edilizia. Queste sono solo le cause più prossime che rimandano ad una dinamica più profonda e cioè al rapporto contraddittorio, dialettico, tra città e capitalismo. Henri Lefebvre sostiene infatti che il capitalismo accresce a dismisura le città determinando una esplosione-implosione delle sue tradizionali caratteristiche. Detto altrimenti, la città è negata e, al tempo stesso, generalizzata a livello della società intera, come si può leggere in Spazio e Politica, un testo che, scritto nel 1974 e ripubblicato quest’anno in Italia, è stato concepito dal suo autore come secondo volume de Il diritto alla città, uscito nel 1967 e ristampato nel 2014, sempre da Ombre Corte.

Quali sono le caratteristiche della città tradizionale secondo Lefevbre? La città è luogo per eccellenza dell’incontro e della simultaneità. Incontro significa confronto tra differenze, anche ideologiche e politiche, reciproca conoscenza dei diversi modi di vivere. La città è luogo del desiderio, dello squilibrio, dell’imprevisto, della dissoluzione dell’ordinario e dei vincoli, fino all’implosione-esplosione della violenza. La città nasce non solo come prodotto ma soprattutto come opera, nel senso di opera d’arte. In essa il valore d’uso prevale sul valore di scambio. Lo spazio non è soltanto organizzato, ma è anche modellato e appropriato dalle esigenze, dall’etica, dall’estetica, dall’ideologia dei gruppi sociali che lo abitano. La monumentalità, ma anche l’uso del tempo, sono aspetti essenziali di questa opera. L’uso principale delle strade, delle piazze e dei monumenti è la festa in cui si consumano improduttivamente ricchezze senza nessun’altro vantaggio che il piacere ludico e il prestigio. Per tutti questi motivi non esiste nessuna realtà urbana senza un centro, senza un luogo di concentrazione di tutto ciò che può nascere e prodursi nello spazio. Nei diversi periodi storici la città ha creato differenti centralità: religiose, politiche, commerciali. La vita comunitaria, però, non esclude la lotta fra gruppi, fazioni, classi. Tutt’altro. Proprio perché i più ricchi si sentono minacciati da vicino giustificano le loro fortune donando alle città opere, monumenti e feste. Per questo civiltà fortemente oppressive si rivelano particolarmente creative.
Quando, con il capitalismo, lo sfruttamento direttamente economico sostituisce l’oppressione extraeconomica la creatività scompare. Il filosofo francese sostiene che nella città capitalistica gli elementi della società sono separati nello spazio determinando la dissoluzione dei rapporti sociali e l’affermazione della logica della segregazione. La separazione, però, è al tempo stesso vera e falsa perché lo spazio urbano si costituisce come l’unità del potere nella frammentazione, come un’integrazione disintegrante. Gli spazi del tempo libero sono separati da quelli della produzione cosicché appaiono affrancati dal lavoro, mentre sono ad essi collegati dal consumo organizzato, dominato. L’abitare, che significava partecipare alla vita sociale, fare parte di una comunità, diviene funzione a sé stante con la creazione dei sobborghi. Gli individui e i gruppi sono sradicati dai territori dove vivono, le relazioni di vicinato si attenuano, il quartiere si sgretola. Nulla sostituisce i vecchi simboli, gli stili, i monumenti, i ritmi, gli spazi qualificati e differenziati della città tradizionale. Il centro viene riprodotto sotto forma di centro direzionale, in cui si concentra potere, finanza, conoscenza, informazione, e di centro commerciale, luogo dove il monofunzionale resta la regola, interpolato da estetismi e decorazioni non funzionali, da simulacri di festa e di ludico. Il centro delle città più antiche può sopravvivere solo come luogo di consumo e consumo di luogo a beneficio dei turisti.

Lefevbre ci ricorda che la proprietà del suolo è di origine feudale. La mobilitazione della ricchezza fondiaria e immobiliare, con il suo ingresso nel ciclo industriale, bancario e finanziario, rappresenta perciò un grande ampliamento del potere del capitalismo contemporaneo. Esso può diventare un settore trainante, benché storicamente sia stato di un’area di compensazione nei momenti di rallentamento del ciclo economico. Per essere venduto lo spazio deve essere reso raro, parcellizzato, omogeneizzato, quantificato. Lo spazio diventa così insignificante, indifferente rispetto agli antichi simboli (religiosi, politici, estetici) e al tempo assume nuovi significati in cui il valore d’uso finisce per essere rappresentato in termini gerarchizzati: vantaggi, capacità di potenza, rapporti con il potere, prestigio.
Il capitalismo, sostiene ancora Lefevbre, si è conservato estendendosi allo spazio intero sconfinando dai suoi luoghi di nascita e sviluppo, le unità di produzione, le imprese, le società nazionali e multinazionali. Grazie a questa estensione si è passati dalla produzione di cose nello spazio, per cui questo risulta prodotto indirettamente come somma o collezione di oggetti, alla produzione dello spazio in quanto tale che diventa direttamente strumento di riproduzione dei rapporti di produzione. Attraverso lo spazio si produce e si riproduce un tempo sociale. Però al tentativo di sviluppo controllato dallo Stato, all’elaborazione ideologico-scientifica permeata dallo spirito di impresa, corrisponde un caos spaziale sempre più evidente e intollerabile. Ciò testimonia il fatto che la nostra società non riesce ad essere un sistema totalizzante anche se aspira ad esserlo. Questa tensione che non giunge mai a compimento dà luogo alle contraddizioni dello spazio: il suo uso vorrebbe essere razionale, organizzato a livello generale, mentre nella pratica lo spazio risulta frazionato e venduto a pezzi, frammentato da progetti parziali. La razionalità dell’impresa è inadeguata rispetto alle necessità di una nuova razionalità urbana, così come risulta insufficiente un sapere disperso, disseminato in discipline.

Lo spazio non è dunque neutro, ma politico e strategico. La possibilità di produrre lo spazio è correlata alla crescita delle forze produttive. Ma perché ciò avvenga a livello veramente razionale ci si deve scontrare con la proprietà del suolo: sia la proprietà privata che quella statale, precisa Lefevbre. È questa la moderna e più profonda forma della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione di marxiana memoria. È qui che si approfondisce il contrasto tra possibile e reale e si apre lo spazio per un pensiero utopico. Si tratta però di un’utopia concreta: sebbene la nuova società urbana non esista ancora, tuttavia essa è presente virtualmente nella contraddizione tra i processi di segregazione e la centralità urbana che rimane necessaria per la pratica sociale. Nella dispersione permane l’esigenza dell’incontro, della riunione, dell’informazione. Il carattere desertico e abbandonato della periferia permette la riproduzione dei rapporti di produzione, di classe, ma, al contempo, è un elemento rivelatore che mette in evidenza la necessità teorica e pratica dell’urbano. La forma della simultaneità, che caratterizza la città, consente di cogliere come problematiche la dispersione e la segregazione, elementi che altrimenti rimarrebbero dei meri dati di fatto.
Il diritto alla città di cui ci parla il filosofo francese, è un orizzonte conflittuale che nasce proprio da queste contraddizioni. Il diritto alla città legittima il rifiuto a lasciarsi escludere dalla realtà urbana da parte di un’organizzazione discriminatoria e segregativa; è l’opposizione ai centri decisionali che rigettano verso spazi periferici coloro che non partecipano ai privilegi politici; è la rivendicazione del bisogno di vita sociale e di un suo centro, della funzione ludica e simbolica dello spazio, del desiderio, della ricostruzione di un’unità spazio-temporale al posto della frammentazione. Il diritto alla città è l’aspirazione alla costruzione di una nuova centralità ludica in cui non ci sia più separazione tra vita quotidiana e festa. È la rivendicazione di un diritto alla fruizione collettiva che deve soppiantare l’utilizzo individuale ed escludente che deriva dala proprietà. In sintesi, non c’è creazione di forme e rapporti sociali senza la creazione di uno spazio adeguato, vale a dire senza una socializzazione dello spazio attraverso la sua appropriazione collettiva e la soppressione della sua proprietà sia pubblica che statale. E ciò presuppone una programmazione complessiva che non si propone l’abolizione della crescita economica, ma il suo rallentamento e il suo orientamento verso uno sviluppo sociale qualitativo.

Secondo Lefevbre, nel XIX secolo la democrazia di origine contadina, la cui ideologia animò i rivoluzionari, avrebbe potuto trasformarsi in democrazia urbana. Questo rimane uno dei significati storici della Comune del 1871. Minacciata da questa possibilità la borghesia, a cominciare dalla ristrutturazione parigina di Haussmann, distrugge l’urbanità allontanando la classe operaia dal centro. Per questo durante la Comune la classe operaia si riappropria del centro della città. David Harvey, sulla scia di Lefevbre, ha sostenuto che nella loro storia moderna i movimenti rivoluzionari hanno assunto spesso una dimensione urbana anche se l’attenzione è stata tradizionalmente concentrata sull’insediamento della classe operaia a livello di fabbrica. Nel Nord globale dei nostri giorni, la frammentazione e precarizzazione della classe lavoratrice ci costringono ad un’attenzione ancora maggiore nei confronti della dimensione urbana.
Non è un caso che i movimenti più importanti di questo ultimo periodo siano indissolubilmente legati ad alcuni luoghi urbani: Puerta del Sol a Madrid, piazza Syntagma ad Atene, Gezi Park a Istanbul, Zuccotti Park a New York, Piazza Tahrir al Cairo ecc. In tutti questi luoghi un’effimera centralità urbana è stata ricostituita attraverso la simultanea presenza e l’incontro di soggettività precedentemente disperse che si sono coagulate in una comunità di lotta, caratterizzata da rivendicazioni materiali e politiche, nuove forme di socialità e una rinnovata dimensione ludica. Se in un recente passato i luoghi dove si esprimeva il conflitto – le fabbriche, le scuole, le università, i quartieri – erano, per così dire, già abitati da comunità in sé che tramite la lotta divenivano comunità per sé, i nuovi movimenti sembrano aver dato luogo ad una nuova comunità estemporanea, nata senza apparenti mediazioni a partire da una situazione di atomizzazione, attraverso l’occupazione e la reinvenzione di un luogo cittadino. Tale caratteristica spiega la natura fugace di questi movimenti e il fatto che, nel migliore di casi, le energie da essi generate siano confluite verso una sfera prettamente politica, in discontinuità, almeno parziale, con le originarie prassi e professioni di democrazia radicale. Partiti come Syriza e Podemos, la corrente socialista di Berny Sanders dei democratici americani hanno rappresentato, tra le altre cose, la traduzione nella sfera politico-istituzionale di quei movimenti. Rimane da chiedersi se sia possibile che la dimensione carnevalesca delle nuove centralità urbane del terzo millennio possa in futuro interagire con e retroagire su una molteplicità di altri punti di radicamento in ambito lavorativo e territoriale per dare luogo a un nuovo soggetto collettivo che non si esaurisca in un batter d’ali e che non venga riassorbito in una dimensione prettamente politicistica.

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Nuova Rivista Letteraria n. 2 – Come smontare l’immaginario nazionalista e razzista https://www.carmillaonline.com/2015/12/16/nuova-rivista-letteraria-n-2-nazionalismi-populismi-di-destra-e-razzismi/ Tue, 15 Dec 2015 23:01:25 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27142 di Simone Scaffidi

lega-nord-che-guevara«Sono un fascista e morirò fascista» Licio Gelli (21 aprile 1919 – 15 dicembre 2015)

Il n° 2 di Nuova Rivista Letteraria continua il percorso di risemantizzazione del verbo informativo e decostruzione di stereotipi, cominciato in maggio con la prima uscita della nuova serie, dedicata alle Grandi Opere Dannose Inutili e Imposte. Questa volta la critica, più che mai necessaria e di dirompente attualità, si concentra sull’avanzata di un immaginario autoritario, identitario e razzista, e si propone – attraverso il fortunato connubio [...]]]> di Simone Scaffidi

lega-nord-che-guevara«Sono un fascista e morirò fascista»
Licio Gelli
(21 aprile 1919 – 15 dicembre 2015)

Il n° 2 di Nuova Rivista Letteraria continua il percorso di risemantizzazione del verbo informativo e decostruzione di stereotipi, cominciato in maggio con la prima uscita della nuova serie, dedicata alle Grandi Opere Dannose Inutili e Imposte. Questa volta la critica, più che mai necessaria e di dirompente attualità, si concentra sull’avanzata di un immaginario autoritario, identitario e razzista, e si propone – attraverso il fortunato connubio tra letteratura e azione sociale – di stimolare pratiche culturali volte ad arginare l’ondata nazionalfascista che va riversandosi nelle nostre vite. Depurata da retoriche e parole d’ordine di dubbia efficacia, quest’opera collettiva e trasversale, tifa per un’evasione performativa che agisca su una realtà complessa e sfaccettata di nero. Di seguito un commento ai singoli articoli che compongono il volume.

La rinazionalizzazione delle masse – Wu Ming 1
Il numero si apre con l’editoriale di Wu Ming 1, che nel titolo riprende la celebre opera di Mosse e nel testo il Pasolini di Petrolio, quello che i troppo occupati a blaterare di Valle Giulia hanno nascosto in cantina. Il fascismo che abbiamo di fronte è un fascismo fagocitato dalla globalizzazione e dal neoliberismo, interiorizzato dalla sinistra istituzionale europea, è una realtà conclamata che finge di combattere la tecnocrazia UE. «Non è detto – si domanda l’autore – che la falsa soluzione, a furia di aggravare il problema, non diventi essa stessa il problema principale».

La serialità del male – Silvia Albertazzi e Fausto Capitanio
Da Auschwitz-Birkenau alla risiera di San Sabba, dalle carceri cambogiane a quelle sudafricane di Robben Island. Banalità e serialità del male sono elementi della stessa prigione: acciaio, cemento ma anche assenza ed ombre. Fausto Capitanio con le sue istantanee in bianco e nero – che percorrono l’intera rivista fungendo da testo nel testo – coglie la violenza dell’assenza, dando voce al silenzio dei “colpevoli”. Silvia Albertazzi ribadisce l’esigenza di questa fotografia, una fotografia sociale che non faccia da corredo alle vittime ma aspiri a gettare nuovi sguardi sul presente.

Perché i bambini non sono razzisti? – Franco Foschi
Ci hanno insegnato che dai bambini non s’impara, ai bambini s’insegna. E ce l’hanno insegnato che eravamo bambini. Che i genitori, la scuola, la chiesa, lo Stato, educano; e i bambini devono stare in silenzio e seduti ad ascoltare, per imparare, per il loro bene. Be’ è arrivato il momento di ribaltare il paradigma. Quale bambino lamenta l’oscurità della pelle della propria compagna? Quanti genitori invece lo fanno quotidianamente? Sediamoci ad ascoltarli, e se all’inizio faremo fatica a capirli, sarà solo colpa nostra e delle costruzioni sociali identitarie che ci portiamo dentro.

Il nemico della città – Maysa Moroni, Andrea Natella, Giuliano Santoro
Si può fascistizzare lo spazio urbano? Certo che sì, e lo si può fare cominciando dal linguaggio, magari militarizzandolo. «Gli spazi pubblici sono soldati che hanno perso dei gradi (il degrado) e che devono riconquistarli con nuove decorazioni al valore (il decoro)». Reprimere la socialità e la vivacità dei quartieri popolari, con criminali operazioni di gentrificazione, è una delle armi dei fascisti dello spazio. Astronauti del pianerottolo, fautori di una guerra fredda che pretende espellere il conflitto dalla galassia urbana.

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Da «Prima gli italiani» a «Prima i poveri» – Fulvio Masserelli
«Prima i francesi!», «Prima gli italiani!». Bisogna ammetterlo, ci siamo sbagliati. Il fascismo, checché ne dicano i grandi esperti, non ha patria. Chiacchiera di Nazione, Dio, Sangue ma in fondo è troppo concentrato sul proprio ombelico e sui pronomi possessivi per essere davvero interessato al bene di una fantomatica comunità nazionale. Eppure la “priorità nazionale” è un concetto che piace alle vecchie-nuove-destre, e guarda caso viene fuori ogniqualvolta si tratti di difendere i propri interessi specifici. Con ogni mezzo: «la strumentalizzazione – ad esempio – di un caso particolarmente eclatante di “italiano povero” può divenire l’occasione per attivare il discorso e orientare l’iniziativa di gruppi o comitati verso la rivendicazione anche pratica della “priorità nazionale”»

Figli di Annibale – Agostino Giordano
«Respingere» è il motto degli italianissimi. Respingere dalle frontiere e respingere dalle città, dalle scuole, dalla società “per bene”. Osama, un ragazzo tunisino di quindici anni esprime così le pressioni di quel dito puntato come un manganello nelle costole: «È come trovarsi ogni volta su un palco sotto i riflettori, sapendo che ogni cosa uno possa dire, il pubblico comunque “ti insulterà, ti fischierà, ti sputerà addosso. Tu vorresti salirci su quel palco?». Akin, ragazzo nigeriano di quindici anni, invita gli italianissimi a non mettere gli stranieri su un palco ma ad aprire le orecchie e ascoltare una canzone: Figli di Annibale degli Almanegretta. Amhed sedicenne algerino ci consiglia di guardare film come Welcome di Lioret. È una guerriglia culturale, e loro lo sanno.

Il mito di Roma nell’immaginario vittimista italiano – Wu Ming 1
La chiamano ancora “Letteratura d’evasione”, per riferirsi a qualcosa di leggero, in fondo trascurabile. Eppure la buona fantascienza apre brecce temporali che ci costringono a riflettere sul presente, reinterpretarlo, plasmarlo. È questo il caso. Dal titolo ci si aspetta un saggio/reportage, dall’incipit un ingresso narrativo al saggio e invece no, è proprio un racconto di fantascienza. Il mito di Roma nell’immaginario vittimista italiano è il titolo della tesi del dottorando Tonio, studioso di storia italiana all’Università di Harvard 28 sul pianeta Terra 10, in anni in cui «la parola “Italia”, come molte altre, rimanda a immagini e vicende che la Specie si è lasciata alle spalle da 50mila anni». Questo racconto è una scheggia di meteorite depositata nei polmoni dei fascisti dei millenni a venire. E un omaggio a Luca Rastello.

Il mito di Venezia nell’immaginario nazionalista italiano – Piero Purini
«Venezia Giulia», quest’associazione di lemmi forzata e fortunata nasce per legittimare e dare una direzione al nazionalismo italico, ma è anche utile, come si esplicita nel testo, all’indipendentismo veneto e croato. In un’espressione ritroviamo la sintesi di due potenze politico-economiche che nei secoli hanno governato parte della penisola italiana: la Serenissima Venezia, baluardo a difesa delle invasioni d’oriente, e l’imperiale Roma di Giulio Cesare. La scelta non è chiaramente casuale e «il mito di Venezia – condito con qualche gladiatore – si dimostra comodo per tutti i nazionalismi a caccia di giustificazioni».

Venezia, o il racconto assente della violenza imperialista – Alberto Sebastiani
Venezia è una iena, non un leone. Si ciba di carcasse politiche ed economiche, succhia il sangue dell’impero bizantino per diventare grande e autoproclamarsi difensora dell’occidente dalle popolazioni d’oriente. Anche qui siamo di fronte a un pezzo ibrido che si serve della letteratura – storica e di fantascienza – per addomesticare il Leone di San Marco, farlo scendere dal piedistallo e riportarlo in piazza tra i piccioni. L’analisi di Sebastiani de Le catene di Eymerich e La luce di Orione di Valerio Evangelisti ci accompagnano alla scoperta di un imperialismo veneziano legato alle Crociate e alla repressione degli “eretici”, lo stesso imperialismo che verrà esaltato durante le Guerre d’Indipendenza e il periodo fascista per giustificare l’accaparramento delle terre di quella “Venezia Giulia” di cui ci parla il Purini.

Fascists love Putin – Valerio Renzi
salvini-putin-670x274Per chi a sinistra non se ne fosse ancora reso conto è arrivato il tempo di farsi una spietata autoanalisi o di indossare la camicia rossobruna. Il corpo e la immagine di Putin generano orgasmi negli italianissimi. Tuttavia Putin più che essere considerato un vero e proprio camerata, rappresenta la possibilità di una svolta autoritaria, un alleato per contrastare il mondialismo dai palazzi che contano, un generoso finanziatore per imporre il nazionalismo in ogni paese.

L’Epopea del Nazionalismo Rivoluzionario Messicano – Fabrizio Lorusso
Francesco Vanzetti, aspirate docente di Studi Latinoamericani dell’Università Autonoma di Città del Messico, sostiene un colloquio per un posto da “professore-ricercatore non definitivo a tempo pieno”. L’ordinario, jefe de jefes, lo lascia parlare per un po’ di nazionalismi e populismi latinoamericani, poi s’irrigidisce: «Insomma, va be’, corporativismo, populismo, ma lei lo saprà, qui in Messico, ecco, noi abbiamo il “Nazionalismo Rivoluzionario”…». Istituzionalizzare la Rivoluzione di Zapata, Villa e i Magon si può? No, non si può. Quello che si può è cambiare le parole, trasformare la Controrivoluzione in Rivoluzione e costruire con la reazione un partito ambiguo ma solido: il Partido Revolucionario Institucional per l’appunto, rimasto al potere per più di 71 anni.

Bombay/Mumbai, il destino nel nome – Alberto Prunetti
È solo una sillaba ma contiene in seno l’affermazione politico-culturale dello Shiv Sena, partito xenofobo di estrema destra che nel 1995, approfittando della sua posizione di governo nello stato di Maharashtra, decise di cambiar nome alla città, per ragioni di purezza e rivendicazione delle origini marathi. L’autore, da un punto di vista d’osservazione privilegiato, ci racconta del «fuoco che ha devastato Mumbai. Un fuoco che è stato innescato dal gioco di specchi tra identità in opposizione, dalle finzioni delle etnie, delle identità, dei credi assoluti e incompatibili».

Libro e moschetto 2.0 – Giuseppe Ciarallo
Ma chi sono i gramsciani di destra? Esistono davvero? E ai neofascisti piacciono sul serio Che Guevara e Corto Maltese? Ma soprattutto, quali sono i punti di riferimento letterari degli acuti fascisti del terzo millennio? Ad alcune di queste domande Ciarallo prova a dare una risposta fornendoci una piccola enciclopedia di personalità letterarie care all’estrema destra italiana.

PegidaNon finirà mai! – Wolf Bukowski
Transitando dalla letteratura alla società, da Il passo del gambero di Gunter Grass, ai Mondiali di calcio del 2006, l’autore ci racconta una Germania vogliosa di un patriottismo sano che si lasci definitivamente alle spalle i fantasmi del nazionalsocialismo. Si tratta ovviamente di una menzogna, utile solo a ripassare i confini di nero e giustificare l’intransigenza economica dei potenti. Le destre, ben lungi dal stare a guardare, sventolano bandiere rosso-nero-dorate, tentando giochi di prestigio come quelli del Pegida, movimento ambiguo solo agli occhi di chi non ha il coraggio di riconoscere un’aquila travestita da passerotto. «Non finirà mai, dunque? No di certo, se neppure riconosciamo quando ricomincia».

Closelandia. Cosa importa che una terra sia vicina, se mi è preclusa? – Massimo Viaggi
Con l’aiuto del romanzo La figlia della catalana Uson, che narra la storia della secondogenita di Ratko Mladic – generale serbo accusato del massacro di Sebrenica – Viaggi mette a nudo le difficoltà di comprensione, anche interiori, generate dai nazionalismi e dall’esaltazione delle identità, nonché di decifrazione dei codici linguistici da essi adoperati. Nel momento in cui i significati delle parole saltano e s’impregnano di ambiguità, la confusione semantica può uccidere. «Ciò che rende devastante l’impatto di una parola è da un lato l’uso mediatico e di propaganda che se ne fa, e dall’altro il contesto storico-politico entro il quale viene usata». Per questo l’autore può permettersi di essere d’accordo con Borghezio che nel 2011 definì Mladic un patriota («anche se Mladic non rubava, Garibaldi bisogna vedere»): perché quella parola non ha più nulla a che vedere con gli ideali risorgimentali.

L’ignoranza è forza! – Paolo Vachino
Parole, parole e ancora parole. Comprimerle, nasconderle, dimenticarle, sostituirle con inglesismi, spettacolarizzarle al fine di somministrarle al pubblico, meglio se pigro, sfruttato, massificato. Che cos’è un Talk Show? Uno “spettacolo di parole”. Ci avevate mai pensato? In questo show, per fare un esempio, quanto costano le parole e a chi appartengono?

Quei temerari sulle patrie volanti – Milena Magnani
Identità locali e lingue minoritarie non sono naturalmente associabili a chiusura e nazionalismo, anzi. Un esempio di processo singolare e performativo è la rivista Usmis, sorta agli inizi degli anni ’90 e interamente redatta in friulano.«Usmis fu un laboratorio animato da sogjets zingars, da poeti e liberi pensatori anarchici e anticonformisti, un laboratorio che diede vita a psicogeografie e scioperi creativi»

Omo lava più bianco – Silvia Albertazzi
L’autrice ripercorre le immagini di My Beautiful Laundrette, film del 1985 diretto da Stephen Frears e sceneggiato da Hanif Kureishi correndo sul filo delle relazioni tra cultura di appartenenza, genere e classe. La comunità pakistana nell’Inghilterra della Tatcher viene descritta come un universo complesso, in cui lo sfruttamento economico non è solo subito ma anche agito contro gli strati più deboli della società. Immaginatevi poi uno skinhead razzista che irrompe sulla scena innamorandosi di un ragazzo pakistano “di successo”. Una miccia che aspetta solo di essere accesa in una società che è già una bomba ad orologeria. Un film da rivedere oggi in Italia – consiglia l’autrice – con una maggiore consapevolezza rispetto al 1985.

Muri (im)portanti – Cristina Muccioli
NRL2coverIl muro è pagina resistente, è arte e strumento di guerriglia culturale. A dipingere si è iniziato proprio dai muri e non si è più smesso. Artisti come Bansky e Blu, per citare i più noti, hanno ereditato una lunga tradizione di scritture resistenti murali. Obiettivo principale della loro opera è gettare uno sguardo altro e oltre, disintegrare muri per abbattere quella rettitudine che è barriera, frontiera, confine.

Ci sono sempre delle frontiere – Sergio Rotino
Analizzando il ciclo de Le città oscure dei due fumettisti belgi François Schuiten e Benoit Peeters, Rotino s’interroga sul peso che urbanistica e architettura giocano nelle nostre esistenze. Su come i modelli urbani influiscano sulle vite delle persone. Nei fumetti del duo belga è presente una forte critica a un’urbanistica che diventa scienza, senza tener conto del fattore umano e naturale. L’autore sposa la critica e ci invita a perderci nelle città di Schuiten e Peeters per comprendere attraverso il linguaggio e la ricerca delle immagini quanto lo spazio e il tempo urbano possano essere strumenti di costrizione e d’imposizione d’ordine.

«Più della metà delle cose che esistono / non esistono*
Le razze non esistono, ma il razzismo uccide»

* verso del poeta friulano Federico Tavan

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