Christopher Vogler – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Pantera, magia e rivoluzione nel vecchio west di Valerio Evangelisti /3 https://www.carmillaonline.com/2023/10/24/pantera-magia-e-rivoluzione-nel-vecchio-west-di-valerio-evangelisti-3/ Mon, 23 Oct 2023 22:30:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79457 di Fabio Ciabatti

Pantera e la sua religione appartengono al mondo dei vinti e degli oppressi. Così avevamo concluso la precedente parte di questo scritto. È questa sua appartenenza che lo spinge a difendere una variegata congerie di reietti, anche se la sua prima reazione istintiva al pensiero di diventare “una sorta di calamita per mostri e pezzenti” è quella di grande irritazione. La pietà nei confronti dei deboli non è di certo il sentimento che lo caratterizza in prima istanza. E quando affiora tende ad allontanarlo. Queste pulsioni contraddittorie che [...]]]> di Fabio Ciabatti

Pantera e la sua religione appartengono al mondo dei vinti e degli oppressi. Così avevamo concluso la precedente parte di questo scritto. È questa sua appartenenza che lo spinge a difendere una variegata congerie di reietti, anche se la sua prima reazione istintiva al pensiero di diventare “una sorta di calamita per mostri e pezzenti” è quella di grande irritazione. La pietà nei confronti dei deboli non è di certo il sentimento che lo caratterizza in prima istanza. E quando affiora tende ad allontanarlo. Queste pulsioni contraddittorie che muovono Pantera lo rendono un personaggio sfaccettato e affascinante. Ma forse indicano anche qualcosa di più. Nella narrativa di Evangelisti non c’è spazio per il mito del buon oppresso o, per dirla altrimenti, per il paradigma vittimario. Per dirla con le parole del saggista Evangelisti, gli oppressi, al pari dei loro oppressori, devono avere “la volontà, la determinazione, la capacità di lacerare la notte con lo sguardo penetrante del lupo o del felino”.1 Devono essere in grado di rispondere “ai morsi con i morsi”.2 Come si può tradurre questa convinzione dello scrittore emiliano-romagnolo nello svolgimento narrativo delle avventure di Pantera? Ebbene i “mostri e i pezzenti” non appaiono solo come vittime passive che vengono difese dal nostro eroe. Per quanto possano apparire combattenti improbabili, finiscono spesso per lottare insieme a Pantera, anche contro la sua iniziale volontà.
Nello scontro finale di Metallo urlante, infatti, il messicano viene aiutato da una banda alquanto strampalata, come nota con disprezzo il vice sceriffo Wishburn, subito prima di essere freddato da Pantera.“‘Ma guarda che combriccola’ osservò, senza badare all’arma del messicano. ‘Un negro, una puttana, un ebreo e un meticcio. Dio li fa poi li accompagna.’”3 Anche in Black flag la posse di Pantera assomiglia a un’armata Brancaleone.

Il messicano contemplò, all’ultimo raggio della luna che stava per tornare a sparire, i miseri campioni di umanità che aveva davanti. Trascinare con sé quelle creature fiacche e inservibili poteva costargli la vita. Tuttavia valutò che forse la somma delle loro debolezze poteva dare un risultato superiore alle parti. La magia zoppicante di Vecchia Pipa, la vigoria in declino di Koger, la modesta sensualità di Molly, se prese insieme, formavano quasi una sgangherata forma di potenza. Aggiunta alla sua, poteva dare qualcosa di buono.4

Altrettanto raccogliticcio è il gruppo che aiuterà Pantera in una delle sue ultime imprese in Antracite: liberare dal carcere la giovanissima irlandese Kate, che il messicano aveva conosciuto quando, appena adolescente, si divideva tra il lavoro in miniera e la prostituzione occasionale, e nei confronti della quale svilupperà una sorta di istinto paterno di protezione. Nel gruppo c’è l’irlandese Skel, che sta per Skeleton, incontrato per la prima volta da Pantera quando, quindicenne, estremamente magro e con il petto squassato continuamente da crudeli colpi di tosse, lavorava come runner, l’ultimo gradino nella gerarchia dei minatori. Poi c’era Jikta, prostituta slava di mezza età e infine Gudrun, ragazza grassottella di famiglia tedesca, dedita a pratiche magiche della sua terra d’origine, che in un recente passato aveva aveva partecipato a una macchinazione per incastrare Pantera e che ancora manteneva nei suoi confronti una certa ostilità. Mentre fuggono dal carcere Pantera, dopo aver presentato le due donne a Kate specificandone la nazionalità, continua con un sorrisetto: “Se aggiungi due irlandesi e un messicano, hai un’idea di chi stia costruendo l’America.”5
Ma, cosa ancora più importante, a sembrare un’armata Brancaleone in
Antracite è il nascente movimento operaio americano. Nobile, generoso, ma un po’ cialtronesco. Forse ha in mente anche questo Evangelisti quando sostiene che “Antracite è un tentativo di mettere in luce le radici di un’America ‘alternativa’ che ho sempre amato, e delle ragioni storiche che l’hanno resa minoritaria”.6 Come nota giustamente Sandro Moiso, le simpatie politiche dello scrittore “rivelano in lui ancor più che la ‘passione per il comunismo’ quella per la rivolta spontanea, popolare e dal basso. Qualsiasi fossero le forme in cui questa si manifestava, tanto nelle campagne emiliano-romagnole a cavallo tra ’800 e ’900 quanto nelle strade in fiamme di Bologna della primavera del ’77”.7

Tornando negli Stati Uniti della seconda metà dell’800, è arrivato il momento di raccontare brevemente la trama dell’ultimo libro in cui compare Pantera.  Lo avevamo lasciato alla fine di Black flag quando, sconfitti i lupi suoi nemici, decide di seguire il suo vecchio capo nella sua terra di origine per unirsi alla rivoluzione di  Benito Juarez. Molly, la prostituta irlandese sua compagna di avventura, lo segue diventando sua amante occasionale. Dopo qualche tempo le loro strade si separano e Pantera torna a fare il pistolero a pagamento negli Stati Uniti. Tutto lo ciò non viene raccontato in presa diretta, ma come antefatto di Antracite che inizia quando Molly ha nuovamente contattato Pantera perché vuole affidargli un compito per conto dei Molly Maguires, gruppo irlandese che, a suon di omicidi, cerca di difendere i propri compatrioti dallo sfruttamento dei padroni, soprattutto quelli di origine inglese. Pantera deve scoprire un infiltrato nelle file del gruppo e ucciderlo.
In realtà il messicano finirà per cacciarsi in un ginepraio, tanto che la narrazione assume in certi momenti toni simili a quelli di una commedia degli equivoci. Per eseguire il suo compito deve fingersi una spia dei padroni delle miniere e infiltrarsi nelle file nemiche. I Molly Maguires, però, sono talmente infestati da spie che la missione di Pantera è nota da subito, ma verrà tollerata perché la famosa agenzia Pinkerton vuole assicurarsi i suoi servigi di stregone. Deve trovare e eliminare il misterioso “uomo dei topi”. Chi è costui? Si tratta di una persona

capace di dare corpo a una sintesi tra le diverse superstizioni importate dall’Europa e da altri continenti. Un individuo che convoglia diverse aspirazioni inconfessabili e le traduce in realtà, sotto forma di morbo e di invasioni di animali.8

Pantera, quando gli viene presentata questa missione, è sorpreso perché ritiene che le diverse credenze di origine europea dovrebbero essere considerate fenomeni marginali da parte dei padroni del nuovo modo. Ma, è questa la cosa più interessante, gli viene spiegato che non è così dal senatore Schurz.

Sono forme di resistenza al progresso, rivendicazioni di identità che una società in via di industrializzazione non può tollerare. Dev’essere la morale protestante a guidare questo paese, nessun’altra. È l’unica che tenga nel debito conto le esigenze dell’economia e non le demonizzi.9

Ed ecco spiegato in termini prosaici quello che poteva emergere già dai due precedenti libri in cui compare Pantera e dai romanzi di Eymerich. Antichi culti, credenze ancestrali, religioni sconfitte ma mai definitivamente sradicate sono tutti fattori di resistenza alla colonizzazione dell’immaginario da parte del potere. Ma questo immaginario alternativo, radicato nel passato, ha un’intrinseca ambivalenza, come mostrerà lo scontro con l’uomo dei topi, il lucumi Learco. Tutto sommato questa figura si rivelerà alquanto meschina, così come sarà la sua fine. Certamente una persona insidiosa e tenebrosa, ma decisamente lontana dalla diabolica potenza che gli veniva accreditata. Le forze in gioco sono ben altre rispetto a quelle di un oscuro stregone di colore che, approfittando delle perversioni sessuali di Gowen, il padrone della miniera di Tamaqua, lo aveva reso succube solo per cercare una sua personale vendetta. Parlando con Pantera, così gli spiega le sue motivazioni:

“Nel 1863 ero un bambino e abitavo a New York. Quando gli irlandesi insorsero contro la leva obbligatoria, se la presero anzitutto con i neri. Ne ammazzarono una trentina. Uno era mio padre, un altro mio zio. Prima di ucciderli li castrarono.” “Credi sul serio che Gowen e i suoi simili proteggano la gente di colore?” “Non sono così stupido. A me però basta vendicarmi degli irlandesi.”10

Insomma, le vecchie resistenze identitarie possono anche rappresentare un elemento di frammentazione per gli oppressi e trasformarsi in una guerra tra poveri. Cosa di cui Pantera si stava rendendo conto lavorando per i Molly Maguires. Il messicano, tra un’uccisione e una fuga precipitosa, deve comprendere cosa sta accadendo attorno a lui, deve capire il significato delle trame politiche in cui è invischiato. Come sostiene parlando con Molly “Dovresti saperlo. Lavoro per chi mi paga. Ciò non mi impedisce, di tanto in tanto, di pormi delle domande.”11 Insomma,

Pantera avvertiva personalmente il bisogno di una certa coerenza nell’agire, e nei Molly Maguires non la trovava ancora. Da un lato sembravano ergersi a vendicatori del proletariato sconfitto. D’altro lato parevano voler instaurare un dominio di strada fondato su basi strettamente etniche. Dove stava la verità?12

Il palero ha sentito parlare un oste tedesco di ideali che, pur reputando confusi e troppo astratti, percepisce in qualche modo positivi perché vogliono essere comuni a tutti gli operai. Cosa vogliono invece i Molly Maguires, chiede a Molly?

“La riscossa dei soli irlandesi?” “Che ci sarebbe di male?” “C’è che ho sentito Gowen, il vostro nemico numero uno, parlare in modo del tutto diverso. Fa la guerra agli operai senza badare a nazionalità, razza o religione. Capisci?” Lo sguardo di Molly tornò all’ordinaria vacuità. “No, capisco solo un poco. Magari hai ragione. Però una volta sparavi alla gente senza farti tanti problemi.” “Anche adesso.” Pantera si alzò. “Vado ad ammazzare un poliziotto, un certo Yost. Sai chi sia?” “No.”  “Nemmeno io. Ma lo ammazzo lo stesso.”13

La coscienza di classe può attendere, ci sono questioni più urgenti da risolvere senza andare troppo per il sottile. In fin dei conti siamo sempre nel caro vecchio west! Ma questo mondo fatto di sconfinate praterie e uomini a cavallo con la pistola nel fodero sta cambiando. L’antracite sta colorando di nero le vaste estensioni verdeggianti. E Pantera è costretto a capire le forze che muovono questi cambiamenti per cercare di non soccombere alla fitta rete di intrighi in cui si trova invischiato. Come viene spiegato a Pantera, di nuovo dal senatore Schurz:

È in corso una lotta per il controllo politico ed economico di questo paese, e il marciume va dal presidente Grant fino ai più oscuri sceriffi di villaggio. Le forze in campo sono da un lato quelle degli industriali del Nord, del grosso dell’esercito, degli allevatori e di una parte dei latifondisti del Sud. Tendono a un’alleanza che ravvicini i partiti in cui si sono sempre riconosciuti: il repubblicano e il democratico. Dal lato opposto ci sono il resto dei proprietari terrieri meridionali, grandi ma soprattutto piccoli, i democratici populisti, le organizzazioni operaie, i fuorilegge come la banda James.14

La ricostruzione storica di Evangelisti è come sempre accurata, ma mai didascalica. La curiosità del lettore viene solleticata attraverso una narrazione che assume per certi versi le fattezze di un political thriller. E così, tra un colpo di scena e un’altro, veniamo a sapere che nel corso del 1876, alla vigilia di elezioni presidenziali che si annunciavano decisive, il ridisegno delle forze politiche e sociali stava subendo una violenta accelerazione.

Spezzoni di Partito democratico perdevano i loro connotati populisti; settori di Partito repubblicano si liberavano dell’eredità di Lincoln in tema di eguaglianza razziale e dell’ostilità verso i latifondisti del Sud. Hayes rappresentava appunto questa nuova tendenza, e il suo programma, favorevole sia alla grande proprietà terriera sia a uno sviluppo industriale libero da freni, era fatto proprio da molti dei governatori di recente eletti. Tilden, paternalista, non ostile alle rivendicazioni operaie e alla proibizione del lavoro minorile nelle officine e nelle miniere, pareva invece il residuo un po’ patetico di un’America destinata a sparire.15

Fermiamoci qua nella ricostruzione del contesto storico perché è giunto il momento di chiederci cosa rimane del mondo magico di Pantera quando il palero diventa protagonista di un vero e proprio romanzo storico. Evangelisti, dichiarando l’intenzione, mai concretizzata,  di riprendere il personaggio, sostiene di dover “superare una contraddizione: nato come stregone, in Antracite questa sua funzione è piuttosto secondaria. La storia non si prestava”.16
Nei primi due romanzi la “magia” di Pantera produce effetti reali: che si tratti di evocazione di spiriti o di attivazione inconsapevole di qualcosa di assimilabile a fluidi mesmerici poco importa in questo contesto. La cosa rilevante è che il messicano ha ricevuto un “dono”, i suoi poteri, magici o meno che siano. Questi gli consentono di superare le prove affrontate nel suo “viaggio dell’eroe”. Non esiste però un personaggio in carne e ossa che gli consegna questo dono, ruolo normalmente ricoperto dalla figura del mentore. Possiamo immaginare sia stato il padre a iniziarlo al Palo Mayombe, ma questa funzione non viene raccontata esplicitamente. Di conseguenza possiamo dire che l’archetipo del mentore è svolto dalle sue stesse credenze religiose. Pantera ha “interiorizzato l’archetipo, che ora vive dentro di lui come un insieme di regole di comportamento interiore”.17 Non è forse un caso che Vogler, quando parla di questo tipo di mentore, faccia riferimento ad alcuni film western (e noir) che prevedono un eroe risoluto non bisognoso di una guida in carne e ossa.
La funzione di mentore rappresentata dalla sua religione risulta fortemente indebolita in Antracite. Sebbene i suoi spiriti guida risultino infiacchiti Pantera dovrà affrontare una realtà che continua ad apparire come dominata da potenze che hanno qualcosa di sovrannaturale o meglio ancora demoniaco. La descrizione dei paesaggi, infatti, richiama spesso atmosfere orrorifiche.

Alcune colline sembravano bruciare. Le loro pendici erano segnate da fitti reticoli di vene infuocate, tanto brillanti da sfidare il bagliore della luna. Non c’erano vampe né fumi. Era il suolo stesso a essere incandescente, come fosse fatto di lava vulcanica. Lava immobile, però, che non scorreva e ardeva sul posto.18

Soprattutto è la miniera di antracite, in cui Pantera lavora per un breve periodo, ad apparire come un inquietante mondo ctonio, in senso metaforico, ma soprattutto molto materiale. Quando Pantera scende per la prima volta nelle sue profondità

non si era atteso che fosse come entrare in un’altra realtà, governata da logiche proprie che poco avevano a che vedere con quelle della superficie. Ciò non si percepiva quando, prima del sorgere del sole, le sirene degli stabilimenti chiamavano al lavoro, e una folla silenziosa e assonnata di operai invadeva le strade di Tamaqua, la gamella in mano. Era nel profondo del suolo, non appena le gabbie degli ascensori scaricavano il loro carico umano ai vari livelli di scavo, che tutto cambiava e si entrava in una diversa dimensione. Nel buio, dove aleggiavano gli odori di terra umida, di acido solforico, di gas naturali, di polvere di carbone, pulsava irregolare il cuore di una città in miniatura, affollata solo il tempo necessario perché le squadre si disperdessero nelle gallerie.19

In Black flag l’indiano Vecchia Pipa aveva detto a Pantera: “Devi solo seguire i tuoi riti, amico, poi sprofonderai fino alla verità che cerchi”.20 E in effetti così era accaduto. In Antracite la catabasi perde il suo carattere spirituale e diviene discesa reale in un mondo sotterraneo che richiama alla mente il “segreto laboratorio della produzione” del vecchio Marx.
Il ricorso al Nganga non consente più di accedere a una realtà sottostante non percepibile, anche se  Pantera continua a portarselo appresso e a professare la sua religione. Potremmo forse dire che il messicano non ha più un mentore, ma solo una sorta di aiutante/alleato, inteso, di nuovo, non come personaggio in carne e ossa ma come archetipo narrativo. Dovrà sostanzialmente cavarsela con le sue forze. Per chiarire questo punto un passaggio mi sembra particolarmente significativo.

Pantera rimpiangeva di avere lasciato il suo Nganga a Tamaqua, dentro la valigia affidata a Molly. Senza l’anima di un morto con sé, un palero diventava vulnerabile e non poteva abbandonarsi al semplice istinto. Pantera era dunque costretto a seguire logica e ragione, senza confidare in interventi soprannaturali. Appena possibile avrebbe miscelato e bollito un altro Nganga. Per ora doveva soprattutto tenere gli occhi bene aperti.21

Logica e ragione da una parte, istinto dall’altra. La religione di Pantera, come già accennato, si trasforma in una sorta di aiutante, nel senso che rappresenta una specie di amuleto in grado di dare fiducia al palero sulla giustezza della sua comprensione intuitiva delle cose. Il Ngana non produce più visioni alternative della realtà, ma si limita a trasmettere pulsazioni, scosse, vibrazioni che lanciano segnali di pericolo o di tranquillità. Non siamo più in un contesto fantastico e ci sono pochi dubbi sulla reale natura di queste percezioni. Per scoprire la verità sul mondo che lo circonda il messicano sarà costretto a usare soprattutto logica e ragione. C’è addirittura un momento in cui Pantera sembra abiurare le sue credenze, quando invoca l’aiuto del Santo per guarire Molly, malata di carbonchio.

Pantera si portò di fronte al Nganga. L’istinto era di prendere a calci quella cosa inutile, ma si trattenne. Invece curvò la testa, simulando devozione. Secondo la regla vrillumba, risultata inutile l’iguana, avrebbe dovuto alimentare il Santo con le viscere di un bambino. Non se la sentiva. Preferì recitare un’invocazione delle più potenti, sperando che fosse efficace. In cuor suo ne dubitava molto.22

Dopo non molto tempo l’atto sacrilego viene effettivamente compiuto: “Il messicano non invocò il Nganga, come era solito fare prima di un’azione. Lo aveva disfatto a calci quando Molly era spirata”.23

A questo punto ci si potrebbe anche aspettare che Pantera inizi mettere in dubbio le sue più radicate convinzioni a favore di una visione disincantata del mondo, considerando anche il fatto che, sebbene con la solita riluttanza, si sta avvicinando al nascente movimento operaio americano. Insomma, una sorta di evoluzione dall’utopia alla scienza di engelsiana memoria, ma in formato western. Sarebbe un’ottima trama per un narrazione dalle forti tinte pedagogiche. Ma non per un romanzo di Evangelisti.
Credo sia significativo il fatto che lo scrittore emiliano-romagnolo descriva la distruzione del Nganga prima come un’intenzione abortita e poi come un’azione avvenuta nel passato, sebbene molto recente. Narrare questo fatto al presente ne avrebbe dato una rappresentazione molto più forte, lasciando presagire un ripudio definitivo. In realtà si tratta di un momento di sconforto e di sfiducia cui seguirà la produzione di un nuovo Santo. “Prepararlo era stata una delle azioni più dolorose della sua vita, dato che conteneva la scatola cranica e alcune ossa di Molly, oltre agli ingredienti consueti”.24 Pantera si sente costretto ad assemblare la prima variante al femminile del Nganga perché teme che l’uomo dei topi si appropri delle spoglie mortali di Molly per i suoi rituali magici, condannando lo spirito della donna a non avere più pace. In effetti qui assistiamo a una piccola svolta, ma di questo parleremo nella prossima puntata.

3 – continua. Precedenti puntate qui e qui. Prossima e ultima puntata Sabato 28 ottobre


  1. V. Evangelisti, …Et mourir de plaisir, in Id. Le strade di Alphaville, a cura di Alberto Sebastiani, Odoya, Città di Castello 2022, p.60. 

  2. Ivi, p. 62. 

  3. V. Evangelisti, Metallo urlante, Einaudi, Torino 1998, p. 124. 

  4. V. Evangelisti, Black flag, Einaudi, Torino 2002, p. 182. 

  5. V. Evangelisti, Antracite, Mondadori, Milano 2003, p. 352. 

  6. Intervista a Valerio Evangelisti, di Luigi Pachì, in “Fantascienza.com”, 20 settembre 2003, https://www.fantascienza.com/6581/pantera-nera-antracite-intervista-con-valerio-evangelisti

  7. S. Moiso, Introduzione a S. Moiso e A. Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis, Milano 2023, pp. 10-11. 

  8. V. Evangelisti, Antracite, cit., p. 225. 

  9. Ivi, p. 223. 

  10. Ivi, p. 344. 

  11. Ivi. p. 127. 

  12. Ivi, p. 132. 

  13. Ivi, p. 128. 

  14. Ivi, p. 221. 

  15. Ivi, p. 327. 

  16. Intervista a V. Evangelisti di Paul D. Dramelay, in “Progetto Babele”, https://www.progettobabele.it/autori/valerioevangelisti.php

  17. C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, Dino Audino, Roma 1999, p. 52. 

  18. V. Evangelisti, Antracite, cit., p. 105. 

  19. Ivi, p. 139. 

  20. V. Evangelisti, Black flag, Einaudi, Torino 2002, pp. 144-145. 

  21. V. Evangelisti, Antracite, cit., p. 78. 

  22. Ivi, p. 269. 

  23. Ivi, p. 274. 

  24. Ivi, p. 312. 

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Pantera, magia e rivoluzione nel vecchio west di Valerio Evangelisti /1 https://www.carmillaonline.com/2023/10/17/pantera-magia-e-rivoluzione-nel-vecchio-west-di-valerio-evangelisti-1/ Mon, 16 Oct 2023 22:30:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79284 di Fabio Ciabatti

Il messicano Pantera, stregone e pistolero a pagamento, protagonista di avventure che attraversano gli Stati Uniti della seconda metà dell’Ottocento, è uno dei personaggi più intriganti e noti usciti dalla penna di Valerio Evangelisti. Pantera ha il fascino tenebroso del cavaliere oscuro che però, alla fine, si risolve per fare la cosa giusta. È probabilmente l’unico eroe nella narrativa di Evangelisti, almeno se intendiamo questo termine in senso stretto, cioè come protagonista moralmente positivo di avventure straordinarie che affronta con capacità fuori dal comune. Ma di che tipo [...]]]> di Fabio Ciabatti

Il messicano Pantera, stregone e pistolero a pagamento, protagonista di avventure che attraversano gli Stati Uniti della seconda metà dell’Ottocento, è uno dei personaggi più intriganti e noti usciti dalla penna di Valerio Evangelisti. Pantera ha il fascino tenebroso del cavaliere oscuro che però, alla fine, si risolve per fare la cosa giusta. È probabilmente l’unico eroe nella narrativa di Evangelisti, almeno se intendiamo questo termine in senso stretto, cioè come protagonista moralmente positivo di avventure straordinarie che affronta con capacità fuori dal comune. Ma di che tipo di abilità parliamo?
La domanda è di particolare interesse perché questo personaggio ha una peculiarità che forse lo rende più unico che raro nel panorama letterario: le sue vicende appartengono a due generi narrativi completamente diversi. I primi due libri in cui compare,
Metallo urlante e Black Flag (pubblicati rispettivamente nel 1998 e nel 2002), possono infatti essere ascritti al genere fantastico, mentre il terzo, Antracite (pubblicato nel 2003), appartiene al genere del romanzo storico.
Questa capacità di rompere la barriera tra diversi generi conferma quanto sostiene Alberto Sebastiani: l’intera opera di Valerio Evangelisti costituisce una One big novel in cui si trovano continui rimandi tra vicende e personaggi presenti nei diversi romanzi. Ma soprattutto, le opere dello scrittore emiliano-romagnolo, pur molto differenti quanto a genere, trama, ambientazione storico-geografica, presentano una  profonda unità tematica: l’eterno conflitto tra chi detiene il potere e chi gli resiste.1 Dal canto mio, credo che la figura di Pantera ci possa dire qualcosa di significativo sull’universo letterario di Evangelisti e sulla sua concezione dell’immaginario, proprio per la sua caratteristica di eroe cross-genere.

Secondo Tzvetan Todorov “il fantastico rappresenta un’esperienza dei limiti” e per questo “un inventario di possibili”.2 I confini tra spirito e materia, tra soggetto e oggetto, tra parola e cosa vengono continuamente trasgrediti, senza essere ignorati, come accade nel pensiero mitico. La barriera tra reale e l’immaginario si fa porosa. Sempre Todorov sostiene che la letteratura fantastica ha nel Novecento perso sostanzialmente la sua funzione: da una parte non abbiamo più bisogno di figure come il diavolo per parlare di un desiderio sessuale sfrenato perché la psicanalisi ha rotto i tabù in questo ambito; dall’altra, non viviamo più nell’Ottocento positivista, con la sua realtà oggettiva ed immutabile completamente esterna al soggetto, di cui il fantastico possa essere la cattiva coscienza.
Il giudizio del critico letterario deve aver qualche fondata ragione se è vero che il fantastico, nell’Italia del dopoguerra, trova rifugio nel fantasy, un territorio letterario presidiato nel nostro paese dalla sottocultura fascista fino all’irruzione, agli inizi degli anni ’90, del primo libro del ciclo di Eymerich, scritto da Evangelisti. Come ci racconta Domenico Gallo,3 si tratta di un territorio dell’immaginario che la destra voleva caratterizzato dall’indomito ed eterno risorgere del mito, mai definitivamente sconfitto dalla cultura moderna, ma solo temporaneamente vinto dall’illuminismo, dal razionalismo e poi dal marxismo. Il fantasy, l’horror, il sovrannaturale dovevano essere gli ambiti in cui si trattava di elementi come la celebrazione della divisione in caste, la lotta alla democrazia, il rapporto diretto con la divinità, il concetto di prescelto, l’esaltazione della lotta e la gerarchia della società. Il fantastico, possiamo commentare, da esperienza del limite diventava limite dell’esperienza: non più strumento letterario per dischiudere i possibili, ma struttura narrativa che restringe la capacità di immaginare mondi alternativi alla resurrezione di un passato mitico. L’eterno ritorno della vecchia merda.
Ma la letteratura fantastica può assumere un senso diverso da quello che ha storicamente rappresentato, ben al di là della paccottiglia fascistoide. In fin dei conti se il soprannaturale, o quello che appare come tale, esprime la trasgressione di una legge (naturale e/o morale), e per questo un’esperienza del limite, come sostiene lo stesso Todorov, occorre capire quale sia oggi il sistema di regole prestabilite che risulta impossibile negare, pena l’aprirsi di profonde crepe nell’immaginario che sorregge il nostro mondo. In effetti l’obiettivo, tutto politico, dell’opera letteraria di Evangelisti è proprio quello di combattere quella che definisce la colonizzazione dell’immaginario, in modo da poter valicare le colonne d’Ercole del realismo capitalista che oggi ci impedisce anche solo di sognare altri mondi possibili.

E qui torniamo al nostro Pantera, con la sua magia e la sua religione popolata di spiriti ancestrali che si scontra con un nuovo mondo in formazione caratterizzato dall’“assenza di ideali, di sentimenti e di un futuro plausibile”, come scrive Evangelisti alla fine della storia del messicano in Black Flag. Salvo aggiungere, subito dopo, “O forse un futuro c’era: d’oro e di ferro. Comunque di metallo”.4 Ma in che modo il mondo sovrannaturale di Pantera ci aiuta a fare un’esperienza del limite? Da un punto di vista antropologico, sostiene Michael T. Taussing, lo studio dello strano e dell’esotico ci può mettere di fronte a quanto veramente strana sia la nostra stessa realtà. Non si tratta di assumere come vere le concezioni altre contrapponendole alla falsità delle nostre, ma di prendere sul serio il contrasto tra differenti visioni del mondo al fine di denaturalizzare i nostri stessi feticci.5
La magia di Pantera rispetto al mondo moderno appare come un arcaismo, memoria e tradizione di un passato che fatica a diventare una guida per il presente. L’attrito tra i differenti strati temporali genera una tensione la cui risultante appare inizialmente sospesa tra il mero rifugio nel passato e la creazione di nuove e inedite possibilità. Pantera, infatti, non ha molto da dire su ciò che accadrà al suo mondo o su ciò che pensa sia auspicabile per i tempi a venire. “Quando ho combattuto con Juan Nepomuceno Cortina – si limita a osservare in Black flag – l’ho fatto per difendere gli ejidos, le terre comuni. Non so altro”.6 Le lotte di Pantera in territorio messicano vengono appena accennate e sembrano quasi racconti di un mitico passato da cui trarre semplici insegnamenti. In realtà, storicamente, appartengono alla modernità ma, geograficamente, provengono dai suoi bordi estremi. Ed è proprio dalla periferia del nostro mondo che è più facile fare esperienza dei suoi  limiti.
Pantera è appunto un personaggio periferico rispetto all’ambiente in cui si svolgono le sue avventure. Talmente periferico da risultare difficilmente categorizzabile: viene ripetutamente considerato un “negro” e lui risponde, talvolta rassegnato talaltra irritato, che è un messicano, anche se in realtà è un meticcio figlio di uno schiavo nero e della moglie del suo padrone. Frequentemente viene appellato come uno stregone o un prete, ma lui rifiuta entrambe le qualificazioni sostenendo di essere un uomo di religione, la sua religione, sebbene sia anche un pistolero a pagamento. In lui sacro e profano si mescolano e si scontrano. La morte e la vita gli sono altrettanto indifferenti. Pantera vive nell’instabile congiuntura tra un inquietante mondo straordinario in cui si possono udire le voci degli spiriti della natura, potenti e selvaggi, e un mondo ordinario, altrettanto minaccioso, in cui l’urlo del metallo sovrasta tutte le altre voci. 

Per prima cosa bisogna notare che le strutture narrative dei tre romanzi in cui compare Pantera sono molto diverse. Il primo, Metallo urlante, è composto da quattro lunghi racconti, sostanzialmente autosufficienti, anche se tenuti insieme da un esile filo narrativo: Venom, Pantera, Sepoltura e Metallica. Il primo, che fa da cornice, si divide a sua volta su due livelli temporali: abbiamo da una parte le vicende dell’inquisitore Eymerich, dall’altra una storia ambientata in un XXI secolo piagato da due virus che deteriorano la carne, sostituita da parti metalliche, e da una guerra che vede succedersi manifestazioni mostruose. E in questo livello che apprendiamo come tutte le diverse storie narrate nel libro si collegano tra di loro. Vengono infatti citate per brevi accenni in una ricerca “storica” condotta per capire come si sia arrivati “a fare sì che ferro, acciaio e oro riuscissero ad agganciare le proprie molecole a quelle della pelle, aprendo le quinte di una nuova razza umana, tanto possente quanto sterile”.7 In questo contesto apprendiamo che Pantera “Ebbe a che fare con il mesmerismo, che rappresentò, se vogliamo, una prima forma di dialogo tra l’uomo e il metallo”.8
Il secondo romanzo, Black flag, presenta una struttura molto simile a quella tipica dei romanzi del ciclo di Eymerich. Prendendo a prestito la terminologia coniata da Sebastiani,9 abbiamo un tempo base (quello normalmente riservato all’inquisitore aragonese), ambientato durante la guerra civile americana che vede come protagonista Pantera e che occupa di gran lunga il maggior numero di pagine. Abbiamo poi altri due livelli temporali: uno a noi storicamente vicino, l’invasione statunitense di Panama, che fa da cornice, e l’altro proiettato in futuro distopico, allo scoccare del capodanno del 3000. Le storie che si svolgono nei tre livelli sono molto più intrecciate di quanto accada con i racconti di Metallo urlante: da una parte nei livelli I e II vediamo dipanarsi le terribili conseguenze storiche di ciò che è accaduto nel tempo base; dall’altra troviamo delle spiegazioni parascientifiche di fenomeni e vicende che, nel corso delle avventure di Pantera, potrebbero sembrare sovrannaturali.
La struttura di Antracite, infine, è più tradizionale, nel senso del romanzo di stampo realistico. La trama riguarda esclusivamente le vicende del protagonista, Pantera, seguendo il filo cronologico delle sue avventure. 

Un’ulteriore differenza tra i tre romanzi riguarda il rapporto tra le vicende narrate e il contesto storico di riferimento. In Metallo urlante le avventure di Pantera si svolgono in una sorta di luogo sospeso nello spazio e nel tempo. Praticamente assente ogni riferimento a ciò che accade al di fuori di Tucumcari, villaggio del selvaggio west statunitense dove si svolge la storia. Un isolamento sottolineato dal fatto che “nessuno riusciva ad abbandonare l’area condannata, il cui perimetro veniva circondato da una cortina invisibile, ma assolutamente impenetrabile”10 non appena si mettevano in cammino i dieci giganteschi e mostruosi cavalieri che Pantera era stato chiamato a fermare con i suoi poteri magici. Tucumcari più che un luogo reale è, come sostiene ancora Sebastiani, un luogo dell’immaginario che non a caso Evangelisti riprende dall’ambientazione di Per qualche dollaro in più di Sergio Leone.
In
Black flag il contesto storico è ben presente, la guerra civile americana, ma le vicende narrate sono tutto sommato marginali rispetto allo svolgersi della del conflitto bellico benché finiscano per assumere un significato che trascende la loro effettiva incidenza sugli avvenimenti politico-militari dell’epoca. Con Antracite, infine, siamo catapultati direttamente nel centro della Storia con la “s” maiuscola, cosa particolarmente evidente nel finale quando Pantera viene coinvolto nelle vicende della comune di Saint Louis, sebbene controvoglia.

Il coinvolgimento, suo malgrado, nelle vicende altrui è una caratteristica tipica di Pantera, che, per certi versi, rappresenta il classico eroe riluttante. Uno di quelli, cioè, che sono “bisognosi di essere motivati o spinti all’avventura da forze esterne”.11 A differenza di questo cliché, però, il messicano è tutt’altro che passivo ed esitante. I dubbi li vedremo affiorare soprattutto in Antracite, senza che questo scalfisca la sua natura di uomo deciso, votato all’azione.
In ogni caso Evangelisti, come suo solito, gioca sapientemente con gli stereotipi dei generi paraletterari che utilizza: come nel più tipico western, Pantera è un eroe solitario. Talmente solitario che le uniche donne per lui interessanti erano le prostitute, perché poco impegnative. Quando durante qualche conversazione viene chiamato “amico”, anche per semplice cordialità, lui risponde invariabilmente che non ha amici. Quando qualcuno gli dice che non è una cattiva persona, può irritarsi oltremodo anche se non riesce a capirne il motivo. Pantera è un uomo d’azione, che rifugge l’introspezione, anche quando si trova casualmente a lambire i segreti della sua psiche. Gli capita, per esempio, quando, dopo aver affermato per l’ennesima volta di non avere amici, aggiunge subito dopo “Io sono solo”. In quel momento intuisce “di avere detto una verità che trascendeva l’occasione, ma non era solito perdere tempo a interrogarsi su se stesso, specie in momenti come quello”.12 Cioè i momenti di pericolo che esigono l’azione.
Però, come i più tipici pistoleri, Pantera un amico ce l’ha. Quando in Black flag viene disarmato “Il contatto delle dita con la cintura gli fece rimpiangere il revolver. Per un uomo come lui, quella mancanza equivaleva alla perdita dell’unico amico che avesse al mondo”.13 Un revolver che, a differenza dell’iconografia classica del cowboy, porta di solito infilata nella cintola sotto la palandrana. A chi si meraviglia del fatto che non abbia con sé pistole, risponde con un sorriso beffardo “Sì che le porto […] Piuttosto non porto né cinturone né fodero. Quella è roba che va bene per le donne e per i borghesi”.14 Della serie: i veri uomini del vecchio west sono meno pittoreschi di come ve li hanno sempre raccontati. E ancora, come nei più classico dei racconti della frontiera, la storia di Metallo urlante si conclude con l’eroe che si allontana cavalcando il suo destriero verso l’orizzonte infinito. Soltanto che l’ultima galoppata Pantera la fa quando, ferito a morte, si è trasformato in orisha, uno spirito: “Preso da un’incontenibile euforia, lanciò il cavallo verso il deserto, senza bisogno di usare gli speroni. La sua esistenza di orisha sarebbe stata un’unica, interminabile cavalcata”.15
Un utilizzo al limite della parodia degli stereotipi paraletterari, in questo caso dell’horror, lo vediamo all’inizio di
Black flag quando, assoldato per uccidere un uomo lupo, gli viene chiesto se ha trovato le pallottole d’argento, tipica arma per eliminare i licantropi. “Si ma è un’idiozia – rispose Pantera alzando le spalle – È un metallo troppo tenero. Non fora e il proiettile si deforma al momento dello sparo”.16 E infatti, quando proverà ad utilizzare queste munizioni, “Poco mancò che la carabina gli esplodesse tra le mani. Per fortuna l’argento fuso fu espulso dall’esplosione, e ricadde a pochi metri da lui. Pantera imprecò contro la magia cristiana”.17 Scoprirà più avanti che per uccidere gli uomini lupo le pallottole dovevano essere fatte non di argento ma di antimonio. 

Ma prima dovranno accadere molte cose. Quando tenta di uccidere l’uomo lupo, Kroger, Pantera viene tradito dalle stesse persone che l’avevano ingaggiato. Ferito, viene catturato dai bushwackers, milizie irregolari sudiste dedite a una cruenta guerriglia che non si fa scrupolo di fare strage di civili. Pantera, pur cercando di mantenersi defilato, finirà per unirsi a loro, soprattutto perché, inconsapevolmente, vuole risolvere l’enigma dell’uomo lupo, aggregato ai guerriglieri: “Lo aveva creduto un demone incarnato e finiva per scoprirlo un essere fragile, spaventato da ogni cosa ma soprattutto da se stesso”.18
Al seguito dei bushwackers c’è anche il francese Anselme Bellegarrigue, anarcoindividualista al limite della farneticazione con il suo vaneggiare di una nuova umanità composta da lupi solitari, forgiati nel ferro e nell’oro, interessati solo alla loro proprietà individuale libera da ogni vincolo statale, dediti alla distruzione del vecchio mondo senza alcuno scrupolo umano o sociale. Idee che vanno al di là dello già spietato conservatorismo sudista, raffigurato dal bushwacker Hamp Wyatt, per il quale lo schiavismo rappresenta un principio che si riassume in autorità e disciplina, un’istituzione necessaria per affermare  gerarchie e ruoli ben definiti, da estendere eventualmente a tutti i salariati.
Tornando a Bellegarrigue, egli non è soltanto un teorico ma anche una sorta di scienziato pazzoide, cultore del mesmerismo che intende utilizzare per plasmare l’uomo del futuro secondo i dettami della sua agghiacciante filosofia, a cominciare dai crudeli esperimenti cui sottopone il riluttante Kroger per trasformarlo in una perfetta macchina per uccidere. I proiettili di antimonio sono una sua scoperta e sarà lui stesso a consegnarli a Pantera.

Il mesmerismo, dunque, compare anche in Black flag. La sua funzione narrativa è la stessa: la possibilità di interpretare in termini parascientifici i fenomeni apparentemente sovrannaturali consente alla narrazione di mantenersi nel registro del fantastico e cioè, secondo la definizione del già citato Todorov, su un livello di incertezza e di indecidibilità circa la natura dei fenomeni straordinari cui assistiamo nel corso del racconto. Realtà o sogno, percezione veritiera o mera illusione, fenomeno sovrannaturale o fatto semplicemente “strano” benché spiegabile senza violare le ordinarie leggi scientifiche?
Se rimaniamo all’interno delle prime due storie di Pantera dobbiamo sospendere il giudizio. Ma se teniamo conto di quanto ci viene raccontato nei differenti livelli temporali in cui si articolano Metallo urlante e Black flag il dilemma può essere sciolto. Evangelisti assorbe le energie narrative che sgorgano dall’elemento soprannaturale senza lasciare spazio al misticismo cui è spesso associato. In altri termini Evangelisti spariglia le carte ibridando atmosfere tipiche del fantasy e dell’horror con la fantascienza. Le anomalie che sovvertono il nostro ordine metafisico perdono il loro alone mistico perché possono essere spiegate attraverso teorie parascientifiche per le quali, normalmente, lo scrittore utilizza i risultati di rami marginali della scienza realmente esistiti.
Il caso più famoso nella narrativa di Evangelisti è quello della fisica psitronica che torna ripetutamente nei romanzi di Eymerich. Non è importante il fatto che questi rami della scienza siano stati abbandonati e oggi siano considerati fallaci. L’importante è il meccanismo narrativo che toglie il terreno sotto i piedi ai cantori del mito tecnicizzato: ciò che è inspiegabile, sovrannaturale, diabolico o mitico in un determinato paradigma di conoscenze può trovare spiegazione razionale se inquadrato in un paradigma differente. 
Insomma, il mondo definito dai parametri della razionalità dominante è solo uno dei mondi possibili. E decisamente non il migliore.19

Tornando al mesmerismo e alle vicende che riguardano direttamente Pantera, va rilevata una differenza tra i due racconti. In Metallo urlante il messicano passa da un atteggiamento di iniziale ostilità nei confronti di questa scienza a una sorta di agnosticismo che non esclude la sua capacità di produrre spiegazioni e effetti concreti. Il cambiamento nasce dall’aver constatato la buona fede di Rosenthal, il sedicente medico che esercita questa disciplina a fini curativi. Si tratta, neanche a dirlo, di un personaggio eccentrico ed emarginato, considerato dai più un mero imbonitore, ma mosso da buone intenzioni sia nella sua pratica “scientifica” sia nel suo atteggiamento nei confronti del suo prossimo, in particolare di Cindy, una ragazza ingenua al limite della stupidità, utilizzata da tutti gli uomini di Tucumcari come sfogo sessuale gratuito. D’altra parte la metafisica di Pantera, se così possiamo chiamarla, è politeista e non può escludere la presenza di forze e divinità diverse da quelle da lui venerate. Il suo è essenzialmente un multiverso.
Ciò nonostante, in Black flag, la sua relazione con il mesmerista Anselme Bellegarrigue, diventa esplicitamente antagonistica. Ciascuno cerca di spiegare le credenze dell’altro alla luce delle proprie. Per Bellegarrigue, così come per Rosenthal, il magnetismo può dare conto scientificamente di tutti i fenomeni apparentemente sovrannaturali che Pantera è in grado di produrre, compresa l’apparizione nel cielo di un gigantesco lupo che terrorizza l’accampamento dei bushwacker. Per il francese si tratta soltanto di un’allucinazione collettiva determinata da un livello assurdo di fluido magnetico. Pantera, dal canto suo, quando entra nella carrozza laboratorio di Bellegarrigue, per quanto avesse “dimestichezza con ogni genere di prodigi, non riuscì a reprimere un brivido. C’erano spiriti in quell’abitacolo. Spiriti non buoni”.20. Il messicano era convinto che “Anselme Bellegarrigue conosceva il modo per evocare gli Ndoki, gli spiriti più maligni. Trovava scuse razionali al proprio potere solo per ingannare meglio il prossimo”.21
L’atteggiamento che assume Pantera nei confronti del mesmerismo, dunque, non è dettato dal contenuto in sé di questa pretesa scienza, ma dalle intenzioni di chi la pratica. Il messicano, in
Metallo urlante, è pronto ad accettare l’aiuto di Rosenthal. Quando il francese propone di utilizzare una bacchetta per potenziare gli effetti della cerimonia “magica” di Pantera, quest’ultimo, di fronte alle spiegazioni sul funzionamento del fluido mesmerico, si limita a commentare: “Non capisco una parola di quello che dice, ma le credo”.22 Allo stesso modo, in Black Flag, non rifiuterà l’appoggio sovrannaturale dell’indiano Vecchia Pipa, sebbene quella di Pantera appaia anche in questo caso come un’agnostica apertura di credito: “Non ci sarà da danzare Pipa. Però partecipa pure. Gli spiriti malvagi della tua gente sono gli stessi presenti dappertutto. Tu li scaccerai a modo tuo, io a modo mio”.23

1- continua. Prossima puntata sabato 21 ottobre


  1. Cfr. A. Sebastiani, Nicolas Eymerich. Il lettore e l’immaginario in Valerio Evangelisti, Odoya, Milano 2018. In particolare vedi Cap. 1. 

  2. Cfr. T. Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, Milano 2022. 

  3. Cfr. D. Gallo, “La battaglia del mito e della scienza. Valerio Evangelisti e la fantascienza come pratica radicale”, in S. Moiso e A. Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura, Mimesis, Milano 2023. 

  4. V. Evangelisti, Black flag, Einaudi, Torino 2002, p. 208. 

  5. Cfr. M. T. Taussing, Il diavolo e il feticismo della merce, DeriveApprodi, Roma 2017. 

  6. V. Evangelisti, Black flag, cit. p.123. 

  7. V. Evangelisti, Metallo urlante, Einaudi, Torino 1998, pp. 38-39. 

  8. Ivi, p. 23. 

  9. Cfr. A. Sebastiani, cit., p. 38. 

  10. V. Evangelisti, Metallo urlante, cit, p. 105. 

  11. C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, Dino Audino, Roma 1999, p. 43. 

  12. V. Evangelisti, Black flag, cit, p. 27. 

  13. Ivi. p. 33. 

  14. V. Evangelisti, Metallo urlante, cit., p. 66. 

  15. Ivi. p. 137. 

  16. V. Evangelisti. Black flag, cit., p. 16. 

  17. Ivi. p. 21. 

  18. Ivi. p.143. 

  19. Cfr. D. Gallo, “La battaglia del mito e della scienza. Valerio Evangelisti e la fantascienza come pratica radicale”, cit. 

  20. V. Evangelisti, Black flag,  cit., p. 115. 

  21. Ivi. p. 118. 

  22. V. Evangelisti, Metallo urlante, cit., p. 129. 

  23. V. Evangelisti, Black flag, cit., p. 174. 

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Il ciclo di Eymerich, una narrativa popolare che inquieta e non consola /2 https://www.carmillaonline.com/2022/08/23/il-ciclo-di-eymerich-una-narrativa-popolare-che-inquieta-e-non-consola-2/ Mon, 22 Aug 2022 22:18:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73390 di Fabio Ciabatti

In Mater Terribilis, in uno dei più classici futuri alla Evangelisti in cui la razionalità di Eymerich dispiega le sue distopiche conseguenze, esiste il Vortex, una stazione satellitare in grado di immagazzinare i sogni e gli incubi di tutta l’umanità e di ritrasmetterli modificati e amplificati alle menti delle persone. Due funzionari di questa stazione dialogano tra di loro:

La gente “Non riesce più a distinguere tra incubo e realtà. Quanto ai sogni, non sa più nemmeno cosa siano. “Be’, era proprio questa la finalità del sistema. Spegnere i sogni. [...]]]> di Fabio Ciabatti

In Mater Terribilis, in uno dei più classici futuri alla Evangelisti in cui la razionalità di Eymerich dispiega le sue distopiche conseguenze, esiste il Vortex, una stazione satellitare in grado di immagazzinare i sogni e gli incubi di tutta l’umanità e di ritrasmetterli modificati e amplificati alle menti delle persone. Due funzionari di questa stazione dialogano tra di loro:

La gente “Non riesce più a distinguere tra incubo e realtà. Quanto ai sogni, non sa più nemmeno cosa siano.
“Be’, era proprio questa la finalità del sistema. Spegnere i sogni. I sogni non sono governabili, gli incubi sì. Sovversione e terrorismo nascono dai primi, anche se magari si convertono nei secondi”.

Questo discorso è fatto dal punto di vista del potere e per questo dove sta scritto sovversione e terrorismo possiamo leggere rivoluzione e ribellione. Ciò detto questo brano fa pensare all’Unione Sovietica. Il più grande sogno trasformato in un tremendo incubo. Al di là di questa suggestione, tornando ai romanzi di Eymerich, la gran parte delle eresie che ci presenta Evangelisti rimangono in bilico tra queste due dimensioni: di sogno e di incubo.
Insomma l’immaginario non è soltanto lo scrigno immateriale che custodisce i tesori più preziosi dell’animo umano rimossi dalla razionalità dominante. L’immaginario è strutturalmente ambiguo. Se superiamo le colonne d’Ercole che delimitano la logica del nostro mondo non troviamo automaticamente sogni e pulsioni di libertà. Certamente ci imbattiamo in frammenti di possibili mondi alternativi, ma assemblati in una forma magmatica e per questo utilizzabili anche in modo regressivo da ciarlatani, mestatori e funesti imbonitori.
In Cherudek Eymerich si scontra con Rupescissa, un alchimista che, con il suo elisir, vuole assicurare a folle di infelici l’“accesso a una vita più ricca, in cui il corpo si fa lieve e i beni dello spirito sono condivisi”. Nel condannare la sua eresia, il cinismo dell’inquisitore ha almeno una freccia al suo arco che sembra provenire da una faretra rivoluzionaria:

“Curioso” commentò Eymerich, un sorrisetto cinico sulle labbra. “Ogni tanto compare qualcuno che promette ai poveri il riscatto. Purché si impegnino a rimanere poveri nella vita ordinaria e cercare soddisfazione nel mondo dei sogni”. 

Questa affermazione dal sapore marxiano, decisamente sorprendente in considerazione di chi la sta pronunciando, sembra segnalarci che il disincanto illuministico rimane necessario per separare il grano dal loglio. Dunque, il riemergere di antiche sapienze e di divinità del passato, l’immaginario rimosso dal potere, non basta. Se i desideri e le pulsioni di liberazione che risorgono da tempi remoti non si trasfigurano in qualcosa di diverso, all’altezza di nuovi tempi e del futuro che a partire da essi può essere immaginato, alla fine si trasformano in mostri. I sogni possono diventare incubi. Ciò accade, per esempio, quando il desiderio di comunità, che risorge dalle ceneri dell’individualismo moderno, si trasforma in etnocentrismo totalitario e razzista. Di segno opposto è quanto accaduto nel 1871, quando la memoria dell’autogoverno delle municipalità medioevali si è trasfigurata nella democrazia della Come di Parigi. Una simile dinamica si è verificata quando il vivo ricordo dell’autogestione della obscina russa ha trovato nuova linfa nel potere dei Soviet durante la prima fase della rivoluzione del 1917.
Non so se fosse nelle intenzioni di Evangelisti, ma sembra ci stia dicendo, a modo suo, che la rivoluzione non sarà un pranzo di gala, quantomeno per il fatto che ci costringerà a mollare gli ormeggi delle nostre più consolidate convinzioni e a navigare nel mare aperto dell’incertezza. Ma non abbiamo alternative. Pena la trasformazione dei più bei sogni in incubi tremendi.  

L’immaginario, in altri termini, è un luogo conteso in cui “Salvezza e dannazione si manifestano insieme quando il mondo vacilla”.1 Non è facile definire questo concetto, anche se evidentemente Evangelisti attinge alla concezione dell’inconscio collettivo e degli archetipi sviluppata dallo psicanalista Carl Gustav Jung. Cosa evidente, per esempio, nella definizione che dà dell’inconscio collettivo il fantasma di Eymerich nell’omonimo romanzo: “Il luogo dei sogni, delle figure che tutti conoscono senza saperle descrivere, dei miti e delle forme universali. Frutto di un accumulo secolare”. L’immaginario è dunque ciò che può mettere in connessione gli esseri umani e che perciò rappresenta un potenziale antidoto al potere che tende invece a separarli. Ma è anche una regione del reale pericolosa in cui ci si può perdere. Nel primo libro del ciclo, Nicolas Eymerich, inquisitore, così viene descritto da Sweetlady, medium dell’astronave Malpertuis: “L’immaginario è un luogo senza tempo e senza spazio, come il delirio degli schizofrenici. C’è chi, come loro, vi resta impigliato per sempre e non riesce più a trovare la strada del suo corpo”.
Senza perderci noi stessi nelle complicatissime sfaccettature di questa dimensione esplorate dal ciclo di Eymerich, considerato che non è sempre facile distinguere tra la metafora narrativa e la realtà che essa vuole rappresentare, possiamo senz’altro dire che la concezione del tempo è fondamentale per capire cosa si intenda per immaginario.
“Per Einstein, il tempo era una freccia dal percorso irreversibile” ci viene raccontato in Eymerich risorge dallo scienziato Frullifer. Questo personaggio, più volte presente nel ciclo dell’inquisitore dopo la sua comparsa nel primo romanzo, con la sua fisica psitronica ribalta la concezione einsteiniana aiutandoci a interpretare sia i paradossi spazio-temporali dell’immaginario sia i connessi prodigi demoniaci che Eymerich si trova ad affrontare nelle sue avventure. Anche per l’inquisitore il tempo scorre inesorabilmente in una sola direzione, quella che scandisce l’inarrestabile e progressivo dominio della vera Chiesa sul mondo, l’unico regime che al caos può sostituire l’ordine.
Tutto ciò che ritorna dal passato, le antiche divinità, soprattutto femminili, che risorgono dai tempi antichi intralciano questo cammino voluto da Dio e per questo non possono che avere, per l’inquisitore, natura demoniaca, vale a dire irrazionale. E infatti, sostiene Eymerich, “quelle che finora abbiamo chiamato divinità sono in verità demoni, impegnati a predicare una liberazione immediata, lontana da quella spirituale voluta dalle Scritture
(Cherudek). Non a caso, secondo l’inquisitore, “la nozione del tempo è uno dei principali cardini del pensiero su cui gioca Satana nei suoi inganni. Sconvolge le menti e semina confusione”. (Rex Tremendae Majestatis) Una concezione, quella di Eymerich, che corrisponde alle sue attitudini personali. L’inquisitore, infatti, “detestava il fardello del passato: equivaleva a cercare oggetti perduti sul fondo di un lago melmoso”. Per questo “non conservava memoria dei morti. Li cancellava, semplicemente. E se i loro volti riaffioravano, li cancellava di nuovo”. (Il castello di Eymerich

Occorre ancora una volta sottolineare che dietro l’apparente forma mentis medievale si nasconde la concezione, tutta moderna, del progresso. Ed è proprio questa concezione unilineare del tempo che viene meno nell’immaginario. Esso è infatti una dimensione senza tempo, caratterizzata dalla presenza simultanea di tutti i miti, le leggende, i sogni e le credenze della storia dell’umanità. Questa atemporalità può avere una lettura forte, se seguiamo un’interpretazione strettamente junghiana dell’immaginario collettivo quale contenitore inconscio di simboli e immagini arcaiche, eredità della storia primordiale dell’umanità, simultaneamente presenti nel patrimonio psicologico di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro esperienza personale.
Possiamo però darne una lettura più debole laddove ci limitiamo ad ammettere che in ogni società, simultaneamente al modo di produzione dominante, esistono anche embrioni di forme sociali residuali, arcaiche e future con il loro portato di forme di pensiero, consce e inconsce.2
Debole o forte che sia la lettura, rimane il fatto che, una volta abbandonata l’ingenua fiducia nelle ineluttabili leggi della storia che portano al sorgere del socialismo, abbiamo compreso che l’unica concezione lineare del tempo è quella del potere che vuole presentare se stesso come privo di alternative. Indipendentemente dalle fonti di ispirazione di Evangelisti, a partire dal suo universo narrativo è difficile non pensare all’interruzione di questo continuum storico nei termini del potere messianico debole di Walter Benjamin che connette il presente rivoluzionario con il passato e il futuro: da una parte, infatti, le generazioni presenti hanno la possibilità di redimere le sofferenze di quelle passate e, dall’altra, il sacrificio delle precedenti generazioni sconfitte, la memoria dei martiri del passato ispirano le lotte di liberazione del presente. 

In realtà, all’apice del ciclo di Eymerich, sarà egli stesso ad acquisire una concezione ben più complessa del tempo che, pur abbandonando le semplificazioni dell’ideologia “linearista”, non rinuncia a un finalismo sui generis in grado di ribadire il dominio universale della chiesa. Per raggiungere questo risultato Eymerich deve percorrere completamente, attraverso l’intero ciclo dei libri a lui dedicati, Il viaggio dell’eroe di cui ci parla il famoso manuale di sceneggiatura hollywoodiano di Christopher Vogler. Questo viaggio però ha un esito assai diverso da quello previsto dalla narrativa mainstream. La parabola convenzionale, come descritta dallo studioso di religioni Joseph Campbell, da cui Vogler riprende il concetto di viaggio universale dell’eroe, prevede un movimento in tre atti:

L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale (x); qui incontra forze favolose e riporta una decisiva vittoria (y); l’eroe fa ritorno dalla sua misteriosa avventura dotato del potere di diffondere la felicità fra gli uomini (z).3

In questo percorso l’eroe, seguendo le orme della psicanalisi junghiana, è in grado di fare i conti con la sua ombra, con il suo lato oscuro. E in questo modo completa sé stesso compiendo il suo processo di “individuazione”.
Come già accennato, il viaggio di Eymerich, pur seguendo formalmente le tappe del percorso vogleriano/jungiano, si conclude in modo decisamente originale: completandosi con l’altro da sé, la sua ombra femminile, l’inquisitore si trasforma da cattivo in supercattivo. Diventa demiurgo universale capace di attraversare il tempo per imporre il suo ordine spietato. Invece di riportare dalla sua avventura l’elisir della felicità da donare agli esseri umani, si procura il veleno che sarà in grado di intossicare il presente e tutti i secoli futuri raccontati nei romanzi di Eymerich. 

Prima di completare questo percorso, in Rex tremendae maiestatis, Eymerich ha un sogno premonitore.

Non sapeva quale epoca stesse osservando: aveva l’impressione di abbracciarle tutte quante. Il mosaico che contemplava pareva avere un unico movente: fare proprie ricchezze comuni e piegare chi ne era espropriato. Magari ucciderlo. Una legge che aveva dominato sulla Terra prima ancora che l’uomo assumesse la forma attuale.
Eymerich ne era confortato. Nella sua selvaggia maestà, quello poteva essere il suo regno. Osservava guerre interminabili. Alcune le conosceva perché erano ancora in atto. Altre, trascorse o future, erano combattute con armi immaginose e devastatrici …
Era tempo che, su uno dei tanti mondi, qualcuno fosse chiamato a prenderne in pugno la tremendam majestatem. L’idea spaventava Eymerich, ma al tempo stesso lo lusingava. Si sarebbe mostrato degno del compito. Avrebbe mostrato fini degni a battaglie insensate. La carica di Rex non lo spaventava.

Un potere tremendo, quello del Rex, che l’Eymerich onirico non vuole utilizzare per mettere fine alle “guerre interminabili” che piagano la storia dell’umanità, ma sfruttare per strumentalizzare queste stesse guerre per i suoi obiettivi, guidandole verso “fini degni”. Si tratta di instaurare, questa volta con superpoteri, con la capacità di attraversare il tempo, il dominio dell’impero universale della chiesa e di ribadire le verità eterne della teologia tomistico-aristotelica. 

Queste verità, la razionalità delle leggi volute da Dio, secondo Eymerich non possono essere sovvertite da Satana che, però, può creare delle illusioni, degli inganni che gli esseri umani possono facilmente scambiare per realtà. Come meramente illusorio era, secondo l’ideologia dominante, il comunismo considerato alla stregua di una religione secolarizzata. Una sorta di eresia ingannatrice, ma capace di mobilitare le masse ingenue.
Tornando ai nostri romanzi, dare credito a queste illusioni, anche a fin di bene, evocando i demoni per utilizzarli a vantaggio della vera fede, è una imperdonabile deviazione dalla della retta via. È quello che fa il vecchio mentore dell’inquisitore, padre Dalmau ne
Il castello di Eymerich, trasformandosi così in suo acerrimo nemico. L’anziano maestro sostiene che è lecito “Punire il male con lo stesso male” e cioè “saper usare gli strumenti del proprio nemico, anche a costo di divenire simile a lui”. Perché il fine giustifica i mezzi. Nonostante condivida il machiavellismo del suo maestro, Eymerich punirà padre Dalmau con una tremenda morte. Ma in Rex Tremendae Majestatis, l’inquisitore si comporterà in modo simile a quello del suo vecchio mentore seguendo il percorso alchemico-iniziatico indicato da un libro maledetto, il Discorso della saggia Maria sulla Pietra dei filosofi.  

“Dove regna il demonio – sostiene Eymerich – la realtà è sovvertita, sono le leggi del diavolo ad avere valore. … Ci conformiamo a convenzioni bugiarde, inventate da maghi e giudei, solo per uscire dalla follia dell’inferno. Le stritoliamo nelle loro stesse norme assurde”
“Ma così ci consegniamo alla menzogna!”
“No è la menzogna che si consegna a noi”.

È questo il passo definitivo che trasforma l’inquisitore in demiurgo. Un passo analogo a quello del neoliberismo che assorbe le spinte libertarie degli anni Sessanta e Settanta per ribadire l’ordine capitalistico. Il pensiero dominante diventa pensiero unico assimilando ciò che gli si oppone. Colonizzando completamente l’immaginario. Eymerich è un mostro incompleto finché cerca soltanto di eliminare l’eresia che si oppone alla sua verità, diventa un supermostro quando riesce ad assorbirla.

Di fronte a un esito così inquietante la letteratura può mostrarci come alcune brecce nel muro del dominio rimangono aperte. Alle volte Evangelisti ce lo concede. Anche nel futuro in cui la spietata razionalità di Eymerich ha trionfato, il controllo totalitario sull’immaginario può mostrare delle incrinature. Succede quando Mosaico, il soldato Frankenstein progettato dai nazisti, alla fine si rivolta contro i suoi creatori perché per costruirlo sono stati utilizzati, deviando dai piani originari, membra di ebrei che mantengono una memoria del loro passato. Accade anche nel lontano futuro quando Vortex, poiché i suoi utilizzatori cercano di aggirare le regole che essi stessi si erano dati per evitare abusi da parte delle singole potenze in guerra, alla fine va in crash e inizia a trasmettere al posto degli incubi previsti dal sistema immagini di rivolte del passato. Anche nel più lontano futuro raggiunto dal ciclo dell’inquisitore, dopo l’anno 3000 quando i discepoli del demiurgo Eymerich diffondono il suo vangelo, ci sono “sentori di malumore, di rivolte aperte nel sistema di Tessalonica” (Il fantasma di Eymerich). 

Cosa ancora più importante, secondo Evangelisti, la letteratura non ha il compito di mostrarci la via che ci conduce oltre le contraddizioni del presente, magari attraverso l’opera di qualche eroe salvifico.

Non possono essere gli scrittori, per quanto bravi siano, a indicare soluzioni. Deve essere la società civile, avvisata di ciò che accade da chi sa colpire il suo immaginario (narrativa, giornalismo, il multiforme universo dei media) a cercare di colorare sé stessa in tinte diverse dal nero. Salvo trasformarsi in ricettacolo di demoni che, prima o poi, reclameranno il loro sfogo.4 

Si può sentire qui l’eco di una vecchia affermazione di Marx: “l’emancipazione della classe operaia deve essere l’opera della classe operaia stessa”. L’eco della vecchia categoria dell’autoemancipazione del proletariato. È con il ricorso a questa categoria che forse possiamo spiegare “Il (più grande) mistero dell’inquisitore Eymerich”. In questo modo, cioè, possiamo forse capire perché Valerio Evangelisti, un incorreggibile compagno, un rivoluzionario impenitente, abbia fatto di uno spietato e terribile persecutore di “rivoluzionari” il più affascinante dei suoi personaggi. Le storie di Eymerich colpiscono magistralmente il nostro immaginario, prima blandendo i nostri sogni e poi precipitandoci in un terribile incubo, per avvertirci di cosa succede quando arriviamo al punto in cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.

(2 – fine – la precedente puntata qui)


  1. S. Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 150

  2. Cfr. Raymond Williams, Marxism and literature, Oxford University Press, Oxford-New York 1977. Sul concetto di non contemporaneità cfr. Ernst Bloch, Eredità di questo tempo, Mimesis, 2015. 

  3. J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, Torino 2012, p. 41. 

  4. V. Evangelisti, “L’estinzione del movente”, in Id. cit., p. 148. 

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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente/ 4: a caccia di mostri https://www.carmillaonline.com/2022/07/06/la-guerra-e-il-lato-oscuro-delloccidente-4-a-caccia-di-mostri/ Tue, 05 Jul 2022 22:10:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72780 di Fabio Ciabatti

I periodi bellici non sembrano adatti al tentativo approfondire l’analisi. La propaganda non va tanto per il sottile. I nemici diventano mostri, il male assoluto. Parlando di nemico come lato oscuro si potrebbe dare l’impressione che stiamo menando il can per l’aia di fronte alla domanda pressante che viene rivolta a tutti noi: tu da che parte stai? Ma è proprio a questa domanda che bisogna sottrarsi. Perché, comunque si sviluppi nel breve periodo, il conflitto è destinato a far emergere i fondamenti mostruosi del nostro mondo. Un modo per [...]]]> di Fabio Ciabatti

I periodi bellici non sembrano adatti al tentativo approfondire l’analisi. La propaganda non va tanto per il sottile. I nemici diventano mostri, il male assoluto. Parlando di nemico come lato oscuro si potrebbe dare l’impressione che stiamo menando il can per l’aia di fronte alla domanda pressante che viene rivolta a tutti noi: tu da che parte stai? Ma è proprio a questa domanda che bisogna sottrarsi. Perché, comunque si sviluppi nel breve periodo, il conflitto è destinato a far emergere i fondamenti mostruosi del nostro mondo. Un modo per provare a disertare il campo di battaglia è proprio quello di riconoscere che il nemico non rappresenta un’alterità incommensurabile rispetto alla nostra identità (stiamo parlando di una diserzione ideale ben consapevoli che quella reale cosa assai diversa). In questo modo possiamo mettere in questione la logica assoluta dell’“amico-nemico” che ci viene imposta e contrastare gli slanci bellicamente eroici che essa porta con sé. Si tratta certamente di un primo passo necessario perché ci consente di capire che, al di là delle manifeste differenze, esiste un sostrato comune tra i contendenti.1

Adesso, però, è venuto il momento di chiederci se questo passo sia anche sufficiente. La suggestione del lato oscuro l’abbiamo ripresa da uno dei manuali di sceneggiatura più diffusi di Hollywood, Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler. Qui l’antagonista è considerato come l’“insieme degli aspetti negativi dell’Eroe stesso”, come la “dimora dei mostri che reprimiamo dentro di noi”. Il nemico non è altro che l’eroe al rovescio, il suo lato oscuro, appunto. In questo contesto, la sconfitta dell’antagonista deve passare necessariamente per una trasformazione dell’eroe, perché la vittoria contro il male che è rappresentato esteriormente dal nemico significa anche la sconfitta del male che si cela in profondità nel protagonista stesso. La domanda da porsi a questo punto è la seguente: a partire da questa dinamica si può immaginare che la trasformazione dell’eroe possa produrre qualcosa di realmente nuovo?
Per rispondere occorre storicizzare la concezione del nemico che abbiamo ripreso da Vogler. E a tal fine occorre porsi un’ulteriore domanda: non è che questo modo di concepire il nemico si può affermare quando si è consolidata, fino a diventare senso comune, la convinzione che il nostro mondo non è solo quello più giusto, ma anche l’unico realmente esistente? Quando siamo oramai convinti che “there is no alternative”, né all’interno delle nostre società occidentali né al di fuori? Se esistiamo solo “noi” l’unico nemico può stare solo dentro di noi.
Insomma, il nemico vogleriano fa parte di un tipo di narrazione adeguato ai tempi del neoliberismo trionfante e della globalizzazione rampante. Tempi in cui il nemico storico del sistema capitalistico, quello interno rappresentato dall’Unione Sovietica e quello interno formato dalla classe operaia, sono stati sconfitti. Sulla scena rimane soltanto “il mondo libero”, destinato ad espandersi su tutto il globo. Rimane solo il capitale.

Si può dunque sostenere, utilizzando le categorie di Frederic Jameson, che l’idea del nemico come lato oscuro dell’eroe rappresenti una soluzione immaginaria ad una contraddizione reale che può essere posta in questi termini: come è possibile che esista ancora il male quando il bene ha oramai trionfato? Si tratta di una soluzione che occulta le radici storiche del problema cui cerca di dare una risposta: il problema stesso viene infatti rappresentato come espressione delle eterne contraddizioni della natura umana. Detto in altri termini, il male persiste perché luce e ombra fanno parte dell’essenza immutabile dell’umanità. L’unica soluzione possibile sembra stia nel prevalere del lato positivo su quello negativo. Il primo deve riuscire a inglobare e governare il secondo. Quest’ultimo, però, può sempre risorgere perché imperituro. L’eterno ritorno del conflitto tra luce e tenebre finisce però per offuscare la necessità di un superamento della contraddizione reale si concretizzi in una nuova configurazione storica. Quando le contraddizioni di un periodo storico si incancreniscono, infatti, è inutile sperare che uno dei poli esca vincitore dalla lotta senza che questo comporti la riproposizione di un medesimo ordine in forma sempre più marcescente. Non era questa la lezione di Marx quando sosteneva che la classe operaia deve negare sé stessa per poter trionfare, pena la comune disfatta delle classi in lotta?
Solo attraverso una soluzione immaginaria si può pensare di evitare questo esito riproducendo un vecchio mondo già condannato. In effetti nella narrazione che contiene il moderno archetipo del nemico come ombra, la già richiamata saga di Star Wars, c’è il trucco che consente al mondo di ritrovare il suo perduto equilibrio. Il lato oscuro della forza, Dart Fener, riconosce alla fine la sua manchevolezza e si sacrifica per il trionfo della luce. In fin dei conti la speranza in un regime change in Russia sembra rimandare a questo tipo di epilogo. C’è purtroppo un altro esito possibile che la serialità televisiva ci suggerisce. Dexter, il famoso serial killer che uccide solo serial killer (state forse pensando agli Stati Uniti e alla Russia?), alla fine non riesce più a convivere con il suo “passeggero oscuro”, il suo irresistibile impulso omicida. Le regole del suo “codice” che lo obbligano ad uccidere solo i malvagi sfuggiti alla giustizia ordinaria non sono più sufficienti a impedire che la sua oscurità faccia del male agli innocenti (danni collaterali?). L’unico modo per evitarlo è uccidere il “passeggero oscuro” insieme a chi gli dà il passaggio. Siamo destinati ad un suicidio collettivo? Magari con una guerra nucleare in cui il Sansone occidentale perisce insieme a tutti i filistei russofoni? Forse per evitare questo tragico esito dobbiamo andare a caccia di mostri, quelli veri, non gli spauracchi che ci vengono spacciati come tali. 

Uno che di mostri se ne intende, il romanziere marxista China Mieville, afferma: “La massima ‘Abbiamo visto i veri mostri e siamo noi’ non è né una rivelazione, né una cosa intelligente, interessante o vera. È un tradimento del mostro e dell’umanità”.2  Il mostro, in senso forte, è infatti ciò che è completamente altro da noi. E come tale è inafferrabile, inconoscibile, irrazionale. Il mostro nella sua totale alterità sembra venire dall’esterno: è un’entità extraterrestre (la cosa venuta dallo spazio), extramondana (il demone), extraumana (la catastrofe naturale). Ma, in un senso forse ancora più forte, il mostro, nella sua completa indecifrabilità, non ci rivela la sua origine. Non riusciamo a sapere se provenga da un qualche altrove o se sia un parto del nostro mondo. Il mostro, sostiene sempre Mieville, è l’impossibile eppure necessaria incarnazione dell’inconoscibile. Tale incarnazione è talmente necessaria che “La storia delle società fino ad ora esistite è la storia di mostri”. O, detto altrimenti, “Le epoche generano i mostri di cui hanno bisogno. Dei mostri e attraverso di essi può essere scritta la storia”. Una cosa necessaria richiede una spiegazione, ma una cosa impossibile la rifiuta. Da questa tensione scaturisce l’irresistibile tendenza all’esemplificazione del mostruoso. “Una cosa così evasiva rispetto alla categorizzazione provoca – e si arrende a – un desiderio famelico di specificità, di elencazione del suo corpo impossibile, di genealogia, di un’illustrazione. Il telos dell’essenza mostruosa è l’esemplificazione”.

Cerchiamo di applicare queste idee alla guerra che, in fin dei conti, potrebbe essere considerata uno dei peggiori mostri di cui possiamo fare reale esperienza. Prendiamo gli Stati Uniti, la nazione guida del “mondo libero” che senz’altro influenza più di ogni altra il nostro immaginario collettivo. Dal 1776, anno della dichiarazione di indipendenza “solo 18 anni su 245 sono trascorsi in completa pace”.3 La guerra è dunque necessaria perché viene praticata in continuazione. È il passeggero oscuro della nazione americana, il suo irresistibile impulso omicida. Ma essa è al contempo impossibile perché gli USA sono il faro della democrazia, la terra delle opportunità per tutti, il campione dell’autodeterminazione dei popoli. E allora sorge la necessità di esemplificare la guerra attraverso una sequela di nemici cattivi, anzi cattivissimi che possano rientrare nel novero degli assassini meritevoli di essere uccisi secondo il “codice” del serial killer statunitense. Dopo la Seconda guerra mondiale, in ogni conflitto arriva immancabile la reductio ad Hitlerum. Il primo prototipo di questa illustrazione è L’URSS che viene assimilata alla Germania nazista attraverso un utilizzo disinvolto della categoria di totalitarismo.
Ma il nemico, anche se cattivissimo come può essere un Putin qualsiasi, rimane una cosa diversa dal mostro, almeno nel senso forte che abbiamo attribuito a questo termine. Il nemico è qualcosa con cui siamo in grado di fare i conti perché possiamo comprenderlo o quantomeno collocarlo in uno spazio conoscitivo oscuro, ma delimitato. Per questo, quando affrontiamo un nemico, la nostra identità e le nostre coordinate esistenziali non sono messe in discussione fino alla loro radice ultima.  Questo scontro, almeno fino a quando pensiamo di poter essere vittoriosi, ci impone solo di rafforzare la nostra identità, cambiandola quanto basta per sconfiggere l’avversario, qualora necessario. Il mostro ci pone di fronte a un compito ben più difficile: ci obbliga a negare radicalmente il nostro mondo e dunque noi stessi. Poiché la sua minaccia è al tempo stesso inafferrabile e mortale, nulla di ciò che sappiamo o siamo in grado di fare ci può salvare. La catastrofe che incombe manifesta i limiti invalicabili del nostro universo, dal punto di vista pratico e da quello conoscitivo. Pensare di sconfiggere il mostro significa cercare di oltrepassare questi confini provando a immaginare un altro mondo possibile, un’esigenza che appare al contempo impossibile e necessaria. Mi verrebbe da dire che si tratta di una dialettica aperta. Senza garanzie. Anche questo fa paura.

Cerchiamo di approfondire la questione prendendola da un altro punto di vista. L’idea che il nemico sia il lato oscuro dell’eroe, come abbiamo già accennato, rimanda ad una sorta di pessimismo antropologico. Il presupposto è che ci sia un lato oscuro dell’umano in quanto tale da cui scaturisce, tra le sue peggiori manifestazioni, l’incapacità di pensare l’alterità senza mostrificarla. Questo è un dato che possiamo senz’altro ammettere, in considerazione degli orrori ripetuti della storia (dis)umana. Eppure, fermarci a questa considerazione non ci porta molto lontano. Se è vero che il rapporto con l’alterità è sempre stata problematica, non per questo ciò ha dato sempre luogo a esiti estremi come la demonizzazione dell’altro. L’etnocentrismo, che per semplicità possiamo considerare un fenomeno universale, è una cosa, il razzismo è un’altra. Vero è che nel primo possono essere individuati i semi del secondo. Ma non sempre quei semi germogliano. 

Possiamo pensare … che la propensione al dominio e alla violenza, il gusto per la crudeltà e il penchant totalitario facciano parte della natura umana, che siano intrinseci al desiderio che ci muove. È una posizione filosofica fin troppo convincente, molto disperata e infine profondamente reazionaria. Oppure possiamo pensare che violenza, crudeltà, abuso e produzione di miseria siano una possibilità ineludibile, che tuttavia deve ogni volta di nuovo essere scelta. Che siano, cioè, l’esito di una storia.4

La scelta di cui si parla, dunque, avviene ogni volta in condizioni diverse, storicamente determinate e produce effetti di volta in volta differenti. “Le epoche generano i mostri di cui hanno bisogno”, ripetiamo insieme a Mieville. Il mostro, potremmo dire, è un modo per raffigurare ciò che le categorie con cui si autorappresenta una data epoca non possono concettualizzare; un modo per narrare allegoricamente le conseguenze più disumane che scaturiscono da un dato sistema sociale e che questo stesso sistema non può riconoscere come propri frutti necessari. Perché se li riconoscesse come tali verrebbe meno quell’etnocentrismo che appare come momento necessario per cementare una qualche forma di solidarietà e di unione di un dato gruppo umano. Il mostro non è solo l’essere spaventoso che minaccia di divorare qualche malcapitato, ma quello che preannuncia la possibile distruzione di un intero mondo. È ciò che, per dirla con De Martino, minaccia la presenza e annuncia l’apocalisse culturale.
Nella concezione di Mieville il mostro deve rimanere qualcosa di inspiegabile, una sorta di imperscrutabile divinità malevola. Rimanendo nell’ambito della narrazione romanzesca, ciò evita il rischio di scadere nel didascalico. Ma se usciamo dalla fiction, siamo sicuri che non possiamo fare qualche passo ulteriore per affacciarci al di là delle categorie con cui si autorappresenta una data epoca? Scrivere la storia attraverso i mostri che di volta in volta essa ha generato non prelude proprio a questo tipo di tentativo?

Ritorniamo alla guerra. Lo sviluppo della cosiddetta globalizzazione avrebbe dovuto portare al mondo la “pace perpetua” perché, secondo uno stereotipo fondante dell’ideologia moderna reso celebre da Kant, lo “spirito commerciale” non può coesistere con la guerra. E invece ci ha condotto alle soglie di un conflitto mondiale. Non dobbiamo perciò pensare la guerra come l’esito delle scellerate azioni del mostriciattolo di turno che interrompe il normale funzionamento di un sistema altrimenti destinato a diffondere la pacifica e fattiva coesistenza tra i popoli. Queste azioni sono solo le cause immediate di un conflitto. Dobbiamo pensare la guerra come un fenomeno mostruoso in senso forte, come raccapricciante conseguenza dei fondamenti indicibili del nostro mondo. In altri termini, con buona pace di Kant, dobbiamo pensare la “guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali”. 5
Ovviamente la guerra non l’ha inventata il capitalismo. Ma la guerra in grado di distruggere, letteralmente, l’intera umanità (un conflitto mondiale, a maggior ragione se nucleare) è impensabile senza il capitalismo. Cannoni, missili, carri armati sono le zanne e gli artigli più visibili del capitale totale che ci sta divorando. Ciò detto è evidente che una cosa è individuare la genesi dei mostri che appartengono al nostro mondo e pensare le condizioni di una società libera dalle loro minacce, altro è riuscire a immaginare un mondo che sia privo da qualsiasi mostro. Insomma, liberarci da un male storicamente determinato non è lo stesso che liberarci da ogni male. Un mondo libero dalla minaccia di una guerra totale può ben essere costellato da una serie di feroci battaglie locali, tribali, sociali. Anche in questo senso la dialettica di una possibile liberazione non può che rimanere aperta. 

(4 – fine– le precedenti puntate qui, qui e qui)


  1. Lo abbiamo già detto, ma vale la pena qui ripeterlo. Oggi assistiamo a uno scontro tra potenze che si gioca sulla pelle della popolazione ucraina, vera carne da cannone cinicamente mandata allo sbaraglio dagli USA e massacrata senza pietà dalla Russia. Ciò sia detto senza nulla togliere al fatto che le responsabilità dello scoppio di questa guerra ricadono, nell’immediato, sullo stato guidato da Putin, incapace di rispondere politicamente, con una strategia di tipo egemonico, alla Nato che abbaiava alle sue porte. 

  2. China Mieville, Theses on Monsters, pubblicato in www.chinamieville.net. Le successive citazioni sono tratte dallo stesso scritto (traduzione nostra). 

  3. Questa affermazione non è presa non da un sito filo-Putin, ma dalla sezione Infodata del Sole 24 ore 

  4. Stefania Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 72. 

  5. Sandro Moiso, Il nuovo disordine mondiale: chi semina vento raccoglie tempestasu “Carmilla” qui. 

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L’antagonista, il lato oscuro del soggetto https://www.carmillaonline.com/2022/03/22/lantagonista-il-lato-oscuro-del-soggetto/ Mon, 21 Mar 2022 23:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71063 di Luca Cangianti

In Guerre stellari, Luke Skywalker è strappato alla quotidiana vita rurale dall’assassinio dei propri zii e intraprende un’impresa disperata per sconfiggere il malvagio Dart Fener. Il protagonista costituisce la propria soggettività nel corso viaggio: supera ostacoli, rischia la morte, scopre nuove porzioni di realtà e di se stesso, ma contemporaneamente condivide qualcosa di sostanziale con chi si oppone alla sua azione, l’antagonista.

La parola greca antagonistís è composta dalla proposizione «contro» (antí) e dal sostantivo derivato dalla parola «lotta» (agón). In questa figura s’incarna l’altro che [...]]]> di Luca Cangianti

In Guerre stellari, Luke Skywalker è strappato alla quotidiana vita rurale dall’assassinio dei propri zii e intraprende un’impresa disperata per sconfiggere il malvagio Dart Fener. Il protagonista costituisce la propria soggettività nel corso viaggio: supera ostacoli, rischia la morte, scopre nuove porzioni di realtà e di se stesso, ma contemporaneamente condivide qualcosa di sostanziale con chi si oppone alla sua azione, l’antagonista.

La parola greca antagonistís è composta dalla proposizione «contro» (antí) e dal sostantivo derivato dalla parola «lotta» (agón). In questa figura s’incarna l’altro che si oppone all’eroe e al suo desire. Con questo termine in narratologia si indica l’obiettivo perseguito dal protagonista, ciò che fa leva sulle sue ferite, sui suoi punti deboli, su quanto rende l’eroe una persona incompleta, instabile e quindi incline al mutamento, all’avventura, al viaggio.1
A un primo e parziale sguardo, l’antagonista sembra agire sull’io eroico come una realtà materiale assolutamente altra: ne vince l’inerzia, lo spinge a cambiare, ne tempra la soggettività. Dart Fener costringe Luke ad abbandonare il suo pianeta natale, tiene prigioniera la principessa Leila che il giovane vorrebbe liberare, uccide il suo mentore Obi-Wan Kenobi, insegue l’eroe e i suoi alleati ribelli.
Tuttavia, a ben vedere, la relazione tra eroe e antagonista non è meramente oppositiva ed estrinseca, ma incorpora un che di familiare, di intimo: Luke scopre nel secondo film della saga, L’Impero colpisce ancora (1980), di esser figlio dell’antagonista, sangue del suo sangue; i due hanno qualcosa in comune, sono facce della stessa medaglia. Federico Greco inoltre ricorda che «il protagonista della trilogia prequel, Anakin Skywalker, diventa l’antagonista… della trilogia originale della quale il nuovo protagonista è Luke Skywalker. Nella trilogia sequel Luke finisce a sua volta in secondo piano divenendo il coprotagonista, mentre è Rey ad assurgere a ruolo di protagonista. Quest’ultima, il cui cognome reale è Palpatine (Rey è la nipote “abiatica” dell’Imperatore, che è suo nonno), nel finale – rispondendo alla domanda di una donna che le chiede chi sia – si dichiara essere una Skywalker.»2 John Truby sostiene che l’avversario debba possedere alcuni aspetti in comune con il protagonista fino a rappresentarne una sorta di doppio.3

Un altro esempio esplicito di questa struttura è il film Face off (1997). Castor Troy è un terrorista che ha ucciso involontariamente il figlio dell’agente Sean Archer e nascosto una bomba batteriologica prima di finire in coma. Archer si sottopone a un intervento di trapianto del volto per assumere le fattezze del nemico al fine d’introdursi in carcere e sottrarre ai membri della banda di Troy informazioni utili a localizzare e disinnescare l’ordigno. Il terrorista però si risveglia inaspettatamente, riesce a sua volta a farsi trapiantare il volto dell’agente, elimina i testimoni dell’operazione segreta in corso nel carcere e inizia a condurre la vita familiare e professionale di Archer.
Qui la relazione tra eroe e antagonista eccede il mero cozzare esterno perché i poli oppositivi si scambiano i ruoli e apprendono reciprocamente qualcosa l’uno dall’altro. Siamo in un contesto dalle sfumature hegeliane: dopo lo scontro finale e la morte di Troy, l’eroe ne adotta il figlio. La progenie del Male è dialetticamente accolta come negativo nell’ambito del Bene e l’eroe può finalmente superare la ferita della morte accidentale del figlio.

Una struttura dialettica analoga è riscontrabile anche nella serie Van Helsing (2016-2021). In questa narrazione ambientata in un mondo post-apocalittico nel quale dilagano i vampiri, il sangue di Vanessa Van Helsing è in grado di riportarli allo stato umano. Nel nono episodio della quinta stagione la protagonista assorbe la propria parte oscura e riesce a evadere dal mondo parallelo nel quale è stata intrappolata dalla sovrana della specie vampirica, Olivia von Dracula, la Dark One. Questa esperienza dona a Vanessa poteri simili a quelli della sua avversaria e nell’ultimo episodio le permettono di sconfiggerla imprigionandone l’essenza nel proprio corpo.
Il legame tra eroe e antagonista può essere così stretto da situarsi perfino nel corpo della stessa persona, come nel caso del dottor Jekyll e del suo doppio malvagio, il signor Hyde: «quell’orrore insorgente – scrive Robert Louis Stevenson – era legato a lui più intimamente di una moglie, più intimamente di un occhio; se ne stava chiuso nella sua carne, dove lo udiva borbottare e lo sentiva dibattersi per nascere ad ogni ora di debolezza e nell’abbandono del sonno prevaleva contro di lui e lo cacciava dall’esistenza.»4 Hyde è la personificazione del Male che si nasconde (to hide in inglese significa per l’appunto nascondersi) nella sfera domestica dell’eroe. Di notte striscia fuori attraverso una porta secondaria e commette i crimini più efferati.
In Batman Begins (2005) il desire dell’eroe e quello del suo antagonista (Henrie Ducards/Ra’s al Ghul) sono identici, debellare la criminalità e l’ingiustizia, mentre i mezzi differiscono.5 Nel secondo film della stessa saga, Il cavaliere oscuro (2008), i valori di Batman e quelli di Joker sono opposti: la legge per il primo, il caos per il secondo. Tuttavia il nuovo antagonista si rivolge all’eroe affermando: «Tu mi completi»; e poi ancora più esplicitamente: «Tu non mi uccidi per un malriposto senso di superiorità e io non ti uccido perché sei troppo divertente. Noi due siamo destinati a combatterci in eterno.»6

In Spider-Man 2 (2004) la dialettica tra eroe e antagonista coinvolge anche la comunicazione cromatica. Secondo Mauro Antonini «Tutto ciò che racchiude Peter Parker, dai vestiti agli sfondi, è rosso e blu, mentre il mondo intorno a Norman Osborn è prevalentemente virato a toni di verde… Ma al momento in cui Goblin scopre l’identità del suo nemico, quando i due si trovano a tavola nelle loro identità civili per festeggiare il giorno del Ringraziamento, è Peter Parker a indossare una camicia verde con cravatta viola, i colori del costume di Goblin, e Norman Osborn una camicia blu con cravatta rossa, i colori dell’Uomo Ragno… Come in un rito totemico il nemico si cinge dei colori dell’avversario per comprenderlo, sia psicologicamente che fisiologicamente. Ognuno ingloba l’avversario in un bilanciamento che rende esplicito il bisogno, innegabile, l’uno dell’altro».7
Come nota Giulia Cavazza, in mancanza di questa compenetrazione dialettica e dinamica tra opposti, avremmo a che fare solo con un villain, un cattivo che ostacola l’eroe in modo puramente esteriore. In Toy Story (1995) è il caso di Sid, il bambino seviziatore di giocattoli, che, pur contrastando l’azione del pupazzo cowboy Woody, non incarna la figura dell’antagonista, impersonata di contro dal giocattolo spaziale Buzz Lightyear.8 Il ruolo adialettico del villain, infatti, come avviene in molti disaster movie, può essere ricoperto da un fenomeno naturale che mette a repentaglio la vita della comunità o del mondo intero. In Armageddon (1998) è il caso di un meteorite. Questo si oppone agli umani e al protagonista che vi si scaglierà contro per distruggerlo, senza tuttavia generare alcuna unità di opposti.

Richiamandosi esplicitamente al concetto junghiano di ombra, Christopher Vogler considera l’antagonista come insieme di paure, qualità disprezzate e rifiutate dall’eroe, come «dimora dei mostri che reprimiamo dentro di noi.»9 Si tratta principalmente di nostre parti infantili represse, istinti animali primitivi e nevrosi10 che emergono dall’archetipo del nemico, del predatore e dello straniero malvagio.11 Per difendersi da questi contenuti indesiderati, l’ego cosciente non solo reprime l’ombra, ma la nega e la proietta su altri soggetti, spiegando così la presenza ubiqua della figura antropologica del capro espiatorio e delle logiche discriminatorie tra soggetti ingroup e outgroup.

A differenza dell’inconscio freudiano, l’ombra contiene tutto ciò che si trova al di fuori del cono di luce proiettato dall’ego. Pur rimanendo principalmente impregnata di negatività, l’ombra può quindi nascondere anche le capacità inespresse della coscienza: è il caso dei nuovi poteri acquisiti da Vanessa Van Helsing dopo il soggiorno nella dimensione parallela.
Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde12 è un’altra delle più note e potenti esemplificazioni della dialettica proiettiva tra ego e ombra. Il protagonista, per preservare il suo aspetto avvenente e giovanile, così come rappresentato in un quadro donato da un amico pittore, vende la propria anima. I segni dell’età e del suo declino morale vengono assorbiti dalla pittura che l’eroe nasconde in una stanza polverosa, lontano dagli sguardi. Pur rimanendo di bell’aspetto, Dorian rimane ossessionato dalla sua immagine rappresentata nel quadro. Essa diventa sempre più orribile fino a quando il protagonista decide di distruggerla. Verrà ritrovato morto, invecchiato e imbruttito, a differenza del suo doppio pittorico che riprenderà le belle fattezze originali.

L’ombra è parte di noi, non possiamo eliminarla con un colpo di pugnale. Nel percorso analitico, in quello narrativo e perfino in quello politico, sconfiggerla significa diventare coscienti della sua non estraneità. Ciò implica che il Male è eterno: Frodo distrugge l’anello e sconfigge Sauron, ma non riesce a ucciderlo. Egli perde la propria corporeità, ma nulla esclude che possa riacquistarla, come già accaduto in passato nel Bosco Atro.13 Vanessa dorme nascondendo il suo tesoro oscuro, ma può risvegliarsi.


  1. Cfr. Antongiulio Penequo (a cura di), Il viaggio rivoluzionario dell’eroe, Mimesis, 2020. 

  2. Federico Greco, Star Wars. La poetica di George Lucas, La nave di Teseo, 2021, p. 520. 

  3. Cfr. John Truby, Anatomia di una storia, Audino, 2009, pp. 62-3. 

  4. Robert Louis Stevenson, Il dottor Jekyll e il signor Hyde, Bompiani, 1995, pp. 96-97. 

  5. Cfr. Paolo Braga-Giulia Cavazza-Armando Fumagalli, The dark side. Bad guys, antagonisti e antieroi del cinema e della serialità contemporanei, Audino, 2016, p. 31. 

  6. Ivi, p. 35. 

  7. Mauro Antonini, Cinema e fumetti, Audino, 2008, p 158. 

  8. Cfr. Paolo Braga-Giulia Cavazza-Armando Fumagalli, op. cit.., p. 80. 

  9. Christopher Vogler, Il viaggio dell’eroe, Audino, 1999, p. 115; cfr. anche p. 51. 

  10. Cfr. Liliane Frey-Rohn, “How to Deal with Evil” in Connie Zweig-Jeremiah Abrams Zweig (a cura di), Meeting the Shadow. The Hidden Power of the Dark Side of Human Nature, Tarcher/Penguin, 1991. 

  11. Cfr. Anthony Stevens, Jung. A Very Short Introduction, OUP, 1994, p.64. 

  12. Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Feltrinelli, 2013. 

  13. Cfr. Luca Cangianti, Il viaggio di Frodo non finisce, «Carmilla», 15.8.2020. 

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La pandemia dilaga, l’eroe s’incammina https://www.carmillaonline.com/2020/11/11/la-pandemia-dilaga-leroe-sincammina/ Tue, 10 Nov 2020 23:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63337 di Antongiulio Penequo

[Pubblichiamo in anteprima l’introduzione del libro Il viaggio rivoluzionario dell’eroe. Narrare, conoscere, ribellarsi (Mimesis, 2020, pp. 200, € 18,00), curato da Antongiulio Penequo con saggi di Luca Cangianti, Fabio Ciabatti, Gabriele Guerra, Maurizio Marrone, Mazzino Montinari e postfazione di Gioacchino Toni. La pubblicazione sarà in libreria domani. “Con questo libro la narratologia esce dall’accademia e aspira a cambiare il mondo, mentre il Signore degli Anelli, It e Joker prendono posto accanto al Capitale, alle Tesi sul concetto di storia e al Principio speranza.” (Bandella di copertina)]

La [...]]]> di Antongiulio Penequo

[Pubblichiamo in anteprima l’introduzione del libro Il viaggio rivoluzionario dell’eroe. Narrare, conoscere, ribellarsi (Mimesis, 2020, pp. 200, € 18,00), curato da Antongiulio Penequo con saggi di Luca Cangianti, Fabio Ciabatti, Gabriele Guerra, Maurizio Marrone, Mazzino Montinari e postfazione di Gioacchino Toni. La pubblicazione sarà in libreria domani. “Con questo libro la narratologia esce dall’accademia e aspira a cambiare il mondo, mentre il Signore degli Anelli, It e Joker prendono posto accanto al Capitale, alle Tesi sul concetto di storia e al Principio speranza.” (Bandella di copertina)]

La scrittura di questo volume è iniziata quando le mascherine indossate dai giovani in molti paesi del mondo simbolizzavano l’emergere di una nuova soggettività politica, di una rinnovata aspirazione a una vita migliore. Dietro quei dispositivi di protezione dai gas lacrimogeni, lanciati dai corpi militari preposti al mantenimento dello status quo, immaginavamo il caldo sorriso di una comunità umana pronta a impossessarsi del proprio destino, a congedarsi dalla miseria e dall’oppressione di un sistema entropico, incapace di impiegare le proprie immense capacità produttive se non per distruggere la vita e l’ambiente. Quando il libro è stato completato, tuttavia, la mascherina non era più il segno distintivo di una minoranza desiderante all’attacco, ma di una maggioranza aggredita da un nuovo pericoloso virus, confinata nel privato, ridotta a mera somma di monadi terrorizzate e disciplinate.

Le riflessioni del presente lavoro si collocano all’interno di questo spazio simbolico oppositivo, tra soggettività ed eterodirezione, e analizzano le forme che presiedono allo sviluppo della coscienza e dell’azione, o alla loro inibizione. Gli autori si chiedono come sia possibile rendersi conto che nella nostra esistenza contemporanea ci sia qualcosa di profondamente sbagliato; come sia possibile superare l’apatia generata dalla frammentazione dell’Io postmoderno e riconoscere una comunità di simili con i quali progettare mondi nuovi, all’altezza delle nostre capacità, dei nostri bisogni e delle nostre aspirazioni.
Interrogarsi sui meccanismi che generano l’azione umana cosciente nell’attuale situazione di crisi sociale ed economica è di per sé imprescindibile, ma questo tema, nelle pagine che seguono, è affrontato da un’angolazione insolita, prendendo spunto da una strumentazione divenuta nota in narratologia con il nome di “viaggio dell’eroe”, grazie al lavoro di Christopher Vogler. Questo sceneggiatore statunitense ha ripreso gli studi dello storico delle religioni Joseph Campbell condensandoli in un manuale di successo a uso dell’industria cinematografica hollywoodiana1. Secondo Vogler, in tutte le narrazioni è visibile una struttura che pur nelle sue molteplici forme mantiene un carattere invariante: il protagonista, l’eroe per l’appunto, è spinto a intraprendere un’avventura che lo strappa alla realtà quotidiana, portandolo in un “mondo straordinario” nel quale dovrà superare prove mortali nel tentativo di sconfiggere il nemico e riportare a casa un dono capace di restaurare l’ordine violato, causa del suo stesso viaggio. Il progetto di questo libro è dunque, da un lato, il tentativo di mettere alla prova questo pattern per analizzare i dilemmi della presa di coscienza negli ambiti apparentemente lontani della narrativa, della politica e della conoscenza scientifica; dall’altro, una critica di questa stessa struttura, mediante l’analisi di una serie di esempi devianti in cui l’eroe non torna a casa, ma rimane a combattere nel mondo straordinario, oppure torna a casa, ma riparte per nuovi viaggi (come l’Ulisse dantesco, Frodo e il Che), o ancora allunga indefinitamente il proprio percorso come nel caso dell’eroe femminile. Emergono in questo modo tipi di viaggio diversi rispetto a quello concepito da Vogler. La loro natura sbilanciata, incompiuta, circolare potrebbe addirittura configurarsi come struttura narrativa, epistemologica e politica alternativa. All’interno di queste considerazioni, la posizione del midpoint – la “prova centrale” in cui l’eroe ha l’illuminazione che gli permette di vedere la realtà con occhi nuovi e affrontare il nemico nella battaglia finale – è uno dei punti nodali di tale operazione.

Nella retorica mediatica italiana, durante i giorni più drammatici della pandemia, i medici e gli infermieri sono stati insistentemente chiamati “eroi”. I diretti interessati, tuttavia, hanno a più riprese dichiarato di non sentirsi a proprio agio con questa definizione pomposa, preferendo considerarsi professionisti e lavoratori che da sempre svolgono il loro compito in condizioni di disagio e precarietà. Altri commentatori più maliziosi si sono chiesti se lo stato – responsabile dei tagli neoliberisti alla sanità pubblica – si ricorderà, a emergenza rientrata, di coloro che oggi blandisce.
Alle professioni sanitarie è stata inoltre avvicinata quella del poliziotto: “Ciascuno degli agenti di Polizia che in questo momento sono impegnati a fronteggiare la pandemia da Covid-19, è un eroe nazionale”, ha dichiarato la presidente del Senato, Elisabetta Casellati. L’azione delle forze dell’ordine, infatti, avrebbe accompagnato i cittadini “in una sfida inedita che impone un serio ripensamento delle abitudini di vita e delle libertà fondamentali”2.
Secondo queste accezioni, l’eroe è un individuo straordinario e coraggioso che si mette al servizio di una causa meritevole. Fin qui nulla di male, se non fosse che il passo successivo è quello di esaltare gli aspetti bellici, retorici e patriarcali di questa figura, oscurando altri lati che possono risultare più fecondi. L’eroe che emerge dalla narrazione mediatica, in altri termini, rappresenta in modo monodimensionale e per certi versi fin troppo letterale il soggetto studiato da Campbell e da Vogler. La sua utilità si esaurisce nello spazio di un claim emozionale: si tratta di un eroe conservatore, se non propriamente reazionario, che serve a imbonire le masse e che può, al massimo, riportare la situazione alla normalità precedente alla catastrofe. Tuttavia, come recitava una scritta proiettata su un edificio di Santiago del Cile nell’autunno del 2019, “Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema”. Prendendo atto di ciò, l’eroe di cui si occupa il libro è una figura molto più sfaccettata di come viene normalmente raffigurata, al punto di presentare aspetti propriamente rivoluzionari: non ci riporta immancabilmente a casa, alla vita precedente, ma rimane in viaggio nel mondo straordinario.

Dopo due anni di intensi confronti privati e pubblici3, aver scritto dell’eroe proprio quando su scala planetaria infuriava la pandemia del Covid-19, è rilevante per un secondo motivo: l’inizio del viaggio di questa figura archetipica avviene infatti per causa di una catastrofe, il cosiddetto “incidente scatenante” che nelle narrazioni può essere un tradimento, la scomparsa di una persona amata, un torto subito. Si tratta di un collasso del “mondo ordinario” che spinge il protagonista all’azione, al farsi soggetto. Qualcosa di simile avviene anche nella storia della conoscenza e in quella politica. Nella prima assistiamo all’emergere di nuove idee e teorie quando le preesistenti hanno ripetutamente fallito nello spiegare il mondo, generando problemi pratici che mettono a rischio la riproduzione sociale; nella seconda il collasso dello stato dovuto a una guerra persa, a una carestia o a una stessa epidemia, irrobustiscono alternative sociali precedentemente represse che ora si candidano all’egemonia. Da questo punto di vista, la catastrofe distruggendo il mondo ordinario ci svela ciò che è sempre vero, ma abitualmente rimosso: ci sono sempre alternative allo stato di cose presenti, migliori e peggiori.

Luca Cangianti (Cambiare il mondo con un bacio. Narrazione, conoscenza, rivoluzione) analizza l’omomorfismo tra viaggio dell’eroe, rivoluzioni scientifiche e presa di coscienza rivoluzionaria, utilizzando esempi tratti dalla letteratura, dal cinema e dalla memorialistica. Pensiero narratologico, epistemologia kuhniana, sociologia del lavoro, psicologia ed etologia s’intrecciano per spiegare come nasce un soggetto capace di capire, agire e cambiare lo status quo.
Maurizio Marrone (La decisione dell’eroe. Apocalisse, zombie e clown. Tre variazioni) si affida ad alcuni esempi tratti dall’immaginario letterario e cinematografico per affermare che la figura dell’eroe rappresenta il tentativo ostinato della soggettività di costituirsi in quanto tale, vale a dire di dare un senso al mondo e di cambiarlo segnando il passaggio dal soggetto alla comunità. Affinché il viaggio possa dirsi compiuto, tuttavia, questa invariante normativa, che è la matrice trascendentale del suo agire progettante, deve entrare in consonanza con elementi imprevedibili, in altre parole, con le condizioni storiche date e con la potenza oscura e imponderabile della decisione.
Il contributo di Fabio Ciabatti (L’eroe smascherato eppure rivendicato. Dal mito all’utopia passando per Hollywood, il romanzo e la cultura popolare), parte dalla constatazione che l’immaginario hollywoodiano ricorre spesso a un modello antico per i suoi eroi. La prima parte del saggio ha un’attitudine critica nei confronti dell’eroe moderno, inteso come immagine trasfigurata dell’individuo borghese nonostante i suoi mille volti mitologici. La seconda, utilizzando l’arsenale narrativo della cultura popolare, ricerca un altro eroe possibile, presentando figure caratterizzate da una relazione positiva tra individuo e collettività e da un rapporto non pacificato con il mondo. Nella terza, infine, si rivendica la figura dell’eroe a un immaginario antagonista perché essa fa affiorare l’impulso alla felicità e l’urgenza di un’utopia realizzata.
Per Gabriele Guerra (L’eroe e i suoi mondi. Narrazione, verità, comunità) l’eroe trova un’altra sua possibile declinazione nella figura narrativa che racconta la missione compiuta in nome di una comunità, esemplata su quelle di Frodo e di Sam del tolkieniano Signore degli Anelli. Tale narrazione, tuttavia, non è solo mero racconto di fatti avvenuti e trasfigurati in leggenda, ma una costruzione epica e attiva, nel senso di Benjamin (“chi ascolta una storia è in compagnia del narratore”); in tal modo viene a costruirsi una vera e propria circolarità ermeneutica tra eroe protagonista dell’agency, narratore e suo pubblico.
Mazzino Montinari (Lʼeroe nelle tenebre. Torri, trincee e replicanti. Addormentarsi in un mondo che non cambia) mette il multiforme protagonista di questo volume di fronte al suo fallimento, al progetto che non si è realizzato, a quel mancato tendere verso un nuovo mondo con regole del tutto diverse da quelle preesistenti. In un tortuoso e accidentato percorso composto da cinque opere letterarie e dalle corrispettive trasposizioni cinematografiche, l’eroe non trova il midpoint, non prende la decisione fatidica, ergendosi nella migliore delle possibilità, a difensore del mondo così com’è.
Chiude il volume una postfazione di Gioacchino Toni (L’eroe dell’immaginario antagonista) che, dopo essersi soffermato sul caso particolare dell’eroe sportivo nella stagione dei movimenti, tratteggia il viaggio compiuto dagli autori di questo volume nei meandri del mondo degli eroi alla ricerca di figure adeguate all’immaginario antagonista contemporaneo.

Ritornando alle mascherine con le quali si erano aperte queste considerazioni introduttive possiamo immaginare un’ulteriore capovolgimento semiotico di questo dispositivo di protezione che ne faccia nuovamente un simbolo di ribellione al dolore dell’esistenza quotidiana, non più di una minoranza, ma di una maggioranza planetaria temprata dal lungo viaggio attraverso la catastrofe.


  1. Cfr. C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, Dino Audino, Roma 2005. 

  2. Adnkronos, 10 aprile 2020. 

  3. I saggi qui raccolti nascono da una serie di interventi pubblicati sulla rivista online “Carmilla” e da un ciclo di incontri pubblici, svoltisi nel biennio 2018-2019 presso la Libreria Caffè Giufà di Roma ai quali sono stati invitati Alberto Prunetti, Vanessa Roghi, Rocco Ronchi e Gioacchino Toni. 

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Il viaggio di Frodo non finisce https://www.carmillaonline.com/2020/08/15/il-viaggio-di-frodo-non-finisce/ Fri, 14 Aug 2020 22:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61702 di Luca Cangianti

Rovine monumentali dal significato ormai indecifrabile, navi elfiche che gocciolano via dai Rifugi Oscuri, canti che alludono a eventi lontani. È un mondo che svanisce quello del Signore degli Anelli e ha ragione Wu Ming 4 a dire che l’«opera di Tolkien è pervasa da un senso d’ineluttabile perdita»1. Questa malinconia è il prezzo che paghiamo per aver fatto esperienza del male, per aver acquisito la coscienza di dover viaggiare [...]]]> di Luca Cangianti

Rovine monumentali dal significato ormai indecifrabile, navi elfiche che gocciolano via dai Rifugi Oscuri, canti che alludono a eventi lontani. È un mondo che svanisce quello del Signore degli Anelli e ha ragione Wu Ming 4 a dire che l’«opera di Tolkien è pervasa da un senso d’ineluttabile perdita»1. Questa malinconia è il prezzo che paghiamo per aver fatto esperienza del male, per aver acquisito la coscienza di dover viaggiare e lottare per sempre.

L’avventura di Frodo è strutturata secondo l’archetipo del viaggio dell’eroe studiato da Campbell e Vogler2, ma con una variazione di struttura fondamentale: il protagonista, dopo aver conosciuto le meraviglie e gli orrori del mondo straordinario, non torna conciliato e arricchito nel mondo ordinario. Anche la Contea è stata contaminata: Frodo, Sam, Merry e Pipino sono quindi ulissianamente costretti a intraprendere un’ulteriore battaglia contro il regime estrattivista instaurato da Sharkey, alias Saruman, nella la loro terra. Dopo quest’ultima vittoria ci si aspetterebbe che Frodo possa esser accolto trionfalmente nel mondo ordinario così come vorrebbe il modello di Campbell e Vogler. Ma non è così: il viaggio di questo hobbit continua come quello dell’Ulisse dantesco e del Che. L’eroe non riesce a trovar pace e si rimette in cammino; la narrazione rimane aperta, slabbrata, alludendo a qualcosa di eccedente che pulsa al di fuori di essa e rifiuta di esserne compiutamente incluso. L’eroe torna, si rende conto di non poter terminare il compito rivoluzionario nella sua terra e sceglie di ripartire. La rivoluzione di Frodo non edifica un nuovo stato, non erige monumenti e non trasforma i guerriglieri in una casta di burocrati.

Frodo è «un personaggio irrisolto e in qualche modo avulso dal lieto fine»3 perché doppiamente ferito, sia in principio, in quanto orfano, che, in seguito, come vittima dei Cavalieri Neri. «Vi sono ferite che non guariscono mai del tutto!» afferma Gandalf; «Non esiste un vero ritorno» ribatte Frodo. «Anche tornato nella Contea, essa non mi parrà più la stessa, perché io sono cambiato. Sono stato ferito da pugnale, pungiglione, denti e da un gravoso fardello»4.
La ferita è dunque un elemento dinamico che all’inizio predispone l’eroe al viaggio e poi gli impedisce di potersi reintegrare nel mondo ordinario. Essa è inoltre un dono, anche se molti di noi ne farebbero volentieri a meno: dopo esser stato ferito dai Nazgûl i sensi di Frodo sono «più acuti, ed egli più conscio delle cose non visibili. Un segno che lo avvertì presto del cambiamento in lui, era il fatto che vedeva nel buio più dei suoi compagni, eccetto forse Gandalf»5.
Per il cristiano Tolkien il male, pur battuto, non sarebbe mai scomparso dal mondo6. Con la distruzione dell’Anello, Sauron è sconfitto, ma non muore. Egli perde la propria corporeità, ma nulla esclude che possa riacquistarla, come già accaduto in passato nel Bosco Atro. La resilienza del male allunga indefinitamente il viaggio dell’eroe. La ferita è la coscienza dell’eternità del male che il protagonista porta incisa nella propria carne. Chiunque abbia custodito l’Anello è destinato a non fermarsi: questo è vero non solo per Bilbo e per Frodo, ma anche per Sam. Il Signore degli Anelli si chiude infatti con un apparente sospiro di sollievo accompagnato dalle sue parole, «Sono tornato», ma poi veniamo a sapere dalle «Appendici» che, rimasto vedovo, egli sarebbe salpato dai Rifugi Oscuri per le Terre Imperiture7.

Durante un banchetto a Gran Burrone, Bilbo confessa a Frodo le sue riflessioni: «Possibile che le avventure non abbiano una fine? Ma forse no. C’è sempre qualcun altro che prosegue la storia»8. Frodo è un eroe inquieto perché arriva a comprendere e ad accettare che sia il viaggio sia la sua narrazione non possono concludersi mai del tutto. A Sam che gli chiede se «i grandi racconti» hanno una fine, risponde: «No, non terminano mai i racconti… Sono i personaggi che vengono e vanno, quando è terminata la loro parte»9. Le storie che si chiudono sono reazionarie. Per qualche tempo il male sgattaiola via disincarnato da Luigi XVI, dallo zar o da Hitler, ma poi finisce per reincarnarsi in Napoleone, in Stalin o magari in un politico qualsiasi eletto democraticamente. Se nei paraggi non ci sono delle piccole creature, ferite nell’animo e sensibili al richiamo dell’avventura, rischiamo di finire i nostri giorni a Mordor.


  1. Wu Ming 4, Difendere la terra di mezzo. Scritti su J. R. R. Tolkien, Odoya, 2013, p. 215. 

  2. Cfr. Joseph Campbell, L’eroe di mille volti, Lindau, 2012 e Christopher Vogler, Il viaggio dell’eroe, Dino Audino, 2005. 

  3. Wu Ming 4, op. cit., p. 45. 

  4. J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Rusconi, 1977, p. 1178. 

  5. Ivi, p. 390. 

  6. Cfr. Wu Ming 4, op. cit., p. 69. 

  7. J.R.R. Tolkien, op. cit., p. 1312. 

  8. Ivi, p. 296. 

  9. Ivi, p. 859. 

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L’eroe smascherato eppure rivendicato https://www.carmillaonline.com/2019/10/30/leroe-smascherato-eppure-rivendicato/ Tue, 29 Oct 2019 23:01:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55582 di Fabio Ciabatti

[Il testo che segue è l’introduzione all’incontro sul “Viaggio rivoluzionario dell’eroe” che si è svolto nell’ambito del Carmillafest, ospitato a Bologna dallo spazio libero autogestito Vag61.]

Nell’incontro di oggi parleremo del “Viaggio rivoluzionario dell’eroe” con il gruppo di studio Antongiulio Penequo. Vorrei introdurre l’argomento ricordando brevemente le riflessioni di Ernst Bloch di fronte all’ascesa del nazismo in Germania. In Eredità di questo tempo il filosofo tedesco critica i marxisti volgari per il fatto di aver sottoalimentato la fantasia delle masse, di aver trascurato il mondo dell’immaginazione e di [...]]]> di Fabio Ciabatti

[Il testo che segue è l’introduzione all’incontro sul “Viaggio rivoluzionario dell’eroe” che si è svolto nell’ambito del Carmillafest, ospitato a Bologna dallo spazio libero autogestito Vag61.]

Nell’incontro di oggi parleremo del “Viaggio rivoluzionario dell’eroe” con il gruppo di studio Antongiulio Penequo. Vorrei introdurre l’argomento ricordando brevemente le riflessioni di Ernst Bloch di fronte all’ascesa del nazismo in Germania. In Eredità di questo tempo il filosofo tedesco critica i marxisti volgari per il fatto di aver sottoalimentato la fantasia delle masse, di aver trascurato il mondo dell’immaginazione e di non aver montato “la guardia nelle regioni del primitivo e dell’utopia, proprio laddove i nazisti attingono il loro potere di seduzione”. Questo tipo di propaganda, imperniata in modo freddo e pedante solo sul momento economico, rincara la dose Bloch, è incapace di “contrapporre al mito… [una] contropartita che sappia trasformare gli inizi mitici in inizi reali, i sogni dionisiaci in sogni rivoluzionari”.1

Seguendo la vena di Bloch, si parva licet, ci chiediamo se sia possibile rivendicare la figura dell’eroe a un immaginario antagonista, radicalmente alternativo allo stato di cose presenti. Perché tentare questa operazione? Perché quella dell’eroe è una figura potente, pervasiva che forse vale la pena di sottrarre ad un immaginario conservatore se non addirittura reazionario.
Per questo motivo presentiamo oggi, per la prima volta in forma collettiva, i risultati di una riflessione portata avanti dal gruppo di studio di cui faccio parte insieme a Luca Cangianti, Mazzino Montinari, Maurizio Marrone e Gabriele Guerra.
Prima di entrare nel merito, una breve presentazione del gruppo che si è formato nel 1990 quando era appena scoppiata la prima guerra del Golfo. Avevamo davanti un mondo in fiamme e il desiderio, certo un po’ naïf, di metterci insieme per spegnere quegli incendi e per appiccarne altri. All’epoca le nostre vicende personali ci hanno portato a separarci. Ci siamo però rimessi insieme a distanza di 27 anni, curiosamente lo stesso lasso di tempo che divide i due episodi narrati da Stephen King in IT. Come i protagonisti del romanzo, passati tanti anni facevamo ancora parte del “Club dei perdenti”, eravamo ancora dalla parte del “lato cattivo” della storia. A distanza di tanti anni il mondo è ancora in fiamme. Forse non sono le stesse di quel tempo, però bruciano e fanno male lo stesso.
Ci siamo messi alla ricerca di tracce e segnali che prefigurassero il possibile insorgere di forme antagoniste all’altezza dei nostri tempi e ci siamo ritrovati a ragionare sulla figura dell’eroe, declinato inizialmente secondo le funzioni simboliche analizzate da Campbell prima (L’eroe di mille volti) e da Vogler poi (Il viaggio dell’eroe). Per quale motivo?

Seduti sul palco della Carmillafest gli esponenti del gruppo di studio Antongiulio Penequo pronti a parlare del viaggio rivoluzionario dell’eroe. Da sinistra: Luca Cangianti, Gabriele Guerra, Fabio Ciabatti, Mazzino Montinari, Maurizio Marrone.

Mettiamo un po’ di carne al fuoco per introdurre la discussione. Per quale motivo abbiamo ragionato di questa figura?
Perché il viaggio dell’eroe può essere interpretato come l’archetipo dell’agency, della soggettività politica. Tale archetipo non è solo alla base dell’agire, ma ha anche una forma che condivide con il narrare e il conoscere: l’eroe delle narrazioni moderne percorre un cammino simile a quello dello scienziato rivoluzionario kuhniano che viaggia tra paradigmi e a quello di chi prende coscienza di una situazione d’oppressione e decide di ribellarsi (vedi qui e qui).
Perché l’eroe è quella figura narrativa che racconta la missione (solitaria?) compiuta in nome di una comunità; in cui la narrazione, cioè, non è solo mero racconto di fatti avvenuti, ma costruzione epica (vedi qui e qui).
Perché l’errare iniziatico dell’eroe è scandito dal complicato rapporto che egli intrattiene con la coscienza di sé e con la conoscenza, ovvero con il compimento della propria soggettività (vedi qui, qui e qui).
Perché, in fondo, quella dell’eroe è una figura ambigua, come ambigue sono le nostre vite e il contemporaneo … tutti i contemporanei. L’eroe crea nuove regole? Le detta? Le infrange? Le fa rispettare? (vedi qui e qui)
Per ciò che mi riguarda, almeno all’inizio, ero quello più scettico riguardo a questo percorso di ricerca (vedi qui, qui e qui). E forse anche per questo posso moderare questo incontro facendo un po’ da avvocato del diavolo. O, se preferite, il rompiscatole. E proprio con questa funzione vorrei proporre alcune brevi considerazioni prendendo di nuovo spunto da Ernst Bloch che, scrivendo Il principio speranza, non mostra particolare simpatia per questa figura.

Partiamo da una veloce premessa. Bloch sostiene che “L’uomo è ciò che ha ancora molte cose davanti a sé”.2 In altri termini di fronte all’uomo c’è la possibilità di un novum che riguarda sia sé stesso sia il suo mondo. Ma, in quanto non completamente condizionato, il possibile rimane in sospeso. E “di fronte a questo essere in sospeso reale, di primo acchitto è adeguata … sia la paura sia la speranza”. Soltanto quando ci si decide ad agire con “ardimento” può predominare la speranza.3
Veniamo dunque al punto che ci interessa riguardo alla tematica dell’eroe. L’ardimento può rappresentare “una contromossa” rispetto alla paura solo in quanto, a differenza “dell’azione eroica rapida e astratta”, media se stesso con la maturità delle condizioni date che si trovano “all’ordine del giorno sociale”.4 La mediazione con le condizioni date richiede una conoscenza che è rivolta “all’efficacia operativa” e non alla “quiete contemplativa”. Bloch ritorna sullo stesso concetto: quando Marx scrive Il capitale, non fornisce “una ricetta per una rapida azione eroica ante rem“,5 ma va alla ricerca dei nessi di cui è intessuta la più difficile realtà.
Dunque, come anticipavo, Bloch dà una connotazione sostanzialmente negativa dell’azione eroica. Ripetiamolo: l’azione eroica è caratterizzata come “rapida e astratta”, priva cioè delle necessarie mediazioni con le condizioni reali. Ma c’è una seconda faccia della medaglia che vale la pena considerare. La ricerca dell’efficacia operativa, il rifiuto della quiete contemplativa portano con sé alcuni significative conseguenze: niente si oppone alla coscienza utopica più “dell’utopia con un viaggio illimitato; l’infinità del tendere è vertigine, inferno”; l’utopia non vuole una “distanza eterna dall’oggetto” ma “coincidere con esso quale oggetto non più estraneo all’oggetto”; la speranza non vuole un “processo infinito” ma “un risultato coinciso”.6

A questo punto, con riferimento all’eroe, possiamo fare un’operazione simile a quella di Bloch nei confronti dell’happy end. Secondo Bloch l’arte che si presta ad essere mero divertimento, allegro imbroglio ci rappresenta “il lieto fine come fosse raggiungibile in un immutato oggi della società”, “senza che si sia dovuto cambiare nulla della realtà esistente”.7 Eppure l’happy end, per il filosofo tedesco, non va soltanto smascherato. L’happy end va anche rivendicato. Per quale motivo? Perché in esso possiamo riconoscere un impulso che non è limitato alla credulità. In esso infatti possiamo scorgere anche l’impulso umano alla felicità, impulso a cui si trova ancorata la speranza. La speranza diventa motore della storia nel suo attendere e suscitare una meta positivamente visibile. Lo spirito utopico autentico, quello che attraverso la conoscenza tende all’utopia concreta, “distrugge l’ottimismo putrido” ma non “l’urgente speranza di un buon esito”.8
E proprio in questa urgenza del buon esito, nella volontà del risultato coinciso, nel rifiuto del viaggio illimitato possiamo comprendere la pregnanza della figura dell’eroe. Perché, in effetti, l’eroe è proprio colui che consente di raggiungere con rapidità ciò che urge, anche se solo astrattamente, vale a dire quando le condizioni reali non sono ancora presenti o comunque non ancora riconosciute.
Occorre dunque smascherare l’eroe perché esso è ciò che riempie illusoriamente un vuoto, una mancanza di condizioni oggettive e di ardimento collettivo. Si può però allo stesso tempo rivendicare questa figura perché attraverso essa affiora l’impulso alla felicità e l’urgenza di una utopia realizzata.
Allora in consonanza con la corrente fredda del marxismo, possiamo rivendicare la famosa sentenza del Galileo di Brecht: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Spesso nella storia, infatti, questa figura si è trovata associata a dannosi patriottismi e sventurati proclami d’azione. Ma possiamo anche dire sventurata è quella terra che ha dimenticato la figura dell’eroe, perché essa è una metafora “calda”, potente che ci spinge a prendere coscienza dell’oppressione e a decidere di ribellarci.

In conclusione, chi non si emoziona di fronte alle gesta più o meno fantastiche di un eroe che sconfigge il male difficilmente sarà capace “di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo”, come diceva Che Guevara. Ciò non toglie che chi pensa sia necessario un eroe per combattere l’oppressione difficilmente prenderà parte a una lotta contro quella stessa oppressione.


  1. Ernst Bloch, Eredità di questo tempo, Mimesis, 2015, pp. 319 e 102. 

  2. Ernst Bloch, Il principio speranza, Garzanti 2005, p. 289. 

  3. Ivi, pp. 289-290. 

  4. Ivi, p. 290. 

  5. Ivi, p. 327. 

  6. Ivi, pp. 369-370. 

  7. Ivi, pp. 508-509. 

  8. Ivi, p. 509. 

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Dall’eroe del mito all’eroe flessibile https://www.carmillaonline.com/2018/03/27/dalleroe-del-mito-alleroe-flessibile/ Mon, 26 Mar 2018 22:01:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44524 di Fabio Ciabatti

Che differenza c’è tra l’eroe contemporaneo e quello antico? Non molta stando a una delle guide al mestiere di sceneggiatore più diffuse di Hollywood. Christopher Vogler nel suo libro Il viaggio dell’eroe1 utilizza la struttura del racconto mitologico, così come illustrata ne L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell, per spiegare agli aspiranti scrittori di copioni cinematografici l’articolazione essenziale di ogni possibile storia. Hollywood è la macchina per la produzione di immaginario più potente che sia mai esistita. Che bisogno ha di ricorrere a un modello così lontano [...]]]> di Fabio Ciabatti

Che differenza c’è tra l’eroe contemporaneo e quello antico? Non molta stando a una delle guide al mestiere di sceneggiatore più diffuse di Hollywood. Christopher Vogler nel suo libro Il viaggio dell’eroe1 utilizza la struttura del racconto mitologico, così come illustrata ne L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell, per spiegare agli aspiranti scrittori di copioni cinematografici l’articolazione essenziale di ogni possibile storia. Hollywood è la macchina per la produzione di immaginario più potente che sia mai esistita. Che bisogno ha di ricorrere a un modello così lontano e apparentemente inattuale?

L’eroe moderno, l’eroe borghese, secondo una consolidata tradizione critica, si costituisce in opposizione a quello epico. Per Luckàcs il romanzo rappresenta un mondo abbandonato da Dio. Per Bachtin il romanzo è la prima forma artistica che si apre al presente e alla sua incompiutezza, mentre l’epica si caratterizza come “passato assoluto”.2 Rivolgiamoci dunque a Campbell. “La parabola convenzionale dell’avventura dell’eroe costituisce la riproduzione ingigantita della formula dei riti di passaggio: separazione-iniziazione-ritorno…  L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale; qui incontra forze favolose e riporta una decisiva vittoria; l’eroe fa ritorno dalla sua misteriosa avventura dotato del potere di diffondere la felicità fra gli uomini”.3
Questa struttura viene interpretata da Campbell in due modi diversi che hanno però lo stesso punto di arrivo: la conciliazione tra l’eroe e il mondo. In primo luogo, si tratta di un viaggio di iniziazione in senso proprio: l’individuo muore e rinasce nell’accettazione del ruolo da adulto che gli viene imposto dalla società, confermando l’identità tra individuo e gruppo. In secondo luogo la funzione dei riti e dei miti è quella di facilitare il passaggio, attraverso l’analogia, dalla caotica molteplicità in cui sono intrappolate le forme della sensibilità e del pensiero umano all’essenziale unità del cosmo. In questa seconda accezione, l’avventura dell’eroe è innanzi tutto un viaggio spirituale. Il mondo degli dei è una dimensione inconscia del mondo a noi noto che, propriamente, non viene scoperto ma riscoperto. La sovrapposizione tra queste due accezioni rende possibile, nei testi di Campbell, il ricorrere di una comparazione tra i riti di iniziazione delle società premoderne e i processi di formazione nella società moderna per lamentare in quest’ultima la mancanza di riti di passaggio.

In realtà iniziazione premoderna e formazione moderna sono due cose esattamente opposte. Nei riti di iniziazione l’individuo viene introdotto in un ruolo che gli preesiste immutabile e di fronte al quale le ragioni del singolo devono restare mute. La socializzazione moderna, come viene narrata nel romanzo di formazione ottocentesco è, al contrario, un processo che incoraggia un momento dinamico, giovanile, soggettivo, un “di più” rispetto all’autorità immediata.4 “La gioventù è esentata per qualche tempo dalla forza vincolante dei rapporti sociali: ma deve pur sempre tornare a misurarsi con loro – e di solito perde… Le grandi speranze sono appassite: illusioni perdute. La possibilità non è diventata realtà”.5
Nel romanzo di formazione l’eroe è normalmente sconfitto, ma per intraprendere la sua battaglia contro lo spirito oggettivo si deve contrapporre a esso come individuo unitario, autonomo rispetto alle norme sociali vigenti nella società. All’inizio del ‘900 questa struttura antropocentrica viene meno. Secondo Franco Moretti, nell’Ulisse di Joyce, Leopold Bloom è un personaggio ordinario cui non succede nulla di straordinario, che si adatta passivamente alla polifonia degli stimoli provenienti dal mondo degli oggetti, delle merci in una metropoli policentrica, senza dare a essi un significato. Con Joyce la sfida emancipatrice del romanzo di formazione viene abbandonata: trionfa la possibilità come possibilità, scompare lo scontro tra realtà e possibilità.
Accanto a questo filone storico letterario del romanzo “alto” si sviluppa un altro filone che, convenzionalmente definiamo “romanzo popolare” e che, secondo Umberto Eco, ha funzione eminentemente consolatoria. In esso ogni crisi aperta viene chiusa.6 Nella lotta tra il bene e il male vince sempre il primo definito secondo i valori dominanti. Lo scontro avviene all’interno del gruppo dei dominatori, buoni e cattivi, che sta al di sopra del popolo oppresso. La soluzione deve essere fantastica, immaginaria, anche se con sembiante realistico. Il lettore deve essere impressionato con colpi di scena, ma soprattutto deve essere tranquillizzato riproponendogli quello che già sa. I caratteri dei personaggi sono dunque prefabbricati, privi di penetrazione psicologica, favolistici, monodimensionali. La necessità di chiudere le crisi tende a una ideologia riformista, paternalista: cambiare qualcosa affinché tutto il resto rimanga immutato.

Torniamo ora all’eroe hollywoodiano. È comprensibile come l’eroe del romanzo di formazione non sia adeguato alle esigenze dell’industria cinematografica americana contemporanea. In fin dei conti si tratta del prototipo dell’eroe borghese in un epoca in cui questa classe è ancora alla ricerca di se stessa, lacerata tra una vocazione rivoluzionaria e una attitudine all’adattamento ai valori ancora egemoni dell’antico regime. Ma per quale motivo l’eroe del romanzo popolare non dovrebbe costituire il prototipo ideale della narrazione hollywoodiana? In effetti questa tipologia è stata ampiamente utilizzata, ma a un certo punto sembra aver mostrato la corda.
Secondo un altro diffuso manuale di sceneggiatura, L’arco di trasformazione del personaggio, i migliori film sono quelli in cui il protagonista, nell’affrontare la sua avventura, ha la necessità di modificarsi, acquistare consapevolezza e superare un problema interiore. I film in cui si compie l’arco di trasformazione del personaggio. Al di là dell’intreccio, il vero motore di una storia, ciò che la rende interessante, è il conflitto interiore dell’eroe, quello che viene definito il fatal flaw. Quest’ultimo si configura come “la lotta, che si svolge all’interno del personaggio, per mantenere un sistema di sopravvivenza ben oltre il momento in cui ha esaurito la sua utilità”.7 Infatti, per quanto sia essenziale il cambiamento, la maggior parte delle persone vi si opporrebbe aggrappandosi a vecchi sistemi di sopravvivenza, solo perché familiari e apparentemente più sicuri. Vediamo qui un esaltazione del mutamento in quanto tale. Infatti, “opporsi al cambiamento porta solo al decadimento morale e alla morte spirituale”.8
In fin dei conti le caratteristiche che deve avere l’eroe di una storia affinché sia accettabile per un’ampia fetta di pubblico dipendono dal tipo di società cui appartiene il pubblico stesso. Vorrei dunque concludere con una schematica ipotesi di lavoro: l’eroe del romanzo popolare è adeguato a una società capitalistica “classica”, fordista; l’eroe che cerca di delineare Vogler attraverso Campbell è invece l’espressione di una società, postmoderna, neoliberista.
La società industriale, fordista, secondo Laval e Dardot,9 aveva forgiato un tipo di soggettività a essa funzionale: l’uomo produttivo, efficiente, utile, docile nel lavoro, incline al consumo. Con il neoliberismo, però, il soggetto deve superare lo statuto passivo del lavoratore salariato. L’individuo si deve fare impresa, accettare la maggiore flessibilità richiesta dai cambiamenti incessanti del mercato. Deve lavorare su se stesso per trasformarsi perennemente, superare se stesso e rendersi sempre più efficiente. Deve esporsi al rischio e assumersi completamente la responsabilità di eventuali fallimenti. In sostanza con l’affermarsi della “nuova ragione del mondo” ci troviamo di fronte allo stessa esaltazione del cambiamento che abbiamo già visto, allo stesso richiamo alla necessità dell’individuo di mutare e di adeguarsi alle esigenze di un mondo in perpetua evoluzione. Se questo è il panorama, l’eroe tetragono, sempre uguale a se stesso del romanzo popolare non è più adeguato. Occorre un eroe flessibile.

Il rito di passaggio della mitologia, adeguatamente reinterpretato come viaggio interiore, diventa dunque un modello per il cambiamento il cui effetto ultimo è la riconciliazione con la realtà. Il viaggio dell’eroe mitologico indica la via affinché si possa compiere con successo l’arco di trasformazione del personaggio, compimento necessario in una società in cui nulla può rimanere uguale a se stesso. Ma, al tempo stesso, il prototipo di questo viaggio rimane il processo di iniziazione in senso stretto in cui l’individuo viene introdotto in un ruolo che gli preesiste immutabile. L’individuo deve cambiare per rispondere alle sollecitazioni che gli arrivano dall’assumere il ruolo di impresa. Ma questo ruolo non può essere mutato. È fuori discussione.
In sintesi, l’eroe del romanzo di formazione ottocentesco cerca di cambiare tutto per non riuscire a cambiare nulla; l’eroe del romanzo popolare cambia qualcosa per lasciare tutto il resto immutato; l’eroe “neoliberista” cambia tutto per non cambiare nulla. In tutti i casi abbiamo l’eroe come individuo che confligge con il mondo e in questo solitario scontro la sua identità viene negata, confermata o trasformata senza che questo possa modificare in modo sostanziale la realtà. Che vinca, perda o pareggi il gioco di squadra non fa per lui. “Che dei movimenti collettivi possano contribuire a costruire l’identità individuale e non solo annullarla, è una possibilità che la narrativa occidentale non ha mai esplorato”10 Immaginiamo di percorrere questa strada. Lungo il nostro cammino che tipo di eroe incontreremmo? E, addirittura, avremmo ancora a che fare con un eroe?

[Il tema dell’eroe è già stato affrontato su Carmilla da Luca Cangianti, Fabio Ciabatti (qui e qui), Mazzino Montinari, Maurizio Marrone (qui e qui), Gabriele Guerra (qui e qui) e Pierpaolo Ciccarelli]


  1. Cfr. Chris Vogler, Il viaggio dell’eroe, Audino, 2010. 

  2. Cfr. György Lukàcs, Teoria del romanzo, SE, 2015 e Cfr. Michail Bachtin, “Epos e romanzo” in Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, 2001. 

  3. Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, 2016, p. 41. 

  4. Cfr. Franco Moretti, Il romanzo di formazione, Einaudi, 1999. 

  5. Franco Moretti, Opere mondo, Einaudi, 2003, pp. 137-8. 

  6. Cfr. Umberto Eco, Il superuomo di massa, Bompiani, 2015 e Umberto Eco, “Il mito di superman” in Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, 1999. 

  7. Dara Marks, L’arco di trasformazione del personaggio, Audino, 2007, p.85. 

  8. Ivi, p. 77. 

  9. Cfr. Pierre Dardot e Christian Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, 2013. 

  10. Franco Moretti, Il romanzo di formazione, ed cit., formato Kindle, pos. 5706. 

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Campbell e la narrazione dell’eroe https://www.carmillaonline.com/2018/03/18/campbell-e-la-narrazione-delleroe/ Sat, 17 Mar 2018 23:01:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44323 di Gabriele Guerra

Che cosa hanno in comune George Lucas e gli aborigeni australiani, Indiana Jones e Gesù Cristo? Certamente nulla a un primo sguardo, molto se tentiamo un approccio più profondo. È questa del resto la differenza tra chi intende analizzare un fenomeno qualsiasi seguendo linee orizzontali di analisi e chi invece si sforza di stabilire connessioni più profonde, verticali. Il mito, con la sua sequela di narrazioni (non dimentichiamo mai che il greco mythos era diventato per i romani la fabula), si presta molto a un metodo d’analisi che potemmo definire [...]]]> di Gabriele Guerra

Che cosa hanno in comune George Lucas e gli aborigeni australiani, Indiana Jones e Gesù Cristo? Certamente nulla a un primo sguardo, molto se tentiamo un approccio più profondo. È questa del resto la differenza tra chi intende analizzare un fenomeno qualsiasi seguendo linee orizzontali di analisi e chi invece si sforza di stabilire connessioni più profonde, verticali.
Il mito, con la sua sequela di narrazioni (non dimentichiamo mai che il greco mythos era diventato per i romani la fabula), si presta molto a un metodo d’analisi che potemmo definire analogico: cercare di rintracciare, cioè, quelle funzioni, o quei personaggi, o quelle situazioni che possono essere comparate ad altre. Spesso non si resiste alla tentazione, nel restituire il patrimonio mitico delle singole culture, di individuare strutture originarie identiche. Ciò ovviamente non è un male, se si usa questa procedura analogica per comodità espositiva o metodologica; può diventare un pericolo – è diventato storicamente un pericolo – se invece diventa strutturazione ontologica, prescrizione etica. La storia dei primi decenni del XX secolo ci mostra che il mito si è trasformato in narrazione autonoma, produttrice a sua volta di altri miti, che hanno finito per assumere statuto di verità. Un grande studioso italiano troppo precocemente scomparso, Furio Jesi, parlava di “tecnicizzazione del mito”, intendendo quel momento storico in cui il mito viene piegato a esigenze e rifunzionalizzazioni politiche dell’attualità; e di esempi in questo senso se ne potrebbero fare tanti.

Ma sono possibili anche strategie alternative di approccio e rinarrazione del mito: a partire dal tentativo, tipico del pensiero tradizionale (penso soprattutto a René Guenon), di postulare un “pensiero mitico” prima della storia, che a sua volta attinga a un serbatoio originale, vero deposito della sapienza umana; oppure quello, antitetico (come nella filosofia delle forme simboliche di Ernst Cassirer), che punta a conferire dignità filosofica e categoriale al mito, pur riconoscendone la compiuta distanza storica.
Ma c’è ancora un’altra strada di approccio e “restituzione” del mito: riaffrontarlo mantenendone intatte tutte le potenzialità narrative, senza per questo scivolare in un suo recupero funzionale al sistema-romanzo (cioè nel trasformare in “favole” le storie mitiche): ed è il compito che si è prefisso Joseph Campbell, studioso di mitologie comparate e di psicologia analitica, di nascita americano ma apolide per vocazione. Egli nel corso della vita ha attraversato diversi mondi, geograficamente e culturalmente molto lontani tra loro, come l’indologia tedesca dei primi decenni del secolo scorso, la teosofia, il mondo dell’occultismo, la narrativa di John Steinbeck (di cui era amico) e la psicologia archetipica di Carl Gustav Jung. Quando nel 1944 decide di pubblicare un libro che affronti la questione di che cosa sia un mito, gli dà dapprima un titolo molto neutrale, How to read a myth (e non c’è dubbio che all’autore apparisse necessario fornire al lettore i giusti strumenti per leggere un mito, proprio per non tecnicizzarlo). Ma poi, nel 1949, decide di reintitolarlo The Hero with a Thousand Faces, che è poi il titolo con cui è divenuto universalmente noto. Tale opera capitò nelle mani del giovane cineasta George Lucas, ed è – come si dice comunemente – grazie a Campbell che Lucas ha creato la gigantesca epica di Star Wars.
Cosa si trova al centro di questo rutilante libro, che chi conosce un po’ la storia comparata delle religioni non può non apparentare al Ramo d’oro di Frazer, per la colta erudizione che lo alimenta e la vis affabulatoria che lo percorre? Si trova appunto l’eroe alle prese con le difficoltà che è destinato a superare per raggiungere il fine che si è posto (o che gli è stato posto) all’inizio della storia. Questo perché Campbell, sottolinea che tutti i miti di tutte le civiltà hanno un sostrato narrativo comune, ovvero si comportano prima di tutto come storie: il nostro compito di moderni è riscoprirli, anche nella loro freschezza narrativa. Come scrive programmaticamente nell’introduzione all’edizione del 1949, “Questo libro ha lo scopo di svelare alcune delle verità camuffate per noi sotto le spoglie della religione e della mitologia, raccogliendo una gran quantità di esempi non eccessivamente complicati e facendo sì che l’antico significato si palesi da sé.”1 Tanto che tutti i miti di tutti le culture alla fine possono essere ridotti a uno solo, che Campbell definisce “monomito” (traendo peraltro la definizione da James Joyce). In tal modo si squaderna sotto gli occhi del lettore un impressionante catalogo di racconti, personaggi, funzioni, che spaziano in tutto il patrimonio antropologico-folklorico della storia delle religioni, al cui centro si trova non solo un racconto fondativo, ma un personaggio che deve svolgerlo: ovvero l’eroe alle prese con l’avventura, sia in senso psichico-interiore che mitico-esteriore.

Questa è in fondo la ragione del grande successo del libro di Campbell: il fatto cioè che sia opera di uno studioso colto ma non erudito, che offre al grande pubblico una chiave d’accesso in fondo semplice a questioni storiograficamente assai complesse, senza per questo deflettere al rigore scientifico; il tutto poi in un periodo assai cruciale, quando cioè la “grande narrazione mitica” ha mostrato tutti i pericoli connessi all’evocazione di demoni inferiori – per combattere i quali occorre appunto qualcuno in grado di batterli sul loro stesso terreno. L’eroe dai mille volti, in questo senso, non poteva che essere scritto negli Stati Uniti alle prese con il nazismo: l’eroe è quel soggetto autonomo e libero, capace di calarsi fino in fondo negli abissi insondabili del mistero esteriore e interiore, e riemergerne da trionfatore. Per questo l’opera ha avuto molto successo, anche come “storia” cinematografica. Tanto che nel 1992 uno sceneggiatore di Hollywood, Christopher Vogler, affascinato dal pattern mitico-narrativo esposto da Campbell, iniziò a utilizzarlo nelle sue lezioni e diede alle stampe un libro che diventò la Bibbia di ogni sceneggiatore (in particolare di quelli della Walt Disney, presso cui Vogler lavorava).2 Se Star Wars ha avuto tanto successo, se la Walt Disney è rinata dopo anni di crisi con storie nuove e accattivanti (come quella del Re leone, costruita sui dettami di Vogler), lo si deve al libro di Campbell e al suo viaggio di individuazione dell’eroe tra miti, storia delle religioni, psicologia analitica e politica.

[Il tema dell’eroe è già stato affrontato su Carmilla da Luca Cangianti, Fabio Ciabatti (qui e qui), Mazzino Montinari, Maurizio Marrone (qui e qui),  Gabriele Guerra e Pierpaolo Ciccarelli]


  1. Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Lindau, 2012, p. 7. 

  2. Cfr. Christopher Vogler, Il viaggio dell’eroe, Audino, 2004. 

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