cinéma-vérité – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Realtà, desiderio e ribellione. La lezione dell’eterno Jean Vigo https://www.carmillaonline.com/2019/08/07/realta-desiderio-e-ribellione-la-lezione-delleterno-jean-vigo/ Tue, 06 Aug 2019 22:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53062 di Gioacchino Toni

«Completamente estraneo al mercantilismo e al condizionamento commerciale, il metodo di lavoro di Vigo esprime un’innocenza e una purezza nei confronti dell’opera filmica e della sua filiera economica, che sembra anticipare idealmente forme alternative di produzione e distribuzione cinematografica prolifiche nella nostra contemporaneità, e basate su piattaforme telematiche di finanziamento partecipato come il crowdfunding» Giacomo Ravesi

«Jean Vigo è l’autore che ha saputo incarnare, interpretare ed esprimere come pochi altri una concezione del cinema in cui far convivere l’elemento passionale, l’attenzione politica, la dimensione del sogno con uno sguardo da eterno amateur, trasformando il proprio cinema in una [...]]]> di Gioacchino Toni

«Completamente estraneo al mercantilismo e al condizionamento commerciale, il metodo di lavoro di Vigo esprime un’innocenza e una purezza nei confronti dell’opera filmica e della sua filiera economica, che sembra anticipare idealmente forme alternative di produzione e distribuzione cinematografica prolifiche nella nostra contemporaneità, e basate su piattaforme telematiche di finanziamento partecipato come il crowdfunding» Giacomo Ravesi

«Jean Vigo è l’autore che ha saputo incarnare, interpretare ed esprimere come pochi altri una concezione del cinema in cui far convivere l’elemento passionale, l’attenzione politica, la dimensione del sogno con uno sguardo da eterno amateur, trasformando il proprio cinema in una costante invenzione, in una continua fase di inizio». Denis Brotto

Nonostante Jean Vigo sia riuscito a portare a termine soltanto quattro film realizzati nel corso di pochi anni, la sua opera occupa un ruolo fondamentale all’interno del cinema francese degli anni Venti e Trenta. È in questo periodo che registi come Louis Delluc, Jean Epstein, Abel Gance e Marcel L’Herbier lavorano sulla specificità filmica rispetto alle altre arti e ad introdurre Vigo al cinema, come ricorda Giacomo Ravesi1 è Germaine Dulac (pseudonimo di Germaine Saisset-Schneider), una delle prime registe e teoriche francesi d’avanguardia. Anche la figura di Dziga Vertov influenza Vigo nel suo proposito di applicare le ricerche sperimentali degli anni Venti in chiave sociale.
Oltre ad occupare un ruolo importante nella cinematografia francese del suo tempo, le opere di Vigo, come dimostra lo studio di Denis Brotto2, si mostreranno capaci di influenzare le future “nuove ondate” che, a partire dagli anni Cinquanta, scuoteranno il cinema europeo.

La breve vita di Jean Vigo non è stata facile. Da bambino si è trovato costretto a vivere in collegio dopo essere stato allontanato dalla famiglia quando il padre, Eugène Bonaventure de Vigo, noto con lo pseudonimo di Miguel Almereyda – collaboratore e fondatore di testate anarchiche come «Le Libertarie», «La Guerre Sociale» e «Le Bonnet Rouge» – è stato rinchiuso in carcere, ove muore in circostanze poco chiare, nel corso della Prima guerra mondiale, con l’accusa di essere un collaborazionista della Germania. L’accusa di collaborare col nemico è stata frequentemente adoperata da tutti i paesi nei confronti dei “nemici interni” rei, in realtà, il più delle volte, di antimilitarismo.

Scrive di lui Brotto: «Vigo non è solo un autore di immagini, di icone, bensì rappresenta egli stesso la figura dell’autore divenuto icona. È lui, con la sua effige, a rivelare la concezione di un cinema del possibile, di un cinema desideroso di mostrare il proprio volto più coraggioso e lirico, di un cinema pronto a liberarsi dai pesi produttivi, per lasciare trapelare le forme del desiderio e della fantasia» (p. 27). Per il francese «è dal dato visibile, dalla sua propensione a interrogare l’immaginario, il fuori campo, l’invisibile, che si instaura una forma di moto circolare tra quanto rientra nella sfera della conoscenza e l’inconscio medesimo» (p. 21).

Riferendosi all’intento complessivo dell’opera di Vigo, sostiene Giacomo Ravesi, «si tratta di un cinema cosiddetto d’avanguardia, che si pone in opposizione alle forme narrative, rappresentative e industriali egemoniche. È l’utopia di un cinema alternativo, poiché depurato dalle logiche economiche del mercato e dalle pratiche discorsive delle altre arti, nell’ipotesi di realizzare le specificità del cinema come arte autonoma» (p. 24). Sempre Ravesi sottolinea come in Francia il cinema d’avanguardia raccolga l’eredità delle Avanguardie storiche; si tratta infatti in buona parte di un cinema di poeti, pittori, artisti e fotografi che intendono applicare le loro ricerche estetiche al mezzo cinematografico.

Nel decennio successivo il panorama cinematografico francese muta decisamente, tanto che la stagione delle sperimentazioni sembra ormai terminata: «il cinema d’avanguardia», continua Ravesi, «gravato dalla crisi economica mondiale ed esautorato dalla sua dimensione di forma alternativa di mercato, viene riassorbito in un nuovo assetto ideologico ed estetico legato alle trasformazione politiche, sociali e culturali della nazione. L’intensificarsi delle contraddizioni interne, il crollo generale dei prezzi, l’aumento della disoccupazione e del malessere collettivo, congiuntamente all’avanzata dei totalitarismi in diversi stati europei, conducono artisti, registi e intellettuali a unirsi in nome della democrazia e a riscoprire un’urgenza di denuncia sociale che confluisce nell’esperienza del Fronte Popolare, costituito nel luglio del 1934 da socialisti, comunisti e democratici» (pp. 29-30).

Il cinema francese degli anni Trenta, in linea con la tradizione del romanzo naturalista ottocentesco, è attraversato da storie sociali che vedono come protagonisti i ceti popolari, gli emarginati ed i fuorilegge. Il cinema di Vigo, pur restando sostanzialmente “altro” rispetto a tutto ciò, è comunque ben radicato in tale clima di interrelazione tra cinema e società. Guido Oldrini scrive a tal proposito che Vigo, nei suoi film, «concretizza sempre più le sue virulenze e intemperanze anarchiche in direzione storico-sociale, fino a interpretarle come un momento organico del concepimento della lotta democratica dal basso».3

Il regista francese appartiene insomma a quella eterogenea generazione di autori destinata a segnare la storia della cinematografia nazionale che annovera tra le sue fila personalità del calibro di: René Clair, Jean Epstein, Marcel L’Herbier, Jean Renoir, Marcel Pagnol, Claude Autant-Lara, Jean Grémillon, Julien Duvivier, Henri Decoin e Marcel Carné.

A cavallo tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, Vigo realizza À propos de Nice (A proposito di Nizza, 1930), la sua prima opera cinematografica in cui miscela documentarismo e sperimentazione linguistica sul solco delle “sinfonie urbane”, opere cinematografiche particolarmente diffuse nella seconda metà degli anni Venti, votate a dare immagine alla vita quotidiana delle grandi metropoli, come nel caso di Berlin – Die Sinfonie der Groβstadt (Berlino – Sinfonia di una grande città, 1927) di Walter Ruttmann.

La seconda opera dell’autore francese, Taris ou La natation (Taris o del nuoto, 1931), è un breve documentario sul nuotatore francese Jean Taris. Anche in questo caso Vigo non manca di cimentarsi con svariate sperimentazioni linguistiche: sovrimpressioni, inversioni, ralenti, riprese subacquee ecc.
Poi è la volta di Zéro de conduite (Zero in condotta, 1933), mediometraggio di finzione con evidenti riferimenti autobiografici. Scrive a tal proposito Giacomo Ravesi: «Il film inaugura una personale rappresentazione dell’infanzia al cinema, interpretata attraverso la lente deformante del grottesco e del lirismo memoriale, che restituisce una visione partecipe dell’universo infantile come stato della condizione umana libera e lontana da ogni condizionamento. Irriducibilmente estranea al mondo degli adulti, l’infanzia è ritratta nei suoi aspetti occulti e sconosciuti, rispettandone l’indole più autentica in un quadro stilistico ostinato e dirompente, sospeso tra gioiosa e commovente rivolta, che diventerà un prototipo anche per il cinema successivo». (p. 22). Zéro de conduite viene faticosamente ultimato nel 1933 dopo mille traversie produttive ma resta testardamente bloccato dalla censura fino al 1945.

Nonostante le difficoltà incontrate in Zéro de conduite, il regista decide di cimentarsi con la realizzazione del suo primo ed unico lungometraggio di finzione, destinato a lasciare una traccia indelebile nella storia del cinema: L’Atalante (Id., 1934). Il film nasce da un soggetto di Robert de Guichen firmato con lo pseudonimo Jean Guinée, rielaborato da Vigo che vi toglie gli intenti moralistici presenti.

La sinossi del film è presto detta. Jean, conducente della chiatta Atalante lungo i canali della Francia del Nord, sposa Juliette, una giovane di origini contadine che entra così a far parte dell’equipaggio composto, oltre che da Jean, da un vecchio marinaio, père Jules, e da un giovane mozzo. La vita a bordo per la giovane si rivela presto noiosa e gli spazi angusti non lasciano grandi occasioni di intimità alla coppia di sposi. Durante una sosta a Parigi la donna resta affascinata dalla città suscitando la gelosia di Jean che finisce col malmenare un venditore ambulante che invita la moglie a ballare.
I rapporti all’interno della coppia si fanno burrascosi tanto che Juliette decide di fuggire dall’imbarcazione e di raggiungere autonomamente la città tentacolare per poi accorgersi, al ritorno, che il marito se ne è andato abbandonandola. Improvvisamente la metropoli si svela a Juliette nei suoi lati meno scintillanti fatti di file di disoccupati ed atti criminali. La lontananza dall’amata riduce Jean alla disperazione e, ricordando che Juliette gli aveva raccontato della possibilità di vedere sott’acqua la persona amata, decide di tuffarsi nella Senna ove ha modo di vedere la moglie in abito da sposa. Toccherà a père Jules cercare e recuperare la giovane per poi ricondurla a bordo ove i due sposi si ricongiungono.

Ravesi, nell’analizzare la modalità narrativa del film, segnala come questa proceda con sequenze autosufficienti accostante in cui le situazioni appaiono autonome ed auto-concluse nell’unità di spazio, di tempo ed azione. Gli spazi si presentano come contenitori narrativi che «delineano una linea drammatica sostanzialmente statica e involuta che ritorna ciclicamente su se stessa. Gli avvenimenti assumono un carattere episodico, lasciando numerose zone d’ombra e sviluppi scarsamente motivati […] Considerando come personaggio principale Juliette, l’evoluzione drammaturgica complessiva si riduce a uno schema di Privazione-Allontanamento-Ritorno» (p. 39).

Il film si dipana lungo un percorso circolare determinato dall’opposizione dialettica tra universo terrestre ed universo acquatico. L’ambito terrestre è rappresentato dalla metropoli, «luogo dello smarrimento del soggetto nella moltitudine e nell’anonimato, nell’esaltazione delle antinomie e degli scompensi tra individuo e società» (p. 40), mentre l’ambito acquatico è rappresentato dal mondo dell’imbarcazione, «un’isola felice, fatta di relazioni spontanee e naturali, dove le suggestioni e i magnetismi della società borghese e del mondo esterno giungono solo come feticci e proiezioni immaginarie» (p. 40).

Circa i diversi personaggi Ravesi individua il motore drammaturgico dell’opera di Vigo nel percorso psicologico e comportamentale di Juliette, personaggio che vive un difficile equilibrio tra infanzia ed età adulta, dunque tra due due diversi tempi/modi di vivere la vita. Jean pare invece vivere la schizofrenia del doppio ruolo capitano/sposo, scisso tra piacere/dovere, desiderio/obbligo amore/lavoro. Sul finale del film Jean perde le sue rigidezze e riesce, grazie al ricongiungimento con l’amata, ad accettare lo straordinario e l’inconsueto.

Oltre che sui personaggi di père Jules, il vecchio marinaio, e del giovane mozzo, prevalentemente spettatore passivo degli eventi, nel saggio ci si sofferma anche sulla figura dell’ambulante parigino malmenato da Jean in preda alla gelosia indicando in esso l’espressione dell’opposizione dialettica alle relazioni costruite sull’imbarcazione di cui tale personaggio ne prospetta un’alternativa. «Centro catalizzatore del ribaltamento narrativo del film, l’ambulante tratteggia una figura super-attiva perennemente in movimento, dai modi socievoli e affascinanti e dai comportamenti bizzarri e trasformisti. Personaggio magico e letteralmente venuto dal nulla (la sua apparizione è improvvisa, da dietro una collina in sella a una bici), il venditore ambulante è un uomo di spettacolo, più che un semplice commerciante: infatti, sa cantare, danzare, rimare, fare giochi di prestigio e acrobazie. È in lui che Vigo convoglia quelle fantasie e suggestioni legate al circo e all’illusionismo dello spettacolo viaggiante che caratterizzano tutta la sua opera» (p. 44).

Ravesi sottolinea anche come, nonostante sia strutturato da una successione di sequenze autosufficienti, il film risulti attraversato da una tensione dinamica derivante «dalle relazioni di seduzione e repulsione fisica, perdita e ritrovamento, che connettono i vari personaggi» (p. 45). Si pensi a come il rapporto amoroso tra i due sposi si manifesti continuamente nel corso del film come celebrazione dell’attrazione che lega/divide i due corpi e le rispettive pulsioni.

Rifacendosi agli studi di Mario Verdone4 e Patrice Rollet e Stéphane du Mesnildot5, Giacomo Ravesi scrive che la «“suggestione della carne” e “la verità della pelle” sviluppano nel film un’“erotica del contatto” basata su “corpi conduttori” che “materializzano il desiderio conducendo da un corpo all’altro l’elettricità della pulsione, il calore dell’amore, la luce sorda del cinema”» (p. 48).
«Nel film i corpi vivono d’altronde di una ostentata nudità che ne accentua la connotazione erotica e sensuale: i torsi nudi di Jean, la sottoveste di Juliette, il corpo tatuato di père Jules. Anche i segni sulla pelle (tagli, graffi, tatuaggi, linee delle mani) muovono una feticistica e sadica pratica di seduzione fondata sulla rilevanza dei dettagli anatomici e sullo smembramento dei corpi attraverso la scala dei piani (i particolari delle mani, i dettagli degli oggetti, i primi piani di Juliette) e i processi di messa in quadro mediante la duplicazione degli specchi e delle porte (la cabina di père Jules, i riflessi delle vetrine)» (p. 47).

Nel saggio di Ravesi vengono analizzati i rapporti tra i corpi dei diversi personaggi ed i rapporti tra corpi e spazi, dunque si confrontano gli spazi angusti, promiscui ed opprimenti dell’imbarcazione e gli spazi aperti, illimitati e dispersivi degli esterni. «L’artificialità e inumanità degli automi e dei manichini delle vetrine si prolungano nell’indifferenza e nell’anonimato della folla urbana, costretta in un paesaggio portuale e industriale desolato e astratto. Si instaura tra personaggio e ambiente una dialettica disumanizzante, espressa da campi lunghi e fissi in cui domina il rigore asettico e geometrico delle impalcature che assorbono la figura umana, fino a farla scomparire» (pp. 50-51).

Le scelte fotografiche operate da Vigo accentuano il carattere espressionista dell’ambiente. «La Parigi del film definisce una mostruosità architettonica (le infrastrutture dei cantieri portuali), sociale (le file di disoccupati davanti ai cancelli del porto) e morale (il linciaggio del ladro che ha derubato Juliette, da parte di una folla famelica che rivendica un iniquo bisogno di giustizia), totalmente aliena alla visione organica, unitaria e comunitaria con la quale viene caratterizzata l’immagine della città nel cinema francese degli anni Trenta» (p. 52).

Una parte del saggio è dedicata al “motivo dell’acqua” come elemento caratterizzante L’Atalante. A proposito del ruolo giocato dall’acqua nei film francesi dell’epoca vengono passate in rassegna le riflessioni di studiosi come Gilles Deleuze,6 Dominique Païni7 ed Antonio Costa.8

L’Atalante è un film incentrato sul mondo popolare e proletario e secondo Ravesi, che riprende l’analisi di Émile Breton9 «l’analisi sociale del film è di natura dialettica, incentrata sulla rappresentazione di una nazione oppressa dalla crisi economica e impreparata a uno sviluppo industriale repentino, poiché ancora legata a una cultura rurale e a un’economia contadina. Il dissidio tra innovazione e tradizione configura la natura simbolica della stessa imbarcazione, mediante la doppia conformazione di cellula separata e inserita nelle dinamiche sociali. L’Atalante costituisce un nucleo in sé autonomo e autosufficiente, alternativo agli stili di vita ordinari, che viene continuamente alimentato dalle suggestioni che provengono dall’esterno» (p. 58).

Circa i motivi stilistici e iconografici che caratterizzano il film, Ravesi si sofferma sulla scena in cui Jean con gli occhi aperti sott’acqua guarda in macchina alla ricerca di Juliette. Lo studioso individua in tale scena il simbolo della volontà di spingersi «fino al fondo ultimo delle immagini per trovare uno stato di “veggenza” e un’avanguardia dello sguardo. All’iconoclastia Vigo sembra opporre l’iconofilia del vedere tutto ovunque e comunque […] Vigo riporta il cinema alla sua elementarità e funzionalità ottica di lente attraverso la quale osservare il mondo, amplificandone ed esasperandone i contorni e le sfumature […] Servendosi della forma acquario come metafora dello schermo cinematografico, l’inquadratura assume una duplice funzionalità rappresentativa: limite costrittivo e soglia trasparente. Gli sguardi in macchina – quello di Jean nella sequenza subacquea e quelli degli sposi separati durante la notte insonne – ostentano il paradosso di un’inquadratura concepita come bordo terminale della visione (i personaggi che sembrano sporgersi, guardare verso di noi spettatori) e portale d’accesso per nuovi stati di percezione (il carattere lirico e onirico delle apparizioni subacquee). Allo stesso modo, l’uso diffuso dell’inquadratura in plongée estende a livello della messa in quadro il carattere claustrofobico degli ambienti interni dell’imbarcazione e sottolinea la dimensione soggettiva della ripresa, legata a una sottomissione compositiva dello spazio che viene come controllato da uno sguardo a distanza» (pp. 64-65).

Ravesi sottolinea anche come il paesaggio eserciti una pressione iconografica nei confronti dei protagonisti resa attraverso campi medi e lunghi, perlopiù in profondità di campo, in maniera da assecondare una diagonale prospettica duplicante i rapporti di forza e di scala tra personaggi e sfondo. Negli interni il regista ricorre ad inquadrature ravvicinate realizzate con macchina da presa a mano ed in movimento. Alla maniera del cinema d’avanguardia sovietico Vigo ricorre frequentemente ad inquadrature angolate dal basso che mostrano gli attori nell’atto di avanzare attraversando diagonalmente l’inquadratura dal campo lungo al particolare, quasi a suggerire un “desiderio di contatto” della macchina da presa con i corpi.

Nonostante la produzione di Vigo risulti così esigua, sono stati numerosi gli scritti su di lui e sul suo cinema. Tra gli studiosi e critici di cinema che se ne sono occupati Brotto ricorda: Siegfried Kracauer, Edgar Morin, Lotte Eisner, Henri Agel, Henri Langlois, Jean Gili, Gilles Deleuze, Dudley Andrew, Michael Temple, Maurizio Grande, Glauco Viazzi, Corrado Terzi, Bruno Voglino e Fernaldo Di Giammatteo. Sull’opera di Vigo hanno avuto modo di scrivere anche diversi registi: John Grierson, Alberto Cavalcanti, Henri Storck, Claude Autant-Lara, Jean Painlevé, François Truffaut, Jean-Luc Godard, Éric Rohmer, Manoel de Oliveira, Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Andrej Tarkovskij ed Aleksandr Sokurov. Richiami e riferimenti, più o meno espliciti, all’opera del regista francese sono visibili, sostiene Brotto, in opere di: Lindsay Anderson, François Truffaut, Bernardo Bertolucci, Jean-Luc Godard, Manoel de Oliveira, Julien Temple, Jean-Charles Tacchella, Leos Carax, Emir Kusturica, Michel Gondry e Jem Cohen.

Brotto, nel suo volume, contenente anche un prezioso DVD video contenente le quattro opere di Vigo, oltre ad esaminare i film dell’autore francese, indaga il rapporto di scambio che la produzione del regista ha avuto con la storia del cinema tanto del suo tempo, quanto di quello successivo alla scomparsa del regista.

Un primo momento importante per il cinema di Vigo, dopo la sua scomparsa, si ha sul finire degli anni Quaranta quando, in seguito alla presentazione al Festival du film maudit di Biarritz del 1949 di Zéro de conduite e L’Atalante, anche André Bazin si accorge della portata innova e anticonformista dell’opera del regista. L’Atalante viene proiettato anche al Festival du film de demain di Antibes del 1950 riscuotendo un importante successo.

Nel 1953 la rivista «Positif» dedica all’autore un numero monografico e nel 1957 Sales Gómes pubblica una monografia dedicata a Vigo. Sempre nel corso degli anni Cinquanta l’importanza dell’autore francese è perfettamente colta dalla Nouvelle vague. «Quella convergenza tra elemento immaginativo e dato concreto che Vigo fa propria da Georges Méliès, Émile Cohl, Ferdinand Zecca, diviene per François Truffaut, Jacques Rivette, Jean-Luc Godard, Éric Rohmer, Agnès Varda, Jacques Demy, seppur con modalità e forme di interesse differenti, un punto di riferimento permanente, un principio estetico a cui rifarsi costantemente» (p. 194).

Anche l’ambiente del cinema britannico più effervescente – gravitante attorno alle riviste «Sequence» e «Sight and Sound» legate al Free Cinema inglese – comprende la portata innovativa dell’opera di Vigo. Nell’ambito delle iniziative del nascente Free Cinema, al National Film Theatre londinese vengono presentati alcuni cortometraggi che riprendono la lezione di Vigo. In particolare a richiamare palesemente l’opera d’esordio del francese À propos de Nice è il film O Dreamland (1956) di Lindsay Anderson, ambientato in un lunapark di Margate, sulla Manica. «Come per il Carnevale di Nizza, anche qui le attrazioni del lunapark vengono mostrate quale esempio di cattivo gusto, tortura inflitta dalla società dei consumi, isolata forma di svago imposta alla working class. Il punto di vista sociale adottato in À propos de Nice sembra trovare una sua ideale continuazione nell’allegorico ritratto dell’universo britannico durante l’esperienza del tempo libero. I pupazzi meccanici, le marionette, la presenza dei manichini al posto delle autorità mostrano un ulteriore richiamo alle figure immortalate quasi trent’anni prima da Vigo e Kaufman» (pp. 198-199).

Successivamente, sempre nell’ambito delle iniziative dell’innovativo Free Cinema, viene presentato Nice Time (1957) degli svizzeri Alain Tanner e Claude Goretta, che sin dal titolo richiama À propos de Nice di Vigo. «Nella ricostruzione della vita notturna nella Piccadilly Circus londinese, Tanner e Goretta fanno ricorso ad un uso ritmico del montaggio che appare come una mutuazione diretta del film ambientato a Nizza, così come non dissimile è il carattere a-narattivo che contraddistingue entrambe le opere» (p. 199). Dopo aver assistito alla proiezione John Berger individua un tratto di comunanza tra i due film: «quel carattere di protesta che soggiace alla struttura di Nice Time e che emerge con vigore attraverso i personaggi immortalati da Tanner e Goretta. Una “protesta […] non distaccata, o amministrativa”, bensì empatica, messa in atto attraverso una condivisione di sguardo nei confronti della folla notturna che anima il cuore di Londra» (p. 199).

Anche le successive opere di Tony Richardson, Karel Reisz e Lindsay Anderson, segnala Brotto, sembrano riprendere «l’anarchia utopica e graffiante del regista francese. The Loneliness of the Long Distance Runner (Gioventù, amore e rabbia, 1962) di Richardson, Morgan: A Suitable Case for Treatment (Morgan matto da legare, 1966) di Reisz e ancor più If… (1968) di Anderson non solo riacutizzano un immaginario in cui la giovinezza è vissuta come una forma di sopruso a cui contrapporre il sogno e la libertà, ma ricreano al loro interno evidenti omaggi al cinema di Vigo» (p. 199).

If… è probabilmente il film che più si avvicina a Zéro de conduite. «Realizzato nel 1968, If… trasporta la tensione di Vigo nelle strutture classiste della società inglese degli anni Sessanta. La vita interna al collegio sembra ripercorrere le medesime condizioni di subordinazione vissute dagli adolescenti di Vigo. Qui tuttavia l’utopia trascendentale sembra venir meno in luogo di un’atmosfera ancor più repressiva e pessimistica. Nella sequenza conclusiva, in cui la realtà si confonde con il sogno, assistiamo ad una nuova ribellione dei giovani studenti, ancora una volta sui tetti del collegio. Ad essere usati contro l’autorità rappresentata da presidi e docenti non sono più libri e cartelle da lanciare, bensì pistole e mitraglie da imbracciare » (p. 199).

Tracce di Vigo si possono trovare anche in «quel cinéma vérité che nel 1960 fa propria la definizione con cui Edgar Morin esalta le qualità del cinema documentaristico di Dziga Vertov e la capacità di quest’ultimo di riprodurre l’autenticità del reale. In Verso un cinema sociale, in Telle est la vie e in Responsabilité de l’auteur è evidente non solo la convergenza tra Vigo e il cineasta russo, ma anche il desiderio di rivelare per mezzo del cinema il volto più autentico del reale, sino ad arrivare ai suoi aspetti di invisibilità» (p. 200).

Tra gli anni Cinquanta e Settanta, Vigo lo si trova, eccome, continua lo studioso, anche in realizzazioni di autori come: Jean Rouch, Joris Ivens, Jacques Rozier, Agnès Varda, Georges Rouquier, Mario Ruspoli, Chris Marker, Robert Drew, Richard Leacock, Robert Frank, Robert Kramer ed Edgar Morin. «Opere quali Moi, un noir (1958) di Jean Rouch, Primary (1960) di Richard Leacock, Le Joli mai (1962) di Marker e Lhomme, Crisis: Behind a Presidential Commitment (1963) di Robert Drew, nonché il lirico La Seine a rencontré Paris (1957) di Joris Ivens, con le immagini della Senna contrappuntate non a caso dai versi di Jacques Prévert, e quel Du côté de la côte (1958) di Agnès Varda, in cui l’autrice torna lungo la Riviera già osservata in À propos de Nice, sono permeate dall’idea vigoliana secondo cui: “Andare verso il “cinema sociale” vuol dire questo: esser d’accordo, pretendere, permettere che il cinema sfrutti una miniera di soggetti continuamente rinnovata dall’attualità» (p. 201).

Lo “sguardo sociale” con cui Vigo osserva la realtà è presente in Hôtel des Invalides (1952) di Georges Franju, opera «in cui viene a ricostituirsi quel sentimento di stigmatizzazione nei confronti di una società superficiale e distratta. Durante una visita turistica all’Hôtel des Invalides, lo storico edificio della capitale francese, alcune guide sono chiamate a illustrare ad un gruppo di invalidi di guerra la storia di Napoleone […] Attraverso un montaggio alternato prossimo a quello strutturato da Vigo, viene tuttavia a crearsi un progressivo ribaltamento dei significati, evidenziando lo stridente effetto di parole e immagini ormai vuote di senso al cospetto di uomini paralizzati e menomati proprio a causa della guerra. Seppur realizzato su incarico del governo francese, il film di Franju ricrea una condizione di profonda critica sociale divenendo una chiara “condanna al militarismo”. Infine, già Henri Storck con il suo Symphonie paysanne (1942-44) aveva guardato in modo diretto all’amico Vigo, in particolare a L’Atalante e a quella sua relazione amorosa ambientata all’interno di un luogo in cui sono le mansioni lavorative a scandire orari e ruoli. Anche in Storck l’amore e il lavoro sono chiamati a convivere e a condividere tempi e spazi, con l’acqua della Senna e l’imbarcazione che lasciano ora il posto alla campagna e ad un vecchio casolare. Nella sequenza del matrimonio, Storck crea una nuova sovrimpressione, del tutto affine a quella acquatica de L’Atalante. Qui tuttavia i volti degli sposi sono chiamati non più a fluttuare sulle immagini dell’acqua, bensì a ballare in dissolvenza su quelle di un mulino a vento. Nel ritornare alle icone vigoliane, Storck osserva come labor e gestus abbiano preso il sopravvento su sogno e utopia» (p. 202).

Il cinema ed il pensiero di Jean Vigo sono sopravvissuti alla prematura scomparsa del giovane regista francese, ed oltre ad essere, da tempo, indagati dagli studiosi di cinema, hanno continuato ad ispirare registi molto diversi tra di loro.


Denis Brotto, Jean Vigo. Opera completa. Dialogo con Marco Bellocchio, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 260 + DVD video: À propos de Nice (1930); Taris ou la natation (1931), Zéro de conduite (1933), L’Atalante (Id., 1934), € 19,90

Giacomo Ravesi, L’Atalante (Jean Vigo, 1934). Immagini del desiderio, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2016, pp. 112, € 10,00


  1. G. Ravesi, L’Atalante (Jean Vigo, 1934). Immagini del desiderio, Mimesis, 2016 

  2. D. Brotto, Jean Vigo. Opera completa. Dialogo con Marco Bellocchio, Mimesis, 2018 

  3. G. Oldrini, “Il cinema francese e il fronte popolare”, in «Cinema Nuovo», n. 168, 1964, p. 102 

  4. M. Verdone, “I libri. Jean Vigo”, in «Filmcritica», n. 95, 1960 

  5. P. Rollet e S. du Mesnildot in N. Bourgeois, B. Benoliel, S. de Loppinot (a cura di), L’Atalante: un film de Jean Vigo, Cinémathèque française et Pôle Méditerranéen d’Éducation Cinématographique, 2000 

  6. G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri 1984 

  7. D. Païni “Au film de l’eau”, in N. Bourgeois, B. Benoliel, S. de Loppinot (a cura di), L’Atalante: un film de Jean Vigo. Op. cit. 

  8. A. Costa, La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock. Il senso delle cose nei film, Einuaidi, 2014 

  9. É. Breton, “Le repérable et le reste. L’ancrage social de L’Atalante”, in N. Bourgeois, B. Benoliel, S. de Loppinot (a cura di), L’Atalante: un film de Jean Vigo, Op. cit. 

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Se il diverso migrante è simile a noi https://www.carmillaonline.com/2018/07/17/se-il-diverso-migrante-e-simile-a-noi/ Mon, 16 Jul 2018 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46717 di Paolo Lago

Il cinema di poesia di Andrea Segre all’ombra del Nord Est

In tema di migrazione quello di Andrea Segre è un vero e proprio cinema militante. Il suo ultimo lungometraggio, L’ordine delle cose (2017), affronta la drammatica e spinosa questione del controllo dell’immigrazione irregolare fra la Libia e le coste italiane. Il protagonista, Corrado (Paolo Pierobon), è un alto funzionario del Ministero degli Interni preposto al compito di contrastare l’immigrazione clandestina nel calderone della Libia post-Gheddafi. La struttura fondante del film è basata sulla dinamica del cinéma-vérité, un tipo di cinema che mescola verità documentaristica e finzione romanzesca. [...]]]> di Paolo Lago

Il cinema di poesia di Andrea Segre all’ombra del Nord Est

In tema di migrazione quello di Andrea Segre è un vero e proprio cinema militante. Il suo ultimo lungometraggio, L’ordine delle cose (2017), affronta la drammatica e spinosa questione del controllo dell’immigrazione irregolare fra la Libia e le coste italiane. Il protagonista, Corrado (Paolo Pierobon), è un alto funzionario del Ministero degli Interni preposto al compito di contrastare l’immigrazione clandestina nel calderone della Libia post-Gheddafi. La struttura fondante del film è basata sulla dinamica del cinéma-vérité, un tipo di cinema che mescola verità documentaristica e finzione romanzesca. Infatti, come leggiamo in una nota iniziale, «i personaggi e i fatti qui narrati sono interamente immaginari. È autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce». La macchina da presa di Segre scava nel profondo negli interstizi sociali della contemporaneità, affrontando tematiche sociali e politiche complesse con uno sguardo contemporaneamente poetico e militante. Il regista (autore, tra l’altro, di numerosi documentari) realizza un impietoso affresco della «realtà sociale e ambientale» contemporanea, indagata nei suoi più drammatici risvolti legati al tema dell’immigrazione clandestina.

Assistiamo alla messa in scena di due spazi contrapposti, quello dell’Italia e, nella fattispecie, di Padova e dei suoi dintorni, e quello della Libia, dove la mdp ci conduce nell’inferno dei campi di detenzione per i migranti. Da una parte ci sono le immagini pallide e patinate degli interni alto borghesi e del quartiere residenziale dove vive Corrado con la sua famiglia, nonché quelle della monumentale piazza di Prato della Valle a Padova, sulle quali scorre placido e inesorabile l’«ordine delle cose», dall’altra i colori accesi della Libia, con le spiagge, il mare, le città, non ultimi i veri e propri inferni-lager dove sono ammassati i migranti che cercano di attraversare il mare per arrivare in Europa. La missione del protagonista è proprio quella di delimitare un confine, di chiudere lo spazio del mare rivendicando quasi una ‘proprietà’ su di esso, nel nome della politica internazionale degli accordi di Schengen (ma non certo nel nome dei diritti umani), atta a chiudere su se stessa, come un fortilizio medievale, l’Unione Europea. Ma qualcosa, in questo meccanismo, si spezza: Corrado entrerà infatti in contatto con Swada (Yusra Warsama), una ragazza somala che vuole raggiungere il marito matematico in Finlandia. Il contatto, che fa capire a Corrado di trovarsi di fronte ad un essere umano non troppo diverso dalla propria figlia o dalla propria moglie, instaura nel personaggio il desiderio di aiutare la ragazza a recarsi in Finlandia, anche in modo illegale, sfruttando il suo potere e i suoi contatti con l’ambasciata finlandese. Comprendere che anche chi ci è diverso, nella fattispecie una migrante clandestina rinchiusa in un centro di detenzione in Libia il cui disperato viaggio si cerca di contrastare, alla fine è proprio uguale a noi, con gli stessi desideri, le stesse ansie, le stesse paure, è ciò che mette in moto il meccanismo di ibridazione, di avvicinamento.

Alla fine, però, prevale «l’ordine delle cose» che sembra regnare sulla realtà, quell’inesorabile incedere della quotidianità che non può essere scardinato. Tornato nell’ambiente ovattato dell’elegante e ricca provincia del Nord Est dove abita, abbandonando ormai l’idea di aiutare la ragazza, il personaggio sembra rinchiudersi di nuovo nel suo ruolo, nel quadro sociale nel quale è incastonato, lontano da qualsiasi possibilità di ibridazione con l’altro da sé. Quel vecchio ordine da ancien régime di un Occidente capitalista sempre più chiuso sembra non potersi spezzare, neanche di fronte a migrazioni che recano forse in sé il germe di una rivoluzione culturale: la ragazza, infatti, intende raggiungere il marito che studia matematica e il suo desiderio, una volta arrivata in Finlandia, è quello di «stare seduta tutto il giorno a leggere tutti i libri del mondo». Il freddo meccanismo a orologeria del controllo di uno statico Occidente appare quindi una impenetrabile barriera di fronte al calore del desiderio mosso da istanze culturali e di crescita sociale legato al fenomeno della migrazione.

I due precedenti lungometraggi di Segre, Io sono Li (2011) e La prima neve (2013) mostrano invece la possibilità di un avvicinamento e di una ibridazione. I due film mettono in scena l’arrivo della figura dello ‘straniero’ (inteso come figura mitica, stereotipo culturale ma anche come condizione esistenziale) all’interno di una piccola comunità. L’aspetto probabilmente più interessante dell’incontro con l’Altro in questo caso sta proprio nel fatto che l’immigrato, il ‘diverso’ arriva all’interno di una comunità piccola e chiusa, più legata alla tradizione e al passato, piuttosto che in una grande metropoli, dove invece dominano le mescolanze dei tratti e i fenomeni di meticciato.

La protagonista del primo fra i due film, Shun Li (Zhao Tao), è una ragazza cinese immigrata in Italia. Dapprima operaia tessile a Roma, si sposterà successivamente a lavorare in un bar di Chioggia gestito da cinesi. È qui che conosce Bepi (Rade Sherbedgia), un pescatore istriano soprannominato «il poeta» per la sua abitudine di improvvisare versi. Fra i due nasce un sincero e profondo legame di amicizia forse proprio per il fatto di essere entrambi dei ‘diversi’, degli emarginati, per certi aspetti, dalla coesione sociale. Bepi, lui stesso un immigrato dalla vicina Pola, è scontroso e solitario, mentre Shun Li appare come la figura dell’immigrata, della ‘diversa’ giunta nel cuore del Nord Est. Inoltre, se Bepi è già di per sé un isolato all’interno della comunità dei suoi amici pescatori chioggiotti, la stessa Shun Li si trova emarginata all’interno della comunità cinese, estremamente chiusa, e segnata a vista per aver dato troppa confidenza al vecchio pescatore. Costretta dai suoi connazionali a lasciare Chioggia, vi farà poi ritorno soltanto dopo la morte di Bepi. Il contatto avviene dunque fra due personaggi, se così si può dire, ‘deboli’, emarginati, sofferenti. L’Altro, l’immigrato può probabilmente entrare in sinergia soltanto con un proprio simile, con chi fa parte della comunità e però, contemporaneamente, si trova anche ai margini di quella stessa comunità. Bepi e Shun Li sono due figure liminali, né dentro né fuori: la ragazza, cinese, nei confronti della comunità locale in primis e poi di quella dei suoi connazionali; il vecchio pescatore, croato, nei confronti della stessa comunità di Chioggia e dei suoi amici, circondato da una squallida solitudine. Estremamente importante, in Io sono Li (ma anche ne La prima neve), è poi l’ambiente, il paesaggio. Il regista, originario di Dolo, vicino Venezia, attua un interessante esperimento di geopoetica cinematografica, rendendo il proprio territorio quasi il vero protagonista del film. Così scrive il regista in alcune «note di regia» riguardo all’ambientazione del proprio film:

Ricordo ancora il mio incontro con una donna che potrebbe essere Shun Li. Era in una tipica osteria veneta, frequentata dai pescatori del luogo da generazioni. Il ricordo di questo volto di donna così estraneo e straniero a questi luoghi ricoperti dalla patina del tempo e dell’abitudine, non mi ha più lasciato. C’era qualcosa di onirico nella sua presenza. Il suo passato, la sua storia, gli spunti per il racconto nascevano guardandola. Quale genere di rapporti avrebbe potuto instaurare in una regione come la mia, così poco abituata ai cambiamenti? Sono partito da questa domanda per cercare di immaginare la sua vita. (iosonoli.com).

È una Chioggia cupa e invernale, sono lividi albe e tramonti e l’acqua della laguna ad avvolgere in modo sinuoso e poetico quasi ogni singola inquadratura del film.
L’ambiente è protagonista anche a livello linguistico: i pescatori si esprimono in dialetto, utilizzato in alcuni momenti anche dagli stessi cinesi, da lungo insediati nella località veneta. Shun Li appare come una sorta di angelo della poesia, straniera anche alla propria comunità, unicamente attraversata dal desiderio di far arrivare in Italia il suo bambino e, in futuro, di ritornare in Cina. Lo sguardo del regista, perciò, assume anche un piglio antropologico nel mostrarci le più diverse interazioni fra immigrati cinesi e comunità locale, nonché le varie forme di relazione fra gli stessi cinesi. In opposizione all’italiano e al chioggiotto, il cinese è la lingua della poesia, per mezzo della quale Shun Li scrive le sue lettere al figlio e al padre e legge toccanti poesie di un poeta cinese.

La poesia è infatti un importante mezzo di comunicazione e di ibridazione: l’avvicinamento fra i due avviene infatti anche in virtù di essa. Come già accennato, Shun Li appare come una sorta di angelo poetico che frequentemente recita versi nella sua lingua e celebra la «Festa del Poeta», una festa tradizionale cinese in cui vengono abbandonati miriadi di lumini accesi sulle acque di un fiume. Bepi, invece, all’interno della sua comunità è soprannominato «il poeta» per la sua propensione a inventare rime (e scriverà inoltre dei versi anche per Shun Li).

La poesia sembra poi avvolgere ogni inquadratura del film: la sinergia fra voce, suoni e immagini è molto netta e le stesse inquadrature sembrano scaturire dalla parola poetica recitata dalla ragazza. Lo sguardo vellutato della macchina da presa costruisce una vera e propria poesia visiva semplicemente guardando il paesaggio e l’ambiente, fino all’esplosione catartica del finale, quando, con tonalità che possono rimandare al cinema di Andrej Tarkovskij, Shun Li dà fuoco al casone di pesca di Bepi, all’interno della laguna, facendo così rivivere il rituale della cinese «Festa del Poeta», il fuoco sull’acqua, dedicato allo scomparso poeta Bepi.

Anche La prima neve racconta, con tonalità poetiche e malinconiche, il progressivo avvicinamento fra il profugo africano Dani (Jean-Cristophe Folly) e Michele (Matteo Marchel), un ragazzino ribelle ancora segnato dalla recente, tragica scomparsa del padre, che vive un rapporto conflittuale con la madre (Anita Caprioli), mentre appare legato da sincera amicizia allo zio Fabio (Giuseppe Battiston). Siamo a Pergine, un paesino sulle montagne del Trentino e Dani, originario del Togo e ospite di una casa di accoglienza insieme alla sua bambina, viene chiamato a lavorare da Pietro (Peter Mitterrutzner), un vecchio falegname e apicoltore della Val dei Mocheni. Dani, ancora traumatizzato dalla morte della moglie durante il viaggio dalla Libia, convinto di non poter allevare adeguatamente da solo la sua bambina, si avvicina progressivamente a Michele, segnato nel profondo dalla morte del padre a causa di una valanga. L’ibridazione fra il ‘diverso’, il migrante e il membro della comunità, qui, avviene fra Dani e Michele, quest’ultimo, un po’ come Bepi, segnato dal dolore e dalla consapevolezza di diversità ed esclusione (in questo caso, a causa della scomparsa del padre). Il giovane africano e il ragazzino ribelle che marina la scuola si ritroveranno a fare legna insieme nel bosco e i loro dolori troveranno una reciproca corresponsione.

Ancora una volta, i veri protagonisti sono il paesaggio e la poesia. Le montagne e i boschi autunnali sono l’anima del film, sublimati da inquadrature vellutate e pittoriche. Dani, che fa anche lo scultore, recita poesie indirizzate alla moglie morta nella propria lingua africana e non in francese, lingua che utilizza invece per comunicare con altri profughi africani. Lo spazio della poesia, perciò, come in Io sono Li, è quello della propria lingua, della propria tradizione che proviene dalle sfere più intime dell’esistenza. La voce poetica, pronunciata nella lingua africana, si distende sulle immagini dei boschi e delle montagne con una incisività sublime e toccante: non si potrebbe pensare a niente di più lontano della lingua africana e della stessa presenza di un africano dal dialetto, dalle montagne e dalle vallate del Trentino, ma nel contempo questa lontananza è sublimata da una continua vicinanza e ibridazione. Se in Io sono Li la funzione catartica dei momenti finali era affidata al fuoco, qui è la neve ad assumere quasi una valenza magica e onirica. Dani non la ha mai vista e, proprio nella neve, si troverà ad accompagnare come un nuovo e straniero angelo il piccolo Michele sul luogo della morte del padre e, nello scenario montano, i due si abbracceranno. Il momento finale in cui Dani abbraccia il ragazzino e quest’ultimo si abbandona al suo abbraccio segna l’abbattimento di ogni confine sociale, politico e culturale fra lo ‘straniero’ e la comunità. L’ibridazione e l’incontro raggiungono quindi i loro momenti più alti. Michele, forse, ha superato i suoi traumi e lo stesso Dani, probabilmente, rinuncerà al progetto di partire e di abbandonare la bambina perché si riteneva un cattivo padre. Il contatto e la comprensione fra due culture riesce a vincere e superare il dolore. Per mezzo dell’ibridazione e della distruzione di ogni forma di odio e di pregiudizio, forse si riesce a realizzare qualcosa di veramente nuovo e costruttivo. Perché, ed è probabilmente questo il messaggio più importante del cinema di Andrea Segre, pervaso di una limpida poesia militante, al di là di ogni diversità di cultura, di lingua, di colore della pelle, siamo tutti simili e vicini perché profondamente e dolorosamente umani.

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