Che – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Armi letali / 3: A cercar la bella morte https://www.carmillaonline.com/2022/08/03/armi-letali-3-a-cercar-la-bella-morte/ Wed, 03 Aug 2022 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73219 di Sandro Moiso

Dedicato a tutti i giovani che hanno meravigliosamente animato il festival Alta Felicità a Venaus dal 29 al 31 luglio.

«La resa per noi è inaccettabile, non avremmo grandi possibilità di sopravvivere se venissimo catturati. I nemici vogliono distruggere gli ucraini, per noi è chiarissimo. Noi siamo consapevoli che potremmo morire in qualsiasi momento, stiamo provando a vivere con onore. I nostri contatti con il mondo esterno potrebbero essere sempre gli ultimi. Siamo accerchiati, non possiamo andare via, in nessuna direzione. Abbiamo rinunciato alle priorità della difesa personale. Non sprecate i nostri sforzi perché stiamo difendendo [...]]]> di Sandro Moiso

Dedicato a tutti i giovani che hanno meravigliosamente animato il festival Alta Felicità a Venaus dal 29 al 31 luglio.

«La resa per noi è inaccettabile, non avremmo grandi possibilità di sopravvivere se venissimo catturati. I nemici vogliono distruggere gli ucraini, per noi è chiarissimo. Noi siamo consapevoli che potremmo morire in qualsiasi momento, stiamo provando a vivere con onore. I nostri contatti con il mondo esterno potrebbero essere sempre gli ultimi. Siamo accerchiati, non possiamo andare via, in nessuna direzione. Abbiamo rinunciato alle priorità della difesa personale. Non sprecate i nostri sforzi perché stiamo difendendo il mondo libero a un prezzo molto alto». (capitano Svyatoslav Kalina Palamar, vice comandante del battaglione Azov).

«Scappare è da codardi. Non possiamo fermarci e trattare, il nostro obiettivo è fermare la minaccia russa: stiamo lottando non solo per l’Ucraina ma per il mondo libero… La debole reazione del mondo è uno dei motivi per cui siamo ancora qui. L’Ucraina è lo scudo dell’Europa, lo è stata negli ultimi due secoli. Abbiamo lottato contro le invasioni nei tempi passati, adesso è un’altra storia. Lottiamo da soli da quasi due mesi e mezzo, abbiamo ancora acqua, munizioni e armi. I soldati mangiano una volta al giorno, ma continueremo a lottare». (Denis ‘Radis’ Prokopenko, comandante del battaglione Azov)

“I nostri militari in un certo senso stanno ripetendo quello che ha fatto Gesù Cristo, sacrificando la propria vita per il prossimo, per i figli, per la propria gente e difendendo la loro terra dall’aggressore. Per questo consacro le loro armi, perché le usino per riprendersi la nostra terra benedetta da Dio”. (Mykola Medynskyy, cappellano militare ucraino membro del partito Pravyj Sektor)

La saga di Azovstal è terminata ormai da tempo. Il sacrificio in stile Götterdämmerung (crepuscolo degli dei) auspicato in un primo tempo da Zelensky e dal suo governo non c’è stato (forse anche per le proteste dei famigliari dei combattenti là asserragliati) e i russi sono stati abbastanza saggi da non trucidarne i difensori sotto gli occhi di tutto il mondo. Eppure occorre ancora fare i conti con un tipo di comunicazione eroico/sacrificale che accompagna le guerre e la loro gestione propagandistica fin dalla notte dei tempi1.

Che si tratti di Enrico Toti, il soldato italiano della prima carneficina mondiale la cui immagine mentre, già colpito a morte, lanciava le stampelle verso il nemico dopo esser tornato a combattere pur con una sola gamba ha accompagnava i libri di testo scolastici fino gli anni Sessanta oppure dei trecento spartani caduti alle Termopili mentre impedivano il passaggio delle truppe persiane, tutto ha fatto sì che la logica del sacrificio supremo, variamente interpretato anche dalla Jihad islamica recente, abbia continuato ad accompagnare scelte politiche e militari destinate a dar vita ad autentici bagni di sangue, giustificandone le conseguenze proprio attraverso la “bella morte”.

“Bella morte” inevitabilmente destinata a costituire l’atto di nascita di nuovi eroi, di cui, troppo spesso come per i santi del cattolicesimo più impressionistico, il fatto ammirevole è quello di aver subito e sopportato il martirio. Eccoli lì, allora, i martiri/eroi/santi belli e pronti all’uso. In qualsiasi salsa: religiosa, conservatrice o, purtroppo, anche rivoluzionaria o pretesa tale. E non importa che, come nel caso del bersagliere con la stampella, si tratti quasi sempre di fake storiche, se non di bufale assolute.

Il sapore del sangue, l’attrazione fatale per l’abisso della morte, l’esaltazione del sacrificio della vita e del corpo in nome di una più “alta idealità” e di una volontà di autodistruzione catartico che non rivela altro che una autentica pulsione di morte che ben si adatta al fascismo più trucido e a tutto ciò che, nei fatti e non solo nelle parole, nega la vita nella sua essenza.

Un linguaggio funereo e un immaginario tetro, spesso sovranista, degno soltanto del peggior Romanticismo, che, però, affascina proprio coloro che tutto ciò dovrebbero combattere, in nome di una vita “altra” e non di una morte “eroica”.
Allora sarà bene dire che il martirologio di carattere religioso e conservatore, peggio ancora se “rivoluzionario”, non appartiene a chi scrive.

Questo perché al concetto di martirio è indissolubilmente legato quello di dolore e di sconfitta. E non può esserci dubbio che quello di sconfitta sia sempre rinviabile a quello di errore. Errore di calcolo, di prospettiva, di valutazione ma, comunque, errore. Motivo per cui non si può continuare a credere, fideisticamente e religiosamente, che la salvezza o la rivoluzione saranno il frutto di una serie di innumerevoli, dolorosi e ripetuti errori. Dagli incalcolabili danni collaterali e dalle conseguenze tutt’altro che necessarie.

Le rivoluzioni e le lotte vincenti non le realizzano gli “eroi” o i martiri idealizzati: le fanno gli uomini e le donne reali.
Fatti sì di carne e di sangue, ma che, alla fine, non possono soltanto accontentarsi di soffrire molto, di assaporare il dolore della sconfitta, delle ferite e della morte.
Cosa che non porterà mai da nessuna parte, perché si può morire, si può combattere, si può soffrire per una causa; si può essere costretti ad esercitare la violenza ancora per la stessa causa, ma non celebriamolo inopinatamente.
La promessa, insita nella stessa, non consiste in tutto ciò.

La ragione ci impone, da Epicuro a Marx passando per il materialismo illuministico, di perseguire la felicità e la liberazione della specie umana, mentre le sofferenze e le violenze non possono costituire altro che incidenti di percorso determinati dalle casualità storiche in cui ci si ritrova a dover lottare. Incidenti che l’umanità futura non celebrerà, ma rimuoverà, insieme al ricordo della preistoria in cui è ancora attualmente immersa; esattamente come la psiche tende a rimuovere i traumi dell’infanzia.

A meno che non si voglia a tutti i costi accettare il filisteismo borghese. O, peggio, la logica del sacrificio tout court. Che è anche quella che più si adatta alle memorie e alle necessità del nazionalismo e dei costruttori di nazioni. O, ancora, a quelle dei fanatismi politici e religiosi di ogni epoca.

Dalla jihad, ai “martiri” di Piazza Indipendenza a Kiev, fino agli “eroi” del battaglione Azov esaltati da Zelensky e dai media occidentali. Zelensky che fin dai primi giorni di guerra gridò al mondo, in uno dei suoi innumerevoli interventi video: «Onore ai martiri della Patria, morte ai traditori!». Traditori che, inutile dirlo, risultano essere soprattutto coloro che rifiutano di farsi macellare in nome dello Stato borghese. Sia che si tratti di civile che di militari.

Perché il filisteismo é sempre uguale a sé stesso.
Piange sul latte versato, si cosparge il capo di cenere; grida all’offesa, contro l’inciviltà, contro la mancanza di regole, contro il tradimento. E, intanto, li coltiva. Coscientemente. Spudoratamente. Vilmente. Opportunisticamente.

Così a volte, anche negli ambienti antagonisti, si “ammirano” le sofferenze altrui o le lotte disperate, frutto di ricette “antiche” ma sbagliate, sperando che quegli esempi o quelle stesse parole usate in altri contesti possano essere di supporto alla propria causa. Ma è un’idea sbagliata: restano soltanto sofferenze e lotte disperate. Quasi sempre inutili.

Lenin, piaccia o meno, su una cosa aveva mille volte ragione: l’insurrezione è un’arte.
La lotta vincente è un’arte. La Rivoluzione è un’arte.
E non si inventa né, tanto meno, si improvvisa.
Si improvvisa, coscientemente, su uno spartito conosciuto o del quale, almeno, si sanno leggere le note. E sul quale occorre aver a lungo studiato.
Tutto il resto è illusione, dolore, sofferenza e perdita di tempo e di speranza. Che, in seguito, portano, invariabilmente, gli sconfitti a sostenere che la rivoluzione è un’illusione, un errore, un’utopia (magari soltanto giovanile).

Un altro leader, anch’egli preteso “rivoluzionario”, affermò invece che “la Rivoluzione non è un pranzo di gala“. E così facendo fece accomodare centinaia di milioni di cinesi ad un ben misero banchetto. Gli mancava, per così dire, l’idea della Festa.
Che non avrebbe mai permesso alla Cina “popolare” di diventare la prima potenza economica mondiale.
Mentre invece la Rivoluzione, per essere tale, dovrebbe essere anche una festa.

Non condivide la povertà, ma la ricchezza. Non solo materiale.
Non solo il lavoro, ma anche il riposo. Il sacrosanto diritto all’ozio del “nostro” Paul Lafargue.
La Festa ha poco a che spartire con il martirio, il sacrificio e gli eroi, ma il martirio e il sacrificio hanno molto a che spartire con i regimi, le religioni, i nazionalismi e la loro supina accettazione.
Sacrificatevi per la Patria, per l’Onore, per la Vera Fede, per la Causa oppure per il Grande Partito. L’hanno fatto i vostri Padri. L’hanno fatto i Martiri. L’hanno fatto gli eroi. Lo farete anche voi.

Si fanno i sacrifici oggi come sono stati fatti ieri. La vita e la lotta sono fatte di sacrifici.
E’ sempre lo stesso refrain.
Il trionfo della morale cristiana. Anzi delle religioni rivelate. Dall’Antico Testamento al Corano.
Ma così si perde il senso della Festa rivoluzionaria e delle lotte sociali. Che, alla faccia di De Coubertin, devono essere vincenti. Perché, davvero, non basta solo e sempre partecipare.

Si partecipa per vincere e non solo per far presenza o farsi un selfie vicino a una lapide che commemora un morto, un eccidio, un bagno di sangue e di dolore.
Lo “spirito olimpico” non appartiene ai rivoluzionari, così come non dovrebbero appartenere loro i pellegrinaggi del rimorso e dei reliquiari. Magari ai masochisti della politica, ma non a chi aspira ad una nuova vita e a un diverso futuro.

Soltanto ai primi potrà apparire “bello” il sangue versato; belle le vite perdute; bella anche la sconfitta!
Dai moti mazziniani a Shangai nel 1927 si potrebbe elencare una serie infinita di insurrezioni e tentativi rivoluzionari falliti.
Falliti perché fuori tempo rispetto allo spartito del loro momento storico e destinati alla sconfitta fin dal momento della loro ideazione. Autentici tritacarne in cui hanno perso la vita migliaia di giovani rivoluzionari e di lavoratori, da Pisacane a Sapri fino al Che nelle foreste boliviane.

Così invece di apprendere una qualche lezione da quelle sconfitte, in caso di vittoria, si preferirà esercitare la vendetta, dello Stato o del Partito, come moneta di scambio per ripagare il dolore subito in precedenza e la felicità non ancora mai raggiunta.
Sui nemici oppure anche anche su rivoluzionari colpevoli di aver espresso qualche dubbio sull’efficacia delle decisioni prese dai grandi timonieri della storia.
In questa concezione, tutto entrerà, o dovrebbe entrare, nel medagliere futuro.
Della Rivoluzione fallita (comunque), della Nazione rafforzata o del Gulag travestito da Società migliore.

Ma non chiamatela “memoria” perché, in realtà si tratta di rappresentazioni molto prossime alle idee fasciste sulla società, la nazione, il sacrificio e il lavoro che, in apparenza si vorrebbero combattere.
Tutte idee che, in fin dei conti, permettono ai principali contendenti del disgraziato conflitto in corso di rinfacciarsi a vicenda le stesse colpe.
Tutti fascisti e tutti anti-fascisti.
Tutti nazisti e tutti anti-nazisti.
Pur che il sangue scorra…che bello spettacolo da teatro del grand guignol, mentre il capitale ancora una volta sogghigna.

Meglio, allora, non solo i giovani che disertano su entrambi i fronti della guerra in corso, ma anche quelli che cercano di sfuggire alla stessa abbandonandosi all’eros e all’alcol nei locali di Kiev, dove la polizia irrompe distribuendo cartoline per l’arruolamento forzato. In maniera paritaria, sia ai ragazzi che alle ragazze, mentre c’è chi vende per 1600 euro falsi documenti di un’ università polacca per restare alla larga dalle trincee.

«Attenti agli uomini in nero, scrivono indulgenze al capolinea di Rogaskaya». «Al campo sportivo di fronte al Gorky Park i moschettieri invitano al gran ballo», avvertono i messaggi su Telegram in una chat di Kharkiv. All’inizio, per il fronte sono partiti i volontari; ma ora le croci in battaglia sono tante, la musica è cambiata e gli uomini in divisa vanno in giro a reclutare passanti troppo impegnati a spassarsela per vantare un buon motivo per non combattere. Ogni città ha la sua chat, in rete fioriscono gli avvistamenti, ora e luogo per non essere acchiappati. Non c’è regola, non c’è obbligo di arruolarsi; ma se ricevi la “cartolina” devi partire per il fronte. Li braccano alle fermate della metro, in palestra, nei club. Passi la notte a divertirti? Beccato, vai in guerra! Fai scandalo facendo sesso in pubblico? Via, al fronte2.

Chi ama la vita, auspica la sopravvivenza della specie, pur con tutti i suoi enormi difetti, e detesta la guerra non avrà dubbi sulla sostanza, per quanto pre-politica, di questa forma di rifiuto collettivo del culto della Patria, del Dovere e della Morte.
Sarebbero dunque questi i “traditori” filo-russi e filo-putiniani che Zelensky si vanta di perseguitare, reprimere ed eliminare nelle sue quotidiane cronache propagandistiche cui viene dato tanto risalto dai media occidentali? Sono forse loro i sabotatori della guerra di “liberazione”?

N. B.
Il titolo del presente articolo è preso a prestito da quello del romanzo memorialistico di Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte, pubblicato da Marsilio Editore, Venezia 1995.


  1. Compresa l’infinita serie di reportage che la “democratica” Repubblica, orfana di Scalfari, dedica ancora ai combattenti del battaglione Azov, con titoli roboanti e “accattivanti”: Carlo Bonini, Daniele Raineri, Laura Pertici, La guerra di Azov. Sulla linea del fronte con il reggimento nazionalista ucraino diventato simbolo del conflitto e di cui l’Occidente ha paura (qui)  

  2. Paolo Brera, Le notti proibite dei giovani di Kiev. “Con musica ed eros scordiamo la guerra”, «La Repubblica», 25 luglio 2022  

]]>
Democrazia Cazzara https://www.carmillaonline.com/2019/12/29/democrazia-cazzara/ Sun, 29 Dec 2019 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56634 di Alessandra Daniele

Anche quest’anno in parlamento abbiamo avuto varie risse, insulti (“pedofilo”), minacce (“ti faccio un culo così”), lancio di oggetti, svendita di senatori, sventolio di cartelli, striscioni e magliette, una proposta di matrimonio (finta), l’imitazione di Craxi (Renzi), un premier riciclabile, e un concerto di Amedeo Minghi. E pensare che qualcuno la definiva un’aula sorda e grigia. E c’è chi lo rimpiange, secondo il Censis ben il 48% degli italiani vorrebbe un “uomo forte” al comando. Ma quanto sono attendibili certi sondaggi? Più o meno quanto Renzi. La sua [...]]]> di Alessandra Daniele

Anche quest’anno in parlamento abbiamo avuto varie risse, insulti (“pedofilo”), minacce (“ti faccio un culo così”), lancio di oggetti, svendita di senatori, sventolio di cartelli, striscioni e magliette, una proposta di matrimonio (finta), l’imitazione di Craxi (Renzi), un premier riciclabile, e un concerto di Amedeo Minghi.
E pensare che qualcuno la definiva un’aula sorda e grigia.
E c’è chi lo rimpiange, secondo il Censis ben il 48% degli italiani vorrebbe un “uomo forte” al comando.
Ma quanto sono attendibili certi sondaggi? Più o meno quanto Renzi.
La sua promessa del mese è all’omonimo leghista: far cadere il governo Conte bis in cambio d’una legge elettorale proporzionale, e magari d’un posto nell’eventuale governo Salvini per lui e il suo microscopico fanclub, Italia Zombie.
È surreale che qualcuno creda ancora alle promesse di Renzi, in particolare Salvini che c’è già cascato una volta, quest’estate.
Com’è improbabile che Renzi davvero non abbia capito che se impallinasse Conte prima del previsto, verrebbe stritolato da quello stesso sistema di potere che lo ha allevato, piazzato a Palazzo Chigi, e poi scaricato quando ha fallito il suo compito di smantellare la Costituzione.
Il sistema schiaccerebbe lui, e non Salvini, che gli serve ancora come spauracchio di pseudo uomo forte, mentre Renzi, se mollasse Conte, non gli servirebbe più.
Intanto al Viminale, Lamorgese, nel plauso dei media, continua e incrementa le stesse politiche di Salvini, cioè di Minniti.
Mentre il Movimento 5 Stelle (in decomposizione) s’affanna a ratificare un trattato europeo cravattaro che aveva promesso di stracciare, e a mantenere aperta un’acciaieria omicida che aveva promesso di far chiudere. Insieme al partito col quale giurava di non voler avere niente a che fare.
Il governo Conte bis in realtà è un monocolore. PD, ex PD, neo PD, PD bis, Movimento 5 Facce, sono tutte correnti dello stesso partito, la nuova DC.
Democrazia Cazzara.

]]>
Huck, Ishmael e la guerra di classe https://www.carmillaonline.com/2016/04/25/huck-ishmael-la-guerra-classe/ Mon, 25 Apr 2016 19:01:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29926 di Sandro Moiso

fugitive days Bill Ayers, Fugitive Days. Memorie dai Weather Underground, DeriveApprodi 2016, pp. 336, € 22,00

Bill Ayers racconta la vicende di un pugno di ragazzi e di ragazze che volevano fare la rivoluzione. Ci mette sotto gli occhi il diario del tentativo, messo in atto da un gruppo di giovani incoscienti e coraggiosi, di portare la guerra fin nel cuore dell’Impero, quando negli Stati Uniti d’America, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, alcuni militanti della sinistra radicale dichiararono ufficialmente guerra al mostro imperialista. Mentre, allo stesso tempo, ci narra la storia [...]]]> di Sandro Moiso

fugitive days Bill Ayers, Fugitive Days. Memorie dai Weather Underground, DeriveApprodi 2016, pp. 336, € 22,00

Bill Ayers racconta la vicende di un pugno di ragazzi e di ragazze che volevano fare la rivoluzione.
Ci mette sotto gli occhi il diario del tentativo, messo in atto da un gruppo di giovani incoscienti e coraggiosi, di portare la guerra fin nel cuore dell’Impero, quando negli Stati Uniti d’America, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, alcuni militanti della sinistra radicale dichiararono ufficialmente guerra al mostro imperialista. Mentre, allo stesso tempo, ci narra la storia della ricerca collettiva di un altro mondo, di un’altra vita e di altre esperienze, sulle orme di Huckleberry Finn e di Ishmael, l’io narrante di “Moby Dick”.

L’autore oggi settantunenne, militante e fondatore dell’organizzazione clandestina dei Weather Underground, ci regala una delle più belle autobiografie scritte da un rivoluzionario. Epica, commovente, a tratti divertente ed ironica, ma mai, assolutamente mai, segnata da qualsiasi forma di autocompiacimento o, al contrario, dalla resa incondizionata alle ragioni del nemico. Anzi, il testo brilla proprio per la capacità del narratore di sollevare più di una critica nei confronti della pratica, militare ed ideologica, dei Weathermen, senza per questo slittare nel rifiuto della militanza rivoluzionaria o dell’azione diretta.

Non potrei immaginare, oggi, di mettere una bomba in un edificio. Tutto questo mi sembra molto chiaramente appartenere al passato. Ma, allo stesso tempo, non posso immaginare di scartare del tutto l’eventualità. L’affermazione «Vogliamo giustizia» ha per me il senso assoluto che ha sempre avuto e, perciò, aggiungere «Però, certo, non con ogni mezzo» mi sembra che equivalga a mettere la testa sul ceppo” (pag.322)

I Weather Underground, nati da una frazione separatasi dall’ SDS (Students for a Democratic Society) a partire dagli scontri della Convenzione democratica di Chicago del 1968 e dalle successive Giornate della Rabbia dell’anno successivo, si posero molto presto il problema della violenza. Soprattutto di “quale violenza”. Una violenza che colpisse solo le cose o anche le persone?

diana e ted Al di là del dibattito puramente ideologico che, come sempre, servì soltanto a confondere le idee di molti e ad esaltare inutilmente l’ardore militante di alcuni, a risolvere il dilemma ci pensò, in maniera catastrofica e catartica, l’esplosione che, nel marzo del 1970, avvenne in un’elegante palazzina situata al numero 18 della West Eleventh Street nel Greenwich Village e che spazzò letteralmente via, oltre che i muri dell’edificio, anche le vite di tre militanti della prima ora che stavano preparando una bomba ad alto potenziale destinata a colpire le odiatissime forze dell’ordine.

La morte improvvisa di Diana Oughton, Ted Gold e Terry Robbins (di cui non fu ritrovato nemmeno il corpo) segnò irrimediabilmente il corso successivo dell’organizzazione che, pur continuando a colpire con le bombe le istituzioni militari, poliziesche, bancarie ed economiche dell’imperialismo americano, rifiutò di utilizzare la violenza come metodo per distruggere i corpi. Seppure degli avversari. Una scelta difficile che, contemporaneamente, rischiò di inimicare ai suoi membri sia l’ala pacifista del movimento di contestazione alla guerra nel Vietnam, sia quella più radicale e politicizzata.

Ma, prima di giungere a quelle drammatiche scelte, il cammino di Ayers e degli altri militanti era stato lungo, tortuoso e segnato da numerose esperienze di auto-organizzazione (le scuole per i bimbi poveri, quasi solamente afroamericani, di Chicago o Detroit), autodifesa (la rivolta di Cleveland nel 1966), difesa dei cittadini di colore e dei loro diritti (fin dai primi anni sessanta) e, soprattutto, dal rifiuto di una guerra ritenuta profondamente ingiusta e sbagliata: quella in Vietnam appunto.

weatherman-days-of-rage-chicago-october-9-1969 Il percorso di formazione, dall’infanzia in un ambiente borghese e perbenista fino alla scelta di una militanza integrale e svolta in clandestinità , è delineata dall’autore con un taglio spesso degno di Mark Twain, equamente diviso tra ironia, spacconeria, a tratti, ed amarezza. Il fiume della Storia, dall’azione antischiavista di John Brown prima della guerra civile o, ancor prima, dal Boston Tea Party che diede il via alla guerra di indipendenza o dalla ribellione di Shay che la seguì, fino all’azione degli IWW e alle parole del Che o a quelle di Ho Chi Min, diventa così una sorta di ideale e lunghissimo Mississippi lungo il quale Ayers discende sulle orme di Huckleberry Finn e dello stesso Twain.

Mentre, soprattutto nelle parti più prossime all’autocritica e al rimpianto per le perdita degli amici e della donna amata, il testo sembra rievocare quel “Call me Ishmael” con cui ha inizio il più bel romanzo della letteratura americana dell’Ottocento: Moby Dick. E questa similitudine è resa possibile non soltanto dal tentativo dichiarato, fin dalla Convention di Chicago del ’68, di arpionare il mostro capitalista e la sua democratica balena bianca, ma anche dal fatto che il fragile Pequod e la fragile organizzazione di cui l’autore ha fatto parte sono destinati a scomparire proprio nel momento in cui il loro obiettivo sarà raggiunto.

Inoltre di Ishmael non conosceremo mai il cognome o il vero nome, così come l’autore perderà per anni il suo vero nome fino quasi a dimenticarlo per vivere, in clandestinità, sotto altri nomi e le più svariate identità sociali e lavorative. L’Io qui si rivela così essere qualcosa, allo stesso tempo, di collettivo e di estremamente soggettivo. Collettiva la spinta, collettive le motivazioni e le aspirazioni, soggettiva la scelta e soggettive le riflessioni. Soggettivo, soprattutto il coraggio, sempre accompagnato da una certa umiltà.

Umiltà che sembra lasciare sullo sfondo l’importanza dell’azione diretta nella chiusura dell’intervento americano nella guerra in Indocina; umiltà che assegna solo all’organizzazione e al coraggio dei combattenti e delle popolazioni vietnamite e cambogiane il merito della vittoria militare. Eppure, eppure…

Avevamo rivendicato una mezza dozzina di attentati, ognuno enormemente ingigantito dalla valenza simbolica dell’obiettivo, dall’entità, volutamente cauta e prudente dello scoppio, e dai puntuali comunicati pubblici che suggerivano la terribile o esilarante notizia che in America si stava formando un movimento di guerriglia interno. Esplose un’onda positiva di violenza e disperazione, ma avevamo ormai poche illusioni sulle nostre reali capacità, e potevamo vedere quello che stava succedendo in tutto il mondo. L’escalation di attentati alle sedi del ROTC (Reserve Officers’ Training Corps – Corpo di Addestramento degli ufficiali di Riserva), agli uffici di leva e ai centri di reclutamento, durava da almeno due anni, e i bersagli della volenza politica adesso includevano grandi società chiaramente collegabili con l’aggressione e l’espansione degli Stati Uniti: Bank of America, United Fruit, Chase Manhattan Bank, IBM, Standard Oil, Anaconda, general Motors. Dall’inizio del 1969, fino alla primavera del 1970, negli USA ci furono più di 40 mila minacce o attentati e 5 mila esplosioni riuscite contro governativi o imprenditoriali, una media di sei attentati al giorno. Salvo due o tre casi, l’intera orgia di esplosioni era rivolta contro le proprietà, non le persone […] Cinquemila esplosioni, circa sei attentati al giorno, e i Weather Underground ne avevano rivendicate sei, in tutto. Sono cifre che fanno riflettere” (pag.262)

Si aggiunga a tutto ciò la rivolta in centinaia di campus universitari, l’azione auto-organizzata del Black Panther Party, l’uccisione dal parte delle forze del disordine di decine di studenti bianchi e di militanti neri, la rivolta, nemmeno troppo sotterranea, dei sodati al fronte e di quelli ritornati a casa e si capirà perché la guerra del Vietnam sia il secondo ed unico conflitto internazionale del ‘900 chiusosi, come il primo conflitto mondiale, non soltanto e solo per una sconfitta militare, ma anche, e soprattutto, per la paura delle classi dirigenti per l’apertura di un insanabile ed insuperabile conflitto interno destinato a sfociare, inevitabilmente, in una rivoluzione sociale.

Ayers non lo dice, non rivendica, anzi tende a smitizzare e a limitare il ruolo del suo movimento anche se il ruolo simbolico che assunse non fu certamente estraneo a ciò che avvenne. Grazie anche alla propaganda con cui il Federal Bureau (FBI), gli strumenti di repressione e disinformazione gonfiarono la pericolosità dei singoli militanti dell’organizzazione. Ricercati, inseguiti, dispersi, ma mai sconfitti. Come la resa degli ultimi militanti nel 1980 (tra cui lo stesso Ayers e la sua compagna Bernardine Dohrn) e il loro rapido rilascio, una volta rivelati gli sporchi trucchi ed inganni usati nei loro confronti dall’FBI, ben dimostrano.

billayersfbiLe accuse dei federali di cospirazione che ci avevano collocato sulla lista dei dieci più ricercati dall’FBI erano, ironia della sorte, decadute a causa della condotta del governo, estremamente cattiva. Si era scoperto, in seguito allo scandalo Watergate, che il Bureau aveva spudoratamente sorvegliato telefoni, violato abitazioni, e addirittura elaborato un piano per rapire il nipotino di Bernardine” (pag.329)

Ma non bastò solo quella prova a salvaguardare l’integrità fisica e la libertà dei più importanti rappresentanti dei Weathermen. L’altro, e principale fattore, fu rappresentato da una struttura “non partitica” e quindi non verticistica o piramidale dell’organizzazione e dalla sua strutturazione a cellule o “tribe” separate organizzativamente e soltanto unite dalla pratica e dagli obiettivi perseguiti.
Insieme, naturalmente, al fatto che tra gli arrestati ben pochi furono coloro disposti a parlare1 o a pentirsi.

Il libro racconta molto di più naturalmente: trasmette emozioni e suscita riflessioni che sono ancora tutte di estrema attualità. E’ un bellissimo libro non di memorie, ma sulla memoria. Sulla memoria dei vinti, dei vincitori, degli stati, dei rivoluzionari, dei controrivoluzionari e degli individui. Con tutti i loro difetti e le loro lacune.
Quando l’America ha perso la guerra – miseramente, alla fine – non è riuscita, com’era prevedibile, ad ammettere la sconfitta, a ricordare e a fare i conti con la realtà […] La verità è che gli Stati Uniti hanno perso la guerra in Vietnam. La verità è che hanno vinto quegli altri” (pag.324)

Non stiamo vivendo, possiamo esserne certi, sulle montagne, in tempi rivoluzionari, e questo è un dato di fatto. Viviamo a valle – tempi di incertezza e confusione, tempi di endemica irreparabilità e di sempre più profonda disperazione. Sono tempi in cui bisogna rimanere svegli e coscienti, raccogliere le forze, studiare e costruire i nostri progetti, apportare ogni modesto contributo possibile, per soffiare lievemente sui tizzoni della giustizia – e ricordare” (Pag.323)
Cosa che l’autore nel suo libro riesce a fare benissimo.

Nel caso in cui l’intervista autobiografica di Toni Negri vi avesse annoiato o irritato, gettatela via e, senza rimpianti, infilate le cuffie per ascoltare “Volunteers” dei Jefferson Airplane, “Kick Out The Jams, Motherfuckers!” degli MC5 oppure “Brown Shoes Don’t Make It” dei Mothers of Invention. Poi iniziate a leggere Ayers, non ve ne pentirete. Mai.


  1. Come dimostra anche il bellissimo documentario The Weather Underground di Sam Green e Bill Siegel  

]]>