Cinema Italiano – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’immaginario tecnologico nel cinema italiano dagli anni Trenta agli anni Settanta https://www.carmillaonline.com/2024/06/05/limmaginario-tecnologico-nel-cinema-italiano-dagli-anni-trenta-agli-anni-settanta/ Wed, 05 Jun 2024 20:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82181 di Gioacchino Toni

In Sociologie du cinéma (1977) Pierre Sorlin definisce il visibile «ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo […] ciò che gli spettatori accettano senza stupore, il visibile è quel che appare fotografabile e quel che appare sugli schermi di un’epoca data». Se c’è un medium che ha rappresentato la “modernità”, a partire dal suo farne parte, dal suo essere intrinsecamente “macchina della modernità”, questi è il cinema: in esso, sin dalla nascita, confluiscono l’ambito artistico-creativo e quello tecnologico, ed è proprio a causa dell’invadenza di questo ultimo che, per qualche tempo, subirà l’ostracismo degli [...]]]> di Gioacchino Toni

In Sociologie du cinéma (1977) Pierre Sorlin definisce il visibile «ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmetterlo […] ciò che gli spettatori accettano senza stupore, il visibile è quel che appare fotografabile e quel che appare sugli schermi di un’epoca data». Se c’è un medium che ha rappresentato la “modernità”, a partire dal suo farne parte, dal suo essere intrinsecamente “macchina della modernità”, questi è il cinema: in esso, sin dalla nascita, confluiscono l’ambito artistico-creativo e quello tecnologico, ed è proprio a causa dell’invadenza di questo ultimo che, per qualche tempo, subirà l’ostracismo degli ambienti più conservatori dalle arti tradizionali in un periodo in cui, intanto, gli artisti più innovativi stavano progressivamente allentando l’incidenza della “manualità” sulle loro produzioni, come espliciterà Duchamp, negli anni Dieci del Novecento, tanto da proporne la scomparsa attraverso i suoi ready made.

A contestare il meccanomorfismo cubo-futurista, a partire dai suoi aspetti ideologici, ha provveduto l’orda dadaista: lungi dal rappresentare un repertorio formale positivo da cui attingere acriticamente ispirazioni al contempo stilistiche e concettuali, l’universo delle macchine è stato da questi contestato e beffeggiato, reso “improduttivo”.

Come spiega Leonardo Gandini introducendo il volume da lui curato La meccanica dell’umano. La rappresentazione della tecnologia nel cinema italiano dagli anni Trenta agli anni Settanta (Carocci, 2005), nel complesso rapporto tra arte e tecnologia che segna il passaggio tra Otto e Novecento, per conquistarsi legittimazione artistica il cinema ha dovuto fare i conti con l’incidenza tecnologica che lo contraddistingue e lo ha fatto “antropomorfizzandosi”, così da rendere accettabile la riproduzione meccanica, vera e propria precondizione per il riconoscimento di un’estetica tecnologica. Oltre a piegarsi alla rappresentazione dell’essere umano e dei suoi sentimenti, riprendendo sintassi e temi della narrativa romanzesca, la tecnologia cinematografica, sin dalle origini, ha prestato attenzione al rapporto tra individuo e macchina attenuando e addomesticando «gli attriti che hanno inevitabilmente corredato la penetrazione capillare del mondo delle macchine in quello degli uomini». Già Walter Benjamin aveva evidenziato come la più importante tra le funzioni sociali del cinema fosse quella di creare un equilibrio tra l’essere umano e l’apparecchiatura neutralizzando i traumi indotti dalla tecnologia.

Se da un lato, sottolinea Gandini, il contributo del cinema nella messa a punto di un immaginario tecnologico si sviluppa essenzialmente in rapporto al significato e alle funzioni che la tecnologia assume nelle pratiche sociali quotidiane, dall’altro riflette «sulle premesse e le condizioni di una dialettica tra uomo e macchina che rimanda a una dialettica tra uomo e macchina da presa, senza la quale […] è di fatto preclusa la possibilità, per il cinema, di approdare ad una dimensione artistica». Insomma, il cinema, anche per autolegittimarsi, non ha potuto fare a meno di raccontare la tecnologia in quanto esso stesso soggetto tecnologico, non accontentandosi di un ruolo di mediazione del processo ma, in virtù della sua origine tecnologica, come parte in causa dei fenomeni che definiscono la modernità.

Nei diversi saggi che compongono il volume La meccanica dell’umano, viene evidenziato come nel cinema italiano compreso tra gli anni Trenta e gli anni Settanta del Novecento la tecnologia rappresenti una sorta di cartina di tornasole dei traumi prodotti dalla modernità. «In quanto emblema della civiltà moderna da una parte, e luogo generatore di conflitti legati alla sua penetrazione nel tessuto sociale dall’altra, la macchina entra a far parte di un campo di riflessione del quale il cinema è, al contempo, soggetto, attraverso i film, e oggetto, in quanto prodotto tecnologico destinato a sua volta a confrontarsi e misurarsi con la dimensione sociale». Di certo, sottolinea Gandini, coniugando tecnologia e condizione urbana, il cinema non poteva che essere (anche) autoriflessivo: serialità, riproducibilità e consumo di massa sono elementi che accomunano cinema e ambito urbano, entrambi parte strutturale della modernità.

Il volume La meccanica dell’umano è suddiviso in tre parti dedicate rispettivamente agli anni Trenta, al periodo compreso tra il secondo dopoguerra e il boom economico e, l’ultima, agli anni Sessanta e Settanta

La prima parte, dedicata agli anni Trenta, si compone di uno scritto di Marcia Landy, sull’immaginario tecnologico all’epoca del fascismo, e di un contributo di Raffaele De Berti, sul rapporto tra tecnologia, modernità e immaginario urbano.

Landy si sofferma: su film che narrano vicende aventi a che fare con i mezzi di comunicazione a partire dallo stesso mondo del cinema (es. La signora di tutti del 1934 di Max Ophüls); su opere che tendono a tratteggiare criticamente la vita urbana tecnologizzata, contrapponendola a una “più genuina” realtà rurale (es. Quattro passi tra le nuvole del 1942 di Alessandro Blasetti); sulla messa in scena della tecnologia in ambito produttivo (es. Acciaio del 1933 di Walter Ruttmann); sui mezzi di trasporto, come l’automobile, nel suo duplice aspetto di mezzo di lavoro o bene di lusso, il treno, come emblema di mobilità (e libertà) maschile in contrapposizione alla staticità casalinga della donna (es. Zazà del 1942 di Renato Castellani), l’aereo, come icona della modernità facilmente associato alla velocità, alla virilità e alla conquista dello spazio, con tutti i riferimenti coloniali del caso (es. Lo squadrone bianco del 1936 di Augusto Genina); sul ruolo bio-politico di controllo sui corpi sociali e individuali delle tecnologie cittadine e della comunicazione che emerge in controluce in diversi film. «Le molte (e conflittuali) immagini della tecnologia apparse sugli schermi italiani nel corso del Ventennio ci illuminano non solo sui conflitti e i cambiamenti che animavano la cultura dell’epoca, ma anche sulle loro conseguenze per la definizione di eventi successivi, ad esempio i due miracoli economici italiani che ebbero luogo rispettivamente negli anni Cinquanta-Sessanta e negli anni Settanta-Ottanta».

De Berti nota come la modernità nel cinema si manifesti più negli interni delle abitazioni e nell’abbigliamento femminile che non negli esterni. Mancando il paesaggio urbano italiano del grattacielo, cioè dell’elemento moderno per eccellenza ricorrente nelle produzioni hollywoodiane, il cinema nazionale ripiega sulla velocità: automobili, tram, treni e tutto ciò che serve per spostarsi o comunicare velocemente. Come sintetizza il cortometraggio, di esplicita matrice futurista, Stramilano del 1929 di Corrado D’Errico, tutto sembra svolgersi «sotto il segno del tempo risparmiato, grazie o a una maggiore velocità o a strumenti meccanici che compiono operazioni prima eseguite manualmente». In tale opera, sottolinea De Berti, sono presenti le tre principali “categorie” caratterizzanti la modernità: i mezzi di trasporto, le fabbriche e la merce reclamizzata dalle pubblicità ed esposta nei grandi magazzini.

Se automobili, treni e biciclette sono onnipresenti nelle commedie italiane del periodo, è con Gli uomini che mascalzoni… del 1932 di Mario Camerini che nel cinema di finzione i mezzi di trasporto divengono protagonisti del film. A dare invece immagine alle fabbriche sono film come Rotaie del 1929 di Mario Camerini e, soprattutto, Acciaio del 1933 di Walter Ruttmann. In questo ultimo caso le «vere protagoniste del film sono le scene girate all’interno degli stabilimenti e le riprese della cascata delle Marmore», a sancire come il film non contrapponga l’universo della fabbrica a quello rurale e contadino, ma punti «all’integrazione e all’armonizzazione del binomio industria/campagna».

Ad essere accuratamente evita nel cinema italiano, e non solo degli anni Trenta, sottolinea De Berti, è la vita operaia all’interno delle fabbriche; difficile renderla accattivante a spettatori a cui si vuole offrire svago. Il compito di entrare con la macchina da presa nei luoghi di lavoro viene lasciato a qualche documentario e cinegiornale, ma per magnificare l’organizzazione produttiva e la qualità dei prodotti italiani. I film, soprattutto le commedie, anziché i luoghi di produzione preferiscono offrire agli spettatori ciò che in questi si produce: le merci. Ed è proprio il favoloso mondo di queste ultime, pronte per essere sognate e acquistate, ad essere celebrato dal documentario Rinascente realizzato nel 1930-1931. Riprendendo molto da vicino il dinamismo delle riprese e il montaggio serrato di Stramilano, questo cortometraggio muto, il cui realizzatore resta ignoto, mette in scena con enfasi «la perfetta organizzazione di una grande fabbrica commerciale in grado di esaudire tutti i desideri della piccola e media borghesia urbana italiana». A questo documentario si è di certo ispirato Mario Camerini per il suo Grandi Magazzini del 1939.

Nella seconda parte del volume, dedicata al periodo compreso tra il secondo dopoguerra e il boom economico, il saggio di Lucia Cardore si sofferma sulla “tecnologia motoria” presente in tante pellicole italiane, mentre invece il contributo di Paola Valentini indaga su come cambi il panorama sonoro del/nel cinema nazionale.

Cardore sostiene che, per certi versi, è come se, finita la guerra, con un Paese da ricostruire, i mezzi di locomozione – biciclette, treni, motociclette, automobili – comparissero nei film come simbolo di una fretta di ripartire avviata a trasformarsi inesorabilmente, un poco alla volta, in frenesia consumista. «Arrivati i treni dei reduci», scrive la studiosa, «partono quelli degli emigranti», come nel caso di Il cammino della speranza del 1950 di Pietro Germi e Rocco e i suoi fratelli del 1960 di Luchino Visconti. I mezzi pubblici si rivelano in alcune opere spazi di socializzazione, come il treno per le mondine in Riso amaro del 1949 di Giuseppe De Santis, l’autobus che conduce gli abitanti delle campagne e delle periferie in città in cerca di lavoro nel film Il sole negli occhi del 1953 di Pietrangeli. Il treno diviene anche il mezzo, per chi può permetterselo, per la luna di miele o microcosmo in cui mettere in scena gag comiche o melodrammi.

A partire dalla fine degli anni Quaranta «si comincia a sognare a motore»; le due ruote motorizzate contribuiscono ad affiancare alle necessità ed ai desideri tradizionali l’idea di avventura, di fuga e di vagabondaggio, non mancando di palesare come dietro al soddisfacimento di queste fantasie si celi spesso qualcosa di negativo: in L’onorevole Angelina del 1947 di Luigi Zampa la motocicletta viene acquistata con i proventi della borsa nera; in Bellissima del 1951 di Luchino Visconti la Lambretta viene pagata con i ricavi di un’attività truffaldina; in Accattone del 1961 di Pier Paolo Pasolini il protagonista perde la vita a bordo di una motocicletta rubata per fuggire a un tentativo di furto.

Se all’indomani della fine del conflitto in diversi film l’automobile assolve al ruolo di simbolo di uno status acquisito illecitamente, come in Caccia tragica del 1947 di De Santis e Gioventù perduta del 1948 di Pietro Germi, verso la metà degli anni Cinquanta, scrive Cardore, essa «si spoglia, almeno in parte, dell’aurea di trasgressione e pericolo […] per divenire oggetto di desiderio comune, coltivato con ardore dai ceti popolari, che andavano inesorabilmente omologandosi, come osserva il Pasolini degli Scritti corsari, alle abitudini e ai consumi piccolo-borghesi. Alle soglie del boom economico, l’immagine dell’auto riassume in sé i desideri di consumo, divenendone l’icona principale».

A riprova di quanto stiano cambiando le città, nei film degli anni Cinquanta non è raro imbattersi in un ingorgo, come in Il cammino della speranza del 1950 di Pietro Germi, La dolce vita del 1959 di Federico Fellini e in Nata di marzo del 1958 di Antonio Pietrangeli. Sebbene gli spostamenti avvengano più frequentemente lungo le statali e le provinciali, non mancano film in cui compaiono le autostrade, come in Cronaca di un amore del 1950 di Michelangelo Antonioni. Alle figure dei viaggiatori che attraversano il Paese in automobile tendono poi a sostituirsi i turisti, non mancando di mettere a confronto la modernità motorizzata con la realtà più arcaica del Paese. Al capolinea di questa evoluzione è forse l’incidente stradale a palesare tutti i limiti della corsa alla modernità.

Circa invece i cambiamenti del panorama sonoro del/nel cinema italiano, Valentini ricorda come mentre l’arrivo in Italia della stereofonia attorno alla metà degli anni Cinquanta si imponga celermente, decisamente meno rapida è la diffusione, nel decennio successivo, del “suono sporco” della presa diretta. Al di là di come cambi il sonore del cinema, è interessante guardare all’avvicendarsi dei diversi dispositivi sonori che compaiono sulle pellicole. Agli esclusivi “telefoni bianchi” degli ambienti lussuosi del periodo prebellico si sostituisce il telefono come status simbol di ascesa sociale che si diffonde tra la piccola borghesia per poi disseminarsi nel paesaggio urbano. A comparire sulle pellicole e a far sognare gli italiani è la radio che il cinema segue in tutta la sua parabola che la vede passare da simbolo di agiatezza ad apparecchio ascoltato durante i lavori domestici, fino alle versioni sempre più piccole permesse dall’arrivo dei transistor che si diffondo soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Curioso è anche osservare come i riproduttori per dischi passino abbastanza speditamente da simbolo di festa e convivialità a testimoni malinconici di solitudini.

Nella terza parte del volume, dedicata agli anni Sessanta e Settanta, trovano spazio un contributo di Simone Venturini, sulla rappresentazione della tecnologia domestica, ed uno di Veronica Innocenti e Roy Menarini, sul rapporto cinema-televisione.

Nella sua analisi Venturini nota la presenza di una figura visiva ricorrente nel cinema italiano: «il dittico o il trittico di elettrodomestici che incorniciano come le pale di un altare la figura della donna». Gli elettrodomestici che compaiono in queste ambientazioni assumono «i tratti di un campo visivo “magico” che trattiene, costringe e prefigura al suo centro non solo il corpo femminile, ma l’identità e la rappresentazione stessa della famiglia, della casa». «La rappresentazione della “gabbia” della tecnologia domestica nel cinema italiano costruisce un’identità familiare ancorata a un corpo, fisico e sociale, destinato a consumarsi al suo interno». Se però negli anni Sessanta il cinema, soprattutto nella commedia, mette in scena un’opulenza illusoria, nel decennio successivo «l’illusione scompare, e a rimanere sono la lotta per la sopravvivenza, il conflitto, la crisi dei valori e gli oggetti tecnologici della casa, che continuano a testimoniare e organizzare parte del visibile cinematografico di quegli anni».

A riprova di come con la diffusione della televisione l’intera produzione audiovisiva sia soggetta a una svolta importante, è con un saggio sul rapporto cinema-televisione che si conclude il volume curato da Leonardo Gandini che ha inteso tratteggiare l’immaginario tecnologico veicolato dal cinema italiano tra gli anni Trenta e i Settanta. Gli anni Ottanta rappresentano effettivamente un momento di cambiamento importante e non solo per l’ambito audiovisivo.

Innocenti e Menarini sottolineano come il cinema italiano abbia dovuto fare i conti con la diffusione della televisione sia dal punto di vista linguistico che rappresentativo. Nel primo caso basti pensare, ad esempio, a quanto il fenomeno dei film ad episodi, diffusosi negli anni Sessanta, sia debitore nei confronti dei tempi brevi, della serialità e dei passaggi repentini tra temi e toni differenti propri del linguaggio televisivo. Dal punto di vista rappresentativo, e simbolico, il cinema – dalla commedia alle opere autoriali –, dopo aver per qualche tempo guardo alla televisione soprattutto come a un «vettore di disgregazione sociale e di rinuncia estetica», sul finire degli anni Settanta ha finito per relegarla ad una presenza di paesaggio a cui non per forza di cose si deve prestare troppa attenzione. Poi, come detto, arrivano gli anni Ottanta. Non tutto, certo, ma molto cambia nella società italiana a livello audiovisivo e non solo.

]]>
La svolta di Riccardo Antonaroli https://www.carmillaonline.com/2022/05/10/la-svolta-di-riccardo-antonaroli/ Tue, 10 May 2022 20:30:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71765 di Mauro Baldrati

Un interessante movie girato da un regista esordiente, che conferma un certo talento italiano nel noir. Siamo ormai degli esperti artigiani che producono un combinato a lievitazione naturale di crime classico che non fa sconti, di fumetto noir, un po’ di neorealismo, romanticismo, un argot etnico – napoletanesco, romanesco -, esistenzialismo da terzo millennio. Questo incedere naturista ci aiuta a decolonizzarci dallo stereotipo hollywoodiano, un predatore commerciale patinato che ci ha tenuto sotto scacco per decenni, e ancora tiene banco, in certi settori dell’immaginario, quello televisivo soprattutto, con la [...]]]> di Mauro Baldrati

Un interessante movie girato da un regista esordiente, che conferma un certo talento italiano nel noir. Siamo ormai degli esperti artigiani che producono un combinato a lievitazione naturale di crime classico che non fa sconti, di fumetto noir, un po’ di neorealismo, romanticismo, un argot etnico – napoletanesco, romanesco -, esistenzialismo da terzo millennio. Questo incedere naturista ci aiuta a decolonizzarci dallo stereotipo hollywoodiano, un predatore commerciale patinato che ci ha tenuto sotto scacco per decenni, e ancora tiene banco, in certi settori dell’immaginario, quello televisivo soprattutto, con la continua riproposizione di film e “telefilm” vecchi anche di vent’anni, e le eterne commedie.

“La svolta” è un prodotto di questa scuola di liberazione. E’ in continuità con Gomorra, con Suburbia, anche se più generalista, più contaminato.

L’attacco è già speed: un tipo – un tipaccio – entra in un baraccio e chiede del boss. Ma c’è qualcuno che lo controlla, e noi lo vediamo attraverso lui. I suoi occhi sono i nostri occhi. Poi, accade. Il nostro osservatore, Jack, lo aggredisce, lo manda a gambe all’aria e gli ruba lo zaino, che presto scopriremo essere pieno di banconote, 500.000 auro. Fugge, su una moto, inseguito dal derubato, pure lui a cavallo di una moto.

Finisce nell’appartamento di un ragazzo che abita isolato, Ludovico, che soffre “di un brutto male”, la depressione. Sopravvive barricato in casa, in stato semi catatonico, incapace di svolgere qualsiasi lavoro, anche solo sistemare una mensola, terrorizzato dal mondo esterno.

E qui parte il racconto nel racconto, il procedimento osmotico che coinvolge Jack, alto, secco, nervoso, e Ludovico, basso, morbido, linfatico. Il sequestratore cede a Ludovico, come il sale nel brodo, una parte della sua aggressività e della sua energia, mentre l’altro gli fornisce, come il miele nel tè, un po’ della sua dolcezza. E’ un rapporto che transita presto nell’amicizia, in cui Jack si complimenta con Ludovico per i suoi fumetti (effettivamente interessanti), e lo incita a riprenderli, a uscire dall’apatia. Si offre addirittura di mantenerlo coi soldi rubati fino al completamento della storia, che dovrà diventare un libro. Entrano anche in contatto con due ragazze, una che abita nello stesso stabile, e l’amica, e naturalmente Jack assesta uno scrollone a Ludovico, per farlo uscire dalla timidezza che lo paralizza. Organizzano una cena, con tanta allegria e seduzione, facilitati da qualche joint.

Ma il male, naturalmente, non concede tregua. Jack controlla continuamente la finestra, perché l’hanno sgamato e un drappello di “pischelli” sorveglia giorno e notte l’isolato per scoprire dove si nasconde. Il derubato è un criminale detto “dottor Caino”, che col suo braccio destro, un glaciale assassino psicopatico, forma una coppia che sembra uscita da una graphic novel di J. P. Manchette. Personaggi macchiettistici, feroci in modo disumano, hanno come unico obiettivo quello di scovare Jack e recuperare i soldi. Infatti per Caino “la reputazione è tutto”, per cui chiunque sgarra e gli manca di rispetto viene immediatamente, esageratamente giustiziato. Sono due maschere horror parodistiche, due sanguinari bimbiminkia che conferiscono una accelerazione funzionale alla storia, salvandola da alcuni stereotipi e dal rischio della commedia comico-sentimentale, una suggestione forse inevitabile del rapporto tra Jack e Ludovico.

Il film fila come un treno verso la conclusione, e qui arriva il problema: il finale in stile noir underground anni ’70, una crepa narrativa che si allarga in uno squarcio cui noi sopravvissuti non siamo più abituati, mentre le nuove generazioni forse non conoscono proprio, anche se abbiamo un referente nel primo Tarantino. Per cui può essere duro da accettare. Ma è un atto di coraggio, e nell’era dell’omologazione c’è bisogno di coraggio, di qualcuno che osa, che non si tira indietro (Su Netflix).

]]>
Tre piani, dell’arabo pazzo Abdul Alhazred https://www.carmillaonline.com/2021/10/11/tre-piani-dellarabo-pazzo-abdul-alhazred/ Mon, 11 Oct 2021 20:33:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68577 di Mauro Baldrati

(Premessa: non riassumo per l’ennesima volta la trama del film, perché ne esistono innumerevoli versioni sul web; pertanto il testo che segue è da intendersi come una nota-commento.)

Si sono lette recensioni furiose, viscerali di questo film. Sembrava che gli spettatori-recensori si sentissero insultati, offesi dalla sua visione. Qualcuno ha scritto di non essere in grado di reggerne neanche una inquadratura. E non si tratta solo di haters, i demolition men discendenti degli antichi troll; no, le abbiamo lette anche da blogger e giornalisti di quotidiani. Ma non è [...]]]> di Mauro Baldrati

(Premessa: non riassumo per l’ennesima volta la trama del film, perché ne esistono innumerevoli versioni sul web; pertanto il testo che segue è da intendersi come una nota-commento.)

Si sono lette recensioni furiose, viscerali di questo film. Sembrava che gli spettatori-recensori si sentissero insultati, offesi dalla sua visione. Qualcuno ha scritto di non essere in grado di reggerne neanche una inquadratura. E non si tratta solo di haters, i demolition men discendenti degli antichi troll; no, le abbiamo lette anche da blogger e giornalisti di quotidiani. Ma non è esagerato? Può un semplice film causare una tale indignazione? Ci si chiede se Tre piani non sia la versione cinematografica dello spaventoso “Necronomicon, dell’arabo pazzo Abdul Alhazred”. Improbabile. Sarebbe un’opera negativa perfetta, un capolavoro horror. Ma il tempo dei capolavori è estinto. E’ stato divorato dal mercato, che si è mangiato l’arte, la politica, l’informazione, la comunicazione, tutto. Per cui sospettiamo che ci sia qualcosa sotto. Un segreto, un codice malato. Ma procediamo con ordine.

Tra gli argomenti dei detrattori, oltre alla banalità, al piattume che regna sovrano, ci sono anche motivazione tecniche, come la recitazione inesistente degli attori-stoccafissi. Riccardo Scamarcio, soprattutto. Di questo personaggio, purtroppo, in passato ho letto tristi dichiarazioni protoleghiste e imbarazzanti dimostrazioni di stima verso Salvini. Non è facile. Però bisogna essere coerenti con quanto si è già scritto, in particolare: “E’ possibile stimare un autore solo per le opere anche se l’uomo (o la donna ovviamente, ma ancora ragioniamo sull’Uomo inteso come specie) ci delude, o addirittura ci fa indignare con le sue miserie? La risposta è sì.” La risposta è sì. Pertanto mi rimbocco le maniche e, dopo avere preso una pillola di Pantorc, sono costretto ad ammettere che Scamarcio interpreta bene il personaggio del padre ossessionato dal sospetto che la figlioletta sia stata molestata dall’anziano vicino cui l’ha affidata. Oppure Alba Rohrwacher nei panni di una madre che vive la solitudine col figlio neonato, e ha strane visioni, è raffinata e credibile. O lo stesso Nanni Moretti, con la maschera di pietra di un giudice integerrimo e severo, che deve gestire e fronteggiare il figlio (un bel pezzo di merda, va detto fuori dai denti) che ha investito una donna sulle strisce pedonali, uccidendola. Questi attori sarebbero stati non-diretti dal regista, che li ha avvolti in un bozzolo di inespressività. Ora, Nanni Moretti può essere criticato per vari aspetti, ma non sulla regia, della quale si può definire un maestro. Sa cosa vuole, e come lo vuole. Conosce gli attori e ne cava le qualità migliori.

Ma a questo punto non voglio disegnare un lato B del Necronomicon tracciando un contro-capolavoro. Tre piani non è certo esente da difetti, alcuni dei semplici dettagli, altri invece strutturali. Per dire, alcune scene sono buttate lì, tanto per fare, o troppo sbrigativamente. Quando “la sciacquetta” Margerita Buy – che si conferma una specialista del personaggio femminile borghese – la moglie del giudice, porta i vestiti del figlio che ha abbandonato la famiglia in una onlus, viene avvicinata dal responsabile, che non ha mai visto prima, che le fa: “Devi venire con me in un posto”. E lei, stupita: “Dove?” E lui (tra l’altro con un’espressione e un tono della voce poco tranquillizzanti): “Lo vedrai”. E lei: “Va bene”. E stop. Oppure, prima di un finale timidamente edificante, spunta una posticcia banda musicale felliniana con seguito di ballerini che lascia un po’ confusi. E, l’aspetto più ambiguo, o più scontato, o più abusato: l’ennesima ambientazione middle class, coi suoi lati oscuri, i suoi retrobottega di contraddizioni e di miserie, che fa pensare: possibile, una ennesima versione della crisi della borghesia?

E veniamo ai codici malati, che forse hanno scatenato la furia di certi recensori. Il film porta argomenti attuali e molto forti, veicolati da un’atmosfera opprimente che non dà tregua. E’ un processo emotivo che perfora, forse in maniera subliminale, che secondo la mia personalissima e opinabilissima opinione causa reazioni di difesa, caricando l’opera di un’antipatia così intensa da renderla insopportabile: l’ossessione morbosa del padre Scamarcio, l’ambiguità che lui vede nel comportamento del vecchio e della figlia, che lo accompagna per anni, senza dargli tregua; poi una svolta inaspettata, forse una vendetta sotterranea, che lo porta ad avere un rapporto sessuale con la nipote minorenne del vecchio, che lo seduce con sfrontatezza adolescenziale; poi la solitudine della gravidanza, il senso di abbandono e di vuoto che può portare la madre alla nevrosi, fino al delirio e alle allucinazioni; infine lo scontro terminale di un padre col figlio, che si rivolta con argomenti giudicati abietti dal padre arcigno, fino ad aggredirlo e prenderlo a calci, e lo strazio della madre che è costretta a scegliere tra il figlio e il marito.

Tutto questo, rappresentato e narrato con la maestria di un regista di grande esperienza, scorre in un’atmosfera cupa e con ritmo lento ma avvincente, quasi da noir. Tuttavia la narrazione assomiglia a un segmento isolato su una retta che procede verso l’infinito, senza un vero inizio, senza un finale (a meno che il pallido tentativo di una redenzione non possa essere definito tale), tanto che lo spettatore coriaceo, già rotto a tutte le spettacolari efferatezze barbariche della modernità, forse per difesa, forse per vendetta, forse per mascherare il proprio torpore mentale sotto una coltre di cinismo, si sente portato a canticchiare col vecchio Vasco: “Voglio trovare un senso a questo film, anche se questo film un senso non ce l’ha”.

]]>
Modelli e topoi della donna pirata (8) https://www.carmillaonline.com/2021/08/28/modelli-e-topoi-della-donna-pirata-8/ Sat, 28 Aug 2021 20:40:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67880 di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

 

Le ultime filibustiere (dagli anni Settanta al nuovo Millennio)

 

In realtà negli anni Settanta il cinema d’avventura ‘classico’ sta ancora proponendo titoli egregi, basti pensare – proprio in tema salgariano – alle produzioni dirette da Sergio Sollima, con la migliore delle trasposizioni del ciclo indo-malese mai apparsa, cioè lo sceneggiato televisivo Sandokan, 1976 – donde vari seguiti più o meno concatenati[73] – e un apprezzabile Il Corsaro Nero, sempre del 1976: in entrambi i casi la protagonista [...]]]> di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

 

  1. Le ultime filibustiere (dagli anni Settanta al nuovo Millennio)

 

In realtà negli anni Settanta il cinema d’avventura ‘classico’ sta ancora proponendo titoli egregi, basti pensare – proprio in tema salgariano – alle produzioni dirette da Sergio Sollima, con la migliore delle trasposizioni del ciclo indo-malese mai apparsa, cioè lo sceneggiato televisivo Sandokan, 1976 – donde vari seguiti più o meno concatenati[73] – e un apprezzabile Il Corsaro Nero, sempre del 1976: in entrambi i casi la protagonista femminile è interpretata da un’incantevole Carole André. Ma se mai una versione di Jolanda viene presa in considerazione da Sollima, nei fatti il tema della piratessa non ha sviluppo: la stagione d’oro è ormai passata.

Come conferma in fondo la vicenda del più celebre dei film mancati di questo filone, progettato in Inghilterra agli inizi degli anni Settanta: sto parlando di Mistress of the Seas, in assoluto tra i titoli più noti di quel ricco fondo di pellicole irrealizzate dalla casa britannica Hammer di cui i cultori hanno pazientemente ricostruito la storia[74].

Il punto di partenza è l’omonimo novel di John Carlova sulla vita di Anne Bonny, da cui Val Guest riscrive nel 1972 una prima versione per lo schermo: la vicenda storica viene riletta liberamente (vi è immesso anche Barbanera, come del resto in Anne of the Indies) e si medita di affidare il ruolo principale a Raquel Welch. Michael Carreras della Hammer sarebbe il produttore, ma la Universal – che dovrebbe sostenere la casa britannica – rifiuta il progetto. Di cui restano almeno alcune locandine, a opera – come spesso per la Hammer – del grande illustratore Tom Chantrell, e che ci fanno rimpiangere il mancato varo. Una di esse – ne esistono due versioni quasi uguali – mostra una figura femminile un po’ discinta e armata su un corrusco sfondo rosseggiante, con uno scontro di navi lontane su cui garrisce enorme il Jolly Roger: il titolo Mistress of the Seas in grandi lettere a stampatello, ondulate come se fossero scritte sull’acqua, occupa tutta la metà inferiore del manifesto. Ma un altro, con lo strillo «The true story of Anne Bonney who slashed her way to fame and fortune alongside the most dreaded scourges of the Caribbean!», sembra più emblematico dei contenuti, mostrando oltre al solito titolo ondulato – più piccolo, in basso – una serie di bozzetti di scene del film. Certo solo virtuali, perché Chantrell lavora in anticipo sulle indicazioni offerte dalla casa produttrice, e anzi per attrarre interessi finanziari al progetto: ma che comunque suggeriscono almeno qualcosa della trama. Il primo piano – porzione destra – è occupato dalla figura eretta di Anne (riconoscibile la prevista interprete Raquel Welch), camicia annodata a coprire i seni, cinturone su una specie di perizoma, stivali ai piedi e armi nelle mani: e qui sembra fare irruzione nel cinema lo stereotipo provocante oggi tanto condiviso nell’immaginario popolare. In secondo piano nel manifesto ci sono i citati bozzetti: per cui vediamo, da sinistra, uno scontro navale, poi una figura femminile, plausibilmente Anne, trascinata al capestro, e la stessa Anne che sollevandosi nuda da un letto – ma velata dalle coperte che stringe – punta la pistola; seguono una scena di fustigazione da parte di Anne, un’immagine di pirati alle prese con un cannone, un viso maschile con benda sull’occhio (Barbanera?), e infine una figura nuda – forse ancora Anne – reclina su un’altra. La dimensione erotica è insomma abbastanza evidente.

Comunque Guest e Carreras non si arrendono, e nel 1979 riprendono in esame l’idea che sembra promettente: Anne dovrebbe essere interpretata stavolta da Caroline Munro, ma il crollo della Hammer blocca tutto.

Pochi anni dopo, nel 1982, si riparte. A riconsiderare il progetto – riscritto dallo stesso Guest, e reintitolato stavolta Pirate Annie – sono il produttore John Derek e la celebre, pettoruta moglie Bo candidata al ruolo principale, che effettuano un giro di perlustrazione di possibili set tra le isole greche. Per la parte di Rackham si pensa a Klinton Spilsbury, mentre finanziatrice sarebbe la cbs Theatrical: ma disaccordi sul budget – più che su divergenze artistiche, come comunicato – fermano ancora il film.

A riprendere in seguito l’idea è la Columbia, col produttore Jon Peters e il regista Paul Verhoeven: e stavolta si medita di girare il film proprio nei Caraibi. Si tratterebbe però di una versione R-rated, riscritta da Michael Christofer, e «as graphic as it can» – così Verhoeven, secondo cui il titolo dovrebbe suonare The Sexual Adventures and Erotic Escapades of Anne Bonney. Contenuto ‘caldo’ confermato dalle testimonianze della prevista protagonista, Geena Davis, che per la parte deve imparare a duellare, cavalcare, cavarsela in acqua. Dietro pressioni della Columbia, il progetto viene però ricalibrato su una storia più tradizionalmente d’amore, il classico triangolo tra Anne (ripensata come una sorta di Scarlett O’Hara in versione marinara) e un paio di figure di pirati; e visto che per uno dei ruoli è in lizza Harrison Ford, l’idea è di aumentare il peso del relativo personaggio a danno di quello della protagonista. Si prevede l’uscita nel 1994: ma poi le solite, diplomatiche divergenze artistiche sono annunciate a motivo prima dell’abbandono di Verhoeven, cui subentrerebbe per pressioni della protagonista l’allora marito Renny Harlin, poi dell’abbandono della medesima Davis (insoddisfatta del ridimensionamento della propria parte) con ritorno di Verhoeven. Il produttore Peters valuta allora le possibili sostitute: si parla di Jodie Foster, Laura Dern, Sharon Stone; e in ultimo la prescelta Michelle Pfeiffer, perplessa per la quantità di nudi richiesti, finisce col ritirarsi. Il progetto pare insomma affossato.

Eppure non è ancora finita: un breve script piratesco di Michael Frost Beckner e James Gorman raggiunge la Carolco Pictures e stavolta viene offerto proprio a Renny Harlin. Raynold Gideon e Bruce A. Evans lo riscrivono, Geena Davis ritorna al ruolo di piratessa – che le viene allargato apposta da Susan Shilliday – mentre per il partner maschile fioccano i rifiuti finché non accetterà Matthew Modine. Il set stavolta si sposta tra Malta, la Tailandia e gli inglesi Pinewood Studios; e il risultato è il divertente e un po’ vacuo Cutthroat Island (Corsari), 1995, una produzione Francia/Germania/Italia/usa che quasi sintetizza così sul fronte dei finanziamenti la storia delle produzioni sulle piratesse. A firmare la sceneggiatura sono Robert King (che in un mese deve ricostruire la storia allargando ancora un po’ la parte della protagonista) e Marc Norman; e pare venga pagato anche il pur uncredited Val Guest, a far supporre qualche parentela tematica con le sue originali scritture per la Hammer – «non per suggerire che Cutthroat Island sia una versione finale di Mistress of the Seas, ma che c’erano elementi di esso nel film uscito»[75]. Nei fatti però il regista sta soprattutto costruendo una storia su misura per sua moglie, la statuaria Geena Davis nei panni di Morgan Adams, figlia del pirata Black Harry (Harris Yulin).

Giamaica, 1668: dopo aver rischiato il patibolo in seguito a una notte d’amore con un tenente britannico deciso in realtà a consegnarla al Governatore – sorta di citazione di altre pellicole già citate – Morgan apprende che il padre è stato rapito dal pessimo fratello Dawg Brown (Frank Langella, l’ex-Dracula del film omonimo di John Badham, 1979), che minaccia di ucciderlo come ha già fatto con un altro congiunto. Il tutto per metter le mani sulla mappa di un tesoro spagnolo: Morgan tenterà dunque rocambolescamente di salvare il genitore, che però ferito a morte le lascia la propria nave Morning Star e relativo equipaggio, e si fa rasare la testa dove reca tatuata una parte della famosa mappa. Asportato lo scalpo, la nostra eroina scopre però dal letterato John Reed (Maury Chaykin), che viaggia con lei, che la mappa è redatta in latino: occorre trovare qualcuno in grado di tradurlo, e per questo si reca a Port Royal dove compra all’asta come schiavo – citazione da Capitan Blood – il belloccio ed erudito William Shaw (Matthew Modine), condannato a quella pena per furto. William è affascinato da Morgan, ma inizialmente non è vero il reciproco; comunque la traduzione è presto compiuta. Poi Morgan riesce a recuperare anche la seconda metà della mappa – il completamento dell’atlante del tesoro costituisce un altro topos del romanzo d’avventura – da un altro zio, Mordechai (George Murcell), prima che Dawg, che ha la terza parte, faccia fuori anche lui. Infine, raggiunta l’isola Cutthroat (nome parlante: “tagliagole”) indicata dalla mappa, tra infinite avventure e difficoltà Morgan otterrà l’oro spagnolo, ricambierà l’amore di William e riuscirà anche a cavarsela nell’ultimo scontro con Dawg, per l’occasione trascinatosi dietro la marina britannica. A questo punto,

 

[r]icordare La regina dei pirati è inevitabile: come capitan Provvidenza, Morgan è una donna pirata che opera nei Caraibi; come lei ha un rapporto di dipendenza o di parentela con un pirata «duro», zio o padre adottivo (Barbanera, nel film di Tourneur, e qui Dugw [sic] Brown). Tuttavia mentre in Tourneur motore dell’azione, pervasa da un afflato poetico di indubbia bellezza, era la sessualità, qui è soltanto un volgare scambio di ruoli: Geena Davis interpreta una parte che il cinema classico riservava agli uomini. […] E si inganna chi crede che questo sia un modo per diventare protagoniste del cinema d’avventura, da parte delle donne: qui si narra sempre la stessa storia, raccontata peggio, con l’unica differenza che Morgan è, per capriccio degli sceneggiatori, una donna, e per calcare il tono la si rende più litigiosa, audace, fanfarona e insolente di quanto non fossero gli uomini[76].

 

Nonostante venga così stroncato dalla critica, Cutthroat Island è un film divertente e veloce, giocosamente sontuoso e amabilmente prevedibile: un simpatico fumettone con due personaggi senza spessore psicologico ma belli di aspetto, e un allegro carnevale di inseguimenti, duelli, carognate e quant’altro si possa attendere da una storia popolare di caccia al tesoro. Dal punto di vista dell’evoluzione di un mito, può anche essere ravvisabile qualche intrigante eco salgariana: non solo Morgan ha per nome di battesimo quello che Jolanda porterà per cognome una volta sposata; non solo il nome del padre Black Harry trattiene la nerezza del Corsaro papà; ma c’è persino la presenza di un colore, il bruno, nel nome dello zio (Dawg Brown) come nei soprannomi degli zii di Jolanda (il Corsaro Rosso, il Corsaro Verde). D’altra parte ancora una volta la tenuta della piratessa – in  maniche di camicia, stavolta più plausibilmente stazzonata e sporca – rimanda sul piano visivo a un’intera serie di progenitrici su schermo: e il fatto che il costumista sia l’italiano Enrico Sabbatini, per una coproduzione che interessa anche il paese di Salgari, avalla credibilmente un nesso.

Certo, il rovinoso flop del film, definito quello con maggiori perdite della storia del cinema, travolgerà la Carolco Pictures: ma i guasti di una sconsiderata gestione economica (spese senza senso, per esempio, per i divi della troupe), e di una distribuzione infelice per i ritardi della post-produzione e l’uscita a Natale di «un blockbuster senza una corposa campagna di marketing [, il che] equivale a un suicidio commerciale»[77], problemi cioè di quella singola opera e non di un filone avventuroso in quanto tale, faranno in seguito guardare con sospetto dai produttori qualunque progetto di film analogo. Ostacolando all’inizio la stessa operazione Pirates of the Caribbean – poi invece tanto fortunata – e, forse, contribuendo a una rarefazione in quella saga della dimensione genuinamente ‘piratesca’ a vantaggio di una più libera componente fantastica.

Interessante peraltro un’altra motivazione offerta oggi da Harlin per spiegare il flop di un film cui pure resta affezionato, e la cui lavorazione era «andata liscia come l’olio»[78]. Spiega infatti che «al pubblico non piacque l’idea di un film di pirati con una protagonista femminile. […] non voglio negare i miei errori e credo che con un protagonista maschile il film avrebbe avuto maggiori chance di successo»[79]. È un’interpretazione corretta? Difficile dire, anche se è possibile che il pubblico delle famiglie delle grandi sale americane – quello in fondo cui deve soprattutto mirare Harlin con tale prodotto – nel 1995 non sia pronto per un simile modello.

Sarebbe però sbagliato immaginare che negli anni successivi a Cutthroat Island i pirati scompaiano: e merita citare almeno un esempio di piccola produzione sul tema. Joe D’Amato (al secolo Aristide Massaccesi) è certo più noto come regista di horror splatter, erotici e pornografici che non di avventura; eppure tra gli oltre duecento titoli della sua strabordante filmografia, e nell’anno stesso della sua morte, risulta anche un film di pirati: l’italiano I predatori delle Antille, 1999, prodotto da Gianfranco Romagnoli per Idra Music e girato a Budapest. Certo, nonostante la locandina con una bellona (s)vestita da piratessa, non si può definire propriamente tale la protagonista Elena Hamilton (Anita Rinaldi, come Anita Skultety o Skulteti), una lady britannica che, a dispetto del proprio rango, ingaggia un pirata partecipando alle sue azioni. Deve poi fronteggiare un Rackham (nell’elenco personaggi citato come Rachman: Henrik Pauer) omonimo del partner di Anne Bonny – salvo il fatto che si chiama George e non John; e comunque nella storia, in un ruolo minore, non mancano una donna pirata, Pilar (Venere Torti) e il solito tormentone del vestito.

L’amatissimo marito di Elena, Sir Francis Hamilton (Menyhért René Balog-Dutombé, riportato come Menyhert Dutombe), è un diplomatico con mandato da parte di Carlo II per trattare in Giamaica coi francesi in funzione antispagnola. Giunto nelle Antille, cade però in un agguato teso dal temuto Rackham, che stermina l’equipaggio e chiede un riscatto molto alto per il nobile prigioniero – così alto che la moglie non riuscirebbe a pagarlo, mentre il re non intende cedere al ricatto. Delusa, Elena contatta un capitano che conosce bene i Caraibi, tale Graham (Zoltán Kiss), e questi le fa il nome di Thomas Butler (Carlo De Palma), detto ‘il Pirata gentiluomo’, passato alla pirateria dopo un delitto e considerato l’unico che forse potrebbe aiutarla. Sulla nave di Graham, e con un lasciapassare per le colonie firmato dal re, Elena raggiunge così la Tortuga; e in una locale taverna, per attirare l’attenzione dell’abbrutito Butler, non esita a togliersi le mutandine e salire sul tavolo iniziando a danzare. Cercando di barcamenarsi tra il greve corteggiamento di Butler e la gelosia della sua amichetta Pilar, Elena arriva a promettersi al pirata pur di averne l’appoggio per recuperare il coniuge. Considerato il resto della produzione di D’Amato (qui accreditato come David Hills), i pochi minuti di scene di nudo, di sesso o anche solo ammiccanti come queste – e che hanno talora giustificato l’etichetta commerciale di «erotico» – appaiono curiosamente castigati.

Raggiunta Antigua, il covo di Rackham, Butler – che con lui ha un vecchio conto – scende sull’isola con un compagno e le due donne: e mentre loro stornano l’attenzione delle sentinelle, riesce ad apprendere che il diplomatico prigioniero è stato condotto a Maracaibo. Arruolata allora una squadra di specialisti – compreso un improbabile esperto orientale di arti marziali Kato (come quello dell’Ispettore Clouseau) – Butler punta sulla città, dove il governatore Don Diego de la Vega (come lo Zorro marca Disney[80]) non si è bevuto le giustificazioni fasulle addotte da Sir Francis circa lo scopo della sua missione, e ordina di torturarlo. Rackham arriva poco dopo, scopriamo che lavora per la Spagna, e incassa da Don Diego una cifra – in realtà minore dello sperato – per la cattura dell’inglese.

In un ultimo confronto con Elena, Pilar racconta di aver abbandonato a sedici anni famiglia e casa in Giamaica per seguire Butler: Elena chiarisce allora di essere interessata solo al proprio marito e le regala uno dei propri abiti. Poco dopo ‘il Pirata gentiluomo’ cattura un vascello olandese per avvicinarsi a Maracaibo senza dare nell’occhio; e durante l’arrembaggio anche Pilar combatte con ferocia a colpi di pistolone. Fingendosi olandesi, i nostri arrivano così in città dove sono ricevuti con apparente cortesia dal governatore – che però poi ne ordina l’arresto. Dopo vana resistenza i pirati (traditi da un membro della squadra) sono così incarcerati, salvo le due donne finite nelle grinfie di due vogliosi spagnoli.

Mentre però tra le mura e la nave pirata – dove Butler non è tornato nel tempo pattuito – si accende uno scambio di cannonate, Elena riesce a puntare un pugnale alla gola del lubrico Don Diego, costringendolo a liberare i prigionieri, compreso Sir Francis, e infine freddandolo con un colpo di pistola mentre tenta la fuga. Ma anche Pilar ha sparato al suo aggressore, e alla ritirata precipitosa del gruppo verso la nave segue l’esplosione del palazzo di Maracaibo, minato dall’artificiere della squadra. Pilar – vestita come una dama – ha ormai riconquistato l’amore di Butler, ed Elena (non più costretta a mantenere la promessa sessuale al capitano) ha salvato il marito. Se la sceneggiatura è di un candore fumettistico da adolescenti, il livello della recitazione praticamente amatoriale, il numero di comparse limitato e il ritmo a tratti soporifero, I predatori delle Antille suscita nondimeno un senso di sgarrupata simpatia per l’approccio artigianale con cui il tema è trattato.

Del 1999 è anche una fantasiosa ripresa italo-spagnola a cartoni animati del personaggio salgariano, Jolanda. La Figlia del Corsaro Nero, coprodotta da rai Fiction, Antena 3 Televisión e brb Internacional, in ventisei episodi[81], serie ideata da Claudio Biern Boyd, con musiche dei fratelli Guido e Maurizio De Angelis, che sotto il nome Oliver Onions avevano già firmato le memorabili colonne sonore delle menzionate escursioni salgariane di Sollima.

Ma a cambiare davvero le cose sarà l’uscita nel 2003 di Pirates of the Caribbean: The Curse of the Black Pearl (La maledizione della prima luna), rafforzata da una serie divertente di sequelDead Man’s Chest (La maledizione del forziere fantasma), 2006; At World’s End (Ai confini del mondo), 2007; On Stranger Tides (Oltre i confini del mare), 2011; Dead Men Tell No Tales (altresì noto come Salazar’s Revenge, La vendetta di Salazar), 2017[82] – che riproporranno robustamente i pirati all’immaginario collettivo anche in termini di marketing, ridando spazio, sia pure in forme molto libere, alla figura della donna pirata. Tornano così anche le nostre due eroine: Anne Bonny (interpretata da Clara Paget) compare per esempio nella vivace serie televisiva americana Black Sails, prima stagione 2014 (le successive tre 2015-2017), ambientata a New Providence e pensata come prequel alle vicende del romanzo stevensoniano Treasure Island; mentre con l’amica Mary è presente nel lungometraggio d’animazione giapponese Meitantei Konan – Konpeki no Jorī Rojā (Detective Conan: L’isola mortale), 2007, con il Jolly Roger già evocato nel sottotitolo originale («Jorī Rojā»), e nel videogioco Assassin’s Creed IV: Black Flag, pubblicato nel 2013. Per non parlare di citazioni dirette attraverso canali diversi di entertainment, si pensi alla Anne Bonny dei giochi di ruolo Atlantica Online, o in testi musicali come la canzone Anne Bonny degli statunitensi Death Grips (nell’album Government Plates, 2013); o persino di liberissime riletture come nel personaggio di Jewelry Bonney dell’anime One Piece derivato dall’omonimo manga – l’uno e l’altro felicemente in corso. Quanto al documentario televisivo americano True Caribbean Pirates (Pirati dei Caraibi – La vera storia) di Tim Prokop, 2006, che ricostruisce con interviste a storici e scene da docufiction l’epopea di alcuni tra i pirati più noti al grande pubblico, non manca una parte su Mary & Anne – interpretate rispettivamente da Kimberly Adair e Michelle Michaels. Fresca di realizzazione è poi la docuserie The Lost Pirate Kingdom di Netflix, sceneggiata da David McNab e Patrick Dickinson, diretta da Stan Griffin, Justin Rickett e dallo stesso Dickinson, 2021, con Derek Jacobi come narratore, che, partendo dal 1715, sviluppa una storia della pirateria. Mia Tomlinson vi interpreta Anne Bonny, e Jack Waldouck è Rackham.

Per venire a un film molto diverso, la commedia inglese St Trinian’s 2: The Legend of Fritton’s Gold (St. Trinian’s 2 – La leggenda del tesoro segreto), 2009, per la regia di Oliver Parker e Barnaby Thompson. Al termine, le scatenate studentesse della più improbabile istituzione scolastica britannica appaiono in galeone sul Tamigi, a strappare al villain l’unico manoscritto esistente di Queen Lear – presunta ultima opera shakespeariana, che dimostrerebbe non solo una coincidenza dell’identità del Bardo con il pirata Fritton, antenato della proprietaria, ma soprattutto il fatto che fosse una donna: e a loro volta sono vestite da piratesse. A traghettare idealmente all’epoca nostra quel modello delle Defenders of Anarchy (così il titolo di uno dei due singoli registrati dal gruppo pop Girls Aloud per la colonna sonora del precedente St Trinian’s, 2007) che Mary e Anne avevano in qualche modo vagheggiato d’incarnare.

 

 

Conclusione. E quelle che vanno per mare

 

Per gli anni successivi alle Temerarie Due, i dati in nostro possesso riportano anzitutto un altro paio di casi di donne in equipaggi di navi pirata, entrambi in Virginia: Mary Harvey (o Harley, o Farlee), processata nel 1726, ma a differenza dei compagni mandata poi libera, e Mary Crickett (o Crichett), spedita alla forca nel 1729:

 

Non è dato sapere se queste due donne si fossero travestite per diventare pirata, né se siano state indotte a ciò dai racconti su Anne Bonny e Mary Read. Comunque, la presenza delle quattro donne tra i pirati è venuta alla luce solo perché le loro navi sono state catturate. È possibile quindi che sulle navi pirata le donne abbiano avuto più spazio di quanto ne trovassero, all’epoca, sui mercantili o sui vascelli militari. In ogni caso, tale spazio, benché modesto, è esistito solo perché creato da un’attiva ribellione femminile[83].

 

Gli annali riportano poi i nomi di Flora Burn, attiva verso la metà del secolo sulla costa orientale del Nord America; e di Rachel Wall, piratessa negli anni 1781-82, finita sulla forca nel 1789 (sarà anzi l’ultima donna giustiziata in Massachusetts). Nel XIX secolo, l’elenco – ma si tratta solo dei casi più noti – prosegue coi nomi dell’ultima piratessa svedese, Johanna Hård, delle australiane Charlotte Badger e Catherine Hagerty, di Margaret Croke (tutte dei primi decenni del secolo), e dell’americana Sadie Farrell, conosciuta come Sadie the Goat (1869); mentre nel XX secolo la parte del leone (o della leonessa) se la conquistano le disinvolte signore cinesi già citate. Gli studi – specie sulle dinamiche sociali sottostanti il fenomeno – ovviamente continuano[84].

Ma accanto a questi profili storici ne fioriscono infiniti altri tra leggenda e fiction, come la plausibilmente immaginaria Charlotte de Berry (nata – si dice – nel 1636, ma menzionata per la prima volta nel penny dreadful di Edward Lloyd History of the Pirates, 1836) e quella Geraldine ‘Gunpowder Gertie’ Stubbs (inglese, nata in ipotesi nel 1879) emersa per un pesce d’aprile in un giornale canadese, poi portata sulle scene teatrali e a volte creduta un personaggio storico. C’è poi naturalmente tutta la lunga serie di predatrici immaginarie che popola i più vari tipi di storie, comprese – abbiamo visto – quelle trame di videogiochi o di giochi di ruolo dove le stesse Mary & Anne garantiscono qualche presenza.

In effetti la figura della piratessa sedimenta ormai una certa varietà di spunti simbolici, dalle provocazioni feticistiche della donna che si fa uomo – ma non troppo – fino a una più generale scelta controculturale. Qualcosa che da un lato attiene a una maschera mitica, un archetipo che può facilmente volgere in stereotipo: e da questo versante, come abbiamo visto, la sincretizzazione grazie al cinema di due diversi modelli di donna pirata, quello picaresco di Mary & Anne e quello romantico di Salgari, conduce in ultimo ai citati bozzetti di DeviantArt. Si tratti di declinazioni più intriganti o invece più volgari, tale maschera può comunque vantare un certo impatto sul nostro immaginario.

Ma d’altro canto, proprio attraverso il paradosso di scelte controcorrente, fuori da qualunque sistema (persino quello piratesco, che in generale interdiceva alle donne l’accesso alle navi), le singole figure di women in piracy mantengono un più interessante livello di provocazione. In società grevemente androcentriche, queste donne sono figure di un’esplorazione – in termini liberissimi e variegati, sia pure con alcune costanti – di vie alternative a quelle prefissate da un destino sociale. Lo sono Mary, Anne e le loro colleghe meno note, che hanno spesso pagato care le proprie scelte; ma lo è in fondo, in termini più morbidi, la stessa immaginaria Jolanda. Che, aggregandosi alla feccia dei mari, ricorda ai giovani lettori di un’Italia ormai unita – e già intampata tra scandali, trasformismi e crolli d’ideali – le trasgressioni delle eroine risorgimentali e i loro sogni di libertà: un punto virtuale per ripartire, e mettere magari sotto assedio in vista di un futuro diverso le Panama in cui ci tocca campare.

 

[73] La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa!, 1977 (film); Il ritorno di Sandokan, 1996 (sceneggiato); Il figlio di Sandokan, 1998 (miniserie).

[74] Mi appoggio qui al fondamentale testo di Glen Davies (compiled by), Last Bus To Bray: The Unfilmed Hammer, 2 voll., Des Moines, Little Shoppe of Horrors, 2010, e in particolare al vol. II (Decline, Fall & Rebirth – 1970-2010), pp. 25-28.

[75] Davies (compiled by), Last Bus To Bray, vol. II, cit., p. 28.

[76] Latorre, Avventura in cento film, cit., p. 340.

[77] Così il regista nell’«intervista-carriera» rilasciata nel 2013 a Neuchâtel a Manlio Gomarasca (Renny Harlin the king of action, “Nocturno”, dicembre 2013, pp. 86-93, in particolare p. 91).

[78] Ibidem.

[79] Ibidem.

[80] In un altro punto del film si presenta però come Don Edoardo de la Vega, forse per una dimenticanza dello sceneggiatore.

[81] Per gli anni successivi va segnalato anche lo sceneggiato radiofonico Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, in onda dal 27 marzo al 28 aprile 2006 su rai Radio 2, a cura di Emma Caggiano, diretto da Arturo Villone, scritto da Giovanna Gra e Veronica Pivetti, quest’ultima anche interprete del ruolo principale.

[82] Per le voci su probabili seguiti, ci limitiamo a quanto già detto all’inizio.

[83] Rediker, Canaglie di tutto il mondo, cit., p. 121.

[84] Basti citare il testo di John C. Appleby, Women and English Piracy, 1540-1720: Partners and Victims of Crime, Woodbridge (Suffolk)-Rochester (ny), Boydell Press, 2013.

 

 

 

 

 

]]>
Modelli e topoi della donna pirata (7) https://www.carmillaonline.com/2021/08/21/modelli-e-topoi-della-donna-pirata-7/ Sat, 21 Aug 2021 20:40:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67791 di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

 

Jolanda meets Mary & Anne (1952-1967)

 

Nello stesso 1952 e sull’onda del successo internazionale su schermo (a colori) di pirati e piratesse, anche l’Italia torna però a farsi sentire: e con un deciso salto di qualità rispetto ai fumettoni precedenti, visto che l’elegante bianco e nero di Jolanda, la figlia del Corsaro Nero diretto da Cesare Olivieri e Mario Soldati, su sceneggiatura di Ennio De Concini e Ivo Perilli, pur nascendo come prodotto di consumo, ha effettivamente una marcia in più [...]]]> di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

 

  1. Jolanda meets Mary & Anne (1952-1967)

 

Nello stesso 1952 e sull’onda del successo internazionale su schermo (a colori) di pirati e piratesse, anche l’Italia torna però a farsi sentire: e con un deciso salto di qualità rispetto ai fumettoni precedenti, visto che l’elegante bianco e nero di Jolanda, la figlia del Corsaro Nero diretto da Cesare Olivieri e Mario Soldati, su sceneggiatura di Ennio De Concini e Ivo Perilli, pur nascendo come prodotto di consumo, ha effettivamente una marcia in più in termini di intelligenza, cultura e malizia. Produttori (senza sciali, ma con ottimo risultato) sono Dino De Laurentiis e Carlo Ponti, usciti dalla Lux Film che comunque distribuirà il film; e le riprese sono condotte negli studi Ponti-De Laurentiis – a parte le scene in navigazione, girate su una mezza nave inchiodata alla spiaggia di Palo, che imporrà un trattamento un po’ delicato da parte degli attori. Il film viene girato in contemporanea e sugli stessi set con un altro di Soldati pure tratto da Salgari, I tre corsari, 1952, che nei fatti costituisce il prequel.

Benché di Salgari vengano rispettati lo stile e la vivacità di fondo, grazie alla rilettura di Soldati e degli sceneggiatori nella trama piratesca irrompe la provocazione, spingendo a una radicale decostruzione del romanzo. A partire dal fatto che qui Jolanda (May Britt, che la produzione tenta di imporre come nuova Greta Garbo) è stata accolta piccolissima tra gli zingari ed educata come un maschio, formazione alle armi compresa: un quadro – il contesto picaresco, il travestimento da uomo – che l’avvicina alle colleghe ‘popolari’ Mary e Anne piuttosto che all’aristocratica di Salgari, e comunque più alle Mary & Anne di Johnson che ai modelli americani (che intendevano il sembiante maschile come un atteggiamento di durezza, più che un camuffamento). In seguito al fortunoso salvataggio della sua carrozza dalle mani dei briganti, la bella Consuelo (Barbara Florian), figlia del conte di Medina Van Gould, s’invaghisce di colei che crede uno spadaccino maschio: non è chiaro come ciò sia possibile perché i tratti di Jolanda sono inequivocabili, ma lei ritiene utile non smentire (limitandosi a commentare che Consuelo potrebbe «avere una sgradita sorpresa») e comunque accetta l’anello-lasciapassare che l’altra le offre. Però, in seguito allo scontro coi briganti, il tutore di «Jolly»[69], il paterno Sam, è rimasto ferito a morte, e le racconta la verità sulla sua origine: è figlia del Corsaro Nero, il conte di Ventimiglia, ucciso a tradimento dallo stesso padre di Consuelo. L’uomo avrebbe anzi voluto far sopprimere la piccola, ma – come nelle fiabe e, già prima, nel sofocleo Edipo re – l’incaricato del crimine, appunto Sam, l’aveva salvata; e c’è anche un tesoro di cui ora le passa la mappa perché lo recuperi.

Chiusa a questo punto la prima fase, picaresca, si passa alla seconda, nel segno della pirateria: Jolanda, in cerca di giustizia, di vendetta e naturalmente del tesoro, ritrova i vecchi compagni del padre, si innamora riamata del figlio di Morgan, Ralf (Renato Salvatori – una soluzione che permette di rispettare maggiormente il profilo dello storico Henry Morgan) e sbatte il naso contro le ambiguità della politica quando Van Gould, nel contesto della firma della nuova pace tra Spagna e Inghilterra, carpisce con un trucco il permesso di far arrestare i pirati presenti a Maracaibo. Ma la ragazza, che non si è accodata ai filoinglesi, sfugge all’arresto e raggiunge l’innamorata Consuelo per rapirla ed effettuare uno scambio di prigionieri: l’ironico, pungente insistere sul tema del genere – la sequenza della festa «costruita in funzione dell’ambiguità sessuale»[70], gli sguardi scambiati e l’occhiolino di Jolanda, il minuetto di corteggiamento, i discorsi sull’amore al chiaro di luna – rimarca il tema del travestimento dell’eroina e le relative dinamiche innescate sul piano erotico. Jolanda prende così Consuelo in ostaggio (continuando, si noti, a fingersi un uomo, e simulando di voler chiedere la sua mano): ma una certa disattenzione durante lo scambio permette a Van Gould di catturarla. Il vilain la crede un uomo al corrente dei segreti del palazzo, e tenta invano di farsi rivelare la collocazione del tesoro. Ordina dunque di frustarla, e allo spettatore non sfugge che è legata esattamente come la statua del Cristo presente nella sala: un’associazione un po’ torbida di sacro e profano cui corrisponde l’altra parallela nel convento, pieno di immagini sacre, in cui i pirati liberati cercano di resistere agli spagnoli.

All’inizio la scena è evocata solo dal suono dello staffile e dai gemiti di Jolanda; ma quando Van Gould le strappa la camicia per sottoporla a ulteriori sevizie, finisce col rivelare per un attimo «i primi seni nudi del cinema italiano del dopoguerra»[71]. Con delusione della sconvolta Consuelo, Van Gould capisce ora che si tratta di Jolanda e sta per ucciderla quando viene ferito: l’intervento di Morgan padre ha capovolto nuovamente la situazione. Van Gould finirà malissimo, alla deriva in un’imbarcazione carica di lebbrosi, su un mare pieno di squali, e in ultimo Jolanda e amici recupereranno il tesoro. Nonostante le differenze dai modelli dei film americani immediatamente precedenti, questa Jolanda in maniche di camicia può richiamare il look della protagonista di Anne of the Indies e prelude a una serie di piratesse abbigliate allo stesso modo negli anni seguenti.

La versione di Soldati costituisce insomma un primo importante passo dell’assimilazione tra l’eroina italica e le colleghe anglosassoni, sul filo di una progressiva riscoperta dei pirati che vede tornare anche la salgariana Neala ne Il figlio del Corsaro Rosso di Primo Zeglio, 1959, interpretata da Vira Silenti: ma il fenomeno verrà rimarcato in modo anche più netto in alcuni film successivi, fino a una sostanziale compenetrazione tra le figure.

A partire dall’italo-tedesco La Venere dei pirati, 1960, di Mario Costa, da un soggetto di Kurt Nachmann e Rolf Olsen rielaborato da Ottavio Poggi, e sceneggiato da Nino Stresa per la Max Production e la Rapid Film: una storia brillante in cui l’impavida Sandra, interpretata dalla bella Gianna Maria Canale (volto noto all’epoca e, fino a pochi anni prima, compagna di Riccardo Freda, che tra l’altro la dirige nell’orrorifico I vampiri del 1957) è una simil-Jolanda. Ma la pellicola ricorda al contempo le avventurose mattatrici del cinema piratesco americano. L’ambientazione è italiana, con l’ipotetico ducato adriatico di Doruzza governato dal vilain Zulian – Paul Müller, non ancora ‘divo’ dei film di Jess Franco – e dalla viperina figlia Isabella – Scilla Gabel, al secolo Gianfranca Gabellini, altro viso notissimo d’epoca in ruoli di belle un po’ ambigue, indimenticabile nel di poco posteriore Mulino delle donne di pietra, 1960, regia di Giorgio Ferroni. In risposta alle loro persecuzioni, la coraggiosa Sandra figlia del capitano Mirko diviene la più celebre piratessa dell’Adriatico, guadagnandosi per avvenenza il soprannome di ‘Venere dei pirati’: come la Jolanda soldatiana (e con il medesimo compiacimento della sceneggiatura) anche lei viene sottoposta ad angherie – incatenata a un muro per essere frustata, imbarcata su una nave di schiave che i pessimi duchi pregustano di vendere per gli harem levantini, e in seguito catturata e condannata alla forca. A salvarla appena in tempo, con l’aiuto dei predoni del mare e dei sudditi ribellatisi a Zulian, sarà l’aitante conte Cesare di Santacroce (Massimo Serato), inizialmente candidato alla mano di Isabella: infiltrato tra i pirati per catturare la ‘Venere’, ne ha appreso la vera storia e ha finito per innamorarsene. E in chiusura Sandra vedrà riconosciuto il suo vero lignaggio dal cattivo duca colpito a morte: ancora una volta, come nella Jolanda di Soldati, si scopre l’origine aristocratica di lei, di cui l’usurpatore aveva ordinato la soppressione, ma il solito sicario – qui il simil-padre Mirko – si è invece preso a carico la bimba. Segue l’ovvio matrimonio tra Sandra, legittima duchessina di Doruzza, e il conte Cesare, con Isabella ormai relegata in convento.

La maschera della ‘donna che si fa uomo’, nel caso della femminilissima Sandra, riguarda la sua abilità di marinaio e di combattente ma anche il modo di vestire, come osserva il padre putativo Mirko all’inizio del film, tentando invano di proporle un abito da dama: «non mi piace più vederti tra la ciurma vestita come un maschiaccio»; al che lei protesta che è stato lui «a insegnarmi a governare il battello, ad arrampicarmi sulle sartie, a tenere una spada in mano». E il candore (improbabile, con quella vita) della camicia che ostenta – e che compare in quegli anni come l’abito connotante eroi ed eroine della pirateria – richiama ancora una volta la Jolanda soldatiana. Battute come «Una spada non ha sesso» (così Sandra ribatte all’Albanese, un pirata che ha appena mugugnato che se fosse stata un uomo l’avrebbe sfidata a duello, venendo poi battuto) possono sembrare aperte a un superamento degli stereotipi – poi invece prontamente confermati dalla scelta di Sandra di vestire da donna quando, sulla nave, vuole far colpo sul conte.

Del resto, con la stessa tenuta in camicia da uomo si presenta, l’anno successivo, una Mary Read rivista e corretta – e finalmente appare anche lei, visto che il mito dell’amica Anne è stato anche troppo sfruttato dal cinema. Le avventure di Mary Read, 1961, segna l’esordio come regista di Umberto Lenzi – poi noto per pellicole di generi piuttosto diversi – ed è anche il primo film italiano di Lisa Gastoni, appunto interprete della protagonista. La sceneggiatura è di Ernesto Gastaldi, Ugo Guerra e Luciano Martino, il produttore Fortunato Misiano e le case di produzione Romana Film e Société Nouvelle de Cinématographie; se poi formalmente ci si ispira alla prima delle due eroine di Johnson, di fatto un riferimento forte è ancora la salgariana Jolanda.

Come in Johnson ma anche nel film di Soldati, una prima parte delle Avventure di Mary Read è ancora a carattere picaresco, con le peripezie dell’eroina eponima che, fingendosi un giovanotto, mette a frutto fortunati colpi come ladra di strada in compagnia del buffo nonno Mangiatrippa. Catturata, finisce in carcere a Londra dove riesce incredibilmente a mantenere la propria identità maschile – salvo che con il compagno di cella, Peter, di cui si innamora. A sua volta questi simula, anche di fronte a Mary, visto che non è un furfante bensì il figlio di tale Lord Goodwin arrestato per equivoco. Il giovane, liberato, fa credere a Mary che lo stiano cambiando semplicemente di prigione: ma quando lei riesce a fuggire scopre la verità e, dopo essersi tolta la soddisfazione di un paio di schiaffoni al mentitore, delusa si arruola come marinaio insieme al nonno sulla nave di capitan Poof, «il più fortunato corsaro del re». Mary è in realtà ormai costretta a mostrare la propria identità femminile, comunque svolge bene il suo lavoro, e sta cercando di resistere alla corte di Poof, quando viene avvistato un vascello spagnolo. Nello scontro che segue il corsaro viene ucciso, e gli Spagnoli hanno la meglio: però Mary, condotta nella cabina del comandante vincitore, riesce a stordirlo con una botta in testa e libera i compagni, che si impossessano della nave. Buttati a mare gli spagnoli, i pirati acclamano Mary come nuovo capitano: allora lei decide di abbandonare la guerra di corsa per predare in proprio, e assume il nome del defunto Poof.

Inizia così, per vendetta, a depredare navi inglesi: e nella prima che cattura trova una giovane, prima ballerina di Luigi XIV, attesa in Florida a una festa del viceré. La ragazza inizialmente non si accorge che Mary, nella giubba imbottita di Poof, è a sua volta una donna; ad ogni modo i vestiti eleganti della prigioniera si rendono utili allorché alla festa è proprio Mary a sostituirla. Con una specie di spogliarello danzato riesce a attrarre su di sé l’attenzione degli invitati, ma quando (ancora morigeratamente vestita: la censura non permetterebbe di fare diversamente) punta la pistola sul viceré, i pirati hanno ormai bloccato la sala e rapinano tutti i presenti.

Mary però non è felice – come nota il giovane pirata Ivan, di cui lei rifiuta la corte, ancora scottata dalla precedente esperienza con Peter. E anzi, quando scopre che alla testa dell’enorme incrociatore inviato per debellare i predoni c’è proprio il figlio di Lord Goodwin, si dirige vendicativa a New Bristol da dove quello deve iniziare la missione. Con un agguato lungo la strada, i pirati bloccano e fanno spogliare il conte di Berry e la sua pupilla: e a sostituirli alla festa del governatore inglese sono Mary e Mangiatrippa. Lì la ragazza rivede Peter, che la abborda senza riconoscerla: ma quando, in giardino, lei si rivela la sua antica compagna di cella, riesce a fargli raccontare il piano approntato per sorprendere i pirati. Catturato allora uno degli sloop della squadra, Mary fa in modo che l’incrociatore di Peter cannoneggi per equivoco nientemeno che la nave del governatore… Il giovane aristocratico, degradato, realizza che solo Mary può aver giocato quel tiro collaborando con Poof: per cui ottiene di poter tentare da solo di rendere la pariglia, e travestito da marinaio (ecco il solito infiltrato) raggiunge la base dei pirati a San Salvador. Riesce anche a salire sulla nave all’àncora e trova Mary nella cuccetta, senza credere che Poof sia lei: ma quando, catturato, ha già la corda al collo, Mary lo fa sciogliere (la solita piratessa che salva il bellimbusto) e lo sfida a duello. Peter ha la meglio, e sarebbe intenzionato – secondo i patti – a consegnare la perdente al governatore, quando iniziano a piovere colpi sulla nave e sull’abitato: gli inglesi attaccano, e Mary stordita è condotta sul loro vascello. Coricata sul ponte e creduta priva di sensi, la ragazza si considera ormai perduta e decide di togliersi l’ultimo sfizio di sparare a Peter: ma, prima di esplodere il colpo, sente che il giovane sta raccontando di aver ucciso Poof in duello e salvato la sua bella prigioniera, guadagnandosi così reintegrazione nel grado e pubbliche lodi. Nell’ultima scena, sei mesi dopo a Londra, Mary è ormai sua moglie.

Quanto ciò disti dalla storia dell’originale Mary è evidente, anche se la bellezza un po’ algida e introversa di Lisa Gastoni può rendere qualcosa delle sghembe timidezze del modello storico. Certo lo stile lieve di tutto il racconto lo inscrive nel modello dell’avventura più candida e quasi fiabesca, priva delle maliziose sottigliezze della Jolanda soldatiana e dello stesso velato sadismo della Venere dei pirati.

WHITE SLAVE SHIP, (aka L’AMMUTINAMENTO), Pier Angeli, 1961

Si era citata Polly: An Opera, di John Gay, 1729 sequel della famosissima Beggar’s Opera, 1728, come protoversione teatrale della storia di una ragazza che si traveste ‘da maschio’ e si fa pirata, con plausibile ispirazione diretta alle gesta di Anne e Mary: ed è interessante notare che del 1961 è anche un film, L’ammutinamento diretto da Silvio Amadio, che sembra ricondurre allo stesso ordine di fantasie. Il tema è quello di varie pellicole d’epoca, storie di navi piene di donne prigioniere – prostitute, vagabonde, carcerate assortite delle prigioni inglesi, naturalmente tutte giovani e carine, quasi una versione “morbida” dei WIP (= women in prison) film – che conoscono avventure sul mare tra coralità di violenze, sadismi di piccolo cabotaggio e amori. A far notare L’ammutinamento è la presenza come protagonista di una prostituta Polly interpretata da Anna Maria Pierangeli, e di Armand Mestral nei panni di Calico Jack, cioè guarda caso proprio il nome del partner (d’affari e di parte di sentimenti) delle Dinamiche Due. Vedervi un omaggio all’opera di Gay è eccessivo, ma è possibile che gli sceneggiatori (Sandro Continenza, Marcello Coscia, Ruggero Jacobbi), dovendo immaginare la storia di un ammutinamento su una nave di donne carcerate, siano andati a pescarsi qualche saggio popolare sulla pirateria trovando un cenno all’archetipica Polly.

D’altra parte Gianna Maria Canale tornerà più dura e grintosa nel 1962 con l’italo-francese La tigre dei sette mari, diretto da Luigi Capuano su soggetto di Nino Battiferri, sceneggiatura dello stesso Capuano, Arpad DeRiso e Ottavio Poggi, quest’ultimo anche produttore per Liber Film, e con distribuzione Euro International Film. Forse non casualmente si chiama Consuelo come un personaggio della Jolanda soldatiana; e a giustificare il ruolo di capitana pirata è non solo il suo stato di famiglia – è figlia del vecchio pirata noto come ‘il Tigre’ – ma anche l’abilità con le armi, che al momento della successione le fa battere persino il fidanzato William. Il padre viene ucciso da Robert, un traditore al soldo del governatore spagnolo Inigo de Cordoba (a sua volta interpretato da un godibilissimo Ernesto Calindri, con Grazia Maria Spina nel ruolo della giovane e machiavellica moglie Anna, entrambi attivissimi nel donare alla storia un piacevole sapore di commedia); e William dovrà dimostrare a Consuelo – che nel frattempo è sfuggita agli spagnoli e preda ferocemente col soprannome di ‘Tigre dei sette mari’ – di non essere l’assassino, come Robert ha tentato di far credere. Per smascherarlo si fa catturare dagli spagnoli, viene liberato da Consuelo, poi sono acciuffati tutti e due ma riusciranno a cavarsela.

Vestita come la Sandra de La Venere dei pirati, in camicia da uomo e stivali – interessante anzi notare il riciclo di stilemi nelle locandine, cfr. immagine qui sotto – , o con giubbe da capitano (a un certo punto si veste anche da ufficiale spagnolo), all’inizio Consuelo si cambia l’abito per rivedere il fidanzato tornato dalla missione, e lo scambio è indicativo di un chiodo fisso degli sceneggiatori: alla battuta di lei che gli appare con la gonna («Guarda, è un regalo di mio padre: ti piace?») William ribatte: «Ti preferisco così, vestita come una donna». Anche se poi lei rifiuta il sogno di suo padre che la vorrebbe gran dama, per vagheggiare piuttosto il comando della nave – e il film termina ironicamente col battibecco tra i due innamorati su chi debba dar ordini sulla nave. C’è d’altra parte il solito topos della forca, da cui William scampa; ma il lieto fine parallelo – garantito dall’astuta moglie del governatore, che ha fatto liberare i pirati a patto di incamerarne il tesoro – suona beffardo. Consuelo, a differenza di Jolanda, non riesce insomma a recuperare l’oro paterno e si unisce con l’amato in un clima di cocciute contrapposizioni, a lasciare sul temerario mondo dei pirati l’ombra di una sostanziale immaturità; mentre il governatore, pur non riuscendo a impiccarli, vede però confermata l’utilità istituzionale del suo ruolo e per sovrapprezzo si tiene l’oro – in una sorta di velatissima e morbida satira che in fondo simpatizza con l’autorità. Come del resto piuttosto prevedibile nel contesto ideologico italiano di quegli anni, al confronto del quale Salgari appare persino eversivo.

A conferma – se mai ve ne fosse stato bisogno – che Gianna Maria Canale figuri in Italia nei primi anni Sessanta come la donna pirata per antonomasia (oltre che mattatrice in una quantità di altri film di genere, soprattutto in costume), la vediamo tornare in maniche di camicia e stivali, spada alla mano, ne Il leone di San Marco di Luigi Capuano, 1963. Dimentichiamo i Caraibi: qui è Rossana, bella piratessa partecipe delle incursioni dei predoni uscocchi contro Venezia, ma esplode l’amore con il campione della Serenissima, Manrico Venier (Gordon Scott): ovviamente entrambi verranno sospettati di tradimento… A conferma di un certo kink, la troviamo a in certo punto incatenata a un muro, ma tutto corre in modo molto morbido tra colori vivaci, scorci lagunari e schermaglie, fino all’ovvio lieto fine. L’ultimo film della bellissima attrice prima del prematuro ritiro sarà ancora di ambientazione veneziana, Il ponte dei sospiri di Carlo Campogalliani (pure al suo ultimo film) e Piero Pierotti, dell’anno dopo, basato su un romanzo di Michel Zevaco. Poi, rimasta temporaneamente lesa al volto per un grave incidente stradale, Gianna Maria Canale si ritira in un’isola – non Tortuga ma Giannutri –, scegliendo l’invisibilità. Tornerà sul continente solo a tarda età, per la mancanza di servizi nell’isola, morendo ottantunenne a Sutri nel 2009.

In ogni caso, il successo del tema piratesco a inizi anni Sessanta può far comprendere meglio il varo di alcune strane scampagnate dei pirati in tv: e in particolare del celebre sceneggiato musicale rai Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, 1961, scritto da Vittorio Metz e diretto da Alda Grimaldi, con le continuazioni Le nuove avventure di Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, 1962, e Giovanna alla riscossa più forte di un bicchiere di gin, 1966. Trasmesso di domenica pomeriggio all’interno della cosiddetta tv dei ragazzi, il programma celebra la figura di Giovanna, «la nonna-sprint più forte di un bicchiere di gin», interpretata da Anna Campori, alla testa di una ciurma di compagni tra i quali spicca il buffo, balbettante nostromo Nicolino (Pietro De Vico); ma nella prima serie appare anche Jolanda, interpretata da Franca Badeschi. Le comiche avventure dell’inusuale eroina nei più vari luoghi della terra ibridano spunti salgariani con altri del genere cappa-e-spada (per esempio, almeno nell’ultima serie, compaiono Cirano e il dumasiano Signor de Tréville): ed è divertente paragonare il mirabolante ascensore che, se la memoria non inganna chi scrive, sposta i personaggi nel tempo e nello spazio, con il coevo tardis, macchina del tempo/astronave in forma di cabina telefonica, apparso già al tempo nelle storie del Doctor Who. Purtroppo la sciagurata prassi rai del tempo di cancellare le registrazioni – almeno quelle non giudicate degne di conservazione per la posterità – priva della possibilità di riavvicinarsi a storie indubbiamente ingenue ma di grande, surreale fantasia[72].

Lentamente però i film sui pirati si diradano: e canto del cigno dell’età d’oro delle piratesse è nuovamente una pellicola americana, The King’s Pirate (Il pirata del re) diretta da Don Weis, 1967, modesto remake del vecchio Against All Flags e basato sul soggetto di Aeneas MacKenzie con sceneggiatura dello stesso MacKenzie, Joseph Hoffman più Paul Wayne, prodotto da Robert Arthur per la Universal. Ancora una volta c’è un ardimentoso ufficiale britannico, Brian Fleming, che si infiltra tra i pirati del Madagascar e si confronta con la bella Jessica Stephens interpretata da Jill St. John: carina, ma non ha certo il carisma di Maureen O’Hara. Il fatto che invece in questo remake appaiano come personaggi alcune figure dell’originaria saga di Libertatia, assenti in Against All Flags (il capitano Mission – da leggersi come Misson – e il compare Caraccioli), confermano un ennesimo e in apparenza più filologico ritorno a Johnson.

[69] Qui come diminutivo di Jolanda, ma l’assonanza col Jolly Roger, la bandiera ‘classica’ dei pirati, pare particolarmente suggestiva: sul tema, cfr. il grande studio di Renato Giovannoli, Jolly Roger. Le bandiere dei pirati, Milano, Medusa, 2011. Intrigante, ai fini della nostra ricognizione, anche considerando che proprio a Rackham si attribuisce talora (a torto) l’invenzione di tale vessillo.

[70] Latorre, Avventura in cento film, cit., p. 196.

[71] Ivi, p. 197.

[72] Sopravvive solo, per una singola puntata, una registrazione in Super 8 di cattiva qualità girata da un attore, e donata alle teche rai dalla protagonista Campori.

]]>
Modelli e topoi della donna pirata (6) https://www.carmillaonline.com/2021/08/14/modelli-e-topoi-della-donna-pirata-6/ Sat, 14 Aug 2021 20:31:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67622 di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

PARTE II

Una spada non ha sesso: gli apocrifi

 

 Definendo un modello (1920-1952)

Fin qui un canone di importanza seminale per l’immaginario moderno sulla donna pirata, in particolare nei paesi anglosassoni e in Italia: ma il gioco delle varianti tra trasposizioni e ispirazioni più o meno dirette condurrà nei fatti a un ricco corpo di – si passi il termine – apocrifi. Dove proprio la contaminazione tra topoi vedrà realizzarsi su grande schermo una sorta di fusione tra i modelli tanto diversi [...]]]> di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

PARTE II

Una spada non ha sesso: gli apocrifi

 

  1.  Definendo un modello (1920-1952)

Fin qui un canone di importanza seminale per l’immaginario moderno sulla donna pirata, in particolare nei paesi anglosassoni e in Italia: ma il gioco delle varianti tra trasposizioni e ispirazioni più o meno dirette condurrà nei fatti a un ricco corpo di – si passi il termine – apocrifi. Dove proprio la contaminazione tra topoi vedrà realizzarsi su grande schermo una sorta di fusione tra i modelli tanto diversi di Mary & Anne da un lato e di Jolanda dall’altro.

Certo, ben prima del cinema c’è il teatro: e sulle scene la prima storia di una ragazza che si traveste ‘da maschio’ e si fa pirata, con plausibile ispirazione diretta alle gesta delle Due, è probabilmente quella di Polly: An Opera, being the Second Part of the Beggar’s Opera, scritta nel 1729. A firmarla è quel John Gay che aveva appunto composto la celeberrima Beggar’s Opera, 1728: e lì già appariva la prostituta Jenny Diver, che in Polly diviene amante del pirata Morano, ma poi si innamora di un altro pirata. Quest’ultimo – ecco il colpo di scena – si rivelerà però Polly travestita: dove la somiglianza con la storia descritta da Johnson è evidente, tanto più per la dialettica polare tra la disinvolta Jenny/Anne e la pudica Polly/Mary.

Frattanto appaiono infiniti racconti di donne pirata in chiave di fiction, e anche le vite di Mary & Anne divengono oggetto di una lussureggiante produzione narrativa che arriva fino a oggi: nell’impossibilità di trattarne in questa sede, basti citare titoli come Mary Read: The Pirate Wench di Frank Shay, 1934, o il più recente Mary Read di guerra e mare di Michela Piazza, 2012[66]. Ma è col cinema che il modello può esprimere le sue potenzialità col massimo impatto sull’immaginario.

Grazie allo straordinario corpus salgariano, nel cinema italiano piratesse e partner di pirati compaiono molto presto. Un po’ di confusione regna nelle fonti tra due Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, 1920 e 1921, per la Rosa Film varata, con la benedizione dei figli di Salgari, proprio per portare sugli schermi le storie del padre: sarebbero diretti entrambi da Vitale De Stefano – il Massinissa di Cabiria – e sceneggiati da Edoardo Nulli, nell’ambito di un ciclo di cinque pellicole tratte dalla saga salgariana dei corsari. Si tratta plausibilmente dello stesso film, interpretato nel ruolo del titolo da Anita Faraboni, o secondo altri da Ketty (rectius Kitty) Watson (attrice americana, 1886-1967, talora identificata in Adele Marinelli) – in realtà le due attrici figurano entrambe nella saga, i cui film però sono tutti perduti. Nella stessa serie figura Gli ultimi filibustieri, 1921, degli stessi regista e sceneggiatore, con l’attrice nota come La Bella Argentina per la parte di Neala.

Affermatosi il sonoro, nel 1940 esce La figlia del Corsaro Verde diretto da Enrico Guazzoni per le Produzioni Manenti, sceneggiato da Alessandro De Stefani e arricchito in ruoli minori dalle caratterizzazioni di Polidor (al secolo Ferdinand Guillaume) e del noto pugile Primo Carnera. Nel film la protagonista Manuela (Doris Duranti, «selvaggia e combattiva», come definita da Osvaldo Scaccia in “Film”, 19 aprile 1941) salva dalla morte Carlos, figlio del governatore infiltrato tra i pirati e da loro scoperto: a riproporre il tema della ragazza che salva l’uomo, ma in particolare – ne vedremo gli sviluppi – l’uomo dell’altra parte (considerato che il Corsaro Verde era stato giustiziato per ordine del padre di Carlos). D’altronde e parallelamente non mancano le ragazze da salvare, come ancora Neala (l’attrice Loredana, all’anagrafe Loredana Padoan) prigioniera del cattivo governatore di Las Palmas ne Gli ultimi filibustieri di Marco Elter, 1943, sequel de Il figlio del Corsaro Rosso degli stessi anno e regista, sceneggiato a più mani (della partita è anche Pietro Germi) e prodotto dalla B. C. Film. Una quasi-corsara,  Donna Consuelo, marchesa di Velasco, appare in La vendetta del corsaro di Primo Zeglio, 1951, interpretata dall’attrice dominicana María Montez, ultimo suo film prima della tragica fine (annegata nella vasca da bagno forse a seguito di attacco cardiaco). E fin qui trame candide, stereotipi a gogò, genuino divertimento senza pretese.

THE SPANISH MAIN, Maureen O’Hara, Paul Henreid, Binnie Barnes, 1945

Ma nel frattempo, al di là dell’Oceano, il ben più corazzato cinema americano ha già portato spesso sugli schermi i pirati. È ovvio che prima o poi dovesse comparire anche il Duo Dinamico del capitano Johnson, che in effetti proprio a metà degli anni Quaranta avvia una propria storia su grande schermo – sia pure separatamente, a partire da Anne. In The Spanish Main (Nel mar dei Caraibi), 1945, diretto e prodotto a vivaci colori da Frank Borzage per RKO Radio Pictures, su soggetto di Aeneas MacKenzie e sceneggiatura di George Worthing Yates e Herman J. Mankiewicz, protagonista è l’avventuroso Laurent Van Horn (sintesi immaginaria, si direbbe, dei due storici pirati Nicholas van Hoorn e Laurens de Graaf): e, dopo una prima fuga dalle carceri spagnole, lo vediamo catturare un galeone su cui viaggia la contessa Francisca (Maureen O’Hara), destinata a sposare il pessimo viceré di Cartagena. Tra pirata e prigioniera nasce qualcosa, ma la piratessa Anne Bonny (Binnie Barnes), prima amante di Van Horn, è pronta a tutto per spedire a Cartagena la rivale: in seguito anzi ai suoi maneggi i pirati sono catturati dal viceré, e Francisca rischia la vita per liberarli. Anne si riscatta finendo ferita mentre protegge le spalle a Van Horn, e benedice la coppia prima di morire; gli altri si salvano e riprendono l’allegra vita di predatori. In questa libera rilettura in technicolor Anne appare non solo come la classica, tragica dark lady hollywoodiana, pronta in nome della passione agli atti più disperati, ma pure una crossdresser un po’ spigolosa e maschile, in giacca rossa e cappello floscio, destinata all’ovvia sconfitta nel paragone con la bellissima avversaria – come lo spettatore già sospetta dal primo duro confronto tra le due donne alla locanda. Non manca la dialettica nevrotica di scontro (Anne che tradisce Van Horn, consegnandolo al patibolo) e salvazione del partner di turno.

THE SPANISH MAIN, Paul Henreid, Binnie Barnes, Maureen O’Hara, Martha Bamattre, 1945

Se il film di Borzage può segnare idealmente l’inizio dell’età d’oro delle Due Toste nel cinema, la vocazione tragica dell’Anne di Hollywood trova conferma in una pellicola di poco successiva. Anne of the Indies (La regina dei pirati), 1951, del grande Jacques Tourneur su sceneggiatura di Arthur Caesar, Philip Dunne ed Herbert Sass, prodotto da George Jessel e distribuito dalla 20th Century Fox, ha per protagonista il temerario capitano Anne Providence (Jean Peters, futura moglie di Howard Hughes – invece della prima interprete destinata al ruolo, Susan Hayward) ma in qualche modo è ispirato proprio alla vita di Anne Bonny. O meglio: alla base c’è una short story apparsa nel 1946 sul “Saturday Evening Post”, Queen Anne Of The Indies (il titolo resterà tra quelli proposti per il film) a firma del citato Sass, che in seguito viene interpellato per trarne un trattamento cinematografico. Lo scrittore si mette all’opera e nel ’48 presenta una versione riadattata della vera storia di Anne Bonny. Poi il tutto sparisce nei meandri degli studios, Sass resta tagliato fuori e, quando il film esce, il risultato è talmente diverso che se non ci fosse il credit al nome dello scrittore non si coglierebbero proprio i collegamenti. È comunque plausibile che il cognome Providence attribuito alla protagonista costituisca un richiamo all’omonima isola delle Bahamas citata da Johnson.

Se The Spanish Main era una godibile avventura con morte finale della dark lady, qui la storia si inabissa nel dramma vero e proprio. Catturando una nave inglese, la capitana Anne Providence trova nella stiva un prigioniero, Pierre François LaRochelle (Louis Jourdan), già comandante di una nave corsara francese. Dopo un iniziale arruolamento quale navigatore, però, il tipo mostra atteggiamenti ambigui che innescano un rapporto complesso con Anne. Sottoposto alla frusta, rivela infine di trovarsi sulle tracce del tesoro di Morgan e si accorda per dividerlo con la capitana – che tuttavia, in maniera abnorme e con l’ingenuità di chi non ha mai amato in precedenza, è molto più attratta da lui che dall’oro, e in apparenza ricambiata. Invano il collega Barbanera, che di Anne è stato il mentore[67], la mette in guardia e finisce offeso e allontanato (viene il sospetto che questa sia la fonte per la complessa dialettica tra Barbanera e la figlia Angelica nel quarto Pirati dei Caraibi); ma poi le prove che Pierre è un infiltrato degli inglesi vengono alla luce. La sua idea sarebbe stata di consegnare Anne ai connazionali per farsi restituire la propria nave, con cui praticava la pirateria; ma ha taciuto anche di essere sposato, e che sua moglie Molly (Debra Paget) lo attende a Port Royal. Anne sfugge così all’agguato delle navi britanniche con la propria Sheba Queen (la «Regina di Saba», femme fatale per eccellenza), e furiosa rapisce Molly: dopo aver pensato di venderla come schiava a Maracaibo, decide infine di legarla alla prua della nave per impedire agli avversari di colpire. Catturato nuovamente Pierre (che ora fa il corsaro per conto di un lord), Anne lo abbandona con Molly senza viveri né acqua su un’isola deserta, restando all’àncora in attesa del loro decesso: ma poi, tormentata dal rimorso, fa inviare ai due quanto necessario per salvarsi e tornare in Giamaica. L’arrivo dell’offeso e vendicativo Barbanera fa precipitare la situazione: per salvare Pierre dal pirata che lo odia, invece di allontanarsi Anne sceglie di combattere contro il simil-padre, e alla fine verrà uccisa da una cannonata. Una gelida, anonima e burocratica mano cancella in ultimo il nome della capitana, «affondata vicino alle Bahamas».

In modo molto più profondo che in The Spanish Main, la ‘mascolinità’ di Anne (in questo caso fisicamente graziosa) si manifesta nell’approccio alla vita – predazione, durezza, ignoranza dei sentimenti – appreso da Barbanera, e in cui è rimasta intrappolata. Scoprendosi dunque incapace, di fronte al primo innamoramento, di manifestare in modo libero i propri sentimenti: con la frustrazione deflagrante di scoprirsi tradita e l’innesco di una situazione disperata che la conduce al ripudio della figura paterna e alla morte. Come ha rilevato José María Latorre, in questa pellicola

 

la sessualità è la molla stessa della vicenda: Anna […] scopre quasi nello stesso momento sensualità, amore, inganni, gelosia, vendetta, perdono e morte. Il film segna inoltre un punto e a capo nell’ambito del film d’avventura: l’acida malinconia del tono, l’opacità nel trattamento dei personaggi, la tragica conclusione, il pessimismo, la mediocrità del principale interprete maschile, l’antipatia che, benché vittima delle circostanze, suscita il personaggio femminile, il risveglio della sensualità di Anna e i rapporti che intrattiene con gli uomini che si prendono cura di lei rendono La regina dei pirati un’opera singolare[68].

Si noti la presenza in questo film di un vestito da donna trattenuto nella quota di bottino di Pierre, e che per la prima volta attira l’attenzione di Anne; in seguito lei lo proverà, spingendo lui a scioglierle per la prima volta i capelli – e il tutto finisce in un bacio. La dialettica simbolica tra l’abito da donna e la tenuta in camicia da uomo correrà avanti idealmente per tutta la storia su schermo delle piratesse.

Ma lo sappiamo, nel cinema popolare l’archetipo tende a farsi stereotipo, e negli anni Cinquanta il fortunatissimo fenomeno pop della rilettura farsesca dei generi nella saga di Abbott e Costello – Gianni e Pinotto, nella traduzione italiana – interessa anche il cappa e spada di pirati. Come i due comici ricalibrano per esempio in chiave commedia il genere horror – con solo lievi ritocchi, ampliando il ruolo dei caratteristi di tradizione shakespeariana e rispettando i mattatori che diventano però maschere –, attraverso la propria versione delle “macedonie all monsters” alla Erle C. Kenton (Abbott and Costello Meet Frankenstein, 1948), così fanno anche con il film di pirati: e la Anne Bonny un po’ rigida e virile presentata in The Spanish Main sembra influire direttamente, virata in chiave solo più fascinosa, sulla Anne Benney di Kidd il pirata (Abbott and Costello Meet Captain Kidd) una commedia del 1952 diretta da Charles Lamont su sceneggiatura di Howard Dimsdale e John Grant. L’interprete di Anne – qui contrapporta al furfantesco Kidd del grande Charles Laughton, tra mappe del tesoro confuse con biglietti galanti – è in effetti ora Hillary Brooke, ospite fissa in quegli anni del The Abbott and Costello Show, e che qui i nostri sostengono contro il vilain. Come nella scampagnata horror di cui sopra, i comprimari archetipici o piuttosto stereotipici dei due protagonisti sono comunque rispettati: e proprio il varo di questa puntata la dice lunga su quanto a inizio anni Cinquanta il film di pirati rappresenti un genere consolidato.

In fondo le storie di pirati sono avvertite come un epos americano, non è strano i pirati piacciano: e solo un anno più tardi una nuova capitana pirata appare in Against All Flags (Contro tutte le bandiere), 1952, diretto da George Sherman e prodotto da Howard Christie con distribuzione Universal. In questa produzione dai colori vivacissimi e dagli altrettanto vivaci fondali dipinti, la nostra Anne non c’è: ma il fatto che la scintillante piratessa Prudence ‘Spitfire’ (nella versione italiana «Schizzafuoco») Stevens sia interpretata da quella stessa Maureen O’Hara che al termine di The Spanish Main si allontanava sul mare con l’amato pirata Van Horn, finisce con lo stabilire una sorta di nesso – come se la contessa Francisca avesse cambiato identità e seguito la strada della defunta Anne. Tanto più che la storia è firmata da Joseph Hoffman e Aeneas MacKenzie, quest’ultimo già soggettista di The Spanish Main: nei fatti è Hoffman a riscrivere l’originaria sceneggiatura di MacKenzie, ma è evidente che in queste avventure gli stessi temi tornano di continuo.

Così anche qui c’è un infiltrato tra i pirati – l’ufficiale britannico Brian Hawke, interpretato da un Errol Flynn meno agile di un tempo e in deriva alcolica – e come nell’italianissimo La figlia del Corsaro Verde si tratta dell’eroe, diversamente da quanto narrato in Anne of the Indies, dove appariva figura equivoca; anche qui a sospettare di lui è un pirata ‘storico’ – in Anne of the Indies era Barbanera, qui è il Roc Brasiliano di Anthony Quinn; e se in Anne of the Indies Barbanera ricopriva un ruolo di mentore e quasi padre, qui l’anomalia di una presenza femminile tra i pirati è giustificata tout court con una successione di Spitfire al padre, capitano e proprietario di una nave. Come in The Spanish Main anche in questo caso troviamo una bella e aristocratica prigioniera che si innamora del (falso) pirata, la figlia dell’imperatore Moghul Patma (Alice Kelley), suscitando la gelosia di Spitfire che se ne è pure invaghita; anche qui l’inganno dell’infiltrato viene scoperto, ed è la piratessa a salvargli la vita (in questo caso da una strana morte in pasto ai granchi: Spitfire mima di pugnalare Hawke per allievargli le sofferenze, e invece taglia le corde). Se poi in Anne of the Indies era la protagonista a far legare Molly sulla linea di fuoco della nave, qui Roc usa similmente come scudo la corrispondente figura femminile fragile, Padma, per sfuggire dalla baia assediata; e come in The Spanish Main, un duello finale tra eroe e villain sarà risolutivo. La piratessa si vergogna comicamente del proprio nome di battesimo Prudence; quanto al soprannome ‘Schizzafuoco’, Hawke ne chiede ragione al barbiere/boia del luogo, che risponde: «Ah, lo scoprirete da solo se provate a metterle una mano addosso»: un avviso che può ben ricordare la disavventura del «giovane» che, attesta Johnson, «aveva cercato di giacersi» con Anne contro la sua volontà. Più avanti scopriremo che, molestata, Spitfire ha già ucciso in duello alla pistola un uomo; e il tema dei baci che offre solo quando ne ha voglia conferma il modello. Inevitabilmente, in un contesto che non esalta il femminismo, Hawke riuscirà ad ammansirla.

Certo la dinamica spadaccina Spitfire, pur nei panni sportivi che richiamano certe colleghe dei cappa-e-spada (solo di rado indossa un abito lungo da dama, e deve farsi spiegare da Hawke cosa siano i finti nei), è figura molto diversa dalle due Anne dei film precedenti: qui la logica è quella morbida del classico film d’avventura. La sua prima apparizione la vede per esempio scegliere dei fiori da una venditrice di colore come una qualunque signora americana della buona società. Si apprende poi che suo padre (ex-bracconiere in fuga con la figlia bambina, a evocare di sfuggita un passato picaresco) era divenuto capitano della costa come esperto di fortificazioni, ma senza darsi a un’effettiva pirateria: prendeva solo una parte del bottino, e ora anche la figlia si comporta nello stesso modo – ad addolcire insomma il bozzetto della capitana. E il fatto che anzi Spitfire mediti di andarsene da quella tana di bruti stempera il disincanto verso la pirateria dai toni disperati di Anne of the Indies a un più semplice e tranquillizzante cambio di vita. Come poi accade, col lieto fine e il lungo bacio col protagonista.

Ma è intrigante la collocazione della base pirata in Madagascar, nei luoghi di quella Libertatia (o Libertalia) fondata come colonia nel tardo XVIII secolo, secondo il solito Johnson, dal capitano provenzale James Misson. Se i pirati in Madagascar c’erano davvero, prevale oggi l’interpretazione per cui Misson e Libertatia sarebbero invenzioni del Nostro: ma appunto il richiamo alla fonte-Johnson costituisce un’ulteriore connection tra Spitfire Stevens e le nostre due amiche.

 

[66] Ma anche (senza pretese di esaustività) i romanzi Anne Bonny, Pirate Queen: The True Saga of a Fabulous Female Buccaneer di Douglas Brown, 1962 (con strillo «She Could Fight Like The Devil and Love Like An Angel»); Mistress of the Seas di John Carlova, 1964; Anne Bonny di Chloe Gartner, 1977; Lobas de mar di Zoé Valdés, 2003; The Only Life That Mattered: The Short and Merry Lives of Anne Bonny, Mary Read, and Calico Jack Rackam di James L. Nelson, 2004; A Pirata. A história aventurosa de Mary Read, pirata das Caraíbas di Luísa Costa Gomes, 2006; Alain Surget, Mary Tempête. Le destin d’une femme pirate, 2007; Mary Read: Sailor, Soldier, Pirate di Cherie Pugh, 2008; Heart of a Pirate: A Novel of Anne Bonny di Pamela Johnson, 2009; The Legendary Adventures of the Pirate Queens: A Serio-Comic Novel of Anne Bonny & Mary Read di James Grant Goldin, 2012.

[67] Si noti che il Barbanera storico, che aveva – pare – moglie e figlio a Londra più una dozzina di altre spose in giro, mostrava verso l’altro sesso un atteggiamento profondamente patologico. Se era sua abitudine costringere le mogli, dopo essersene soddisfatto, ad accoppiarsi coi suoi amici, si dimostrava anche più tremendo con le prigioniere: «notoriamente strangolava le donne catturate e ne gettava i corpi in mare. […] A bordo, le donne non erano né necessarie né desiderate»: così Burg, Pirati e sodomia, cit., p. 161 – anche se in effetti questo è un caso limite. Per inciso, Barbanera era stato mentore di vita piratesca di uno Stede Bonnet dal cognome dunque simile al Bonn(e)y di Anne: un’ispirazione per gli sceneggiatori?

[68] José María Latorre, Avventura in cento film, Recco (Ge), Le Mani, 1999, pp. 179-180.

]]>
I Canari dei Dogmen https://www.carmillaonline.com/2018/06/29/i-canari-dei-dogmen/ Thu, 28 Jun 2018 22:01:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46672 Dogman, di Matteo Garrone, 2018 Rabbia furiosa, Er Canaro, di Sergio Stivaletti, 2018

di Mauro Baldrati

Possiamo dirlo: esiste una nouvelle vague italiana di registi. Hanno stili diversi, non sappiamo se siano in contatto, se facciano gruppo, oppure se si amino o si odino vicendevolmente, se per esempio Garrone e Stivaletti fossero a conoscenza dei reciproci lavori, due film usciti quasi in contemporanea sullo stesso argomento; però sono un gruppo di rinnovamento, con un marchio DOCG “Made in Italy” che lascia il segno. Era ora. Una rinascita? Siamo da sempre un paese [...]]]> Dogman, di Matteo Garrone, 2018
Rabbia furiosa, Er Canaro, di Sergio Stivaletti, 2018

di Mauro Baldrati

Possiamo dirlo: esiste una nouvelle vague italiana di registi. Hanno stili diversi, non sappiamo se siano in contatto, se facciano gruppo, oppure se si amino o si odino vicendevolmente, se per esempio Garrone e Stivaletti fossero a conoscenza dei reciproci lavori, due film usciti quasi in contemporanea sullo stesso argomento; però sono un gruppo di rinnovamento, con un marchio DOCG “Made in Italy” che lascia il segno. Era ora. Una rinascita? Siamo da sempre un paese esterofilo (molti non lo sanno, ma esiste un certo filone di editoria thriller dove alcuni autori italiani firmano con pseudonimi esotici per superare il pregiudizio: “Italiano? Ma chi è?”), ma da qualche tempo il pregiudizio si è capovolto: “Un nero italiano? mica barzellette!”

Un nuovo genere italiano che qualche commentatore ha salutato come “post italiano, finalmente”, ovvero in grado finalmente di superare gli stereotipi, i luoghi comuni, l’eterna dipendenza dalla commedia pecoreccia, il dramma, il gallismo, il sentimentalismo.

Uno stile italiano-non italiano dunque, in grado di viaggiare per territori diversi, spezzando le catene del genere hollywoodiano coi suoi attori belli ed eleganti, la fotografia patinata anche quando sono sporchi e cattivi; uno stile duro, realistico (in certi casi iper), con tanta azione e avventura pur non rinunciando al proprio bagaglio europeo di cultura, di storia, di indagine psicologica.

Un esempio interessante è questo curioso uno-due di un regista famoso (Matteo Garrone) e un altro meno famoso ma grande professionista esperto di effetti speciali per Dario Argento, Michele Soavi, Benigni, Salvatores (Sergio Stivaletti). Hanno relizzato due film diversi, due letture indipendenti di un evento realmente accaduto, la vicenda degli anni ’80 di Er Canaro. Costui, Pietro de Negri, un pregiudicato probabilmente affiliato alla banda della Magliana, uccise un conoscente che lo perseguitava e lo ricattava, il pugile Giancarrlo Ricci. Confessò di averlo sottoposto a orribili torture, dopo averlo rinchiuso in una gabbia per cani del suo laboratorio di toelettatura (da qui il soprannome). In realtà l’autopsia stabilì che tutte le ferite, le bruciature, il taglio delle dita, del naso, dei genitali, erano state inferte dopo la morte, causata da una decina di martellate.

La vicenda ha stimolato la fantasia dei due registi, che hanno prodotto questo bis di stili e di plot narrativo.

Il primo, Dogman, di Matteo Garrone, è più autoriale, girato con un gioco sapiente della psicologia dei personaggi, il Canaro e il pugile, uniti da una sorta di dipendenza reciproca sado-maso. Il Canaro è anche un piccolo spacciatore di coca, che deve continuamente fornire – naturalmente gratis – al prepotente amico-dominatore, una specia di bruto che terrorizza tutto il quartiere. E’ un uomo mite, dolce, sincero amante dei cani, il cui unico desiderio è piacere agli altri, avere il suo posto nel mondo, essere rispettato. E’ così leale e fedele, nonostante l’impressionante sequenza di violenze e umiliazioni cui è sottoposto, che accetta addirittura di andare in carcere al posto del pugile, pur di non tradirlo.

Noi spettatori soffriamo con lui, per le sue disgrazie, e quando finalmente arriva il finale siamo contenti per questa attesa, meritata catarsi.

Ma…

In realtà questa parte è reticente. Purtroppo è il limite del film. Che è notevole, ma con un finale coraggioso e giusto sarebbe stato grande. Intendiamoci, non siamo voyeurs macabri, non chiediamo l’horror a tutti i costi, ma ci aspettiamo un giusto risarcimento, col mostro che finalmente paga per la sua crudeltà e la sua vigliaccheria. Sappiamo perché: regista e produzione hanno deciso di non calcare la mano per non spaventare il mitico pubblico “moderato” italiano. Niente torture, un’esecuzione certamente cruenta, ma svelta, come se il regista avesse fretta. Così la forza di questo film, l’espressività dei personaggi, il fascino dello squallore della periferia, vengono in parte depotenziati da questo imbarazzo, da questa autocensura che ci lascia in uno stato di latente insoddisfazione.

Ma niente paura. Ci pensa Stivaletti a restituirci quanto di spetta. Con gli interessi. La storia è la stessa, ambientata in un quartiere periferico e degradato, ma la diversità di stile e di approccio lascia stupiti. Il Canaro di Stivaletti è un personaggio a sua volta mite, uno che subisce, ma non ha – e neppure vuole – la sfaccettatura poetica di Marcello Conte (che per questa interpretazione ha vinto una meritata palma d’oro a Cannes), è più “tosto”, si ribella, combatte, “tira fuori le palle”. Il rapporto di sudditanza psicologica esiste, ma è meno indagato, più funzionale alla storia di violenza e sopraffazione. Il pugile è lo stesso bruto violento, ma più criminale organizzato, più subdolo e minaccioso.

Rabbia Furiosa rispetto a Dogman è tarantiniano, anche per la colonna sonora, che evoca certi spaghetti western di Morricone. E l’agognato finale è fin troppo generoso di splatter, grazie anche all’alter ego del regista, il creatore di mostri horror. Proprio come con Tarantino lo spettatore gode di fronte al giusto castigo del feroce motherfucker, perché torna il bambino che gioca ai buoni e ai cattivi, dove il buono (Django) spara al cattivo e lo guarda morire, e dice “crepa bastardo”. Perché per il bambino non è l’uomo a venire ucciso; è la cattiveria stessa.

]]>
Loro 2, di Paolo Sorrentino https://www.carmillaonline.com/2018/05/19/loro-2-di-paolo-sorrentino/ Fri, 18 May 2018 22:01:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45585 di Mauro Baldrati

Loro 2 è migliore di Loro 1. Il furore festaiolo all’insegna del binomio coca-figa si è attenuato. Ci sono alcune scene doverose di “cene eleganti”, con tanto di esibizioni di Silvio canterino di fronte a un pubblico in estasi, ma ci sono più storie, più personaggi, più dinamiche. Però è un film in bilico, che si presta a due visioni diverse. La sua qualità varia secondo la visione che uno sceglie, o che deve scegliere, in base alla sua sensibilità e formazione.

1) Visione con psico-decontestualizzazione. Guardiamo il [...]]]> di Mauro Baldrati

Loro 2 è migliore di Loro 1. Il furore festaiolo all’insegna del binomio coca-figa si è attenuato. Ci sono alcune scene doverose di “cene eleganti”, con tanto di esibizioni di Silvio canterino di fronte a un pubblico in estasi, ma ci sono più storie, più personaggi, più dinamiche. Però è un film in bilico, che si presta a due visioni diverse. La sua qualità varia secondo la visione che uno sceglie, o che deve scegliere, in base alla sua sensibilità e formazione.

1) Visione con psico-decontestualizzazione. Guardiamo il film e separiamo il personaggio dall’originale. Lo consideriamo in sé, con quella maschera di rughe e impenetrabilità che gli fornisce Toni Servillo. E’ Silvio Berlusconi, ma potrebbe essere chiunque altro, un riccone di un tempo folle e decadente caduto nella nostra epoca. Questa non è una procedura facile, richiede una buona dose di curiosità e fantasia, e anche un po’ di cinismo. Con questo tipo di visione, per esempio, riusciamo a divertirci con certi thriller avvincenti dove i buoni sono gli agenti della CIA, anche se sappiamo che nella realtà sono sempre i cattivi, spargitori di ogni male e violenza. Ce li godiamo purché siano di buona qualità, nella scrittura, nella trama, nei dialoghi (la parte più difficile).

E Loro 2 è di buona qualità, anzi ottima. La fotografia, come sempre in Sorrentino, è raffinata, pittorica con la patina decadence, la sua forma personale di estetismo nel quale è un maestro. E i dialoghi sono perfetti, efficaci e inverosimili quanto basta, nel filtro teatrale di alcune scene, per essere verosimili. Per esempio il faccia-faccia con Ennio Doris (nella realtà il presidente di Banca Mediolanum) è straordinario, per la gestalt di Servillo che interpreta entrambi i ruoli. Una scena di alto teatro velata di grottesco e di ironia, quasi un cartone animato, o un fumetto.

Oppure lo scontro con Veronica, sullo sfondo di un arazzo fiorito, dove lei gli sbatte in faccia tutto il suo disprezzo: sei malato, hai bisogno di uno psichiatra, hai settant’anni e vai con le minorenni, ti circondi di puttane e di ruffiani, sei solo un bambino che ha paura di morire. E la famosa fortuna che avresti creato al nulla, in realtà la devi a Craxi; in quanto ai miliardi degli investimenti edilizi… come te li sei procurati, eh? E Silvio: “Mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Ma non fa una piega, le accuse rimbalzano sulla superficie della maschera dell’eroe del nichilismo: “Nulla esiste, tutto è permesso”. Nulla, neanche le accuse. E infatti ripete più volte: “Io non mi offendo mai.” E perché dovrebbe? Sarebbe solo una inutile perdita di tempo.

Il nostro personaggio è lo zar totalitario, circondato e seguito da una folla di persone adoranti, ansiosi di compiacerlo, terrorizzate di irritarlo. Certe scene, certi dialoghi assumono toni surreali, da opera del grotesque alla Monty Python, o certe esagerazioni dei Coen, ma più raffinati, con una componente di follia che serpeggia sul fondo di un enorme stagno colmo di acqua malsana.

Di nuovo abbiamo la sensazione di essere scesi dall’Enterprise e sbarcati in un mondo alieno. Gli abitanti nell’aspetto sono simili a noi terrestri, ma così esagerati.

Esagerati? E quindi inverosimili? Mi prendo la libertà di una incursione personale nella estroversione oggettiva della nota e della fiction per raccontare un episodio significativo. Circa nel 1990-91 fui inviato a Milanello per fotografare Fabio Capello. Mentre lo aspettavo a bordo campo, scattando foto di Gullit e Van Basten in allenamento, arrivò Berlusconi con un gigantesco elicottero. Avanzava spavaldo, sorridente, seguito da una segretaria sempre con un telefono all’orecchio, Cesare Previti e un drappello di quei giovani yuppies che erano esplosi come bombe a frammentazione con la sua entrata in campo. Il gruppo passò accanto alla mia postazione, e a un certo punto Berlusconi chiese se qualcuno aveva una penna. Due yuppies scattarono immediatamente e il più svelto gliela porse. Berlusconi scrisse qualcosa su un taccuino e poi gliela restituì dicendo “grazie”. Ero vicinissimo, sentivo le voci, capivo le parole. Il fortunato disse, a uno che gli era vicino: “Mi ha detto grazie. Grazie! Ti rendi conto?” Era euforico, la sua faccia era ispirata, proprio come quella dei personaggi del film, la sua voce tesa per l’emozione.

No, nessuna esagerazione. Sorrentino ha semplicemente lavorato sulla recitazione e sulla fotografia, e Loro 2 è un magnifico film iperrealista.

2) Visione senza psico-decontestualizzazione. Questo tipo di approccio all’opera è più materialista del primo, punta direttamente al cuore della questione senza smancerie né edonismi. Sì, le immagini sono belle, gli attori bravissimi, ma perdio, scollegati dal contesto sono dei dettagli inutili e un po’ noiosi. Che senso ha una simile spettacolarizzazione dell’amoralità, dell’egoismo, dell’adulazione? Non c’è narrazione come veicolo di denuncia come nel noir per esempio. Questo personaggio – questo eroe – è Silvio Berlusconi: noi siamo qui a seguire le vicende personali di un simpatico “ganasa” che ha catalizzato su di sé tutti i sentimenti bassi di noi italiani (ma non solo, gli americani, gli inglesi, tutti) e ce li ha rivenduti come sogni di successo. Furbo è bello, fregare è bello, corrompere è bello, tradire è bello, egoista è bello, bugiardo è bello.

Non si tratta di una visione moralista, ma coerente. Non ci divertiamo granché, perché divertirsi significa accettare tutto, sdoganare tutto. E non possiamo accettarlo. Questo lungo spot non fa che ingigantire quell’eroe pop che Berlusconi è diventato.

E’ un tipo di visione che pone una questione antica, ma quanto mai attuale: L’opera deve avere un’etica? La risposta è sì. Un’etica interna, non esibita, non didascalica, ma esistono delle regole non scritte che l’autore deve rispettare, per essere tale. Ne La caduta sarebbe inconcepibile assistere a esibizioni accattivanti sulle beghe di Hitler con Eva Braun e Bruno Ganz lo interpreta per quel demone scoppiato che era. Anche la serie su Escobar ci mostra un mafioso stragista nel suo mondo da incubo. L’orgia delle SA ne La caduta degli dei termina in una infernale catarsi che ci toglie il respiro. Non sono opere di denuncia, eppure lo sono, nello stile, nel ritmo, nei contenuti.

Qui invece tutto finisce per essere celebrazione, perché quando vediamo apparire Berlusconi in televisione non pensiamo alle accuse di Veronica, ma alla grandeur di Silvio del film, e pensiamo “però! Che tipo!”

Loro 2 è una celebrazione del male, attraverso la sua rappresentazione attraente ed emotiva.
E’ solo una fotografia ad alta risoluzione di un pezzo di realtà negativa scollegata dal resto del mondo.

]]>
Estetiche del potere. Visibilità televisiva ed invisibilità cinematografica del potere politico italiano https://www.carmillaonline.com/2017/03/07/31133/ Mon, 06 Mar 2017 23:01:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31133 di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre [...]]]> di Gioacchino Toni

pot_0012Sappiamo come grazie alla televisione i politici entrino nelle case degli italiani e, mettendosi in scena, si rendano perennemente visibili, ma come sono rappresentati sul grande schermo i potenti nazionali?

In generale il cinema italiano, quando ha inteso confrontarsi col potere, tendenzialmente ha finito piuttosto col mettere in scena la sua invisibilità lasciando alla televisione, sopratutto negli ultimi decenni, il compito di renderlo visibile.

Ripercorrendo la storia della produzione cinematografica italiana uno degli autori che più direttamente ha indagato la visibilità del potere è sicuramente Roberto Rossellini che nel celebre La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966) esplicita come la forza del Re Sole risieda nelle immagini che lo rappresentano; egli è il polo di attrazione dello sguardo della sua corte. Il film mostra come il potere del re risieda nella suo essere visibile sempre ed ovunque, anche grazie alla sua effige sulle monete. Nell’opera rosselliniana il potere non si esplica per via impositiva ma rendendo desiderabile ai sottoposti l’essere ammessi al suo cospetto ed il far parte del suo cerimoniale.

Un’ottima riflessione circa le modalità con cui la cinematografia nazionale ha affrontato i potenti la si ritrova all’interno del monumentale saggio Lessico del cinema italiano (a cura di Roberto De Gaetano), Volume II (Mimesis, 2015) [su Carmilla]  grazie allo studioso Gianni Canova che, nell’occuparsi proprio della voce “Potere” riferita al cinema italiano, indica nel film Bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio una delle più lungimiranti riflessioni su di esso realizzate in Italia all’inizio del nuovo millennio.

In questo film i politici italiani sembrano totalmente delocalizzati; vagano «fra l’etere e il nulla» e, secondo lo studioso, soltanto nella scena in cui si mettono in posa per la foto istituzionale davanti ad uno schermo che mostra immagini di manifestazioni della loro formazione politica e del loro leader, «essi sentono in qualche modo di inverarsi, di uscire dall’indeterminatezza, dalla mancanza di ruolo e di identità. Ma nello stesso tempo, così facendo, trasformano i loro corpi in schermo, e fanno di sé il luogo in cui le immagini si manifestano e si concretizzano» (p. 429).

Secondo Canova questa sequenza «ci dice come i corpi “veri” non siano che il supporto su cui far vivere le immagini. Non sono più – come nel Novecento – il profilmico che lascia traccia e impronta di sé nell’immagine filmica, ma – molto più radicalmente – il supporto senza cui le immagini non sarebbero visibili. Detto altrimenti: i corpi non generano le immagini, le accolgono» (p. 429). Il film suggerisce come il potere sembri ormai risiedere «nell’ibrido generato dal connubio fra corpi e immagini, e come proprio lì, e solo lì, si materializzi la possibilità di incontrare e di vedere ciò che il potere è diventato, e di riconoscere le maschere con cui si nasconde, e di capire il gioco con cui colonizza i corpi per far vivere se stesso nelle immagini che lo costituiscono e, al tempo stesso, lo inverano» (p. 430).

Il cinema italiano sembrerebbe aver affrontato il potere politico a partire da un’idea negativa; esso viene tratteggiato come qualcosa che ha a che fare con l’inganno, l’intrigo, il complotto ed i suoi uomini tendono ad essere rappresentati come maschere grottesche e/o dispotiche. Nel corso del Ventennio fascista, Mussolini è riuscito ad occupare la scena tanto nel “paesaggio reale” che nell’immaginario degli italiani «non solo e non tanto esercitando il potere, quanto piuttosto recitandolo» (p. 435), ed il cinema in tutto ciò ha avuto un ruolo fondamentale. L’arma cinematografica lo ha spesso presentato come figura monumentale circondata da gerarchi o dalla folla. Se per il Re Sole di Rossellini «la conquista del potere coincide con la conquista dell’immagine», dunque si rende necessaria l’espulsione dei sudditi dall’inquadratura, nel caso di Mussolini, invece, è necessario il bagno di folla; «Il duce si fa ritrarre fra la gente. Vuole che il cinema mostri il popolo che lo guarda. L’atto del guardare il duce (e dell’ammirarlo, adorarlo, apprezzarlo) fa parte dello spettacolo» (p. 437). Canova propone alcuni esempi di come il registro della visibilità non rappresenti però l’unica strategia di raffigurazione del potere da parte del fascismo; nel film Camicia nera (1933) di Giovacchino Forzano, ad esempio, l’immagine di Mussolini è soltanto evocata, la sua presenza è avvertita, anche grazie al sonoro, ma non si vede.

Nel dopoguerra il confronto del cinema italiano con il potere politico diviene difficile, per certi versi è come se i registi non trovassero il modo di rappresentarlo in un sistema democratico. «Per il cinema italiano del dopoguerra – quanto meno, per la maggior parte di esso – il potere reale è quasi sempre osceno: agisce cioè – letteralmente – fuori scena, si esercita al di là della sfera del visibile […] Si preferisce inseguire una visione del potere come Leviatano nascosto, come Moloch crudele, come rete invisibile di interessi e di complicità […] Il potere è opaco. Resiste allo sguardo. Non si lascia osservare» (pp. 441-442).

pot_001Nella cinematografia nazionale non di rado il potere è stato messo in scena attraverso i luoghi in cui si manifesta e, non di rado, maggiore è la visibilità dei luoghi, minore è la sua visibilità. Canova porta come esempio di totale identificazione tra potere e luogo in cui risiede L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci. In questo caso «la Città Proibita suggella un’idea di potere come dispositivo separato e distaccato dal luogo in cui si esercita: il potere dell’imperatore infatti risiede nel palazzo, ma si esercita fuori da esso, in un “fuori” di cui l’imperatore non solo non ha accesso, ma non ha neppure conoscenza e visione: quando l’avrà, ciò implicherà automaticamente anche la perdita del potere» (p. 443). Nella Città Proibita di Bertolucci non è il potere ad essere spettacolo per la corte, come avveniva nel Re Sole di Rossellini, ne L’ultimo imperatore il potere diviene spettatore dello spettacolo organizzato dalla corte per lui.

Marco Ferreri nel film L’udienza (1972) tratta la questione dell’invisibilità del potere attraverso la storia di un individuo ossessionato dal voler parlare col pontefice che, in tutto il film, non si vede mai se non attraverso immagini televisive. In lungometraggi come questo è ai palazzi del potere che spetta il compito di surrogare l’invisibilità del potere.

Anche le scenografie giocano un ruolo importante nel cinema italiano che intende rappresentare il potere; sono diversi i film in cui esso si esprime attraverso la scenografia, si esprime mettendosi in scena, allestendo la propria visibilità, come avviene ad esempio in Galileo (1968) di Liliana Cavani ed In nome del Papa Re (1977) di Luigi Magni.

In diverse opere, ricorda lo studioso, al potere si allude ricorrendo a figure allegoriche. Nel film Il potere (1972) di Augusto Tretti il potere, nelle sue diverse articolazioni, si nasconde dietro le maschere di belva indossate da tre personaggi, in Prova d’orchestra (1979) di Federico Fellini il compito allegorico è affidato ad un grande maglio che entra in scena sul finale distruggendo tutto, mentre, in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, è la villa degli orrori a funzionare da ambientazione in cui si muovono i quattro notabili della Repubblica Sociale Italiana. In questo ultimo caso il film suggerisce come il potere politico prenda forma e si strutturi nel rituale e nelle relazioni «che i quattro potenti inscenano nella villa con l’aiuto delle loro vittime, ma anche dei collaborazionisti, dei servi e delle meretrici da bordello che fungono da narratrici» (p. 452).

Nel suo contributo a Lessico del cinema italiano, Canova traccia una “mappa tipologica” dei potenti messi inscena nel cinema nazionale. La prima tipologia individuata è quella “dell’affarista cinico” ed a tal proposito viene citato il lungmetraggio Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi come opera che mostra come il fine ultimo del potente sia la conservazione e la perpetuazione del proprio potere.

Una seconda tipologia viene indicata nel “corrotto corruttore” ed in questo caso lo studioso porta come esempio Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti, film che sottolinea come il potere sia tale anche grazie a chi ne è privo.

Come terza tipologia Canova indica quella “dell’astuto naïf” facendo riferimento a film come Benvenuto Presidente! (2013) di Riccardo Milani, Viva la libertà (2013) di Roberto Andò e Viva l’Italia (2012) di Massimiliano Bruno che suggeriscono come soltanto i personaggi ingenui siano oggi in grado di conferire al potere credibilità.

La quarta categoria individuata dallo studioso è quella del “mellifluo untuoso” ed il film Todo modo (1976) di Elio Petri viene segnalato come uno dei pochi esempi in cui, in un sistema democratico, il popolo (lo spettatore) venga indicato come sostanzialmente responsabile del potere che ha contribuito a creare.

Come quinta tipologia viene indicato “l’insabbiatore mimetico”, figura esemplarmente interpretata da Ugo Tognazzi in uno degli episodi de I mostri (1963) di Dino Risi, in cui, dietro alla maschera di devota rispettabilità del potere, si cela la capacità di farla franca sempre e comunque.

“Il pharmakon grottesco” rappresenta una sesta tipologia e qua Canova, oltre ai classici Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli ed Il federale (1961) di Luciano Salce, si sofferma sulla figura interpretata da Antonio Albanese nei film diretti da Giulio Manfredonia Qualunquemente (2011) e Tutto tutto niente niente (2012). A proposito di tale personaggio lo studioso afferma che «Nella sua opulenza cafona, Cetto La Qualunque non è solo un monumento alla volgarità italiana. È un pharmakon, o un parafulmine. Scarichiamo su di lui tutta la negatività che ci insidia e ci assedia. Ce ne liberiamo. Forse, nel vuoto sospeso del raccapriccio che ci si insinua sotto la pelle, quando ridiamo compiamo un esorcismo. E ci assolviamo dal timore di essere anche noi come lui» (p. 465).

La settima categoria indicata è quella del “fantoccio ridicolo” e, secondo Canova, un film come Forza Italia! (1978) di Roberto Faenza finisce con l’applicare ai politici «quelle categorie della derisione e dello scherno che sono da sempre al centro dell’atavica propensione degli italiani a ridere di tutto e di tutti […] che alla fine tutto assolve e tutto dimentica, e rende tollerabile o tollerato nella realtà quel medesimo potere che viene carnevalescamente irriso nello spazio dello spettacolo e della finzione» (p. 466). Inoltre, sostiene lo studioso, «Da un film come Forza Italia! alla satira televisiva del nuovo millennio, un filone importante della cultura italiana si è ostinata a fare dell’uomo di potere, al tempo stesso, un mostro e un pagliaccio. Col risultato paradossale di assolverlo: perché il mostro annulla il pagliaccio, e il pagliaccio neutralizza il mostro» (p. 467).

Il saggio di Canova sottolinea, inoltre, come tra le patologie del potere, il cinema italiano abbia scelto di concentrarsi sul tradimento, il trasformismo, l’arbitrio e alla presunzione di impunibilità. Per quanto riguarda il trasformismo ed il tradimento lo studioso, oltre che su Senso (1954) ed Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti, si sofferma su Noi credevamo (2010) di Mario Martone, individuando in tale opera «un film imprescindibile per rintracciare la retorica e l’ideologia del potere nel cinema italiano perché […] drammatizza uno scontro di poteri: da un lato il vecchio potere che muore, dall’altro un nuovo potere che nasce e che ambisce a scalzare e a sostituire in fretta il vecchio. Il punto di vista di Martone sposa e adotta […] il punto di vista di chi non ha il potere e ambisce a conquistarlo: quel “noi credevamo” non solo insiste sulla dimensione collettiva dell’adesione a un progetto di conquista del potere, ma sottolinea anche – con forza – la dimensione fortemente fideistica che anima l’azione dei giovani rivoluzionari […] Forse non si è ancora ragionato abbastanza sul ruolo talora fondamentale della passione nell’agone politico, e il film di Martone ha il merito di conferirle una centralità precedentemente impensabile» (p. 473).

Per quanto riguarda l’arbitrio Canova cita In nome del popolo italiano (1971) di Dino Risi e Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy come esempi di film in cui la giustizia viene esercitata arbitrariamente ed in maniera vessatoria nei confronti del cittadino. In questi film, come in Porte aperte (1990) di Gianni Amelio e Tutti dentro (1984) di Alberto Sordi, il potere si esprime col medesimo volto: «Arcigno, severo, vessatorio, feroce. Un potere che non si esercita quasi mai nella legalità ma quasi sempre nell’arbitrarietà e nell’impunità» (p. 478).

Circa l’impunibilità, lo studioso non poteva che soffermarsi su Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, film che «Ribadisce la teatralità del potere e fa della maschera il linguaggio necessario ad affermare se stesso in quanto forma del dominio» (p. 480). Canova, ragionando sul doppio finale dell’opera, si concentra sul fatto che le tende vengono ad un certo punto chiuse celando all’osservatore il contenuto della stanza in cui convergono i diversi interpreti del potere: «Non è dato di sapere cosa accadrà realmente nella stanza in cui il potere si è riunito. Abbiamo visto cosa è accaduto nella camera da letto (che non è più da tempo luogo proibito allo sguardo), ma l’interdetto a vedere si è spostato e trasferito nella camera del potere. Che ancora una volta celebra se stesso, e perpetua la propria fantasia di immunità e di impunibilità, in un regime di fatale e impenetrabile invisibilità» (p. 482).

pot_002Nel cinema degli ultimi decenni film come Vincere (2009) di Marco Bellocchio, Il divo (2008) di Paolo Sorrentino ed Il caimano (2006) di Nanni Moretti, hanno fatto ricorso a maschere su un registro espressivo allegorico-grottesco al fine di mettere in scena, rispettivamente, Mussolini, Andreotti e Berlusconi.

Il film di Bellocchio, secondo Canova, è un «atto d’accusa nei confronti dell’eterno fascismo italiano: cioè quella disposizione – antropologica prima ancora che psicologica, ideologica o sociale – fatta di ribellismo anarcoide e di succube servilismo, di velleitarismo arrogante e di tracotante narcisismo […] di odio nei confronti del diverso e di disprezzo nei confronti delle donne, che da qualche secolo a questa parte attraversa la nostra storia (e il nostro sentire) e che periodicamente produce quei rigurgiti collettivi che portano buona parte dei maschi italiani a farsi possedere dalla smania irrefrenabile di andare in giro per le strade indossando camicie dello stesso colore, organizzando ronde punitive contro chi indossa camicie diverse, contro chi pensa in modo diverso, contro chi adora altri dei o chi si illude ci siano altri, possibili modi di amare» (pp. 490-491). Il regista in questo caso mette in scena «lo scompenso che si crea fra una donna che è e resta corpo (fremente, piangente, ferito) e un maschio che – grazie al potere che incarna – da corpo si trasforma in fantasma di pietra, perennemente assente e al tempo stesso sempre incombente, pesante, castigante, oppressivo. Vincere rilegge il fascismo come pratica di annientamento dei corpi e come colonizzazione fraudolenta delle menti» (p. 491).

L’opera di Sorrentino mette invece in scena i meccanismi del potere e la sua immortalità. Il regista qui «predilige una maschera in bilico fra il folclorico e il cinefilo: quella del vampiro. […] gli dei, come i vampiri, non muoiono mai. Hanno bisogno del sangue e delle vite degli altri, e se le prendono. E aborrono la luce. Il divo Giulio, non a caso, vive di notte. Non dorme mai. Gira con la scorta per le vie deserte di una Roma fantasma in lunghe e solitarie passeggiate notturne. E passa il tempo a spegnere gli interruttori di casa sua. I veri divi non sono quelli che godono all’accendersi delle luci, ma quelli che decidono quando le luci si possono spegnere» (p. 487). L’Andreotti di Sorrentino è dunque la quintessenza della segretezza e dell’inaccessibilità.

Infine, il film di Moretti affronta «l’inafferrabilità di Berlusconi in quanto ipostasi del potere e, al contempo, la difficoltà di rappresentare l’Italia contemporanea» (p. 484). Canova sottolinea come il film trasmetta la sensazione della disgregazione, gli stessi diversi Berlusconi che compaiono risultano scollegati l’uno all’altro.

L’accumularsi in questo paese di quelli che, non senza ipocrisia, vengono definiti “misteri irrisolti”, ha contribuito a creare una filmografia nazionale caratterizzata dall’idea che «dietro a ognuno di questi fatti si celino la volontà inconfessabile e la strategia delirante di un potere segreto, impunito e spietato: una sorta di “dietrologia” ossessiva e compulsiva che evoca incessantemente la presenza fantasmatica di un “burattinaio” non identificabile […] come per rimuovere o giustificare l’incapacità della società italiana di individuare i responsabili reali di quei crimini e di trovare una spiegazione razionale per ognuno di quei “misteri” irrisolti» (p. 493).

Un caso esemplare di incidenza del complottismo nella rappresentazione del potere riguarda il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro; si pensi ad esempio, a lungometraggi come Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara o Piazza delle Cinque Lune (2003) di Renzo Martinelli. La teoria del complotto si è venuta costruendo su effettive pagine oscure della storia italiana ma, osserva Canova, «l’idea che nessuna verità sia possibile, e che dietro ogni fatto di cronaca ci sia una trama oscura inaccessibile e indecifrabile per l’opinione pubblica democratica è talmente diffusa e pervasiva, e coinvolge tanto il cinema dei grandi autori […] tanto la ricognizione sul passato […] da configurare davvero una visione del potere – e forse perfino un “sentimento” del potere, e un immaginario del potere – segnati paranoicamente dall’opacità, dalla segretezza e da una impenetrabilità che tanto più vengono riconfermate quanto più si tenta (o si finge) di volerle infrangere e illuminare» (p. 495).

Come esempi di film che invece evitano di ricorrere al complottismo, Canova segnala Diaz – Non pulire questo sangue (2012) di Daniele Vicari e Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio. Nel primo caso il lungometraggio «si stacca dalla cronaca, o dall’idea di film-requisitoria, per costruire una scena del crimine che è tanto più sconvolgente quanto più addossa le responsabilità del massacro non a questo o qual funzionario-carogna, ma a un sistema che può permettersi impunemente la sospensione delle garanzie democratiche come forma perversa di controllo e di repressione violenta del dissenso sociale […] Vicari non cade nell’errore di confondere la sala cinematografica con un’aula di tribunale, né pretende di affidare al suo film una sentenza giudiziaria. Piuttosto cerca di mettere in scena i meccanismi (ma anche i linguaggi, i fantasmi, le mitologie, i fraintendimenti, le ideologie) attraverso cui uno Stato di diritto (e gli uomini che lo rappresentano) possono arrivare a usare la tortura esercitata su persone indifese come mezzo di dominio» (p. 497).

Buongiorno, notte affronta invece il “caso Moro” evitando il registro del realismo ed il regista «non insegue il “feticismo del documento” caro al cinema complottista, né sbandiera dossier esclusivi su cui edificare improbabili controinchieste. Il suo film sceglie piuttosto la strada dell’apologo e dell’immaginazione poetica, fin dal titolo» (pp. 498-499). Nell’opera di Bellocchio, che evita dietrologie, la narrazione adotta il punto di vista di una brigatista che sogna un finale diverso per la vicenda ed il racconto è confinato all’interno dell’appartamento-prigione mentre alla televisione spetta il compito di far entrare tra le mura gli eventi esterni. Così facendo, «riducendo la realtà storico-politica a una sorta di fuori campo, Bellocchio si concentra cioè sui gesti, gli sguardi e le relazioni chiasmiche che si intrecciano all’interno dell’appartamento fra il prigioniero (il dominante divenuto dominato) e i suoi sequestratori (i dominati che aspirano a essere dominanti)» (p. 499). Il registro del doppio, suggerisce lo studioso, attraversa l’intero film; il potere ed il contropotere che prende il suo posto, la protagonista che conduce una doppia vita, il mondo tra le mura dell’appartamento ed il mondo esterno che appare sullo schermo televisivo, il registro del reale ed il registro onirico e visionario.

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-volCome Luigi XIV nel film di Rossellini, «anche il potere democratico contemporaneo vuole che la sua vita si svolga tutta sempre sotto gli occhi dei cittadini/sudditi: ed è la Tv a inverare questa volontà. Come Re Sole, la Tv è sempre lì, perennemente accesa, e incessantemente pronta a mostrare i riti e le cerimonie del potere. A renderle autorevoli e desiderabili. Il potere sa di essere lì, nelle immagini che lo presentificano e lo diffondono, lo espandono e lo celebrano. E lì, spudoratamente, si mette in scena» (p. 503). Canova individua alcuni film che prendono atto del ruolo televisivo e, dopo decenni di invisibilità ed irrapresentabilità del potere sul grande schermo, «da qualche anno a questa parte il cinema italiano ha constatato la propria ontologica impossibilità di competere con la Tv nel rendere visibile in tempo reale la quotidianità del potere (e, in fondo, anche la sua ordinaria banalità) e ha deciso – con lungimirante saggezza – di ripartire da qui. Dalla comprensione che il potere è ormai prima di tutto nelle immagini che quotidianamente lo visualizzano. Così il cinema ha iniziato, sempre più intensamente e convintamente, a lavorare su queste immagini. A riesumarle. A rimontarle» (p. 503).

L’archivio televisivo diviene una fonte da cui attingere ed a tal proposito Canova indica film come La mafia uccide solo d’estate (2013) di Pif – Pierfrancesco Diliberto e Belluscone. Una storia siciliana (2014) di Franco Maresco.

Nel primo caso l’autore «non è ossessionato dalla necessità di mostrare il volto del potere: l’ha già fatto la Tv. Il suo film si limita a usare le immagini già prodotte e a risemantizzarle grazie a un ready made che le porta ad esprimere “altro” rispetto a quello che avrebbero dovuto esprimere quando furono realizzate. In questo modo il cinema, scalzato dalla televisione (e ora anche dagli altri media digitali) nella capacità di dare un volto al potere, recupera il proprio ruolo centrale nel sistema dei media rivendicando la capacità di rivedere e risignificare le immagini che altri media hanno prodotto» (p. 503).

Nell’opera di Maresco il potente Silvio Berlusconi, evocato e deformato sin dal titolo, è presente nel film solo a livello catodico, come fantasma dell’etere. «Una storia siciliana è un racconto di ascesa e caduta: comincia con la caduta (Berlusconi annuncia in Tv le sue dimissioni da Presidente del Consiglio […] e finisce con il ricordo sbiadito dell’ascesa (con un Berlusconi di 20 anni più giovane che pronuncia il celebre discorso della “discesa in campo”)» (p. 505). Alle immagini di repertorio è affidato il compito di riflettere sul fantasma di Berlusconi e sugli effetti del berlusconismo. Per certi versi è davvero come se Berlusconi vivesse soltanto all’interno delle immagini televisive che ne hanno costruito il mito e dal film, sostiene Canova, si evince come siano le immagini ad aver preso il potere tanto che l’immaginario berlusconiano continua ad influenzare l’immaginario collettivo anche dopo Berlusconi. «È a queste immagini che bisogna ricorrere, ed è su di esse che bisogna lavorare, per cercare di capire qualcosa di quel potere che esse disincarnano e, al contempo, rendono immortale» (p. 505).

A conclusione del suo scritto, Gianni Canova, si chiede se «il cinema italiano non ha saputo rappresentare la democrazia perché non è mai riuscito a capirla o – al contrario – perché ha capito fin troppo bene la sua essenza, e ne è rimasto traumatizzato?» (p. 505). Nel complesso, probabilmente, ciò è avvenuto per entrambi i motivi ma, da parte nostra, siamo portati a credere che, nonostante alcune e significative eccezioni, nella maggioranza dei casi, il cinema italiano, al pari del resto della cultura nazionale, si è accontentato di raccontarci dell’opacità del potere e di oscuri ed innominabili burattinai. Forse, se da una parte il sonno della politica – il non voler vedere e parlarne – negli intellettuali italiani ha contribuito a generare mostri (di comodo), dall’altra, la televisione ha talmente sovraesposto i politici nazionali da renderli poco appetibili al grande schermo. E forse lo stesso pubblico cinematografico non è stato, e non è, così desideroso di vederseli spuntare, oltre che in casa, quotidianamente ed a tutte le ore, anche nel buio di una sala su schermi monumentali che i politici nostrani oggettivamente faticano a riempire.

]]>
La maniera liquida del cinema italiano https://www.carmillaonline.com/2016/12/02/la-maniera-liquida-del-cinema-italiano/ Fri, 02 Dec 2016 22:30:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34621 di Gioacchino Toni

lessico_tre_volumiRoberto De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Mimesis edizioni, Milano-Udine, Volume I, 2014 pp. 554, € 28,00 – Volume II, 2015, pp. 556, € 28,00 – Volume III, 2016, pp. 532, € 28,00

Più di milleseicento pagine suddivise in tre volumi raccontano – attraverso ventuno voci, un’introduzione del curatore Roberto De Gaetano ed una postfazione di Francesco Casetti – il cinema italiano con modalità differenti rispetto agli sguardi storici di Gian Piero Brunetta e dell’opera monumentale promossa da Lino Micciché per il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Nella sua [...]]]> di Gioacchino Toni

lessico_tre_volumiRoberto De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Mimesis edizioni, Milano-Udine, Volume I, 2014 pp. 554, € 28,00 – Volume II, 2015, pp. 556, € 28,00 – Volume III, 2016, pp. 532, € 28,00

Più di milleseicento pagine suddivise in tre volumi raccontano – attraverso ventuno voci, un’introduzione del curatore Roberto De Gaetano ed una postfazione di Francesco Casetti – il cinema italiano con modalità differenti rispetto agli sguardi storici di Gian Piero Brunetta e dell’opera monumentale promossa da Lino Micciché per il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Nella sua introduzione all’opera, Roberto De Gaetano sostiene che essendo i sentimenti a definire l’orientamento nel mondo di un individuo e di una comunità, se questi non danno forma a comportamenti finiscono col riversarsi nelle forme di rappresentazione. Secondo lo studioso l’elaborazione dei sentimenti popolari operata dal cinema italiano, soprattutto attraverso la commedia ed il melodramma, ha provveduto a dare espressione a sentimenti e stati d’animo altrimenti privi di espressione. «Nella nostra tradizione si viene dunque a determinare una frattura decisiva tra le forme del sentire e quelle dell’azione. Le prime, non trovando risposta efficace nelle seconde, trapassano nelle forme di espressione, a partire dal cinema, che diventano i veri operatori di una individuazione senza identità (nazionale), della creazione di uno stile di vita, di un modo di immaginare e abitare il mondo» (Vol. I, p. 9).

Secondo De Gaetano quello italiano «è un cinema che, contrariamente alla letteratura, non si è di fatto mai posto un problema di identità nazionale, ma è stato sempre vicino alla vita sentita e pensata oltre le forme della società civile, dello Stato, della nazione e della storia» (Vol. I, p. 11).

Se l’America può dirsi coincidere con il suo cinema in quanto questo risulta direttamente iscritto nel dispositivo produttivo capitalista, non si può invece dire che l’Italia sia il suo cinema nonostante questo possa definirsi profondamente italiano avendo raccontato, nel corso della sua storia, quella “nascita mai avvenuta di una nazione” attraverso il suo essere radicato nella realtà.

lessico_del_cine_546e10358a219«Da Roma città aperta a Salò, dalle torture dei nazisti a quelle dei fascisti, è un arco di tempo che dal 1945 al 1975 non solo segna un trentennio in cui il cinema italiano, proprio essendo specificamente italiano, ha avuto capacità e forza di conquistare (per credito e fama) il mondo intero, ma segna il momento in cui il dispositivo cinematografico, interno alla macchina capitalista, rivela il suo rovescio. Se il capitalismo è un sistema produttivo e culturale che agisce sulla sfera di una potenza sempre continuamente attualizzata, che tende a non lasciare varchi né faglie ma a suturare infinitamente tutto (e di cui il denaro è il segno distintivo), e se Hollywood ha rappresentato la forma stessa di questa saturazione progressiva, nei modi di un’adozione infinita, attiva e passiva, di immaginari e stili di vita, il cinema italiano ha rappresentato l’altro lato di questa potenza pura, non quella di cui si è appropriato il capitale, svuotandola in una perenne alimentazione di sé, ma quella che, smascherando il dispositivo di appropriazione e rivelandone le falle interne, ha avuto la capacità di affermare, anche in forme esagerate, la potenza eccedente ogni attualizzazione (di cui è immagine icastica e cliché insuperato l’otium italiano). E se il neorealismo lo ha fatto […] affermando lo splendore, sia pur nel dramma, della contingenza, e una certa commedia lo ha fatto riconsegnando alla maschera la capacità di scartare da se stessa (è il caso di Sordi), questa affermazione, dopo il passaggio attraverso il “libero indiretto” degli anni sessanta, giunge a Pasolini, dove la potenza svincolata dall’atto viene a coincidere con la morte. Il cerchio si è chiuso: le torture di Salò svuotano il corpo di ogni potenza, lo abbandonano come cosa inerte, lo separano da sé riconsegnandocelo come “nuda vita”, invertendo il percorso avviato da Roma città aperta, dove il corpo torturato era comunque redento dal suo sacrificarsi per la rinascita e la libertà di una comunità, e diventava dunque il corpo di un martire, come quello della Magnani caduto a terra inseguendo l’uomo amato prelevato dai tedeschi, o come quello dei resistenti torturati e uccisi, come don Pietro, sotto gli occhi dei bambini-testimoni» (Vol. I, pp. 30-31)

Nel cinema italiano, soprattutto a partire dalla metà degli anni ’60, si è sviluppata una tendenza inaugurata dai generi popolari come il “western all’italiana”, che mette in scena un sentimento scettico e cinico della vita lontano dal moralismo della commedia e, a tal proposito, sostiene De Gaetano che nel cinema dei generi popolari, e soprattutto nel western all’italiana, «L’uniforme diventa un’esplicita, ironica e grottesca veste che non si modella più sulla vita sociale ma sulle derive di un immaginario cinematografico scaturito dalla grande tradizione americana. Dal mito dell’America, avviato dall’antologia del 1941 di Vittorini, poi ripreso nel secondo dopoguerra dal neorealismo, dal boogie, dal piano Marshall, da Nando Mericoni, dalla Hollywood sul Tevere, si giunge con il western all’italiana a ribaltare dall’interno quel mito, smascherando il motore del capitalismo americano: l’adozione, non più di stili di vita […] ma di un immaginario svuotato, restituito in forma esagerata e ironica. […] nel western all’italiana viene svelato ed esautorato il motore stesso del capitalismo americano, la sua pratica adottiva, ridotta all’esposizione ironica e grottesca di un immaginario non più simbolizzabile. Il “nudo immaginario” di Leone (e del western all’italiana), grado estremo di un’adozione vuota, fa da pendant alla “nuda vita” di Pasolini, e getterà un ponte verso il futuro, con un potere d’anticipazione straordinario. È qui che il nostro cinema popolare di genere comprende cosa resta di un immaginario triturato da forme di vita perennemente alimentate e bruciate dal consumo e dalla spettacolarizzazione di tutto, dove il cinismo dell’eroe del western all’italiana diviene immagine di un disincanto profondo nei confronti del mondo, e la forma si trasforma in un campo d’azione meramente ludico» (Vol. I, pp. 34-35).

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-volDunque, il “nudo immaginario” che attraversa il cinema italiano dai film di Leone fino al citazionismo di Sorrentino, sostiene De Gaetano, si pone come alternativa al filone avviato dal neorealismo. Questo cinema nazionale che ha preso il via con il western all’italiana appare «caratterizzato da uno “strizzare l’occhio” allo spettatore, che diviene l’indice più rilevante di una scrittura ironica, che liquida il debito nei confronti di qualsivoglia tradizione (italiana in primis), si estromette dalla Storia, fagocita e denuda immaginari privi di mondo, come privi di mondo, e perfino di nome, sono i suoi protagonisti» (Vol. I, p. 37).

Tale direttrice di cinema ha finito col dare forma ad un immaginario sempre più disincantato. «Un cinema fatto da un popolo senza uniforme, che se in politica ha significato attitudine ad indossarne molte, e dunque al trasformismo, in arte e nelle forme di vita quotidiana ha riguardato vicinanza alla potenza e ambivalenza della vita, che è stata anche la ragione per cui, pur essendo singolarmente e specificatamente italiano, il nostro cinema è stato universale. È stato il rovescio del cinema americano, ha espresso le profonde contraddizioni di una società e di un sistema culturale incapace di assimilare potere economico e potenza della vita (come nel pieno capitalismo). Tutte le contraddizioni di un sistema di vita e culturale che il cinema americano ha saputo raccontare in forma impareggiabile, ma rimanendo sempre all’interno di quella “assimilazione”, per cui la vita e la sua potenza tendono ad essere suturati dal potere e dall’azione (anche immaginaria) del capitale, si sono trasformate nel cinema italiano in opportunità impareggiabili per far emergere nel e attraverso il cinema qualcosa che eccede e scarta quest’assimilazione, rivelando attraverso stasi ed esagerazioni lo stallo non solo dell’azione (Antonioni), ma anche di una società divenuta spettacolo (Fellini) e perfino della civiltà stessa (nelle visioni apocalittiche di un Pasolini e di un Ferreri)» (Vol. I, p. 38).

Da tali considerazioni del curatore prende il via Lessico del cinema italiano ove, attraverso ventuno voci affrontate dai diversi autori, il cinema italiano viene indagato con nuove modalità. Ognuna di queste voci viene affrontata passando in rassegna venticinque film a partire da un’opera recente.

Secondo Francesco Casetti, che con la sua Postfazione chiude il Terzo volume e l’intera opera, «ciò che caratterizza il cinema nazionale non è uno stile, né una storia ricorrente, né un canone [quanto piuttosto] una sorta di abbandono al flusso dell’esistenza, un’allergia a delle regole condivise, un’unità che si costruisce come difficile ricomposizione di singolarità, una diffidenza nei confronti delle istituzioni, una capacità di risposta che nasce dalla situazione concreta […] il cinema italiano preferisce il rischio di stare attaccato alle cose piuttosto che il piacere di una formula espressiva condivisa e stabile; in esso il flusso della vita vale più delle forme che dovrebbero catturarlo. Ciò gli consente una straordinaria apertura “all’esteriorità del mondo e all’incompiutezza che lo definisce”» (Vol. III, p. 474).

Nel corso della sua storia il cinema italiano ha saputo sfruttare diversi modelli senza che questi giungessero mai a stabilizzarsi secondo un canone definito. Secondo lo studioso si può parlare di formule ricorrenti che scompaiono e ricompaiono in altri modi. «Le formule non mancano, ma la loro tenuta fa problema; sono pronte a riapparire, ma anche a squagliarsi. Il sentimento della vita è ciò che entra nel cinema attraverso queste faglie, queste rotture. È ciò che emerge quando una formula, anziché consolidarsi e diventare un canone, comincia a sbriciolarsi o a ristrutturarsi in altre condizioni» (Vol. III, p. 475).

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-vol-3Le formule della cinematografia nazionale sembrano presentarsi come “nonformule”, come un insieme di variazioni su un tema. Il cinema italiano «si è costantemente trovato a mal partito con i generi che riposano su un forte processo di astrazione, o che si appoggiano a degli schemi ideali. In particolare, il cinema italiano sembra incapace di praticare da un lato la tragedia, dall’altra il melodramma (nel senso anglosassone del termine). La coesistenza di due opzioni entrambe necessarie ma incompatibili, e che dunque non lasciano via d’uscita (tragedia), o il conflitto tra due modelli di condotta tra cui un soggetto è obbligato a scegliere, perdendo comunque una parte di sé (melodramma), non fanno parte dei plot ricorrenti […] La versione italiana della tragedia è Il sorpasso, in cui la corsa verso la morte è guidata non dal destino, ma dal caso; così come la versione italiana del melodramma non è tanto il filone di Catene e Tormento, quanto C’eravamo tanto amati, in cui sono i fatti della vita a modellare gli ideali cui ispirarsi, e non viceversa» (Vol. III, pp. 477-478).

Se da una parte la blanda formalizzazione nel cinema italiano ha permesso al sentimento della vita di emergere, ciò non vuol dire, puntualizza Casetti, che non sia possibile individuare “maniere” italiane, ma storicamente queste sono state individuate soprattutto da “occhi stranieri”. La “maniera” italiana «non fornisce una collezione di formule fatte e finite; semplicemente testimonia il desiderio di formalizzare un’espressione che altrimenti sarebbe informe. È una “maniera” che appunto abita i piani bassi del cinema e che subito emigra altrove, una maniera “dislocata”. È spesso anche una maniera che funziona da “abbozzo”, da riprendere e da rilavorare, con nuovi accenti e nuove prospettive. È una maniera che si presta a improvvise rifondazioni e a successive ricodificazioni, una maniera “liquida”» (Vol. III, p. 481).

Di seguito la successione con cui in milleseicento pagine Lessico del cinema italiano procede nell’indagare Forme di rappresentazione e forme di vita. Volume I (2014): Introduzione del curatore. Amore (Roberto De Gaetano), Bambino (Emiliano Morreale), Colore (Luca Venzi), Denaro (Marcello Walter Bruno), Emigrazione (Massimiliano Coviello), Fatica (Federica Villa), Geografia (Francesco Zucconi). Volume II (2015): Habitus (Giacomo Manzoli), Identità (Roberto De Gaetano), Lingua (Fabio Rossi), Maschera (Bruno Roberti), Nemico (Daniele Dottorini), Opera (Francesco Ceraolo), Potere (Gianni Canova). Volume III (2016): Quotidiano (Carmelo Marabello), Religione (Alessio Scarlato), Storia (Christian Uva), Tradizione (Luca Malavasi), Ultimi (Alessia Cervini), Vacanza (Ruggero Eugeni), Zapping (Alessandro Canadè). Postfazione di Francesco Casetti.

]]>