cinema di genere – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Biancaneve e le sette (nane). Prolegomeni al sect cinema (II) https://www.carmillaonline.com/2019/08/26/biancaneve-e-le-sette-nane-prolegomeni-al-sect-cinema-ii/ Mon, 26 Aug 2019 21:05:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54308 di Franco Pezzini

(qui la prima puntata)

1.2. Sette per la vita, sette per la morte 

Il primo problema per chi voglia affrontare analiticamente il filone sect cinema – ormai una sorta di subgenere, anche se il termine va inteso con elasticità per i motivi che si diranno – è ovviamente di circoscriverne l’oggetto. Il che non è semplice come risulta invece in riferimento ad altri mostri.

Anzitutto del termine “setta” esistono varie definizioni scientifiche, ma lo sviluppo del tema nel cinema conosce connotati piuttosto fluidi, e abbraccia un’assai variegata [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima puntata)

1.2. Sette per la vita, sette per la morte 

Il primo problema per chi voglia affrontare analiticamente il filone sect cinema – ormai una sorta di subgenere, anche se il termine va inteso con elasticità per i motivi che si diranno – è ovviamente di circoscriverne l’oggetto. Il che non è semplice come risulta invece in riferimento ad altri mostri.

Anzitutto del termine “setta” esistono varie definizioni scientifiche, ma lo sviluppo del tema nel cinema conosce connotati piuttosto fluidi, e abbraccia un’assai variegata serie di comunità o gruppi segreti. Ciò che rileva, infatti, non è tanto un inquadramento “teorico” del soggetto – cosa sia o non sia una setta – ma un contesto narrativo e una serie di stereotipi e dinamiche.

Accanto alle sette vere e proprie, dunque, potremo repertoriare da un lato società e ordini segreti o almeno velati da un silenzio iniziatico come Rosacroce, Massoneria e Illuminati, connotati da un peculiare esoterismo; dall’altro ordini religiosi storicamente riconosciuti ma oggetto di particolare mitopoiesi come i Templari. Ma anche quelle comunità cultuali che per fanatismo, marginalità o vocazione al segreto gli sceneggiatori apparentano di fatto – e con tutti i pregiudizi del caso – alle sette: certi culti esotici, per esempio, non importa quanto fantasiosi (per esempio il culto di Karnak dei film sulla Mummia reviviscente, o i simil-Thug di Indiana Jones e il tempio maledetto).

Per contro non andrebbero comprese nell’analisi (per assenza di un sottotesto magico-religioso dal concreto impatto sulla trama) le società segrete o criminali, anche se connotate nella descrizione filmica da richiami forti a simboli, riti e valori. Al di là di un certo apparato, si pensi solo a quei Beati Paoli di discussa esistenza storica, celebrati all’inizio del Novecento da Luigi Natoli e sul (piccolo) schermo per esempio in un famoso sceneggiato nostrano, L’amaro caso della baronessa di Carini di Daniele D’Anza, 1975.

Ma è l’immaginario a definire i confini. Così, per quanto a rigore le vicende della Family di Manson appartengano all’insieme dei gruppi criminali assai più che alle sette nell’accezione dell’antropologia religiosa, i confusi connotati “filosofici” del gruppo, le orrende modalità del crimine e il tipo di contesto retrostante finiscono con l’avvicinare al tema del diabolismo: solo l’anno prima Roman Polański, marito dell’attrice Sharon Tate – la vittima più nota dell’eccidio, all’ottavo mese di gravidanza – aveva girato quel sulfureo Rosemary’s Baby, 1968 che parlava proprio di una setta satanica e della nascita dell’Anticristo.

In secondo luogo si è accennato al filone delle sette come a un subgenere cinematografico – come, per intendersi, il vampire cinema oppure il cinema demoniaco. Ma anche da questo versante il discorso è più sfumato, visto che nei singoli casi la setta può non rappresentare affatto il “mostro” principale o più evidente. Si pensi ai citati film sulla Mummia reviviscente o a quelli che richiamano gli zombie alla loro origine folklorica: la setta c’è eccome – nel primo caso un sopravvissuto culto egizio, nel secondo un Vudu riletto più o meno fantasiosamente – ma resta in secondo piano o decisamente defilata rispetto al suo alfiere teratologico (che magari si ribellerà, ucciderà l’arci-vilain capo della setta eccetera). Oppure si considerino i film sulla stregoneria: solo in certi casi presentano una collettività streghesca, e a volte le streghe non appaiono affatto, anche se l’inquisitore di turno si mostra molto indaffarato coi roghi e possiamo parlare di setta presunta – che però può avere peso concreto nella trama.

Nel tentativo dunque di porre ordine in una materia tanto sfuggente, un criterio potrà ravvisarsi – con tutta l’elasticità del caso – nella tipologia di setta, in riferimento cioè all’oggetto del “culto” in scena. E una prima e fondamentale categoria riguarderà ovviamente le sette religiose – le più diffuse senz’altro nel tessuto sociale, anche se non necessariamente le più rappresentate al cinema. Da un primo fronte potremo anzi distinguerle in due ampi filoni: le sette emerse dall’interno dell’Occidente che conosciamo, a espressione di ipotetici revival pagani o invece di istanze criptoecclesiali, giocate sul rapporto fanatismo/plagio o sulla resistenza alla chiese dominanti; e le sette venute dall’esterno, connotate in genere da aggressive e pittoresche forme di esotismo. Esotismo geografico, come nel caso di quelle d’importazione dall’Africa selvaggia o dal predatorio Oriente, secondo i più vieti stereotipi transitati attraverso il pelago della cultura popolare tra Otto e Novecento; ma anche esotismo cronologico, in riferimento a realtà del passato evocate nei film in costume, oppure sopravvissute o riemerse dal passato entro il grembo del nostro tempo, come il citato culto di Karnak dei film sulla Mummia.

Un secondo filone, meglio rappresentato su schermo, riguarda la galassia di magia e stregoneria. Le sette insomma dell’occulto, variamente declinato: e se per le streghe, che aprono un orizzonte vastissimo di problemi, occorrerebbe circoscrivere l’esame agli aspetti di un “culto” più o meno recuperato dalla divulgazione popolare (non è detto che un film dov’è in scena una singola strega alluda a una qualche sua collettività di appartenenza), altre comunità emergono in toto dal mondo della fiction. Si pensi ai culti blasfemi ispirati agli scritti di Lovecraft, che con abbondanti forzature troveranno via via spazio nel cinema, o (per dire) allo sfuggente e bizzarro culto dei Pantos delle fantasie horrotiche del regista Jess Franco. A quest’ambito variegato si possono peraltro accostare anche le sette evocate dai film di vampiri – sette di vampiri o comunque legate a vampiri, riti di sangue e ansie d’immortalità – o di licantropi: sottofiloni che negli ultimi anni, attraverso il successo della saga Twilight e le divagazioni di un (com’è stato definito) romanticismo sexy, sia pure al plasma, hanno visto moltiplicarsi nella fiction conventicole sempre più simili alle associazioni adolescenziali da college.

Terzo grande gruppo, di conclamata rilevanza nell’immaginario e dunque ovviamente importantissimo su schermo, è poi quello delle sette sataniche – o più generalmente diaboliste. Varato dal capolavoro non sufficientemente conosciuto di Edgar Ulmer, The Black Cat, 1934, il filone è quello che con più pertinacia ripropone gli stereotipi del modello-setta offrendo materia ogni anno a un numero non compiutamente repertoriabile di pellicole.

A tali macroaree dovranno però aggiungersi altri insiemi filmicamente meno rappresentati e con legami più problematici con il modello-setta, pur trattenendone alcune caratteristiche nelle trame. Troveremo per esempio le citate società segrete “storiche” di tipo esoterico (Illuminati, Rosacroce eccetera…) ovviamente nell’ambito di liberissime riletture; certi gruppi di controllo e cospirazione a carattere sociopolitico (sette votate al dominio, sette di ricchi, gruppi “preoccupati”), o connotati sul piano generazionale (confraternite giovanili, hippies, “sette” di bambini) o sessuale (come certe sette femminili). Oltre ad altri gruppi chiusi che gli stilemi cinematografici riconducono in termini più o meno riconoscibili al modello-setta.

 

1.3. Le stagioni della setta

Nella produzione filmica in tema di sette è possibile individuare quattro periodi fondamentali.

Il primo e più lungo periodo potrebbe essere definito come età del feuilleton. La setta è descritta secondo gli stilemi di tutta una produzione romantica/gotica su società e gruppi segreti: l’arsenale tenebroso e pittoresco, l’esotismo e l’enfasi su un passato tirannico, il dominio arcano su forze misteriose e minacciose, i melodrammi delle eroine sono elementi che sottolineano uno scarto tra l’esperienza mostruosa della setta e la realtà sociale “normale” cui appartiene lo spettatore. Non che manchino, intendiamoci, richiami all’inquietudine; ma la setta è un paradigma dell’estremo che interpella solo in via di eccezione. In questi anni, seminale è l’opera di fiction del “principe degli scrittori thriller” tra i Trenta e i Settanta, Dennis Wheatley (1897-1977): tutti coloro che in seguito immagineranno il theatrum delle sette si rifaranno in modo diretto o indiretto a lui, e una delle ultime grandi opere di questa fase è The Devil Rides Out, 1968, tratto dal suo omonimo romanzo, diretto per la Hammer da Terence Fisher e sceneggiato da Richard Matheson.

La svolta si ha idealmente con il caso Manson, che punta diretto al cuore del cinema ma scatena il panico non solo a Hollywood: altri crimini della Family hanno colpito gente comune, talora con teatrale atrocità, e il combinato di totale devozione dei membri, difficoltà di provare le accuse a Manson e impossibilità di circoscrivere con chiarezza un gruppo tanto sfuggente (ammiratori e fiancheggiatori non si contano) spiazza gli investigatori e alla fine il pubblico. Colpita è una certa immagine dell’America, e il caso finisce col segnare una svolta nell’immaginario già investito dal terremoto simbolico del ’68: la carica di sovversione recata dalla setta sembra sovvertire in chiave satanica i valori di un paese fondato con la Bibbia in mano, minacciare ogni possibile ambito, infiltrarlo in radice (perverte persino il “peace and love” marca hippie), annunciare la presunta apocalisse sociale dell’Helter Skelter. Anche attraverso il sensazionalismo da rotocalco di un’epoca in cui le fonti per comprendere un fenomeno sono limitate e l’esplosione coeva del grande revival magico (che potremmo simbolicamente datare all’uscita nel 1970 di Man, Myth & Magic: An Illustrated Encyclopedia of the Supernatural is an encyclopedia of the supernatural a cura di Richard Cavendish, ma ovviamente vede una quantità di tasselli precedenti), il mostro-setta entra così a piedi uniti nel genere horror. Che sta capitalizzando proprio le confuse dinamiche di un’età di ribellione – si pensi agli innumerevoli film sulla persecuzione delle streghe, già avviati dal leggendario The Witchfinder General (Il Grande Inquisitore) di Michael Reeves, 1968 – e trova in quel soggetto teratologico collettivo un tema importante. Al di là di abbondanti concessioni al pruriginoso, i film di questo periodo – che potremo appunto chiamare età dell’Helter Skelter – rivelano ancora a una lettura odierna la propria carica provocatoria. Una dimensione che però alla fine degli anni Settanta tende a esaurirsi.

Se è difficile ravvisare un punto di svolta, pare possibile riconoscerlo almeno a fini convenzionali nel 1978: in corrispondenza cioè con un nuovo terribile evento di forti ricadute sull’immaginario, il cosiddetto massacro della Guyana. A portare alla morte di novecentodiciotto persone, bambini compresi, non è un satanista (come spesso viene imprecisamente definito Manson) votato all’eversione ma un religioso, il reverendo Jim Jones del Tempio del Popolo: e il rapido approdo su schermo di un evento tanto eclatante – Guyana: Crime of the Century (Il massacro della Guyana) di René Cardona Jr., 1979 – è già indicativo di un nuovo modo di raccontare le sette. Potremmo parlare di età dell’ordinaria crudeltà per il periodo che giunge fino all’inizio degli anni Novanta: esaurita la valenza provocatoria del tema – come per molti altri sottofiloni gotici, si pensi al vampire cinema – con l’età del riflusso la tendenza è di confezionare prodotti “sicuri” nel segno di uno stile definito come originalità decorosa. Non che, ovviamente, manchino in assoluto film coraggiosi; ma a livello diffuso, abbandonate le emozioni del classico feuilleton e anche quelle della rivolta lisergica, la setta diviene uno stereotipo mostruoso come altri, in un continuo rilancio all’atroce.

Con l’inizio degli anni Novanta, però, l’horror e in genere il fantastico conoscono una nuova primavera: e pare emblematica l’uscita nel 1991 del film La Setta di Michele Soavi. In questa fase la riscoperta dei classici del passato (anche grazie a strumenti come VHS, DVD e comunque il web), l’intento di recuperarne il sapore anche filologico, il dialogo con la cultura neogotica conducono a un’attenzione nuova ai miti neri. In tale età gnostico-gotica (così potremmo chiamarla) che vedrà figure antiche riprendere quota con impreviste impennate le sette ritrovano un ruolo importante nell’immaginario cinematografico. Si diffonde nella cultura popolare una fascinazione un po’ New Age per quel filone criptoecclesiale che già annuncia Dan Brown, e permette di innestare nel vecchio arsenale paleogotico (abbazie dirute, inquietanti segreti, ambigui monsignori…) un nuovo esoterismo di consumo: un fenomeno oggi arretrato ma conservando il valore di un riferimento “eccellente” e un certo target. Emblematico anche il successo di altre fantasie gotiche che con le sette possono trovare connessioni, dal fantasy gotico della saga di Harry Potter – che riporta in circolazione il tema dei gruppi magici – alla variegata offerta (Buffy, Twilight) in tema di vampiri e relative collettività segrete: anche su questo fronte si assiste oggi a un arretramento, ma si tratta di temi ormai entrati nell’immaginario collettivo.

Se, a distanza di quasi trent’anni, i richiami al “mostro plurale” iniziano a sembrare un po’ logori (ma sempre godibili e magari sanamente provocatori se gestiti con intelligenza) non è in questione forse solo la rapidità con cui il nostro mondo usa e getta. Il fatto è che l’età del sospetto ha ormai scoperchiato le cripte un tempo segrete: non perché il segreto in quanto tale non abbia più spazio nel nostro mondo iperconnesso, ma perché quelli che davvero esistono sono affogati nella chiacchiera. Montate come maionese dai social, bufale e crociate antibufale (magari per imbavagliare il web) presentano la stessa assenza di logos. Il cospirazionismo e il suo fratello gemello, l’anticospirazionismo di comodo – quello che inibisce qualunque dubbio sulla realtà come presentata, in nome d’interessi che restano di classe e non equivocamente di casta, nuovo nome della setta – lavorano felici assieme.

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Biancaneve e le sette (nane). Prolegomeni al sect cinema (I) https://www.carmillaonline.com/2019/08/23/biancaneve-e-le-sette-nane-prolegomeni-al-sect-cinema-i/ Fri, 23 Aug 2019 21:01:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54254 di Franco Pezzini

Nell’agosto 1969, mezzo secolo fa, si consumano due eventi di fortissimo impatto mediatico. Uno, lo sappiamo, è il festival di Woodstock (15-18 agosto), i famosi “tre giorni di pace e musica rock”, culmine ideale della stagione della Summer of Love, con forse mezzo milione di spettatori: un evento in qualche modo epocale nel pur variegatissimo panorama delle controculture USA. L’altro, di tipo ben diverso e consumato in pratica nello stesso periodo, è il caso Manson (eccidi 9-10 agosto, arresti 16 agosto), che per quanto frutto dei deliri di un gruppo [...]]]> di Franco Pezzini

Nell’agosto 1969, mezzo secolo fa, si consumano due eventi di fortissimo impatto mediatico. Uno, lo sappiamo, è il festival di Woodstock (15-18 agosto), i famosi “tre giorni di pace e musica rock”, culmine ideale della stagione della Summer of Love, con forse mezzo milione di spettatori: un evento in qualche modo epocale nel pur variegatissimo panorama delle controculture USA. L’altro, di tipo ben diverso e consumato in pratica nello stesso periodo, è il caso Manson (eccidi 9-10 agosto, arresti 16 agosto), che per quanto frutto dei deliri di un gruppo relativamente limitato esplode nei media sparigliando tutte le carte. La società americana è colta alla sprovvista dall’orrore e insieme dal carattere sfuggente della vicenda (la tesi di un apocalittico conflitto sociale che Manson avrebbe inteso scatenare attraverso gli omicidi risulta almeno fantasiosa, e legata – il memoriale Helter Skelter del prosecutor Bugliosi è abbastanza chiaro – alle difficoltà probatorie di sostenere l’accusa al malefico santone); e pur avviando un periodo di forte tensione, l’eccidio perpetrato dalla cosiddetta Family di Manson non porta a una generalizzata caccia alle streghe verso le controculture, come forse sarebbe avvenuto in altri momenti. Ma certo quel caso offre su un piatto d’argento all’immaginario collettivo – tra motivi concreti e stigmatizzazioni di parte, anche a seconda dell’approccio assunto dall’osservatore verso le realtà alternative – un nuovo volto della rivolta beat, ben più imprevedibile e allarmante. Sul tema, estremamente complesso, in questa sede non si entra.

Ciò che invece interessa è un altro contraccolpo immaginale. Il caso Manson influisce infatti in modo irreversibile sull’idea di setta presente in narrativa ma soprattutto sugli schermi, e che perde improvvisamente i connotati da feuilleton conservati fino a quel punto per assumerne di assai più sinistri.

 

1.1. Uomini e topoi

Di fronte all’odierno brulicare nella fiction (horror, storie fantastiche, thriller, polizieschi, e l’elenco potrebbe continuare) del soggetto-setta, di primo acchito si è portati a sospettare una sorta di diffusa pigrizia narrativa. A dirla con malizia, l’entrata in scena della setta di turno – spesso cattivissima – esime romanzieri e sceneggiatori dallo sforzarsi troppo sui moventi dei crimini, dal costruire psicologie complesse ai personaggi buoni e cattivi, dall’intessere dinamiche di eccessiva originalità. E permette di riciclare indefinitamente ingredienti simili, colpi di scena compresi. Ci sarà per esempio il momento in cui l’eroe intuisce di trovarsi di fronte a una realtà oscura collettiva e segreta; ci sarà la messa in scena del controllo che la setta esercita su soggetti più o meno vivi (persone “normali” controllate via plagio, ipnosi o forme di necrosi psicologica, ma anche zombie e mummie); ci sarà la scena del rito tenebroso, magari orgiastico; e ci sarà la solita fanciulla, o più raramente l’eroe o antieroe, davanti alla prospettiva di qualche orrendo sacrificio. Quando poi – come più raramente accade – la setta è invece “buona” e si schiera contro i vilain di turno, dovrà essere comunque circonfusa di un equivoco senso di mistero.

Dunque certo, può trattarsi di pigrizia dei narratori/sceneggiatori. Tuttavia la diagnosi in molti casi dev’essere meno ingenerosa e banalizzante: e la fiction sulle sette – di cui proprio il cinema offre il volto più popolare anche in termini di numeri di fruitori – permette di porre in scena dinamiche di oggettivo interesse. Per dire, a questo tipo di cinema si ricollega uno dei film in assoluto più belli di tutta la storia dell’horror, The Wicker Man di Robin Hardy, 1973. Il distinguo, come al solito, starà insomma nel tipo concreto di spendita del tema di volta in volta.

Vero e proprio mostro plurale, la setta permette di giocare in termini stilizzati e anzi ritualizzati elementi di sicuro successo presso il pubblico. Elementi piuttosto vari: dal più candido gusto per l’avventura e il mistero al richiamo un po’ pruriginoso per la damsel in distress, dal riconoscimento di strutture topiche che con le fiabe hanno molto a che fare – e soddisfano alcune nostre attese profonde in un complesso gioco di sfoghi ed esorcismi – all’evocazione sottile di concreti disagi e crisi d’epoca. Certo la necessità per l’eroe di calarsi in una dimensione di tenebra – il tempio segreto della setta – per strappare la vittima a una collettività senza volto e sconfiggere il male può dirla lunga sul rapporto con quel tempio d’Ombra che sono le pulsioni individuali e collettive in riferimento a valori, stereotipi di genere eccetera. Che ciò poi comprenda anche le peculiari attese dello spettatore postmoderno non può stupire: il richiamo cioè a vedere drammatizzata in scena, in un tessuto insieme provocatorio e gratificante, quella cifra del sospetto che connota – a torto o a ragione, poco importa – la società in cui viviamo.

A livello generalissimo, le trame presentano anzitutto un evento drammatico che porti il gruppo chiuso & segreto all’attenzione di una società più o meno ampia. Un’emersione che si manifesta anzitutto su un piano metatestuale come narrazione: è lo spettatore, prima ancora del protagonista, il soggetto che dev’esserne informato. Ciò innesca dinamiche interessanti: se la setta è il più paradigmatico mostro sociale, una società-mostro ombra e riflesso oscuro di quella più estesa di cui lo spettatore fa parte, il confronto permette di drammatizzare una serie di opposizioni (aperto/chiuso, conoscibile/segreto, libero/non libero eccetera) potenzialmente feconde per una meditazione critica sul nostro mondo di appartenenza. E d’altra parte il modo in cui la crisi su schermo verrà risolta – persino nel caso di una setta che, a un certo punto del film, si riveli “buona” – lascia spesso intravedere un estremo pessimismo degli sceneggiatori.

Se ciò attiene alla visione della setta dall’esterno (il protagonista e in parallelo lo spettatore), la drammatizzazione conduce d’altronde a scrutare – almeno a tratti – l’interno. Con la rivelazione della forte coesione dei membri, a livello interiore/psicologico ed esteriore/organizzativo: qualcosa che si manifesta come legame di sangue – sanzionato magari con terribili giuramenti e maledizioni – ma flirta con l’indifferenziazione, quasi a echeggiare una cifra Legione di identità frantumate e confuse in minacciosa identità collettiva. Ciò che trova la manifestazione culminante nella messa in scena del plagio (usiamo il termine in chiave generica), con gli adepti condotti a perpetrare gli atti più atroci o a subirli. Le potenzialità (melo)drammatiche del meccanismo sono evidenti, ma esso finisce con l’evocare in chiave provocatoria anche le alienazioni, i plagi e le crisi del mondo esterno “libero”.

Strettamente connesso, ed esso pure funzionale al frisson narrativo è d’altra parte il motivo del segreto. La setta vive dinamiche “coperte”, esclusive nei confronti del mondo esterno, e ciò rileva anche in tutto un contesto scenografico: caverne, templi segreti, ville impenetrabili, fattorie nel deserto permettono a registi e sceneggiatori di coinvolgere il pubblico grazie a un arsenale tradizionale di pittoresca efficacia, con riti obliqui il cui arsenale non è sempre chiaro. Ma al contempo proprio l’elemento del segreto – ovviamente da svelare – offre combustibile alla trama, provoca la quest dei protagonisti: e finisce così col manifestarsi come conclamata metafora mitica di quel segreto – l’evoluzione misteriosa di una trama in mano allo sceneggiatore – che sostanzia la curiosità verso qualunque film.

Proprio il segreto, però, topos del gotico classico a cui questo filone richiama, informa nella fiction anche un altro tema, il rapporto col potere. La collettività espressa dalla setta è per definizione minoritaria ma nel segno di un qualche tipo di élite: forte delle sue coperture, essa si impone come presenza irriconosciuta, pervasiva e infiltrante la società. Come espressione di spregiudicate lobby di potere anche ai più alti livelli, o invece di realtà sotterranea tra le pieghe nascoste del mondo cognito. Fino ad accreditarsi a motore segreto di storia, politica, religione e quant’altro, sull’onda di quei cospirazionismi di cui la cultura popolare trasuda nei più vari ambiti.

Fin qui si è accennato alle dinamiche drammatiche offerte dal motivo dell’oppressione psicologica o ideologica all’interno o all’esterno del gruppo; ma il tema di una religio in nero apre a uno spettro di suggestioni assai più ampio. Così da un lato conduce al variegato e febbrile bacino di fiction sui paganesimi: e di qui a sviluppi sui fronti paralleli del rapporto perturbante con il passato (si pensi a quel caposaldo del genere Folk Horror che è The Wicker Man, dove la setta è rappresentata dall’intera comunità neopagana dell’isola), e dell’alienità insidiosa delle culture esotiche in rapporto al civile Occidente (le sette egizie nei film di mummie, caraibiche nelle storie sul Vudu, eccetera). Ma da un altro fronte la religio in nero provoca direttamente, sia pure in termini fantastici, su temi ed elementi di un immaginario “cristiano”: un’evoluzione che trova radice nel primo gotico antipapista, e conosce sviluppi critici via via allargati a istituzioni e ambiguità di un po’ tutte le chiese dominanti, per giungere in fondo al vasto, colloso pelago odierno dell’esothriller alla Dan Brown. A fronte poi di questi poli del religioso si strutturano in funzione dialettica anche i relativi opposti, fino agli estremi dello streghesco e del satanico: e l’evocazione della minaccia – vera o presunta – incarnata dalla setta permette di proiettare come nei giochi d’ombre antesignani del cinema le stesse ambiguità della controparte.

Tutto un mondo simbolico tradizionale – segni, riti, liturgie… – viene così recuperato alla luce del pittoresco e dell’orrido, e la galleria delle brutture storiche liberissimamente rievocata grazie al comodo schermo di conventicole fittizie o poco note. Si tratta ovviamente di una nebulosa molto variegata, che corre dal brivido di certe fantasie criptoecclesiali – tenebrose sacrestie, cappucci, paramenti, angeli marmorei sotto nubi apocalittiche – alla diretta messa in scena del male attraverso topoi come il sacrificio umano e la tensione a un Anti-Avvento satanico. Nelle pellicole si potrà anzi individuare in genere almeno una scena-chiave di carattere specificamente rituale – sacrificale, iniziatica, eccetera: quello che possiamo definire il theatrum proprio della setta, e tale da compendiare idealmente un po’ tutti i topoi in precedenza citati.

La sua messa in scena permette infatti una svolta più avanzata nella conoscenza del mostro-setta da parte di protagonista e spettatore; svela nella coesione della setta la sua realtà di corpo (anti)sociale; sottolinea visivamente la cifra del segreto, anche nella collocazione spaziale della scena in un tempio nascosto, una cripta, una grotta; celebra l’epifania del potere della setta stessa, sia in senso materiale (per esempio nella visione dell’eroina catturata e pronta al sacrificio) che ideale (per esempio nel rivelare sotto i cappucci degli adepti personaggi presentati in precedenza come “importanti” – a vario titolo); e ovviamente ammannisce un ricco arsenale di suggestioni simboliche e rituali d’effetto. Ma anche da questo punto di vista, potremmo dire, la messa in scena riproduce con efficacia un meccanismo sottostante, finendo con l’essere metafora diretta del rito del cinema, con i suoi templi immersi nell’oscurità della proiezione.

E in particolare del cinema nero, recante il theatrum di provocazioni, crisi e contraddizioni del singolo spettatore e della società cui appartiene. Come in una rilettura della fiaba, il protagonista di queste storie dovrà dunque salvare la propria Biancaneve dall’altare-catafalco del sonno della Ragione, presidiato da una collettività nana oscuramente ctonia. Il che conduce verso abissi ben più profondi della cassa di una biglietteria; e il comodo sotterfugio di riparare dietro a una schiera litaniante di cappucci, tra torce, teschi e strani paramenti, finisce con lo svelare allo spettatore dimensioni ulteriori, dall’emersione più o meno imprevista o imbarazzante.

(I – continua)

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Alice in Exploitland https://www.carmillaonline.com/2016/04/23/alice-in-exploitland/ Sat, 23 Apr 2016 21:08:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30054 di Franco Pezzini

Il cinema dell-eccessoUna sera di qualche anno fa, probabilmente il 2009, l’amico Max Ferro regista di Io sono un vampiro mi propone di raggiungerlo al TOHorror, dove sarà ospite Jean Rollin. Posto che l’appuntamento al TOHorror è un must per qualunque torinese (e non solo) sia cultore appunto di horror – la scelta di pellicole presentate a ogni edizione è di qualità altissima, e il combustibile di passione impegnato da un’organizzazione di poche persone ottiene miracoli – l’idea comunque di incontrare Rollin mi affascinerebbe. I suoi film, quelli almeno non puramente alimentari (vabbè, gli hardcore), con la [...]]]> di Franco Pezzini

Il cinema dell-eccessoUna sera di qualche anno fa, probabilmente il 2009, l’amico Max Ferro regista di Io sono un vampiro mi propone di raggiungerlo al TOHorror, dove sarà ospite Jean Rollin. Posto che l’appuntamento al TOHorror è un must per qualunque torinese (e non solo) sia cultore appunto di horror – la scelta di pellicole presentate a ogni edizione è di qualità altissima, e il combustibile di passione impegnato da un’organizzazione di poche persone ottiene miracoli – l’idea comunque di incontrare Rollin mi affascinerebbe. I suoi film, quelli almeno non puramente alimentari (vabbè, gli hardcore), con la loro sghemba poesia surrealista, le vampire trasognate e le donne-bestie su strani sfondi cimiteriali o spiagge bretoni d’inverno sono una festa per la fantasia, eccessivi quanto improbabili, provocatorii, deliranti. Ma l’incontro cade in seconda serata, sono stanchissimo dopo il lavoro e non ce la faccio: col risultato di mangiarmi le mani ancor oggi perché quella sera Rollin si ferma a chiacchierare coi presenti – compreso Max, di cui conosce e ha apprezzato il film – e l’anno dopo morirà, il 15 dicembre 2010, portandosi via un altro pezzetto di quell’incredibile cinema che ha nutrito un’intera stagione di sogni.
Questo ricordo riemerge al trovarmi tra le mani Il cinema dell’eccesso. Horror, erotismo, azione e molto altro nei film dei maestri dell’exploitation di Rudy Salvagnini, Crac Edizioni; o meglio il primo volume, uscito nel 2015 e dedicato appunto alla produzione europea, mentre il secondo ora fresco di stampa riguarda Stati Uniti e resto del mondo (euro 24 ciascuno). Salvagnini, temerario palombaro del cinema di genere, si concede così una nuova ampia opera, dopo quel monumentale Dizionario dei film horror. Dall’Abbraccio del ragno a Zora la vampira (Corte del Fontego, Venezia 2007, aggiornato 2011), non solo di enorme respiro ma – virtù non scontata per un repertoriatore – fornito di ottimi commenti critici.
Con questo Cinema dell’eccesso, Salvagnini ne fa un’altra delle sue: un’analisi a tappeto, criticamente ricchissima, dell’opera dei maestri di quel cinema all’insegna del to exploit, “sfruttare”, nel doppio senso dello sfruttare un tema (da cui i birichini derivati sexploitation, blaxploitation, nunsploitation, eccetera) e di “sfruttare gli istinti più basilari dello spettatore medio” con la spregiudicatezza del caso. Una specie di ipergenere, trasversale ai generi veri e propri (come da sottotitolo: Horror, erotismo, azione e molto altro) e dunque identificabile non tanto attraverso i contenuti specifici, ma da un modo di narrare.
Nel volume sull’Europa troviamo non solo (ovviamente) Rollin e il suo grande avversario/contraltare Jess Franco, ma il cantore inglese dei guasti perversi dell’autorità (preti sessuofobi, giudici fai-da-te…), Pete Walker; il romantico e a suo modo candido Jacinto Molina in arte Paul Naschy (morto a sua volta nel 2009), eroe popolare spagnolo in pelliccia da uomo-lupo in una raffica di film deliziosi; e gli assai meno candidi Norman J. Warren e José Ramón Larraz, il primo (per intenderci) regista di Satan’s Slave, 1976 e Inseminoid, 1981, e il secondo dell’indimenticato Vampyres, 1974, con Marianne Morris e Anulka Dziubinska perdute in un vortice di eros e di sangue. Anche se i percorsi ovviamente sono aggiornati, un sapore vintage di sovversione anni Settanta ammanta l’ottima panoramica di una vaga malinconia sulla distanza.
Ma con il secondo volume Salvagnini si spinge più lontano. Anzitutto negli USA, dove tra la massa dei fantasisti del settore sceglie alcuni nomi eccellenti: il modello di Tarantino, Jack Hill, nella cui ricca produzione basta ricordare la disturbante commedia nera Spider Baby, 1968, con un Lon Chaney Jr. istrionico e crepuscolare; la “Godard dell’exploitation” Doris Wishman, la cui lista di titoli su nudi, nudisti & cattive ragazze la dice già lunga, e che rappresenta un’esplosiva eccezione in un settore saldamente piantonato da registi maschi; e – altra eccezione – la collega Roberta Findlay, che con il marito Michael ha rappresentato un tandem piuttosto esplosivo prima della separazione e della (spaventosa) morte di lui in un incidente d’elicottero. Roberta reggerà per un po’ di anni il timone da sola, lasciando soltanto all’alba della decade Novanta, quando constata che non sono “più rimaste compagnie video cui vendere immondizia”.
Ma anche per il resto del mondo, Salvagnini elegge singole, memorabili esperienze. Il Messico, anzitutto: con il popolarissimo ed eclettico René Cardona (senior, padre e nonno di altri René Cardona registi popolari), tra i maggiori responsabili delle goduriose saghe di horror & wrestling in cui tutti ci siamo prima o poi imbattuti, ma che meriterebbero una frequentazione mirata; e naturalmente il visionario Juan López Moctezuma, autore di quell’enigmatico caposaldo del nunsploitation che è Alucarda, 1978, film barocco e poetico, surreale e affascinante ispirato in parte a Carmilla (anche se il regista muore senza aver varato l’atteso sequel chiarificatore, uno degli unfilmed movie più intriganti di sempre). Poi il Giappone con Teruo Ishii, tra crimini, torture ed eccessi assortiti; Hong Kong con il bizzarro, fantasioso Nam Nai Choi – in realtà noto anche sotto una pletora di altre traslitterazioni o pseudonimi, prima di (letteralmente) sparire nel nulla; le Filippine con l’attivissimo Eddie Romero, in realtà mattatore dell’exploitation sulla scena internazionale; fino al Brasile del provocatore José Mojica Marins, noto per la parossistica epopea del becchino Zé do Caixao.
Come Salvagnini ammette, la base dell’opera è offerta dagli articoli scritti in dieci anni (2000-2010) per “Segnocinema”, anche se ovviamente rielaborati, arricchiti e aggiornati. A mostrare con complicità ma con equilibrio critico le bizzarre virtù di opere dove proprio il pragmatismo dell’assunto dei produttori (un to exploit spudorato, grottesco, vorace) lascia una paradossale libertà a straordinarie figure di registri artigiani. Liberi a quel punto di osare sperimentalmente come il cinema “perbene” non permetterebbe mai.

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Alla Festa dei folli con Sir Christopher Lee https://www.carmillaonline.com/2015/07/04/alla-festa-dei-folli-con-sir-christopher-lee/ Sat, 04 Jul 2015 21:17:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23806 di Franco Pezzini

christopher-leeLa prima versione si intitolava Tall, Dark and Gruesome, cioè Alto, scuro e orrifico (W.H. Allen, Londra 1977, 1997); ma poi gli aggiornamenti erano divenuti così massicci da fargli cambiare titolo in Lord of Misrule: The Autobiography of Christopher Lee (Orion Publishing Group, Londra 2003). In effetti, da raccontare c’era moltissimo: e nei ricordi che si sono susseguiti su giornali e web del mattatore scomparso novantatreenne il 7 giugno non può che affiorarne una minima parte, elenchi dei principali ruoli di un’incomparabile carriera, e spigolature emblematiche da una [...]]]> di Franco Pezzini

christopher-leeLa prima versione si intitolava Tall, Dark and Gruesome, cioè Alto, scuro e orrifico (W.H. Allen, Londra 1977, 1997); ma poi gli aggiornamenti erano divenuti così massicci da fargli cambiare titolo in Lord of Misrule: The Autobiography of Christopher Lee (Orion Publishing Group, Londra 2003). In effetti, da raccontare c’era moltissimo: e nei ricordi che si sono susseguiti su giornali e web del mattatore scomparso novantatreenne il 7 giugno non può che affiorarne una minima parte, elenchi dei principali ruoli di un’incomparabile carriera, e spigolature emblematiche da una vita che (non è un modo di dire) pare un romanzo. Gli uni e le altre a tracciare coordinate dell’immaginario tra il Novecento e il Nuovo Millennio ben al di là dei limiti di uno specifico cinematografico.

Suona banalità ricordare come Lee, richiestissimo fino agli ultimi giorni della lunga vita (caso in fondo raro, nel cinema), e anzi persino di più che in altri periodi, abbia rappresentato una vera leggenda vivente; e le sue maschere si sono affermate con tale forza da condizionare fantasie e letture del pubblico – che spesso fatica oggi a pensare a volti diversi per i personaggi da lui evocati. Una sfilata di ruoli celeberrimi e continuamente citati: la Creatura di Frankenstein e naturalmente Dracula, la Mummia, Sherlock (e Mycroft) Holmes ma anche Sir Henry Baskerville, Fu Manchu e Rasputin, il killer Scaramanga di Fleming, Rochefort della saga dei moschettieri, e via via fino alle ultime apparizioni come Saruman e conte Dooku. Ma tra le duecentosettantotto parti repertoriate su IMDb ci sono anche il pittore puntinista Georges Seurat, il dickensiano marchese di St. Evremonde e il quasi-lefanuiano conte Ludwig Karnstein, il consigliere Billali del She di Rider Haggard, il duca de Richleau del romanziere (e amico di Lee) Dennis Wheatley, il pessimo giudice Jeffries e Dolmance di Sade, Artemidoro nel Julius Caesar, un simil-Jekyll che solo per bizzarria della produzione non porta il nome voluto da Stevenson, il principe Filippo di Edimburgo, Sanson il boia della Rivoluzione Francese, Ramses faraone, il principe Prospero di Poe, il Gran Maestro dei Templari Lucas de Beaumanoir dell’Ivanhoe, Tiresia nell’Odissea, il fondatore del Pakistan Mohammed Ali Jinnah, Flay nel Gormenghast, il dottor Wonka de La fabbrica di cioccolato, il cardinale Stefan Wyszynski, persino Lucifero e la Morte. Ha prestato la voce a mister U. N. Owen nel Dieci piccoli indiani 1965, all’immenso narratore di spettri M. R. James (che tanti anni prima aveva conosciuto al college), al Jabberwocky dell’Alice di Burton. Forse nessun altro attore ha coperto tanto estensivamente l’immaginario, offrendo connotati a figure letterarie, storiche o miti “classici” del cinema. Se poi consideriamo anche tutte le altre parti da lui rivestite, la galleria è impressionante.

D’altra parte è un fatto che l’incredibile carisma di Lee – simile in qualche modo, ma con caratteristiche proprie e personalissime, a quello dei due complici e cari amici Peter Cushing e Vincent Price – non si misura nel semplice fascino di una presenza scenica tall, dark and gruesome. Quando una di queste Ombre Lunghe entra in scena, lo spazio all’intorno diventa più ampio e più profondo, come se i copioni raccontassero molto di più, svelassero sensi ulteriori, provocassero con più intensità categorie che abbiamo dentro. Ed è in effetti ciò che accade, non solo per la cosiddetta (il termine è vieto) magia del cinema, ma per lo stile degli interpreti.

Il fatto è che Lee non è solo un uomo intelligente. Come nel caso dei due grandi colleghi, il suo approccio è colto, riflessivo. Non si contenta dei copioni, va a leggersi le opere da cui sono tratti e prende le parti degli autori contro le licenze di sceneggiatura. Persino la sua autobiografia non ha il taglio delicatamente privato dei due memoriali di Cushing (pure tanto attento ai dettagli di costume, all’impasto dei ruoli con tutta una realtà circostante) ma è un ampio, godibilissimo affresco sulla carrellata di un secolo. Lee è appassionato di storia e scrive benissimo, con un senso della misura anche nell’affabulazione, e un pudore e un’ironia che stemperano anche i drammi descritti. Nelle sue pagine troviamo attori, scrittori, figure note della politica e della società: sia perché lo status più o meno aristocratico della sua famiglia l’ha messo in contatto fin da piccolo con nomi eccellenti (ancora giovanissimo, lui che tanti anni dopo interpreterà Rasputin, ne ha per esempio conosciuto in casa i due assassini, il principe Yusupov e il granduca Dmitri Pavlovich); sia perché lungo tutto il corso della lunga vita la curiosità lo spinge a incredibili incontri e dialoghi durevoli.

Così le sue avventure non si esauriscono nei particolari a effetto tanto spesso ricordati – per dire, le gesta nei Servizi Britannici che potrebbero aver ispirato qualcuna delle fantasie del mezzo parente Ian Fleming: in Lord of Misrule troviamo ampie e vivaci descrizioni della società prima della guerra, un dettagliato resoconto del lungo periodo delle ostilità (vissuto in parte sul fronte italiano), i racconti sulla dura gavetta da attore che vede il giovane allampanato liquidato con particine dai produttori. Con quella statura, impossibili le scene d’amore… E poi via via il successo, tra crisi personali, frustrazioni, tentativi di smarcarsi da ruoli incollati e avvertiti come condizionanti – a partire da quello di Dracula, che pure ha fatto la sua fortuna.

Al quale tuttavia Lee riesce sempre a offrire connotazioni non scontate, riuscendo a emergere – al di là delle libertà di sceneggiatura – come il Conte più imponente, credibile e in fondo stokeriano della storia del cinema. La carica erotica che riesce a imprimere alla parte, accentuando però insieme distanza e feroce autorità, è qualcosa di così nuovo da spiazzare le platee in tutto il mondo (si sostiene anzi che la sua prima apparizione col manto nero, 1958, segni un’impennata nei furti in alloggi in Gran Bretagna, a causa di finestre lasciate aperte per eventuali incursioni del vampiro di turno). Persino le due scampagnate nell’Inghilterra dei primi anni Settanta tra hippie e spy-fi – Dracula A.D. 1972 (1972) e The Satanic Rites of Dracula (1973) – per i quali nell’autobiografia Lee ha parole durissime, sono in realtà film fantastici estremamente riusciti; e i leggendari rifiuti dell’attore a parlare del ruolo (piantando magari in asso l’interlocutore che abbia imprudentemente violato la consegna) costituiscono insieme ostilità viscerali alle banalizzazioni del fandom e reazioni per un preciso timore di etichettatura in qualche baraccone.

Tanto più che il gentiluomo Lee si presenta spesso come burbero: un’infanzia poco felice ed emotivamente freddina, gli ammonimenti di colleghi più anziani a non lasciar avvicinare troppo il pubblico, il fastidio per un orizzonte di relazioni forzate e festaiole. Niente di meglio per festeggiare l’uscita di un film, commenta, che trovarsi lontanissimi sul set di un altro. Anche se la persona che poi emerge nelle memorie e nel tessuto concreto della vita privata è un affettuoso capace di rapporti profondi.

In effetti Lee concedeva un’unica possibilità a un suo ritorno come Dracula: nell’ipotesi cioè che si fosse varata una versione autenticamente filologica – e l’anziano, severo gentiluomo degli ultimi anni avrebbe in effetti reso quella maschera proprio come Stoker l’aveva concepita. Ormai non ci resta che immaginarla.

Rinviando a quanto detto in altra sede sul sistema polare di opposizione tra Lee e Cushing varato dalla Hammer in quello che costituisce a tutti gli effetti un sistema mitico, è un fatto che si tratti comunque di un punto di partenza. Che Lee arricchirà con innumerevoli altri ruoli iconici via via negli anni, consolidando una fama di attore internazionale – a differenza di buona parte dei colleghi Hammer – fino ad approdare alle più grandi saghe popolari del Nuovo Millennio, appunto le due trilogie tolkieniane (naturalmente aveva conosciuto anche Tolkien) e la trilogia-prequel di Star Wars. Per non parlare delle partecipazioni (de visu o vocali) alle fortunatissime opere di Tim Burton, insieme omaggi agli esordi Hammer e celebrazioni di una carriera che ha dell’incredibile.

the-wicker-man-the-directors-cutTuttavia il film che Lee giudica il migliore, e forse esplicativo più di ogni altro di un certo iter di ruoli, è quel The Wicker Man di Robin Hardy (1973) in qualche modo “maledetto”, mai approdato al doppiaggio italiano e di cui oggi è possibile apprezzare un Director’s Cut: un’opera straordinaria (la rivista Cinefantastique la definì “Il Citizen Kane dei film horror”) e di feroce poesia, supportata dalla fotografia intensa di Harry Waxman e dalla superba colonna sonora di Paul Giovanni. Al punto che Hardy ne parlò provocatoriamente ai collaboratori come di un musical – e la terribile scena finale con gli abitanti che danzano e cantano davanti alle fiamme sembra volutamente accentuare in nero tale suggestione.

Liberamente tratto dal romanzo Ritual di David Pinner su sceneggiatura di Anthony Shaffer, The Wicker Man racconta di un sergente della polizia scozzese, tale Neil Howie, celibe e iperdevoto – o piuttosto di una religiosità rigida, corrucciata anche per intime insicurezze – che giunge dalla terraferma in una lontana isola delle Ebridi. Si tratta di Summerisle, landa ovviamente immaginaria (nulla in comune con il reale arcipelago delle Summer Isles nell’Highland) nota per l’abbondanza di prodotti agricoli: il suo verdeggiare – ci sono anche palme – crea anzi uno strano contrasto con il panorama lunare delle terre vicine.

Lo scopo è di indagare sulla sparizione della piccola Rowan Morrison, denunciata da una lettera anonima; e Howie scopre ben presto che a Summerisle ristagna un equivoco clima di omertà. Allo spettatore che presti un minimo di attenzione, i curiosi dolci della bottega locale – a forma di bambolesche Regine di Maggio, o di lepri simbolo di fertilità e rinascita – già possono suggerire qualcosa su una certa tensione folklorica della comunità. Però la scoperta che la maestra interroga gli allievi sulla dimensione fallica dell’Albero di Maggio, che riti di accoppiamento si consumano nell’albergo e persino collettivamente in esterno, e che performance danzate sul fuoco di giovani nude avvengono tra i megaliti presso il castello del signore locale fanno montare l’indignazione del pio Howie.

A spiegare l’arcano sarà appunto Lord Summerisle – ringraziato dal produttore in un guizzo sornione all’inizio del film con la gente dell’isola “for this privileged insight into their religious practices” e la collaborazione prestata, e interpretato da un Lee compiaciuto e istrionico. Suo nonno, forte di lunghi studi di agronomia, aveva impresso una svolta all’economia locale convincendo gli abitanti sull’utilità di un ritorno agli antichi dei: la funzione era di farli reagire al radicato fatalismo di quella zona difficile, e la comunità ha in effetti trovato un suo equilibrio con la Natura. Del resto la prima volta che abbiamo udito parlare il Lord è stato nottetempo nel giardino dell’albergo, per condurre un ragazzo al rito sessuale con l’ipostasi della Dea, la giovane barista Willow interpretata da Britt Ekland…

Lee (che non si farà pagare per la parte, tanto è l’entusiasmo per il copione) avrebbe voluto Cushing nei panni di Howie, ma l’amico è occupato: gli subentra un bravo attore televisivo, Edward Woodward, certamente meno simpatico di quanto sarebbe risultato il classico contraltare di Lee. Ingrid Pitt, già leggendaria Carmilla per la Hammer, interpreta l’impiegata dell’ufficio anagrafico; e il ballerino Lindsay Kemp compare nei panni dell’ambiguo proprietario del Green Man Inn.

È dovere di chi scrive preannunciare che i paragrafi seguenti contengono spoiler – ma la storia è nota, e comunque il film merita la visione anche al di là delle sorprese di trama. Howie scopre troppo tardi che la ragazzina sparita non è stata sacrificata, come lui temeva, ma è parte di una macchinazione organizzata da Lord Summerisle. Il sergente è stato attirato apposta sull’isola: infatti in quanto vergine (ha una fidanzata, ma è casto), giunto a Summerisle liberamente e dotato del potere regio (visto che rappresenta la legge) ha le caratteristiche del sovrano da sacrificare ritualmente per far fronte alla crisi del raccolto. Verrà dunque serrato con altre offerte in un gigantesco wicker man, uomo di vimini, e lì bruciato vivo in onore del dio celtico Nuada… E il rogo finale, con il feticcio che crolla in fiamme contro il sole al tramonto, chiude con feroce efficacia una parabola non conciliatoria dell’incontro tra fedi diverse (niente idilli New Age, niente buonismo), e una delle massime testimonianze del cosiddetto folk horror.

Nessuna sorpresa se un’opera avvertita come tanto minacciosa per scene di sensualità (basti citare la danza estatica con cui, da una stanza all’altra dell’albergo, Willow nuda tenta un Howie sempre più disfatto, battendo ritmicamente sui muri) e comunque per implicazioni filosofiche, sia rimasta bandita dall’Italia.

Il personaggio di Lord Summerisle permette a Lee di gigioneggiare in libertà, giocando su tutto un ventaglio di toni d’attore – dalla soavità con cui difende l’oasi pagana davanti all’indignato sergente, all’inesorabilità fanatica delle scene finali. Nel salotto del castello riesce a dare un saggio al pianoforte della sua bella voce calda (in seguito inciderà alcuni album, illustrandosi in particolare nel metal); e nella lunga processione del May Day, forte di una naturale eleganza da ballerino, salta e danza scatenato, truccato da donna come richiesto dal rito e alla testa di uno straniante corteo fitto di maschere animali. Trascinando il povero Howie – che ha assunto a sua volta il mascheramento rituale da Punch nella convinzione di salvare la ragazzina – verso l’inatteso epilogo.

p8858308_d_v7_aaIl film non conoscerà il sequel proposto nel 1989 da Shaffer – una storia folle e dai caratteri più marcatamente fantastici (Howie avrebbe dovuto essere salvato dai poliziotti all’ultimo momento, per confrontarsi con gli antichi dei e addirittura con un drago) ma inutile, a fronte di un precedente tanto riuscito e in sé concluso. Ci sarà invece una sorta di penoso e libero remake americano di Neil LaBute, 2006 – stesso titolo, ma passato in Italia come Il prescelto – dove il poliziotto protagonista, Edward Malus, è interpretato da Nicolas Cage, e Ellen Burstyn è Sorella Summersisle; mentre, molto più interessante ma in nessun modo comparabile con l’originale, apparirà nel 2011 The Wicker Tree nuovamente di Hardy. Lee vi appare nel cameo dell’innominato Vecchio Gentiluomo, che secondo il regista potrebbe essere un invecchiato Lord Summerisle – suggestione però contestata dall’anziano interprete, che vi vede piuttosto un personaggio autonomo. Hanno probabilmente ragione entrambi: il flashback risale di varie decine d’anni, a quando cioè Lord Summerisle era la persona ancor giovane del primo film, per cui un’identificazione con questo anziano signore che discetta di religione (e, si intuisce, cultore del paganesimo) è cronologicamente impossibile; ma per gli spettatori l’enigmatico personaggio non può che richiamare implicitamente l’altra interpretazione di Lee. Comunque a finir male stavolta nel corso di un allucinato Calendimaggio nella Scozia profonda è una coppia di giovani cantanti/missionari americani. Sembra anzi che Hardy stia ora sviluppando una nuova puntata, The Wrath of the Gods, sorta di commedia nera virata stavolta sulle divinità norrene, a completamento di una Wicker Man Trilogy sul provocatorio riaffiorare del paganesimo nel mondo contemporaneo.

Quali che siano gli sviluppi consumati o futuri, il fascino del primo The Wicker Man resta intatto alla visione odierna. Il film è stato preparato attraverso un’attenta ricostruzione antropologica, e per esempio vi si riconoscono letture de Il ramo d’oro di Frazer: con qualche ovvia libertà, la messa in scena attinge alle descrizioni folkloriche del May Day in Gran Bretagna e in generale delle antiche feste di primavera. A partire dal terzetto che guida la processione, cioè il Man-Woman (variamente chiamato nel folklore: Betty o Betsy Moll, Maid Marian…) interpretato da Lord Summerisle, il Punch/Fool di cui ha assunto l’abito Howie, e l’Hobby Horse, un uomo con un costume-impalcatura da cavallo; e via via in altri particolari, come la danza rituale con le spade, il ciondolare ritmato del corteo di maschere animali… Qualcosa che al di là del sembiante festoso trasmette però nel film un senso montante d’inquietudine: non solo per le implicazioni sinistre del caso specifico, ma per una smarrita distanza simbolica – del sergente come in fondo dello spettatore. Recando in ogni caso uno dei frutti filmici più maturi del revival di temi tradizionali (paganesimo, magia, stregoneria) esploso in Gran Bretagna già alla fine degli anni Sessanta – basti pensare alla leggendaria enciclopedia a fascicolo settimanali Man, Myth & Magic varata da Richard Cavendish nel ’70.

È uso definire Lee come il vilain per antonomasia, forse il più emblematico e certo il più aristocratico mai apparso sugli schermi: e indubbiamente, epigono di quella lunga storia di cattivi che affonda radici nelle dinamiche teatrali (“il tiranno e altre parti infami”, come veniva definito il ruolo nelle antiche compagnie) il Nostro si è ben guadagnato quel riconoscimento attraverso una quantità di parti. Ciò che tuttavia non esaurisce il suo profilo: si pensi ai suoi eroi “buoni”, in genere burberi come lui. Il professor Meister di The Gorgon (Lo sguardo che uccide), il ricercatore Godfrey Hanson di Night of the Big Heat (Demoni di fuoco), Sir Alexander Saxton in Horror Express, il colonnello Bingham di Nothing But the Night (Il cervello dei morti viventi)… per non parlare di Sherlock Holmes.

Anche la definizione di mostro, per quanto calzante nel sistema Hammer e in altra parte della filmografia – e comunque con tutti i distinguo dai diversissimi mostri dell’immaginario americano – fotografa solo una porzione dell’itinerario di Lee. Andremmo probabilmente più vicini identificando nella sua maschera come recepita dall’immaginario collettivo i tratti del trickster, quella figura mitologica che infrangendo le regole costruisce la realtà: demiurgo trasgressivo, eversore di limiti, ribelle all’ordine del qui e ora. Ma forse la definizione più felice è quella che, proprio attraverso il linguaggio folklorico dell’amatissimo The Wicker Man, Lee stesso sceglie come titolo dell’autobiografia, cioè Lord of Misrule.

Lungo il medioevo, ma con strascichi fino a manifestazioni folkloriche odierne, il Lord of Misrule (o, a seconda dei luoghi, Abbot of Misrule, Abbot of Unreason, Prince des Sots…) è una figura importante delle Feste dei folli invernali e di altre ricorrenze tradizionali nel corso dell’anno, comprese appunto quelle di primavera. Il Fool del Calendimaggio di The Wicker Man – chiamato Punch dalla mutazione britannica di Pulcinella, Punchinello – è appunto una delle sue espressioni: un re temporaneo, sostituto di quello vero, a simbolizzare una fase di sovversione cosmica, e infine ucciso (nelle vere feste popolari ovviamente in modo giocoso) con funzione di rinnovamento della realtà. Un trickster rituale, insomma, insediato quale re in un momento in cui tutto è fuori posto, e legato a una pantomima con un preciso significato comunitario.

La scelta di quel titolo non sembra inappropriata alle memorie di Lee. Che, nato per “un errore” – la notazione è ironica, ma sua madre glielo ripeterà tutta la vita – lotterà a lungo con una sensazione di disagio, appunto un sentirsi fuori posto, al di fuori della “giusta” situazione e degli schemi. Troppo poco britannico (è mezzo italiano, da bambino i compagni lo chiamano dago per l’aria mediterranea), irriducibile al cursus honorum di studi e lavoro che lo status sociale suggerirebbe (prima di recitare fa lavoretti, la nobiltà del sangue non si accompagna a un alto tenore economico), troppo alto, poi sempre a rischio di confino in caratterizzazioni sminuenti, sotto continua pressione e in continuo trasloco per trovare una definizione professionale: un’irrequietezza che insomma lo incalzerà negli anni, e solo con l’avanzare dell’età e con riconoscimenti ormai diffusi potrà in qualche modo placarsi. Senza facili psicologismi, è almeno intrigante raccordare questa situazione ai ruoli poi affidatigli, all’intensità delle sue interpretazioni di vilain che minaccia il mondo e persino di “buono” irrequieto, sempre in attrito con qualche comunità riconosciuta, sempre fuori posto. Basti pensare al rincrescimenti di Lee per una grande parte sfuggitagli, e che alla fine è troppo tardi per raggiungere: quella di un altro clamoroso eroe fuori posto, Don Chisciotte – cui dedicherà a quel punto una delle sue avventure musicali metal.

Come al Lord of Misrule, del resto, anche ai personaggi di Lee il rito cinematografico riserva spesso il sacrificio rituale: “Mia figlia, che stava crescendo – racconta nelle memorie – commentava ogni nuovo contratto con la domanda: ‘Come muori stavolta, papà?’”. E comunque le sceneggiature sottolineano spesso la dimensione simbolica della morte cui il suo personaggio va incontro: basti pensare al suo Dracula – eminentissimo fuori posto, eversore eccellente di categorie fisiche e metafisiche – in un film impalato su una croce, in un altro coronato di spine… Ma per tornare poi sempre, liturgicamente, a riportare il disordine.

Come insomma Cushing, Price e (alcuni) altri mattatori delle scene, ciascuno nel suo modo e per così dire con una diversa nota, anche Lee si è conquistato un’irreversibile dignità di archetipo: tanto che leggendo un libro e di fronte a una parte che lui non ha mai interpretato, noi possiamo trovarci a riconoscerlo – tanto preciso è il ruolo che ormai vanta nel nostro immaginario.

L’apparizione in scena del Lord of Misrule nello spazio rituale del film permette però anche a noi di celebrare la Festa dei folli: di reinventare fittiziamente per quel tempo breve il nostro ordine mentale – con quanto di contraddittorio, catartico ma insieme provocatorio si possa liberare attraverso istanze mitiche contrapposte, solidarietà col mostro e con la sua nemesi, sangue e fiamme teatrali – e forse portarne qualcosa indietro. Aiutandoci a riconoscere in tale dimensione immaginaria non solo il dono tutto da godere di una forma d’arte, ma uno straordinario laboratorio. In cui giocare (con la serietà del gioco) a smontare e rimontare la realtà, per guardarla a una “giusta” distanza e provare a capirne qualcosa in più.

“Il mondo sentirà ancora parlare di me” proclama Lee nei panni di Fu Manchu – ma in fondo di tutti i suoi Signori del Misrule, in un eterno ritorno ormai dentro di noi. E questo, la morte non può impedirlo.

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