Charlie Chaplin – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il caos… a combustione lenta https://www.carmillaonline.com/2017/12/06/il-caos-a-combustione-lenta/ Tue, 05 Dec 2017 23:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41729 di Gioacchino Toni

Al botto di Wall Street l’America arriva di corsa e con i paraocchi, tanto che, soltanto pochi mesi prima Herbert Hoover, durante il Congresso repubblicano, vaneggia sull’avvicinarsi del paese, con l’immancabile aiuto di Dio, al trionfo sulla povertà. Negli anni Venti una parte rilevante dell’America che pende dalle labbra di Henry Ford, ama raccontarsi di un procedere a tutto gas, a braccetto con l’industria dell’automobile, verso una crescita illimitata dei consumi. Sono gli anni in cui si celebra l’eroe Charles Lindbergh, capace, grazie ai prodigi della tecnologia, di volare in [...]]]> di Gioacchino Toni

Al botto di Wall Street l’America arriva di corsa e con i paraocchi, tanto che, soltanto pochi mesi prima Herbert Hoover, durante il Congresso repubblicano, vaneggia sull’avvicinarsi del paese, con l’immancabile aiuto di Dio, al trionfo sulla povertà. Negli anni Venti una parte rilevante dell’America che pende dalle labbra di Henry Ford, ama raccontarsi di un procedere a tutto gas, a braccetto con l’industria dell’automobile, verso una crescita illimitata dei consumi. Sono gli anni in cui si celebra l’eroe Charles Lindbergh, capace, grazie ai prodigi della tecnologia, di volare in solitaria oltre oceano ed il mito del self-made man pare non aver perso il suo potere seduttivo. Il successo individuale, il benessere economico e la celebrità vengono raccontati ancora come alla portata di tutti.

Gli anni Venti sono però anche il decennio in cui il mito sbandierato ai piedi della Statua della Libertà, che vuole l’America capace di concedere la felicità anche ai poveri immigrati che mettono piede nel paese, viene oscurato da una serie di leggi che sanciscono la necessità di ridurre sempre di più la ricezione di stranieri. Al timore per il comunismo si aggiunge dunque quello per lo straniero, come ricorda emblematicamente la storia di Sacco e Vanzetti spediti sulla sedia elettrica nell’estate del 1927. La costruzione di un immaginario capace di arginare le sirene della rivolta sociale diviene indispensabile; all’utopia del socialismo si risponde con l’utopia di una prosperità economica alle porte capace di portare ricchezza e felicità nelle case di tutti.

Nel 1929, pochi mesi prima del crack di Wall Street, esce nei cinema americani Big Business (Grandi affari, 1929) di James W. Horne, opera che congeda Stan Laurel e Oliver Hardy dalla gloriosa stagione della slapstick comedy e, allo stesso tempo, rappresenta il preludio a quella che sarà la loro altrettanto importante produzione sonora. É a questo indimenticabile film che Gabriele Gimmelli dedica il saggio Grandi affari, (Big Business, James W. Horne, 1929) Laurel & Hardy e l’invenzione della lentezza, (Mimesis, 2017).

Oltre che come opera liminale tra le gag mute e la fase sonora delle produzioni della celebre coppia, il film viene analizzato dallo studioso come «uno degli esempi più alti di un tratto specifico della comicità di Laurel e Hardy. La coppia porta infatti nella slapstick comedy dei ritmi nuovi, basati più sull’attesa e la durata che sull’azione e la sorpresa. È quello che si suole chiamare slow burn, alla lettera “combustione lenta”: la distruzione condotta con rigore e metodo, ma lentamente, senza fretta alcuna. Una “invenzione della lentezza”, che rimane il lascito più importante dei due attori al cinema comico americano (e non solo)» (p. 8).

Big Business è però anche un film politico, visto che in una ventina di minuti, sostiene Gimmelli, «riesce a condensare, con spietata efficacia e senza alcun didascalismo, paure e nevrosi più o meno occulte della piccola borghesia americana, colta nel passaggio dagli euforici anni Venti del Novecento ai ben più cupi anni Trenta» (p. 8). Del cittadino medio americano dell’epoca Laurel e Hardy mettono in scena quanto ha di più caro: la casa e l’automobile. «E così facendo, scardinano al tempo stesso la narrazione hollywoodiana classica, che dell’ideologia borghese si fa portatrice, facendola collassare fragorosamente sotto il lento stillicidio delle loro gag» (pp. 8-9).

La storia narrata dalla pellicola è di per sé semplice: due piazzisti attraversano su una vecchia Ford, nel dicembre del 1928, i sobborghi di Los Angeles, tentando, maldestramente, di vendere alberi natalizi porta a porta… fino a quando si innesca uno scontro con un potenziale cliente che conduce inevitabilmente al disastro annunciato.

Fino al termine degli anni Venti la forma di comicità prevalente nella cinematografia statunitense è quella del genere slapstick che spesso mette in scena un’integrazione fallita attraverso il racconto delle peripezie di un individuo solitario incapace di adattarsi alla società in cui vive. Le produzioni a cavallo tra la fine degli anni Dieci e l’inizio del decennio successivo sono sostanzialmente in mano alla Keystone Pictures, che produce cortometraggi comici che narrano di «un’America ancora sospesa fra arcaismo e modernità, fra città e campagna. Quasi a voler rispecchiare la vertiginosa evoluzione della società, l’azione regna sovrana nelle comiche [del regista e produttore Mack Sennett]. Non è un caso che proprio l’automobile assurga ben presto a oggetto-simbolo della commedia di quegli anni» (pp. 23-24).

Tra i divi del comico dell’epoca, Buster Keaton è sicuramente colui che più di ogni altro ha assegnato ai congegni meccanici un ruolo centrale. Nel corso degli anni Venti, nei film, alle macchine si aggiunge anche un paesaggio metropolitano costellato da grattacieli e a questi edifici si legano in particolare le gag di Harold Lloyd che lo vedono, dopo mille peripezie capaci di tenere il pubblico col fiato in sospeso, giungere all’happy ending. «Il ragazzo qualunque che, grazie alla buona volontà, al coraggio e a un pizzico di fortuna riesce a raggiungere le vette non solo metaforiche del successo appare perfettamente in linea con la sensibilità dell’epoca» (p. 26). Charlie Chaplin, invece, alla vita metropolitana della West Coast e alla cronaca preferisce i sobborghi del Vecchio Mondo, i silenzi del Grande Nord e la letteratura d’appendice ottocentesca.

L’arrivo del parlato, agli sgoccioli degli anni Venti, comporta una trasformazione del cinema a cui le tre star del comico rispondono diversamente: Chaplin tende a ripiegare su un cinema introspettivo che indaga il ruolo dell’attore e il suo rapporto col pubblico, mentre Keaton e Lloyd si congedano rispettivamente con un film ricco di citazioni cinematografiche e polemico nei confronti delle Majors, il primo, e con una pellicola incentrata sul tentativo di salvare dal ritiro l’ultimo tram a cavalli di New York, il secondo, probabilmente «una metaforica rivincita dell’ormai obsoleto cinema muto nei confronti del sonoro» (p. 28).

Quando ormai il vecchio modo di fare film pare destinato all’estinzione, sembra resistere ancora per qualche tempo il produttore Hal Roach che, attorno alla metà degli anni Venti, intreccia la sua strada con quelle dell’inglese Stan Laurel (Arthur Stanley Jefferson) e dell’americano Oliver Hardy. Se i due attori indossano per la prima volta “la divisa”, che li avrebbe poi resi celebri, nel 1927, è soltanto nell’anno successivo che i caratteri salienti della coppia cominciano a delinearsi in modo più chiaro: «una peculiare tendenza alla catastrofe, orchestrata però secondo ritmi che non sono più quelli di Sennett e dei suoi epigoni, ma nemmeno quelli di Keaton e Lloyd», che getta così «le basi del procedimento comico noto come slow burn. L’espressione – che si può tradurre con “lenta combustione”, “a fuoco lento” – ha in area anglofona un significato piuttosto ampio. Può descrivere infatti sia una reazione graduale e meditata a un’azione comica (si pensi agli sconsolati sguardi in macchina di Hardy); sia l’azione distruttiva di un personaggio ai danni di un oggetto o di un altro personaggio, che monta piano piano verso un’esplosione di violenza incontrollata. Per questa seconda accezione, alcuni studiosi di Laurel e Hardy utilizzano spesso un sinonimo più preciso: reciprocal destruction (distruzione reciproca). In entrambi i casi, comunque, l’elemento costante è il tempo dell’azione, che nelle mani dei due comici rallenta, si dilata come mai era accaduto prima di allora» (pp. 39-40).

Nel ricostruire le vicende produttive di Big Business, Gimmelli sottolinea come sia Stan Laurel a seguire l’intero processo di realizzazione del film e come l’attore imponga immagini luminose e lunghe inquadrature con pochi primi piani per avvicinarsi all’esperienza della recitazione dal vivo. Laurel insiste anche per l’inusuale e antieconomico metodo di filmare le scene rispettando l’ordine con cui sarebbero poi state montate. La pellicola viene girata nel corso della settimana di Natale del 1928 con riprese effettuate interamente in esterni.

Gli Studi Roach rappresentano negli anni Venti un’anomalia rispetto al cinema ormai avviato verso il dominio dello Studio System e il produttore tenta di differenziarsi sia dalle opere tradizionali sia dalle modalità produttive delle Major. Caratteristici delle produzioni Roach di metà anni Venti sono quei rallentamenti delle reazioni dei protagonisti tra una gag e l’altra capaci di prolungarne notevolmente l’effetto comico. Ciò avviene anche per quella “distruzione reciproca” portata ai massimi livelli proprio da Laurel e Hardy sul finire del decennio.

Roach capisce che i tempi stanno mutando e non solo per le opere comiche. Petr Král (Stan et Ollie, ou l’Unique et son double in Id., Les Burlesques ou Parade des Somnambules, 1986) giunge a sostenere che tale stile lento corrisponde ad un periodo in cui le cose sembrano rallentare, una sorta di “fine della festa” che caratterizza la crisi della fine degli anni Venti e alla frenesia del decennio che si sta chiudendo sembra sostituirsi una ricerca di stabilità. «L’invenzione della lentezza da parte di Laurel e Hardy (con l’appoggio creativo-produttivo di McCarey e Roach) appare quindi legata al mutamento generale dello stile di vita statunitense sulla soglia degli anni Trenta. La “fine della festa” a cui Král fa riferimento si riflette con una certa evidenza nell’estetica dei film della coppia, Big Business incluso» (pp. 53-54).

I luoghi topici della slapstick comedy rimangono in secondo piano nel film di Laurel e Hardy. Se l’ambiente in cui si svolge il film è ancora lo spazio urbano, rispetto alla tradizionale slapstick comedy, la grande città scompare e le sue strade risultano tutt’altro che brulicanti di vita: la vicenda si concentra su un microcosmo riconducibile ad un sobborgo residenziale. «L’impressione è che in questo film, come in molti altri del duo, gli esterni vogliano restituire una sensazione di chiusura» (pp. 54-55).

Per quanto riguarda l’automobile che, insieme all’abitazione, rappresenta il simbolo della commedia degli anni Venti, Gimmelli sottolinea che per quanto nel film la coppia si sposti a bordo di una Ford T pickup, prototipo dell’auto di massa, il mezzo non viene pienamente sfruttato. «L’auto di Laurel e Hardy, quindi, è ormai soltanto un oggetto ingombrante, scomodo da mettere in moto e destinato a compiere percorsi limitatissimi» (p. 56).

L’insistenza e la meticolosità con cui il film si dilunga sulla coppia nell’atto di mettere in moto l’automobile per poi partire appaiono del tutto sproporzionate rispetto alla rilevanza dell’azione compiuta. Si indugia su particolari che sarebbero risultati del tutto superflui per un cortometraggio slapstick di solo qualche anno prima, soprattutto se la scena è incentrata su un’automobile emblema del dinamismo. Certo, nella slapstick comedy tradizionale non mancano distruzioni di autoveicoli ma ciò avviene solitamente a causa di incidenti dettati dalla frenesia metropolitana. In Big Business, invece, «la modernità e la sua frenesia sono già assimilate e lontane nel tempo, mentre all’orizzonte si va profilando la recessione economica. All’azione sregolata e spesso precipitosa della tradizione slapstick, Laurel e Hardy oppongono dunque una sorta di teatrino della crudeltà [i due] non intendono travolgere lo spettatore con una serie di shock visivi: preferiscono invece accompagnarlo, un passo alla volta, verso un destino altrettanto funesto, ma comunque inevitabile» (p. 58).

Dopo alcuni rifiuti da parte di abitanti del quartiere, all’ennesimo tentativo di vendere un albero natalizio prende il via una serie di gag che vede rami e lembi di cappotto restare incidentalmente incastrati nella porta del maldisposto abitante. Certo, la gag dell’abito incastrato in una porta non è nuova per il genere, ma la novità sta piuttosto nella ripetizione insistita dell’azione maldestra e ciò rappresenta una svolta imposta dalla coppia di comici alla slapstick comedy.

Una parte del volume è dedicata alla coppia Laurel e Hardy. In tale sezione vengono ripresi gli studi di Noël Burch (La lucarne de l’infini, 1991) – a proposito del cosiddetto “piano emblematico” con cui vengono presentati di due all’inizio del film -, di Stefano Brugnolo (Strane coppie, 2013) – che indaga come i due personaggi “diversi ma simili” facciano vacillare il principio d’identità a livello di logica, funzioni e ruoli -, di Roland Lacourbe (Laurel et Hardy, 1975) – che si sofferma sul ribellismo individuale e di coppia nei diversi film -, di Charles Barr (Laurel & Hardy, 1967) – sulla gestualità della coppia -, di Marco Giusti (Stan Laurel & Oliver Hardy, 1997), Stuart Kaminsky (Generi cinematografici americani, 1985) e Gilles Deleuze (Cinéma 1. L’Image-mouvement, 1983) – sulle peculiarità dei due personaggi.

Venendo al contesto in cui agisce la coppia, il saggio mette in risalto come l’universo sia molto diverso tanto da quello chapliniano abitato da poveri e poliziotti, quanto da quello keatoniano che ha come contesto l’attiva borghesia dell’epoca. In Big Business viene messa in scena una società che faticosamente ha raggiunto un certo livello di benessere e che, terrorizzata dall’idea di perdere tutto, è disposta a difendere le conquiste ottenute con ogni mezzo necessario. «Colui che in Big Business è chiamato a incarnare tutto questo è James Finlayson […] uno dei comprimari più assidui di Laurel e Hardy […] Maestro del double take, vale a dire di quella particolare reazione comica basata sulla risposta ritardata – sorpresa, spavento o stizza – a una situazione o a una gag inaspettate, in Big Business Finlayson fa ampio uso di una sua “creazione”, il fade away: una smorfia del volto con un occhio chiuso e l’altro strabuzzante, spesso utilizzata per accompagnare il double take, ma perfettamente autosufficiente, nonché particolarmente efficace nei rapidi duelli facciali con Laurel e Hardy, che “riempiono” di quando in quando le pause dello scontro» (p. 69).

Oltre alla mimica facciale Finlayson lavora sul crescendo dell’irritazione che si traduce in a una recitazione sempre più nevrotica e sguaiata che lo porta persino a danzare follemente sull’auto distrutta della coppia. «È come se a contatto con la strana coppia di piazzisti, l’aggressività e la follia represse degli everymen d’America trovassero il modo di emergere in tutta la loro violenza» (p. 72). Alle reazioni sempre più concitate di Finlayson fanno da contrappunto le azioni più misurate e lente di Laurel e Hardy che, come sottolinea Giusti, probabilmente si rendono conto che «la logica dell’occhio per occhio altro non è che “un rito, ripetibile, che fa parte dei rapporti ‘di mondo’ con la società”» (p. 72). Big Business è costruito attorno allo slow burn fra la coppia e l’antagonista; qui «si ha l’impressione che il consueto gioco al massacro raggiunga proporzioni colossali, arrivando ben presto a inghiottire ogni cosa: non soltanto lo spazio dell’azione, ridotto a un cumulo di macerie, ma addirittura […] la narrazione stessa» (p. 72).

Nonostante la vicenda sembri innescarsi all’improvviso a causa di un gesto maldestro, in realtà, sottolinea Gimmelli, tutto deriva da una serie di piccoli segnali disseminati nella parte iniziale del cortometraggio in cui si palesa l’incompatibilità e la conflittualità tra la coppia e il mondo circostante. Le sequenze e le inquadrature sono sapientemente calibrate per costruire il classico “rituale” che porta la coppia a confrontarsi con l’antagonista: «ciascun contendente attende con pazienza che l’altro abbia completato la sua mossa, dopodiché fa una rapida ricognizione dei danni subiti (oppure chiama il pubblico a testimone guardando in macchina) e soltanto a quel punto restituisce il colpo. Ovviamente l’energia distruttiva del trio è destinata a dilagare a macchia d’olio, a coinvolgere spazi sempre più ampi» (p. 77). I tempi d’attesa tra un’azione e la reazione si fanno però via via più rapidi fino a condurre ad un conflitto ormai incapace di rispettare i tempi alternati. In un crescendo vertiginoso le scaramucce lasciano il posto ad una violenza anarchica distruttiva capace di radere al suolo la casa e l’automobile, con i loro portati simbolici, e nulla può l’intervento dell’autorità in divisa.

Se il titolo sembra promettere grandi affari finanziari, «quello che lo spettatore si trova davanti è lo spettacolo di tre scalmanati che si fanno la guerra e che, per soprammercato, si ritrovano alla fine più poveri di quando avevano cominciato» (p. 83). Il cinema di Laurel ed Hardy può dunque essere letto come sovversivo per il suo mettere in scena una frustrazione, per certi versi, antiborghese e anti-hollywoodiana, culminante in un allontanamento dei due in fuga a passo di corsa – inseguiti dall’autorità in divisa irrisa dalla coppia – che, a differenza di quanto avviene nei film di Chaplin in cui il personaggio abbandona la scena scrollando le spalle a un mondo che lo esclude, promette di diffondere il caos altrove.

… a combustione lenta… il caos esploderà ovunque.

 

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L’arte di intonare i mammiferi morti https://www.carmillaonline.com/2017/06/29/larte-intonare-mammiferi-morti/ Wed, 28 Jun 2017 22:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38991 di Sandro Moiso

Hans Rickeit, The Squirrel Machine, Eris, Torino 2017, pp. 190, € 16,00

L’ambientazione vittoriana della fiaba poco educativa, recentemente pubblicata in italiano da Eris Edizioni, rinvia sicuramente, per le autentiche diavolerie tecnologiche rappresentate nelle bellissime tavole di Hans Rickeit, all’immaginario steampunk. Ma, in realtà, nello sfogliare, osservare, leggere e divagare sulle sue pagine i riferimenti più prossimi sembrano essere piuttosto “L’arte dei rumori” di Luigi Russolo, i “Quaderni di un mammifero” di Erik Satie, il cinema onirico di David Lynch e il delirio erotico-libertino del “divin marchese” De Sade.

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di Sandro Moiso

Hans Rickeit, The Squirrel Machine, Eris, Torino 2017, pp. 190, € 16,00

L’ambientazione vittoriana della fiaba poco educativa, recentemente pubblicata in italiano da Eris Edizioni, rinvia sicuramente, per le autentiche diavolerie tecnologiche rappresentate nelle bellissime tavole di Hans Rickeit, all’immaginario steampunk. Ma, in realtà, nello sfogliare, osservare, leggere e divagare sulle sue pagine i riferimenti più prossimi sembrano essere piuttosto “L’arte dei rumori” di Luigi Russolo, i “Quaderni di un mammifero” di Erik Satie, il cinema onirico di David Lynch e il delirio erotico-libertino del “divin marchese” De Sade.

Potrebbe apparire strano che nell’elencare i possibili riferimenti per un’opera a fumetti manchino completamente i riferimenti ad autori e lavori che si muovano nel settore dei comics, ma la potenza espressiva e simbolica, oltre che onirica, delle tavole di Hans Rickeit è tale da superare qualsiasi paragone con altri disegnatori. Al massimo, per certi aspetti del rapporto tra corpo e macchina , si potrebbe ancora fare riferimento a “Tempi moderni” di Charlie Chaplin e al “Tetsuo” di Shinya Tsukamoto oppure al teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Ancora film e teatro, ancora autori visionari seppur di epoche differenti.

L’unico autore di fumetti cui Rickeit sembra essere debitore è sicuramente Winsor McCay che con il suo Little Nemo, pubblicato sul supplemento domenicale del New York Herald tra il 1905 e il 1911 e successivamente su quelle del New York American tra il 1911 e il 1913, raggiunse agli inizi del XX secolo vertici simili, sia per complessità e bellezza delle tavole che per dimensione onirica. Cosa che spinse il pubblico dei tempi a costringere McCay a riprendere ancora il suo personaggio tra il 1924 e il 1927 (nuovamente sul New York Herald).

L’autore, statunitense, è nato nel 1973 a Ashburnham, Massachusetts, in quella parte di America dove sembrano essersi concentrati tutti gli incubi dei Padri fondatori e del loro puritanesimo. E proprio dagli incubi e dai suoi sogni il cartoonist americano ammette di trarre gran parte dei suoi materiali, fin dalle short stories e dai cortometraggi che hanno agli inizi caratterizzato il suo percorso artistico ed espressivo. Così, tenendo conto che Rickeit si è anche esibito talvolta con la musicista Katt Hernandez,1 si può affermare che il disegnatore americano, pur avendo scelto il cartoon come suo principale strumento d’espressione, sia nei fatti un artista multimediale.

D’altra parte le vicende di The Squirrel Machine sono difficilmente narrabili dal punto di vista di una logica consequenziale oppure “romanzesca”, mentre il flusso delle immagini che rivelano poco per volta le vicende dei due protagonisti, i fratelli Edmund e William Torpor, e di coloro che li circondano, appartengono di più al mondo del sogno o dell’improvvisazione musicale, quando questa abbandona la partitura per rivelarci mondi e sonorità, impressioni e sensazioni inaspettate. Talvolta deliziose e talvolta inquietanti.

Il titolo stesso può essere tradotto in italiano sia come La macchina scoiattolo, con un richiamo alle macchine che sfruttano i corpi morti degli animali presenti nelle vicende narrate, sia come La macchina (molto) eccentrica, più adatto il secondo a definire gli strumenti utilizzati ed inventati (forse soltanto sognati?) dai fratelli Torpor e la “macchina narrativa” costruita dall’autore.

Addentratevi in questo mondo con la mente aperta e senza nutrire aspettative. Datevi tempo per entrarci dentro, tenendo questo libro poggiato sul comodino. Leggetene una manciata di pagine prima di addormentarvi, come per un rito preparatorio. Vi è mai successo di sognare di cadere e durante la caduta rendervi conto di essere in un sogno, e ricordarvi di aver già sognato più volte quella caduta nella vostra vita, e al risveglio ricordarvi nel dormiveglia il sogno con chiarezza «sapendo» che il «ricordo» dei sogni precedenti non era che parte di un sogno che stavate facendo per la prima volta? Gli attori dell’opera di Hans sono in caduta continua, e nella caduta ogni cosa è uguale”. Così afferma E. Stephen Frederick in una sorta di introduzione al testo e non potrebbe riassumere meglio la sensazione che si prova leggendolo.

Una caduta del lettore e della sua immaginazione in un vortice di macchine sonore che sembrerebbero tratte direttamente dagli intona-rumori di Luigi Russolo, se non fossero invece realizzate con teste di maiali, carcasse di vacche e piccoli scoiattoli morti o meccanizzati. Un vortice in cui la caduta, seppur tragica nel finale, è pur sempre estremamente liberatoria. Una caduta in cui le storie di ragazzine vittoriane, destinate a perdere l’innocenza e la vita, si accompagnano alle vicende di una sorta di affascinante e maledetta Circe campagnola, a giovani amanti che si accoppiano tra improbabili ingranaggi oppure che fanno l’amore tra milioni di lumache, e a quelle della madre dei due fratelli, sospesa quest’ultima tra una perversa attività creativa, la malattia mentale e il puritanesimo di facciata più rigido allo stesso tempo.

Un mix di situazioni in cui il “delitto” artistico ci attende sempre appena dietro la porta, come nella migliore musica contemporanea e nell’improvvisazione che la caratterizza. Un viaggio in cui Rickeit, come un hobo americano degli anni Venti, salta da un treno in corsa ad un altro, da una carrozza all’altra, senza preoccuparsi che noi, gli inseguitori, si riesca davvero a stargli dietro e non si finisca invece stritolati dalle ruote dell’ingranaggio. Annullamento che, però, potrebbe rivelarsi piacevole poiché di incubi inquietanti si tratta, ma mai terrorizzanti.

L’arte è pericolosa. O dovrebbe esserlo. Il suo scopo non è quello di tranquillizzare.
E’ lo stesso Rickeit ad affermarlo in una recente intervista rilasciata in occasione del Napoli Comicon 2017,2 in cui ha rivelato anche altri aspetti del suo lavoro: “Ai miei occhi le macchine sono sia estensioni delle persone che replicanti. Per me le persone sono oggetti, oggetti con il dono della consapevolezza. Non so da dove venga la loro scintilla vitale ma sono tutti oggetti preziosi e c’è poca differenza. Il confine tra persone e cose è labile.”

In queste premesse sta probabilmente il segreto della complessità e, allo stesso tempo, dell’attrattiva esercitata da The Squirrel Machine sul lettore: una sorta di metafora della ricerca e della libertà di espressione artistica in cui, proprio come succede ai due fratelli protagonisti del fumetto, l’autore è semplicemente un tramite che non crea, ma che si limita a “fare” ciò che la realtà o i sogni di cui si alimenta gli suggeriscono. Fino alle più estreme conseguenze.
Dando così vita ad un vertiginoso viaggio nel perturbante e nel gotico americano, quell’autentico magma di desideri, paure e rimozioni che si agitano appena sotto la superficie di tanta letteratura (da Poe ad Hawthorne o all’attuale Ligotti), pittura e musica popolare statunitense.

A questo punto, per concludere il discorso, si rende però necessario tornare con la mente a Isidore Isou, fondatore del Lettrismo e precursore dell’Internazionale Situazionista, che negli anni ’50 immaginava una nuova architettura in grado di “far emergere i desideri dimenticati e la creazione di desideri totalmente nuovi” utilizzando “In luogo dei vecchi materiali poveri e limitati (legno, mattone, metallo) – altri totalmente – “nuovi: fiori, libri, legumi, comete, meteore, farfalle o elefanti, o parti di cadaveri o esseri viventi“.3 Assunto, allo stesso tempo artistico, politico e psichico, che Rickeit, con le sue immagini, sembra realizzare compiutamente, anche se forse inconsapevolmente.

Una perfetta lettura per le vacanze di chiunque abbia ancora tempo per il sogno, anche ad occhi aperti. Una sorta di livre de chevet da tenere sempre a portata di mano per far fronte alla calura e alla noia estiva. Da riprendere a leggere in qualsiasi punto e da qualsiasi pagina, procedendo in avanti oppure all’indietro come forse ogni buon libro dovrebbe permettere di fare al lettore. Magari in attesa che, in un prossimo futuro, le edizioni Eris vogliano offrirci la versione italiana di un’altra magnifica opera di Rickeit: Cochlea & Eustachia (di cui si propone un assaggio con la tavola riprodotta qui a fianco).


  1. Nata nel 1974 ad Ann Arbor nel Michigan, la violinista si è dedicata fin dagli esordi alla musica microtonale e all’improvvisazione e vive oggi a Stoccolma pur mantenendo forti legami con gli ambienti artistici di Boston e Filadelfia  

  2. http://www.panorama.it/cultura/fumetti/hans-rickheit-the-squirrel-machine-intervista/  

  3. Mirella Bandini, L’estetico e il politico, Officina Edizioni, Roma 1977, pag.47  

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Linee di fuga. La clown-poiesi come pratica di affrancamento dalle strutture dominanti capitaliste https://www.carmillaonline.com/2016/11/03/31591/ Wed, 02 Nov 2016 23:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31591 di Gioacchino Toni

eterotopie-nivolo-antropologia-clownEnrico Nivolo, Antropologia dei clown. Percorsi rizomatici tra liminalità e anti-struttura, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 254 pagine, € 24,00

Il saggio di Enrico Nivolo riprende gli studi di Francesco Remotti, in particolare Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi (2013), e le analisi sviluppate da Gilles Deleuze e Félix Guattari a proposito dei concetti di linea di fuga e di deterritorializzazione. Ad interessare Nivolo è il rapporto intercorrente tra il sistema di senso egemone, che ambisce all’unicità, e le svariate possibilità di senso esistenti che denunciano la natura convenzionale ed arbitraria del senso stesso. L’autore si propone di [...]]]> di Gioacchino Toni

eterotopie-nivolo-antropologia-clownEnrico Nivolo, Antropologia dei clown. Percorsi rizomatici tra liminalità e anti-struttura, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 254 pagine, € 24,00

Il saggio di Enrico Nivolo riprende gli studi di Francesco Remotti, in particolare Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi (2013), e le analisi sviluppate da Gilles Deleuze e Félix Guattari a proposito dei concetti di linea di fuga e di deterritorializzazione. Ad interessare Nivolo è il rapporto intercorrente tra il sistema di senso egemone, che ambisce all’unicità, e le svariate possibilità di senso esistenti che denunciano la natura convenzionale ed arbitraria del senso stesso. L’autore si propone di individuare nella figura del clown la possibilità di evadere dal “senso unico” su cui è costruita l’attuale società capitalista evitando però di scivolare nel “non senso”. Se diamo per assodato che il riconoscimento dell’arbitrarietà del senso è il primo passo da compiere, resta da capire come e da dove possono giungere all’individuo stimoli utili all’abbandono del senso unico. Il saggio indica nella clown-poiesi una tra le possibili vie d’uscita, linee di fuga, dall’antropo-poiesi capitalista neoliberale.

Nella prima parte del volume – Movimento I – l’autore si propone di analizzare l’antropo-poiesi capitalista neoliberale, i riti di trasformazione ed il concetto di liminalità, soffermandosi anche sulle modalità con cui il capitalismo ha appiattito il panorama culturale italiano ricorrendo, a tal proposito, a riflessioni di Antonio Gramsci, Ignazio Silone e Pier Paolo Pasolini.
Entrando nel merito dell’antropo-poiesi, essa può essere indicata come costruzione degli esseri umani e deriva dall’idea che all’uomo non basti, per sopravvivere, il solo bagaglio biologico ma che a questo debba aggiungersene uno culturale. In altre parole, l’uomo, dopo una prima genesi biologica, si completerebbe attraverso una seconda genesi culturale. Studiosi come Johann Gottfried Herder, Clifford Geertz e Francesco Remotti condividono l’idea che «la cultura interviene per rendere possibile l’umanità stessa, in maniera tanto incisiva e determinante che spesso i modelli culturali appresi appaiono naturali. Invero sin dalla nascita un soggetto è assediato da informazioni culturali che passano attraverso il suo rapporto con coloro che si prendono cura di lui e che vanno a sedimentarsi nel suo corpo, plasmandolo. In queste relazioni vengono comunicate numerose istruzioni riguardanti il modo culturalmente più appropriato di stare al mondo, di gestire le relazioni sociali, di utilizzare il linguaggio, di camminare e di comportarsi» (p. 22).

Secondo Herder questa seconda nascita può essere concepita in due modi: o si intende la genesi come un processo che dura per l’intera vita dell’essere umano, o la si pensa come un passaggio non graduale (rituale d’iniziazione) che segna la nascita culturale. In entrambi i casi si possono rintracciare differenze di intensità sia nella percezione del senso delle possibilità (dal credere esista un solo modello di umanità alla consapevolezza che la propria forma di umanità è una tra le possibili) che nella consapevolezza antropo-poietica (dall’esserne totalmente inconsapevoli alla piena coscienza del processo e dell’arbitrarietà del modello proposto). «L’antropo-poiesi della società occidentale contemporanea possiede un minimo grado sia di consapevolezza, sia di senso delle possibilità ed è basata sul modello di umanità seriale inventato dalla civiltà capitalista neoliberale, erede di quel pensiero che si definisce moderno» (p. 23).

Secondo l’antropologo Remotti la modernità apre la strada ad un percorso che, proponendosi di raggiungere “uno stato di verità universale”, si impone sulle altre culture rivendicandosi come qualcosa di nuovo e diverso rispetto al passato. La modernità si impone dunque come rottura col passato, come nuovo inizio basato su principi del tutto nuovi. In questo senso, secondo Kristian Kumar (Le nuove teorie del mondo contemporaneo), «la conformazione caratteristica della modernità e l’acquisizione di consapevolezza del pensiero moderno sono rintracciabili nella rivoluzione francese, momento storico in cui fu annunciato ufficialmente “lo scopo dell’epoca moderna: la realizzazione della libertà sotto la guida della ragione” […] Il passo successivo, ovvero l’acquisizione di una sostanza materiale da parte della modernità, fu la rivoluzione industriale. Da questo momento storico in poi il pensiero moderno sposò le teorie economiche liberali: la contrapposizione tradizionale/moderno, divenne la contrapposizione tra “civiltà pre-industriale e civiltà industriale” e l’idea di progresso della scienza mutò in quella di progresso industriale e tecnologico» (pp. 24-25). Così facendo, sottolinea Marc Augé (La guerra dei sogni) [su Carmilla], il discorso della modernità ha finito con l’inserirsi nell’immaginario collettivo cancellando il passato ed imponendosi come “nuova civiltà globale”.

Studiosi come Fredric Jameson ritengono si possa parlare di continuità tra il pensiero moderno, caratterizzato dall’accoppiata capitalismo-liberalismo, ed il pensiero post-moderno, caratterizzato, secondo lo studioso, dalla nuova coppia capitalismo cognitivo-neoliberalismo. Jameson sostiene che «il post-modernismo è “la dominante culturale della logica del tardo capitalismo” in cui coesistono caratteristiche eterogenee, ma subordinate ad una società del simulacro che trasforma il passato in immagini televisive, avvalorando la logica tardo capitalista» (p. 26). Tale concezione del passato preclude l’idea stessa di futuro. «Jameson qualifica il postmodernismo come un fenomeno storico in cui si è creato uno “spazio postmoderno” che corrisponde alla terza fase di espansione del capitalismo nel mondo e in cui sovrastruttura e struttura, ovvero cultura ed economia, si sovrappongono affermando la stessa cosa» (p. 26). “Il mercato è nella natura dell’uomo” diviene un mantra ripetuto all’unisono. «Assunta come premessa l’esistenza di una natura umana universale in epoca moderna, il passo di descriverla come il mercato per i sostenitori del capitalismo è stato rapido e in discesa» (p. 27).

Il capitalismo, scaricando il passato, dunque negando il futuro, è riuscito a presentarsi come fatto compiuto, come un’utopia che fa del presente il suo baluardo, inoltre è riuscito ad identificare il marxismo come un’utopia irrealizzabile. Tali manovre ideologiche, secondo Jacques Derrida (Spettri di Marx) si sono dispiegate ricorrendo a tre dispositivi: la “cultura politica”, la “cultura massmediatica” e la “cultura scientifica o accademica”. Al fine di spiegare il funzionamento della prima “forza antropo-poietica”, la politica, Nivolo ricorre alle teorie illustrate da Michel Foucault nel suo Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), ove viene analizzato il passaggio dal liberalismo nel neoliberalismo nel corso del Ventesimo secolo.

La seconda “forza antropo-poietica”, i mass media, rappresenta oggi la principale fonte di quel completamento culturale che si aggiunge al portato biologico dell’uomo e tale fonte, secondo Kumar, ha soprattutto mirato a consolidare e rafforzare il modello politico-economico esistente. Studiosi come Frank Webster e Kevin Robins indicano nella società dell’informazione una deriva del taylorismo: «una filosofia sociale che, nata all’interno delle fabbriche, si è successivamente diffusa per l’intero globo […] Gli autori di Tecnocoltura. Dalla società dell’informazione alla vita virtuale mettono in luce che “l’obiettivo [del taylorismo] era la direzione scientifica del bisogno, del desiderio e della fantasia, e la loro ricostruzione in forma di merci” e che codesto obiettivo è stato perseguito in buona parte mediante i mezzi di comunicazione di massa attraverso cui il taylorismo è riuscito a produrre dei soggetti-consumatori, nello stesso modo in cui nelle fabbriche si producevano auto o abiti […] Questa catena di montaggio mediatica è stata programmata e messa in pratica da “ingegneri del consumo” – pubblicitari, agenzie multinazionali, professionisti delle ricerche di mercato e dei sondaggi di opinione, intermediari delle informazioni, giornalisti e così via. Questi ingegneri hanno regolato le operazioni commerciali e i comportamenti dei consumatori grazie ad uno “sfruttamento ‘razionale’ e ‘scientifico’ delle informazioni” da cui è sorta la politica dell’informazione che si è radicata a partire dagli anni Ottanta su scala globale» (p. 37).

clown2La “terza forza antropo-poietica”, come detto, è data dal sistema di istruzione statale e per affrontare il ruolo di tale agenzia formativa Nivolo ricorre ad Ivan Illich (Descolarizzare la società), autore che evidenzia come, a suo avviso, la scolarizzazione obbligatoria abbia legato gli ambienti più poveri della popolazione al potere statale, tanto che l’accesso al mondo del lavoro e la collocazione al suo interno, è regolata attraverso il livello di scolarizzazione conseguito. Illich sostiene che la scuola è divenuta la religione universale di un proletariato modernizzato e che dispensa promesse di salvezza ai poveri dell’era tecnologica. Dunque, attraverso la scolarizzazione «viene prodotta in serie una fanciullezza ben addestrata a fare tutto ciò che è in suo potere per aumentare le proprie competenze al fine di guadagnare un reddito maggiore, il quale […] permetterà di soddisfare i desideri indotti dal sistema, che non essendo autentici lasceranno un perenne senso di insoddisfazione. La religione-scuola, nella prospettiva di Illich, è depositaria del “mito della società” ed è la sede del rituale che riproduce e maschera le discordanze presenti tra “i principi sociali e la realtà sociale del mondo contemporaneo”. La scuola, diventata la nuova chiesa universale d’occidente, oggi possiede un suo rito di iniziazione che consiste nell’introdurre il neofita alla corsa sacra del consumo progressivo: “è un rituale di propiziazione i cui sacerdoti accademici fanno da mediatori tra i fedeli e gli dèi del privilegio e del potere”. In questo rito, attraverso il sacrificio dei disertori, considerati i capri espiatori del sottosviluppo, vengono espiate le colpe del capitalismo e i partecipanti vengono modellati sulla rigida organizzazione del lavoro con l’obiettivo di “celebrare il mito di un paradiso terrestre di consumi illimitati, unica speranza per i dannati e i diseredati” […] La scuola è diventata un rito antropo-poietico istituzionalizzato e irrigidito che, a differenza di quanto avviene nei rituali antropo-poietici presenti in altre società, nel foggiare gli esseri umani non li invita a riflettere sul fatto che ciò che stanno realizzando non è nient’altro che uno tra i tanti modelli di umanità possibili» (pp. 43-46).

Una volta passate in rassegna le modalità di funzionamento delle principali “forze antropo-poietiche” che concorrono a plasmare i soggetti nella società occidentale contemporanea, Nivolo si sofferma su alcuni degli effetti provocati da tali forze. A tal proposito viene ripreso il pensiero di Marc Augé che sottolinea come nella società dei consumi i soggetti si trovino a dover scegliere tra un consumo passivo e conformista o un rifiuto radicale anche se, in quest’ultimo caso, secondo l’antropologo francese, manca una riflessione sui fini. «I mezzi di comunicazione di massa, sotto il falso obiettivo di informare il pubblico, in realtà lo inducono “a consumare passivamente le notizie del mondo”, diminuendone quindi la capacità critica e contribuendo a uniformare informazione, orientamenti e gusti delle persone» (p. 47)

Il saggio si sofferma anche sul disciplinamento del corpo ottentuto nella società capitalista da quel processo che Deleuze e Gauttarì definiscono di “viseità”, di produzione di viso. Per opporsi a ciò, sostiene Nivolo, non si devono riproporre le semiotiche primitive ma occorre «mettere in atto una prassi deterritorializzante e farsi un corpo senza organi, attivando una pratica anti-produttiva» (pp. 49-50). Vendo invece al rito, si ricorda come questo abbia come funzioni principali quelle di attribuire un senso alla realtà e di provocare una riflessione sulla comunità d’appartenenza. Riprendendo gli studi di Francesco Remotti e di Adam Seligman, Nivolo sostiene che nel rituale gli individui possono far propri i criteri ed i principi che definiscono un certo tipo di umanità grazie alla costruzione di “un mondo soggiuntivo” che consente agli individui di pensare alla realtà non nei termini in cui è ma in quelli in cui “potrebbe essere”. Dunque, il rito può essere definito «una dimensione spazio-temporale nella quale i partecipanti vengono indotti a soppesare criticamente il modello di umanità propostogli dal potere egemone e ad abbandonare, per tutta la sua durata, le strutture di pensiero fino a quel momento adottate. La critica viene indirizzata spesso al carattere fittizio di tali modelli affinché i novizi comprendano la natura arbitraria dei segni di cui la civiltà che stanno assimilando è composta» (p.51).

L’antropologo inglese Victor W. Turner ritiene che proprio questo spazio-tempo in cui il soggetto può investigare sulle alternative al sistema dominante, può portare all’elaborazione di una nuova configurazione sociale. Secondo Remotti «in alcune culture sono presenti ampie finestre di meditazione sull’arbitrarietà degli elementi culturali che permettono di compiere scelte, decisioni e tagli con maggior consapevolezza e, talvolta, di mettere in discussione codeste scelte e di aderirvi con maggior distacco. Una delle dimensioni principali del rito, accanto a quella di sancire pubblicamente le transizioni sociali, è quella di plasmare la soggettività degli esseri: nella maggior parte dei riti di iniziazione i soggetti vengono spinti a deporre il loro habitus e a vagliare criticamente la loro società. Questi atti meditativi sono indirizzati ad incentivare la formazione di uno spirito critico relativo alla società e all’ambiente e permettono ai soggetti di prendere coscienza della finzione che sta dietro ogni modello di umanità» (p. 52).

Antropologia dei clown si concentra poi su quella che Turner definisce la “fase liminale” del rito. Secondo l’antropologo inglese è in questa fase che i novizi hanno la maggiore possibilità di manipolare i fattori dell’esistenza: «lo spazio-tempo liminale può essere inteso come una dimensione in cui si potrebbe verificare la nascita di nuovi modelli culturali; esso rappresenta il “vivaio della creatività” di ogni civiltà poiché la sua attività principale consiste nella «scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o “ludica” dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile» (pp. 52-53).
Turner (Dal rito al teatro) sostiene che prima della rivoluzione industriale, in diverse culture, il termine “lavoro” veniva utilizzato anche per definire l’attività rituale pur mantenendo una certa distinzione tra lavoro sacro e lavoro profano. In entrambi i casi era presente una componente ludica poi negata dalla separazione tra tempo di lavoro e tempo ludico prodotta dall’avvento dell’industrializzazione. «Questa divisione è stata determinata dalla razionalizzazione del lavoro messa in atto dal capitalismo che lo ha distinto dal resto delle azioni umane, successivamente relegate nella sfera del tempo libero. […] La mercificazione dello svago ha causato delle serie ripercussioni sugli spazi ludici e rituali: quando i mondi soggiuntivi, un tempo creati direttamente dai lavoratori nei momenti di svago, iniziano ad essere ideati dal sistema stesso in una versione leziosa e posticcia – di cui Disneyland è uno tra i tanti esempi – l’adesione al sistema egemone sarà totale e scomparirà qualsiasi chance di cambiamento» (p. 61) A questo punto Nivolo, riprendendo in particolare le teorie di Donald Woods Winnicot (Gioco e realtà), propone di ampliare il nesso tra rito e gioco che si ha nell’ingresso in un mondo soggiuntivo, al fine di introdurre la figura del pagliaccio indagata in questo suo saggio.

Nella seconda parte del testo – Movimento II – l’autore ricostruisce dapprima la figura del clown nelle sue variabili diacroniche e diatopiche, poi colloca detta figura all’interno dello spazio liminale descritto nella prima parte del volume ed, infine, presenta un’ipotesi di clown-poiesi. La ricostruzione della storia del clown è in buona parte basata sugli studi dello storico Tristan Rémy (I clown. Storia, vita e arte dei più grandi artisti della risata) ampliando però tale analisi ai progenitori dei clown contemporanei non contemplati dallo studioso francese. Prima di ripercorrerla, seppur sommariamente, occorre segnalare le due tipologie di clown prese in considerazione: il “clown bianco” ed il “clown rosso”, (“l’augusto”). Se il clown bianco «è una figura che si lascia maggiormente agire dal sistema culturale egemone, incarnando le caratteristiche della struttura sociale: è serio, arrogante, repressivo ed autoritario, tanto da perdere, in certe circostanze, i tratti della comicità che lo caratterizzano […] il clown rosso impersona il contrario di tutte le caratteristiche del clown bianco» (p. 96). Paul Bouissac (Circo e cultura) sostiene che il clown bianco ha maniere che indicano l’agiatezza sociale e un linguaggio che evidenzia il potere ed il sapere, il clown rosso, l’augusto, mostra invece la sua mancanza di maniere e la sua incompetenza linguista.

Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento nei circhi iniziano ad apparire i primi clown che propongono al pubblico numeri acrobatici eseguiti in maniera maldestra. A partire da metà Ottocento, dapprima in Inghilterra, poi in Francia, compaiono i clown bianchi che miscelano le caratteristiche del pierrot francese, del “clown scespiriano” inglese, del “grottesco” tedesco ed alcuni elementi della commedia dell’arte italiana. Verso la fine dell’Ottocento la comicità del clown bianco inizia ad entrare in crisi; «la pantomima acrobatica prese il posto delle performance clownesche poiché più consona alle intransigenze politiche: essa era infatti unicamente appoggiata ai “funambolismi del corpo” ed era “caratterizzata dal triplo sigillo della forza, dell’agilità e dell’esattezza” a cui si univano la fantasia, l’artificio e l’inganno […] Dopo questo intervallo di transizione comico-acrobatico in cui il clown bianco perse parte delle sue doti umoristiche, alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, fece la sua prima apparizione la figura dell’augusto, detto anche clown rosso» (pp. 83-84). Ben presto i clown bianchi iniziarono a dotarsi di un augusto che facesse loro da spalla ma, col tempo, la figura dell’augusto, grazie anche alla sua maggiore versatilità, si emancipa dal clown bianco ed intraprende una carriera solista fino ad abbandonare il circo per dirigersi verso il teatro ed il cinema. «La comicità del clown bianco era una sorta di parodia della nobiltà settecentesca, che, con il lento scomparire di quest’ultima, si affievolì fino a lasciare il posto a dispotismo e arroganza borghesi. Il clown rosso, invece, nacque come parodia della nuova borghesia nascente e si trovò a fare i conti con il potere repressivo del clown bianco da cui riuscì a liberarsi creandosi solide vie di fuga dal tendone» (p. 100).

«Charlie Chaplin, Buster Keaton, W.C Fields, Roscoe Arbuckle, i fratelli Marx, Stan Laurel e Oliver Hardy furono tra i primi a intercettare questo nuovo tipo di clown al circo e ad esportarlo con i dovuti arrangiamenti nel mondo nascente del cinema» (p. 92). E proprio il cinema, oltre a sganciare la comicità dal “fallimento acrobatico”, secondo lo studioso Matthias Christen, dà alla luce anche la figura del “dark clown”, personaggio che si è sviluppato nel genere horror e che fa leva su paure comuni per spaventare il pubblico. «La ricerca di una tale reazione emotiva ha cancellato dai clown le loro caratteristiche picaresche, lasciando emergere tutta la violenza del secolo che li ha portati alla luce» (p. 93).

Tornando all’augusto, Nivolo sottolinea come questo essere marginalizzato all’interno del circo, possa «essere paragonato ad uno schizofrenico, egli rappresenta quella parte del limite esterno del capitalismo che riesce a mediare il fuori e il suo limite interno in costante spostamento. Il clown, occupando una posizione liminale, vive in stretto contatto con il disordine extraculturale e ciò gli consente, indossato il naso rosso, di far riemergere la schizofrenia del fuori laddove viene rinchiusa nei manicomi, il caos laddove regna l’ordine culturale. In questo modo l’augusto svolge una funzione terapeutica nei confronti dell’audience della società capitalista, simile a quella di clown rituali, tricksters, fools e sciamani» (p. 105).

clown1Il divenire-clown presuppone innanzitutto l’infrazione della gabbia mentale che si è sedimentata nella mente dell’individuo, così da rendere possibile la riconquista dei movimenti del corpo e la loro decostruzione al fine di dar vita ad una nuova fisionomia da mettere in relazione col mondo esterno. Nel saggio si segnala come lo stesso clown Leo Bassi abbia sottolineato l’importanza del corpo e come, in molti paesi europei, esso sia identificato come simbolo di resistenza al potere industriale. «Nel circo gli artisti potevano e possono usare il loro fisico a proprio piacimento, diversamente da quanto accade nelle fabbriche, dove il corpo degli operai è limitato ad una serie di movimenti ripetitivi e funzionali alla produzione. La libertà di utilizzo del corpo da parte dei clown in contrapposizione alla taylorizzazione di quest’ultimo messa in atto dalla società industriale appare con estrema chiarezza nel film Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin» (p. 143). Dunque, sostiene Nivolo, «la clown-poiesi risulta potenzialmente in grado di far approdare al corpo senza organi: a ben vedere trovare il proprio pagliaccio equivale, almeno in parte, a liberare il desiderio dalla macchina sociale […] Il clown […] è in grado di spogliarsi dell’armatura comportamentale, della pelle dell’abitudine, dubitando delle proprie regole d’azione più radicate tanto da riappropriarsi del corpo, contrastando in questa maniera i dispositivi del biopotere […] Il corpo del pagliaccio è predisposto al rovesciamento di ogni scontata logica di reazione agli eventi ed esprime il primo segno dell’anti-strutturalità del suo discorso» (pp. 143-144). Le azioni del pagliaccio possono ingenerare nel pubblico una semiosi in grado di attribuire nuovi significati alla realtà.

Nella terza parte del libro – Movimento III -, dopo una riflessione di carattere metodologico relativa al procedimento di ricerca utilizzato per la realizzazione della cartografia, lo studioso porta il lettore alla Scuola Teatro Dimitri di Verscio in Ticino e mette a confronto le diverse forme di clown-poiesi esaminate nel libro.
Il saggio di Nivolo si conclude – Finale – con alcune riflessioni sull’antropologia del clown volte a fornire un’interpretazione della figura del pagliaccio in grado di sviluppare una lettura critica dell’antropologia stessa. Lungo l’intero libro l’autore ha mostrato come anche all’interno del percorso antropo-poietico capitalista neoliberale, con la sua pretesa di unicità, siano presenti modalità di “costruzione degli esseri umani” capaci di costituire linee di fuga dal sistema egemonico.
Nei suoi studi l’antropologo Remotti ha mostrato come esistano culture contraddistinte dal dubbio circa le modalità con cui si debba plasmare l’essere umano, dunque, a partire da ciò, Nivolo ha inteso individuare alcuni spiragli da cui fare “penetrare la luce del dubbio” anche nell’attuale società contemporanea occidentale così da individuare una linea di fuga dalla gabbia capitalista. A tal proposito il saggio ha evidenziato come «mediante un passaggio per un mondo anti-strutturale e soggiuntivo, caratteristico della fase liminale di molti rituali di trasformazione, si può assimilare il senso delle possibilità e stimolare una serie di meditazioni in grado di scuotere le certezze sistemiche» (p. 214). Nonostante il capitalismo tenda ad inglobare tali spazi sovversivi proponendosi come realizzazione di un’utopia ed imponendo agli individui di non immaginare altro mondo all’infuori di questo, «rimangono in vita alcune importanti brecce sulla liminalità, alternative ai riti, come il gioco e l’arte» (p. 214). Tra le varie forme possibili Nivolo ha scelto la figura del clown al fine di mostrare come questa abbia “il senso della possibilità” e cerchi di restituirlo al pubblico con una messa in scena di “un mondo alla rovescia” «in cui vigono l’arbitrarietà delle norme culturali e una “logica irrazionale” molto simile a quella surrealistica» p. 214).

È a partire da tali premesse che lo studioso ha poi indagato il processo del divenire clown mostrando come questo si incentri «sul dubbio che scaturisce dal fallimento: si deve fallire qualcosa per far ridere» (p. 214). Il fiasco dei pagliacci è potenzialmente in grado di stimolare nel pubblico una riflessione sulla vulnerabilità. La clown-poiesi appare tanto incentivo al fallimento quanto prassi di riappropriazione del corpo. «Il pagliaccio, in questa prospettiva, può essere descritto come colui che, passando per “la vita marginalizzata dell’escluso”, persegue una linea di fuga che lo porta a raggiungere IL piano di consistenza, il fuori di ogni pensiero, regno delle possibilità impossibili. Lì, sul piano di immanenza del desiderio, sul corpo senza organi, il clown mette in atto quella che Deleuze, riprendendo il pensiero di Michel Foucault, definisce “la lotta per una soggettività moderna”, rivendicando il diritto alla differenza, alla metamorfosi e alla variazione […] In questo modo il clown resiste “alle due forme attuali di assoggettamento, l’una che consiste nell’individuarci in base alle esigenze del potere, l’altra che consiste nel fissare ogni individuo a una identità saputa e conosciuta, determinata una volta per tutte” […] Esiste dunque un divenire pagliaccio che consiste nel tracciare delle linee di fuga tali da raggiungere il fuori del pensiero, luogo da cui poter attingere nuove forme, nuovi colori, nuovi significati al fine di ricreare il dentro. Le linee di fuga possono essere intese come “il bordo estremo di un dispositivo”, come linee che segnano “il passaggio da un dispositivo all’altro, preparando così le linee di frattura” […] ovvero come linee che transitano per uno spazio liminale […] In questa prospettiva la clown-poiesi può essere vista come una deterritorializzazione che intraprende una linea di fuga dal territorio del pensiero capitalista neoliberale» (pp. 217-218)

Sia gli esiti dell’uscita dai costumi di cui parla Remotti (“uscire dal solco”, liberarsi dalla parete delle significazioni dominanti e dal buco nero dell’Io) che quelli deleuziani derivati dalla creazione di linee di fuga, risultano potenzialmente rivoluzionari nei confronti dell’ordine costituito. Queste due prospettive, secondo Nivolo, hanno in comune la questione del “nomadismo” e per approfondire il concetto di nomadismo nel clown, il saggio riprende gli studi di Paul Bouissac (Semiotics at the Circus) che ricordano come la nascita del circo abbia a che fare con esigenze di sopravvivenza delle minoranze etniche escluse dai commerci urbani e, nonostante il processo di “istituzionalizzazione” a cui è sottoposto il circo, esistono ancora famiglie circensi nomadi che, grazie a ciò, sono in grado di accumulare un sapere antropologico sulle diverse culture con cui vengono di volta in volta a contatto. La questione del nomadismo consente così di mettere a confronto le due principali prospettive teoretiche utilizzate in questo saggio per analizzare la figura del clown al fine di proporre un’antropologia rizomatica. Attraverso Remotti il clown è stato descritto «come colui che esce dai propri confini culturali ed attinge al senso delle possibilità lì presente proponendosi, di conseguenza, come mediatore tra ordine e disordine, tra dentro e fuori» ed attraverso Deleuze e Guattari, il pagliaccio è stato definito come «un soggetto in grado di crearsi una linea di fuga che gli consente di mantenersi in un costante stato di deterritorializzazione» (p. 222). Si sono così avvicinate «l’antropologia trasversale elaborata da Remotti con i suoi concetti reticolari e le somiglianze di famiglia e la schizoanalisi ideata da Deleuze e Guattari, caratterizzata dal concetto di rizoma» (p. 222). È attraverso questo confronto che Nivolo giunge a proporre la sua idea di antropologia rizomatica.


Linee di fuga: serie completa

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Nella voglia più totale nel discorso trasparente

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Nella voglia più totale nel discorso trasparente

ddv7401826 – Il labirintico e irritante Inception di Christopher Nolan, USA/Gran Bretagna 2010
Esce il film e tanta critica pavida e prezzolata ne esalta le qualità tecniche e il gioco di scatole cinesi. Amici fidati, però, son tutti bestemmie e stridore di denti e mi chiedono di fare giustizia di siffatta creazione cinematografica. Allora vado alla guerra, mi metto l’elmetto e scendo in trincea per una visione che quanto a trituramento di palle m’è sembrato seconda a poche. Attenzione: non una cagata tout court, ci mancherebbe, ma questo Inception m’è parso un assembramento laocoontico di suggestioni senza un’anima, un calore, un’emozione. È un film freddo, dal coinvolgimento nullo, affascinante come una tavola logaritmica e divertente tale e quale. In due parole è un film rompicapo e rompicoglioni, dove sei trascinato nel sogno del sogno nel sogno del protagonista e siccome quello che vedi potrebbe essere qualunque cosa, compreso il subcosciente di DiCaprio stesso (intendo l’attore, tanto vale tutto), all’ennesima discesa nel regno di Morfeo ti scappa un rotondo e sveglissimo vaffanculo. Certo: grandi effetti speciali e al tecnologico Nolan verrebbe da dirgli anche “bravo”, sennonché alla terza invenzione realizzata col computer chi se ne strabatte il cazzo, eh. Avrai una bella RAM ma sto vedendo un film, mica un numero di bravura del tuo processore, eddài. Il thriller onirico (di cui mi rifiuto categoricamente di ricostruire la trama, arrangiatevi) è impreziosito dallo struggimento d’amore del protagonista, ma siccome han tutti facce da fessi il dramma non mi tocca manco per niente, zero empatia, anzi, quasi penso che gli stia bene a Leo sempre a frignare col suo faccione gonfio, tanto l’Oscar te lo scordi. E poi ‘sto crucipuzzle dura quasi 2 ore e mezza, una cosa che dovrebbe essere resa illegale. Carina Marion Cotillard, il resto non m’interessa. Ed è questa è la cosa grave: questo cinema che crea – giocoforza, visti gli incassi – immaginario, è sterile, ci abitua all’indifferenza se non al mero apprezzamento del dato tecnico, a quella soddisfazione un po’ ottusa che prelude al non-pensiero. Non avendone uno neanche io non so dire molto di più. Amen. (Dvd; 17/2/11)

DDV7402825 – Leccato e convincente: Valentino: The Last Emperor di Matt Tyrnauer, USA 2008
Valentino: un ometto dall’incarnato bronzeo e con una testa che pare l’abbiano pucciato in una pozza di pece. Tutto azzimato, la boccuccia a culo di gallina e l’espressione corrugata di chi è costretto a vivere in un mondo che non è mai all’altezza dei suoi ideali di eleganza. Ecco, questa è l’idea che ho di uno dei più stimati e famosi haute couturier di sempre. Idea che il film conferma in parte, regalandoci però diverse sorprese in un ritratto brioso e intelligente. Sì, c’è tutto quello che ti aspetti e che di solito passa per luogo comune: modelle stragnocche esilissime trattate come cerbiatte decerebrate, jet set con gentaglia perennemente abbronzata vestita da pagliaccio e accompagnata a fighe di plastiche, tutti fatti e rifatti, specchio di un’ineleganza morale che è il nulla infiocchettato e tirato a lucido. Ma il ritratto riesce comunque a essere affettuoso, intrigante, pure indiscreto, e qui risiede il suo vero valore documentario. La troupe è impicciona al limite del fastidioso e chi è spiato talvolta se ne rende conto e ce lo ricorda e sembra miracoloso che un ritratto così dall’interno del mondo della moda sia arrivato sullo schermo. Lode al regista (che conosce benissimo questo ambiente, è un inviato speciale di Vanity Fair) che non si è mai fermato e ha sguinzagliato i suoi operatori anche quando educazione e opportunità lo avrebbero sconsigliato. Valentino ha le prevedibili – e anche giustificate – scheccate isteriche, i collaboratori sembrano tutti dei gran cialtroni, impegnati a cinguettare i complimenti al capo, ma si distinguono lo staff di artigiane, autentiche operaie della sartoria, sempre a rammendare l’orlo di una crisi di nervi, e soprattutto il grandissimo Giancarlo Giammetti, già compagno di Valentino e – da quarant’anni – mente imprenditoriale del gruppo. Fasti, ville faraoniche, sci a Gstaad, cagnolini carlini insopportabili, un lusso incomprensibile che diventa contraddittoria opera d’arte proprio per la sua unicità folle, irraggiungibile dai comuni mortali. Gran bel film, divertente e curioso, se non avete preclusioni ideologiche. (Dvd; 12/2/11)

DDV7403827/828 – Cineforum Cacace: Il monello di Charlie Chaplin, USA 1921 e Le cronache di Narnia: il leone, la strega e l’armadio di Andrew Adamson, USA 2005
Il dilemma del sabato pomeriggio: Elena dorme – finalmente – e bisogna occupare Sofia che invece è carica come una sveglia. Però siccome dopo pranzo abbiamo tutti l’abbiocco e finché la belvetta non si risveglia è meglio recuperare energie… allora cineforum Cacace, alé! Scelgo io il primo film (son papà mica per niente, eh) e Il monello è sempre felicemente patetico, liberatorio e tenerissimo. Ha la sua bella età, ma mi piace senza condizioni e alla fine Sofia si è molto commossa, quasi come me. A margine le vicende reali di Jackie Coogan che ho ovviamente raccontato alla piccina per metterla in guardia: il bambino clamoroso diventerà miliardario, la mamma fedifraga gli fotterà tutto, andranno per vie legali e lui se la caverà con l’aiuto di Chaplin, tra gli altri, per trovare infine pace da adulto facendo lo zio Fester nella famiglia Addams. Sì, è proprio lui, quel simil-Galliani in black and white che schioccando le dita ha resistito nei palinsesti tivù fino DDV7404agli anni Novanta. E vabbeh. Poi il secondo film lo sceglie la primogenita e mi tocca Le cronache di Narnia, pellicola che mi ha straziato l’apparato genitale, con l’apice dell’apparizione della mia nemesi, Tilda Swinton, qui conciata da nefasta principessa del ghiaccio, diafana e bruttissima e sicuramente voce in attivo della produzione non necessitando imbellettamento alcuno per risultare così mostruosa (per la cronaca, con questo tranello si è vinto pure l’Oscar per il miglior trucco). Ad ogni modo siamo durante la Seconda Guerra Mondiale (si scriverà così, in maiuscolo? Cos’ha fatto per meritarselo?) e quattro fratelli scoprono un passaggio verso un mondo parallelo, la cui porta è dentro un armadio. Per cui fanno avanti e indietro tra qui e là e la cosa piace molto a Sofia. A me no – anche perché la visione di un armadio significa: “Metti in ordine il caos stocastico creato dalle tue figlie” – e infatti ho visto il film sonnecchiando un po’ e non so di chi sia la colpa, se della mia stanchezza o della fiacchezza di ‘ste Cronache pallose. (Dvd; 19/2/11)

DDV7405829 – La classe non è acqua: Il circo di Charlie Chaplin, USA 1928
Esattamente come sabato scorso, doppio film e stesso copione: non potendo portare Sofia al circo, porto Il circo a casa. Film meno conosciuto di Chaplin eppure splendido e di una sensibilità rara. Si ride (parecchio), si ammirano l’abilità mimica clamorosa, le gag oliate alla perfezione e il consueto patetismo di fondo che lascia un sentimento struggente. Il Vagabondo rinuncia all’amore, per amore e con amore, una generosità che è stato complicato spiegare a Sofia, comunque conquistata. Ricordavo affascinante e prepotentemente erotica Merna, l’acrobata di cui s’innamora Chaplin e sulla cui inquadratura si apre il film. Avevo ragione: lei oscilla verso la cinepresa, a gambe larghe infilate negli anelli del trapezio, e la sua bellezza anni Trenta, in camicia da uomo, con quel taglio di capelli e quello sguardo, continua a essere un mio feticcio erotico, spia precisa di certe turbe sessuali ampiamente psicanalizzabili. Ma non è questa la sede. (Dvd; 26/2/11)

DDV7406830 – Mah: Le cronache di Narnia: il principe Caspian di Andrew Adamson, USA/Gran Bretagna 2008
Nel primo pomeriggio pretendo il dovere, un Chaplin, e verso sera concedo il piacere di un blockbuster recente. Che trovo più divertente del primo episodio: c’è un’epica battaglia finale, un duello con Sergio Castellitto che si piglia a pattoni con il maggior dei quattro fratelli, e c’è pure Pierfrancesco Favino, nero e fosco, ma meno stronzo di Castellitto (peraltro bravissimo in un ruolo decisamente cartoonesco). Tanta animazione digitale – molto riconoscibile – scene grandiose ma non così grandiose… insomma, è come se mancasse il manico. Voglio dire: Peter Jackson è un geniaccio e nel Signore degli anelli è tutto al top della creatività e della realizzazione, qui manca sempre qualcosa. Poi passa, okay, e per Sofia funziona, ma mi sembra che le lasci poco, a livello d’immaginario. Fa due salti, insomma, ma finito il film, stop. A me – confesso se non si fosse ancora capito – ‘sta saga non piace. (Dvd; 26/2/11)

DDV7407831 – Il volgarmente allusivo Quattro bassotti per un danese di Norman Tokar, USA 1966
È un classico della mia infanzia che – durante l’infanzia, appunto – ho sempre saggiamente evitato. Ma nella vita arriva sempre il momento giusto e me lo vedo a 41 anni suonati. Commedia familiare con cane danese combinaguai perché cresciuto assieme a dei bassotti in realtà più pestiferi di lui: grandi baraonde, case sfasciate, catastrofismo consumistico esibito con compiacimento. Diverte per modo di dire, ma ovviamente le mie figlie apprezzano (ma neanche tantissimo: visto due volte e poi basta, per fortuna), pregustando di ripetere le imprese canine in casa mia. È un ritratto dell’american way of life anni Sessanta, con casa dal doppio garage, giardinetto per barbecue, letti separati, arredamento tra prairie style e Movimento Moderno. Il poliziotto mantiene la quiete, la città è pulita e l’unico problema lo danno, appunto, dei cani. Visione dolciastra e reazionarissima della società: ecco perché gli innocenti hippie facevano tanto paura a gente così. Messo da parte che il titolo è già un’allusione pesante a una scatenata gang bang cinofila, il grosso danese è ovviamente metafora di un pisello enorme e la coppia umana protagonista litiga e non tromba proprio per la fallofobia della moglie. Quando questa accetterà di farsi devastare la vulva-casa dai cinque quadrupedi come da titolo, la pace familiare sarà ricomposta e al posto di avere figli simulacro (come evidenziato dalla prima scena, dove regna l’equivoco che la donna sia incinta) ne faranno uno vero. Però questo me lo sto raccontando io perché il film rimane ‘na gran rottura de cazzo. (Dvd; 5/3/11)

ddv7408832 – Approvo L’armata delle tenebre di Sam Raimi, USA 1992 e combatto i Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti, Italia 2006
Visto almeno 18 anni fa al cinema Odeon di Genova, assieme a Barbara in una sala pressoché deserta (ricordo solo un’altra coppia di disadattati come noi): c’eravamo divertiti molto e rivedendo stasera il film con la cugina Ale è facile capire il perché. L’armata delle tenebre è uno spasso sfrenato, infantile, una moltitudine di gag senza tregua. Grana grossa e grande ironia, talvolta un po’ di noia (la seconda parte, dopo l’inizio folgorante e prima del finale epico), ma tutto sommato rimane la piacevole sensazione di vedere un film che il regista si è divertito a fare, pensando ogni volta come stupire lo spettatore con una vaccata più esagerata di quella precedente. Non riesco a fare paragoni con La casa e La casa II che non vedo da troppo tempo, ma qui il gore è diventato commedia slapstick ed è tutto, ma tutto tutto proprio, buttato in caciara comica. Bruce Campbell ha una faccia straordinaria, squadrata e ottusa; la bellona di turno è insignificante; la messa in scena stupisce, con grandangoli estremi e montaggio sincopato, con accelerazioni e parti più classiche. Poi, posso dir tutto, ma Raimi rimane un magnifico discolo, senza aspirazioni “alte” un po’ segaiole alla Coen ma con una più sincera adesione al sense of wonder che il cinema un tempo sapeva dare, senza aver paura di usare trucchi magari riconoscibili ma più veri ddv7409di quelli in CGI. Poi ho visto anche venti minuti di Fascisti su Marte, prima di cedere, schiantato dal peso improponibile del film di Guzzanti. Che è un genio e lo ha dimostrato molte volte in tivù e a teatro, ma che qui toppa clamorosamente, perché uno sketch televisivo che durava (e valeva) a malapena tre minuti non può diventare un film da novanta. L’uso ricercato del linguaggio da Istituto Luce, l’ambientazione folle, i personaggi stralunati e tutto quello che vuoi… ma già al quinto del primo tempo ne hai le palle pienissime, come al terzo cucchiaino di caviale: ottimo, ma stucca e presto subentra la nausea. E poi, a Venezia nel 2003, la sera precedente la prima di Fame chimica c’era la ricca festa di presentazione di Fascisti su Marte, non ancora completato (sarebbe uscito tre anni dopo! Tre!). Ovviamente il bel mondo dello spettacolo italiano e della critica era lì a scofanarsi salatini e cocktail e il mattino dopo alla proiezione di Fame chimica non c’era un giornalista (o presunto tale) a pagarlo. E la faccenda mi ha lasciato un po’ d’amarezza, ecco. Però il problema di Fascisti su Marte è che non c’è un film, ma solo un’idea (e neanche di cinema). E allora se non c’è il film non c’è neanche lo spettatore, mi dispiace. (Dvd; 11/3/11)

ddv7410835 – L’epocale La pantera rosa sfida l’ispettore Clouseau di Blake Edwards, Gran Bretagna/USA 1976
Eeeh, questa è storia patria. Liceo e università son stati scanditi da questo film, spesso accompagnando la visione con dosi generose di erba simpatica. Con immutata stima e fiducia propongo il film a Sofietta che, vista l’età, non ha bisogno di coadiuvanti naturali o chimici al riso e si diverte molto a seguire l’impossibile rivincita dell’ex ispettore capo Dreyfus contro Clouseau, l’uomo che l’ha fatto uscire pazzo. Si parte col ritorno a casa dell’imbranato ispettore; segue un epico duello col domestico Cato in agguato e da lì è un dipanarsi di situazioni farsesche assolutamente spassose. Su tutte spiccano l’interrogatorio tenuto in una casa di campagna (con mazza ferrata in faccia a una possibile testimone) e l’epico confronto finale con Dreyfus, tutti in preda al gas esilarante. In mezzo un po’ di fuffa e qualche gag sorniona ma anche un passo diverso che forse bisognerebbe apprezzare di nuovo, dove il ritmo è dato anche dalle pause e dalle attese, accumulando sapiente tensione comica. Herbert Lom – che interpreta Dreyfus – è eccezionale, isterizzato dalla stolida ma caparbia capacità di Clouseau/Sellers di distruggere tutto, dovunque arrivi, esattamente come Hrundi Bakshi in Hollywood Party o tanto Jerry Lewis. Culto assoluto della mia gioventù, sorvolo su alcune stupidaggini per proclamarlo anche della mia vecchiaia. (Dvd; 26/3/11)

ddv7411840 – Altro che locura: A Single Man di Tom Ford, USA 2009
Una giornata nella vita di un prof di letteratura inglese, gay, che elabora il lutto dell’amante pensando al suicidio. Ma incontra un lolito che sembra Tom Cruise con un lampo d’intelligenza negli occhi e ci ripensa. E poi il resto ve lo scoprite da soli, vedendovi il film, che se no che ci sto a fare qui, io, il cantastorie? Realizzato da un noto stilista americano di cui il mio ricercato guardaroba non conosce testimonianza, A Single Man è ovviamente film raggelato di superba eleganza, composto ai limiti dell’affettazione ed evita la fiera della gaytudine ozpetekiana o di tanto cinema corrente, dove sembri obbligato a fare il pazzeriello se no non rispetti i luoghi comuni etero che vogliono tutti gli omosessuali sfrenatamente affetti da locura. Alla fin fine, è bello da vedere, A Single Man, un po’ meno seguire… ma è un problema mio che mi annoio coi drammoni. E per una bella messa in scena, i dialoghi mi sembrano invece artefatti, ma non giova la traduzione italica tutta impostata e declamata. Vecchio problema, sempre attuale, di solito risolto con l’inverificabile affermazione che “abbiamo i migliori doppiatori del mondo”, un po’ come i portieri per il calcio. Coppa Volpi a Venezia 2009 a Colin Firth, bell’ometto anzichenò. (Dvd; 17/4/11)

ddv7412841 – La mediocrità commerciale de La rapina perfetta di Roger Donaldson, Gran Bretagna 2008
Questa solenne cacata è il classico film che si proclama “basato su una storia vera” e che capisci subito che è inventato di sana pianta: la vicenda è ispirata a una rapina avvenuta nel 1971 (l’11 settembre, tanto per cambiare), di cui mai si son trovati i colpevoli della banda del buco né recuperata la refurtiva, per cui… Comunque furono coinvolti servizi segreti e Scotland Yard, tra verità inconfessabili di politici, rivoluzionari di contorno e della principessa Margret. Mah. Il fatto è che io sono a Genova per la santissima Pasqua, senza il consueto gineceo del Cacace di contorno, e papà ha deciso che si vuol vedere questo crime movie di cui ha ben letto. A torto. Tra l’altro, per non so quale vaccata feng shui il salotto dei miei ospita un’assurda trovata di mia madre: una sorta di fontanella in moto perpetuo che istiga la pisciata compulsiva. Con questa sgradita colonna sonora supplementare vedo mediamente annoiato il prodotto di un regista appassito eppure capace secoli fa di un grandissimo film, Senza via di scampo (erede e remake del bellissimo The Big Clock). Qui, Donaldson ci mette solo arida professionalità e la pellicola è anonima, sicuramente ritmata ma senza cuore né simpatia. Gli attori han facce da cazzo, la ricostruzione storica è di maniera e non ha una briciola del fascino che, per esempio, trovavi nel televisivo Life On Mars. Colonna sonora originale fuori luogo (pomposa e ritmicamente pompata, ‘nammerda) e qualche recupero ovviamente godibile (T.Rex, Kinks), ma mi pare tutto artificiale, “commerciale” nel senso deteriore del termine e le inquadrature inclinate insensatamente mi confermano la natura paracula del prodotto. Mettiamoci poi un doppiaggio dove tutti declamano manco si trattasse di Shakespeare e ho detto tutto. L’apice pestilenziale è dato dalla scena in cui il boss dei rapinatori (l’insipido Jason Statham) va dalla moglie a mollare il malloppo: questi sono braccati dal MI5, dai mafiosi, c’è già scappato il morto e lei gli fa la scenata di gelosia perché paventa il tradimento con una complice… Ma per piacere, vergognatevi: voi che l’avete scritto e tu, proprio tu che l’hai girato. (Diretta Sky HD; 23/4/11)

ddv7413842 – Pure il terzo episodio: Le cronache di Narnia – Il viaggio del veliero di Michael Apted, USA/Gran Bretagna 2010
Ennesimo episodio di queste Cronache, un po’ Signore degli anelli, un po’ stracciamento di coglioni. Al terzo episodio ci si concentra sui fratellini più piccoli, anche perché i maggiori hanno facce grottescamente cambiate (va detto che tutti e quattro i protagonisti son diventati vieppiù orrendi, crescendo). Grandi avventure, tradimenti, conversioni e lieto fine di prammatica. Se hai 6 anni, è azzeccato, e siccome io ormai non ne ho di più, mentalmente, lo vedo con Sofia senza patemi. È il migliore film del terzetto di Narnia: ritmato, colorato, combattuto, senza troppe divagazioni e doppi, tripli, quadrupli finali. Comunque il regista Michael Apted (Incident at Oglala, Gorilla nella nebbia… e un sacco di altre cose) è uno strano: un incrocio incredibile di umanità e arido professionismo, boh. (Dvd; 1/5/11)

ddv7414843 – Inaspettato Fantastic Mr.Fox di Wes Anderson, USA 2009
I Tenenbaum era una stronzata graziata da un innegabile fascino visivo, trucchetto sensoriale che ha guadagnato a Wes Anderson immeritati e superficiali fan. Stavolta il regista ha però una storia di Roald Dahl su cui lavorare, non delle suggestioni scoordinate, e vi applica il suo gusto per il bizzarro, con calligrafismo compiaciuto e – lo concedo – anche qualche svisa intelligente. Ne viene fuori un bel film, una novella per bambini (o quasi) estremamente felice anche per adulti. Musiche intelligenti di Alexandre Desplat, colori intensi, ottime ambientazioni e caratterizzazione dei personaggi riuscita; i dialoghi e alcune situazioni evitano la banalità dei film infantili e – non so se per merito del regista o dell’autore originale – il risultato c’è, nonostante una certa frenata nello sviluppo narrativo a metà film. Molto carino, rivisto più volte grazie all’entusiasmo di Sofia ed Elena. (Dvd; 6/5/11)

ddv7415845 – Io non capisco Guerre stellari – L’impero colpisce ancora di Irvin Kershner, USA 1980
Fiabona bellica, stavolta, che parte subito con una battaglia sulla neve, tipo resistenti finlandesi contro la prepotenza sovietica. Ma forse sono io un po’ fissato. Comunque, a neanche quattro anni dal primo episodio della saga (in realtà quarto: quando all’epoca lo dicevo, nessuno mi credeva), a Luke è cascata la faccia e sembra un vecchio bolso. Yoda (praticamente un pupazzo dei Muppet) lo addestra come Jedi facendogli fare ridicoli esercizi di equilibrismo. Intanto Han Solo ha continue schermaglie d’amore litigarello con la principessa Leila, diventata anche lei un cesso spaziale (e se ripenso poi all’autobiografia di Carrie Fisher intitolata Non c’è come non darla… boh, mi dico: il problema è chi se la prende). Film considerato a posteriori molto riuscito, ha avuto incassi stratosferici: a me pare un po’ una palla al cazzo e neanche un anno dopo arrivava Blade Runner e quella lì sì che era fantascienza adulta, mica questa pappa che potrebbe essere un bignamino di mitologia greca per gli yankee, tanto è ancorata a miti annacquati, a figure retoriche, a prove e ricompense. Mah. Sono evidentemente io sbagliato che non capisco la mistica di Guerre stellari. E giuro che mi farebbe piacere far parte del club, ma non c’è verso, non ci riesco. Comunque al momento del confronto edipico con Darth Fener, dopo la ferale rivelazione, Sofia subito si volta verso di me e mi dice convintissima che non crede che Luke sia suo figlio, che deve essere un tranello. Li educhi al dubbio e questo è il risultato. (Dvd, 19/5/11)

(Continua – 74)

@DzigaCacace usa Twitter male

Qui altre Divine Divane Visioni, pensate

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 07/08) – 63 https://www.carmillaonline.com/2014/10/23/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-63/ Thu, 23 Oct 2014 20:25:44 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17722 di Dziga Cacace

Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto!

ddv6300687 – Sbaglierò: Michael Clayton, di un ciuco, USA 2007 Vedo troppi pochi film, ultimamente, per non imbestialirmi di fronte a una roba come questa, già vista millemila volte: l’avvocato carogna ma con gli occhioni da giuggiolone che – ingorgato in un casino senza vie d’uscita – ha il finale sussulto di coscienza. (Se ci penso bene, però, no: quali film conosco così? Nessuno. Vabbeh, non è importante). Sono di cattivo umore – lo so – e solo io, a differenza di critici e pubblico, ho trovato il film [...]]]> di Dziga Cacace

Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto!

ddv6300687 – Sbaglierò: Michael Clayton, di un ciuco, USA 2007
Vedo troppi pochi film, ultimamente, per non imbestialirmi di fronte a una roba come questa, già vista millemila volte: l’avvocato carogna ma con gli occhioni da giuggiolone che – ingorgato in un casino senza vie d’uscita – ha il finale sussulto di coscienza. (Se ci penso bene, però, no: quali film conosco così? Nessuno. Vabbeh, non è importante). Sono di cattivo umore – lo so – e solo io, a differenza di critici e pubblico, ho trovato il film borghese, ipocrita e consolatorio, con gli attori da botteghino e la trama senza sorprese. Ma perché – scusate – Clayton (Clooney, fichissimo, ça va sans dire) non poteva essere stronzo fino in fondo, giacché lo è quasi fino in fondo? E fate uno sforzino, eddai! E poi ‘sto ritmo blando, con inserti narrativi che allungano la broda in un thriller giudiziario già immobile, avvincente come un discorso di Lamberto Dini. La regia si atteggia anche ad autoriale, ma se mi date il regista Tony Gilroy lo interrogo come si deve e ve lo faccio confessare in dieci minuti. Inoltre c’è Tilda Swinton: per me da sempre un autentico mistero qui premiato addirittura con l’Oscar. È espressiva come un calco pompeiano in gesso, ha lo stesso colorito e – per rimanere in campo artistico – un fisico picassiano, periodo cubista. Però due secoli fa la Swinton ha fatto un film che ha colpito gli stramaledetti cinéphiles segaioli di mezzo mondo e lei continua ad essere considerata un’icona del cinema “alto”. Boh. Abbiamo visto ‘sta cosaccia perché Barbara riteneva di aver affittato Good Night, and Good Luck: la gravidanza fa brutti scherzi. (Dvd; 23/3/08)

ddv6301688 – Adrenalina pura con 24 – Season 3 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2004
Allora: faccio un riassuntino per chi si fosse sintonizzato solo ora. Lo show funziona così: 24 ore in tempo reale, in un giorno che più di merda non si può. Vittima della fatale giornata il povero Jack Bauer (Kiefer Sutherland), agente operativo della CTU, Counter Terrorists Unit di Los Angeles, agenzia (fittizia nel mondo reale, ma forse no, chissà) che si occupa di antiterrorismo. Una volta all’anno, arriva quel giorno in cui il malcapitato protagonista capisce che saranno cazzi amarissimi: userà un cellulare con la batteria magica per 24 ore filate (deve avere un abbonamento molto vantaggioso), non mangerà, non si farà mai una sana pisciata, figuriamoci una cagata come si deve leggendo la Gazzetta. Ovviamente la giornata infame vede sempre coinvolta in qualche casino anche quella cretina della figlia. In questa terza serie, tra le altre cose, Bauer sta anche smettendo di drogarsi, cosa che sembra la parodia de L’aereo più pazzo del mondo. Fortuna che queste benedette ultime 24 ore non fossero anche l’ultimo giorno per pagare i contributi alla domestica, l’Iva trimestrale e che non ci fossero visite dentistiche improrogabili in programma. Però – diciamo – la materia narrativa non manca: nella prima serie troviamo dei balcanici efferati (serbi, ovviamente), che ce l’hanno precisamente con Bauer e, per vendetta, vogliono fargli ammazzare il candidato alla Casa Bianca dato per vincente, Palmer, un nero buonissimo, onestissimo e democraticissimo. Solo che c’è una talpa alla CTU e tutta la serie vive del dubbio. Nella seconda tornata, il nero buonissimo etc. è diventato ovviamente presidente (sembrava fantascienza 4 anni fa, ma chissà se adesso questo Obama dell’Illinois…) e Bauer deve fronteggiare una minaccia atomica su Los Angeles, orchestrata da degli arabi pazzi furiosi, mentre nel palazzo presidenziale c’è praticamente un colpo di stato. Niente di meno. Diventa tutto un po’ isterico: meno intrighi, molta azione, gran divertimento. Nella terza stagione – che ho visto dopo la quarta causa pesante rincoglionimento da paternità – l’attacco è batteriologico ed è condotto da un occidentale già al lavoro con gli yankee e ora deciso a fare giustizia vera. Dura poco, chiaramente (per l’appunto: 24 ore). Nella quarta serie c’è un nuovo presidente (il rivale del solito nero dei primi tre episodi) che viene fatto secco da uno Stealth rubato all’uopo; anche qui dietro al complotto stanno degli arabi vagamente incazzati. La crisi sembra indistricabile e il vecchio presidente Palmer torna a dare una mano e, siccome è superlativo come sappiamo, mette tutto a posto. Fino alla prossima stagione. 24 è un serial ottusamente geniale (è una combinazione possibile, l’ho deciso adesso), un thriller fantapolitico ad orologeria a tratti fascistissimo (tipico interrogatorio: “Se non dai una cosa a me, io do…” – agitando una mannaia – “…una cosa a te”) ma anche con insospettabili afflati democratici, probabilmente dovuti al caos mentale da sedicenne con l’ormone impazzito tipico degli sceneggiatori di queste cose: branchi di nerds miliardari che vestono in bermuda e magliette di gruppi metal. E poi ti inventano ‘sto popò di roba. (Dvd; aprile ‘08)

??????????????????????????????????????????689 – L’inguardabile Billy, perché l’hai fatto? di due bestie, Volker Schlondorff e Gisella Grischow, Germania 1992
Freddie Mercury e Jimi Hendrix insegnano: è proprio vero che da morto non puoi più difenderti da nessuno, neanche da chi pensa di ripubblicare questa porcata micidiale, un documentario allucinante che – una volta tanto d’accordo – Barbara e io abbiamo mollato dopo quaranta minuti. La schifezza è l’ignobile mix di una vecchia intervista al maestro Wilder e da inserti recenti di Schlondorff che cuce e rappezza. Senza chiarire niente: chi sia Billy (e la sua vita vale quanto i suoi film) e perché sia stato un genio. L’intervista storica, oltre ad avere una qualità da videotape smagnetizzato, è ottusa ai limiti dell’idiozia, con il petulante Schlondorff che chiede con fervore maniacale soluzioni di regia e sceneggiatura a un Wilder infastidito da questo fan inopportuno. Le risposte son sempre sopra le righe (ma se sono sbagliate le domande è logico che poi siano sbagliate anche le risposte) e mai Billy avrebbe pensato che da quel colloquio sarebbe potuto uscire alcunché. Ahinoi si sbagliava, il mercato sdogana qualunque cosa e c’è sempre chi ci casca (non ricordo chi mi abbia regalato questo prezioso prodotto Feltrinelli che ora puntella il tavolo della cucina). Tornando all’abominio che non troverebbe spazio in palinsesto neanche su una tivù satellitare della Val Brevenna: il commento a posteriori del regista teutonico è freddo come un ghiacciolo in culo, con luci da obitorio, verve cimiteriale e chiarezza narrativa pressoché nulla. Questa schifezza di film non è un omaggio, è un insulto alla memoria. E se non avete visto i film di Wilder è pure pieno di spoiler. (Dvd; 2/4/08)

ddv6303690 –Il blues di Feel Like Going Home di Martin Scorsese, USA 2002
Esco il precedente dvd dal lettore e ne metto subito un altro, tanto il destino della serata è segnato e la gravida Barbara si addormenterà a breve al mio fianco. Scelgo per cui a mio gusto e mi scoppio un bello Scorsese: il vecchio Martin si riserva, nell’ambito della serie di documentari dedicati al blues da lui coordinata, il compito più impegnativo e ambizioso. Però, siccome non è un presuntuoso come Wenders o un mestierante come Figgis – autori in questo ciclo di due autentiche bestemmie su pellicola –, si fa scrivere il film da Peter Guralnick che è un giornalista e uno scrittore che sa, e molto bene, ciò di cui parla. L’unica pecca, non da poco, è la totale mancanza di didascalie, per cui i personaggi che incontriamo durante la narrazione rimangono per lo spettatore medio degli assoluti carneadi, né sono chiari i rapporti tra chi parla e di cosa. Siamo alla solita mancanza di comunicazione che mi parrebbe marchiana in un esordiente, figuriamoci in un maestro come Scorsese. Ma è inutile che mi ci incazzi: all’Autore lo spettatore, in realtà, fa schifo. Un po’ come a Veltroni e D’Alema dan fastidio gli operai, per intenderci. Ad ogni modo nel racconto c’è una prospettiva storica, c’è un percorso e una chiara intenzione narrativa. Inoltre a farci da Cicerone, nella (ri)scoperta del blues del Delta c’è un musicista nero sconosciuto ai più, Corey Harris, che suona la chitarra in maniera eloquente e comprende ciò di cui si parla. Dal Delta del Mississippi fino al Mali, a recuperare le radici della musica più bella che esista, pura, intensa, dolorosa, carica di storia. Si vedono Son House (eccezionale), John Lee Hooker, Muddy Waters, Ali Farka Toure e altri personaggi minori ma anche loro con una storia da raccontare. Film più che discreto, ma fruibile solo da una percentuale della popolazione con almeno due lauree, in musicologia e folclore. Cioè quasi nessuno. Tutti gli altri che se ne dicono entusiasti, mentono, anche perché – a differenza che con Buena Vista Social Club – il disco non se l’è comprato proprio nessuno. Ma nessuno nessuno, perché il blues non si danza nelle balere come quel ritmato scassamento di minchia della musica cubana. M’è scappata, eeeeh. (Dvd; 2/4/08)

ddv6304692 – Il pacifismo guerrafondaio di Kingdom of Heaven di Ridley Scott, USA, Gran Bretagna, Spagna 2005
Sceneggiato col martello pneumatico e montato come se fosse Salvate il soldato Ryan, Kingdom of Heaven è un film ambiguo come spesso capita alle ultime cose di Ridley Scott. Ma la sua non è un’ambiguità ricca, bensì subdola, cinica, a buon mercato. Come da titolo italiano (Le crociate, non sia mai che ci si confonda) siamo in Terra Santa a liberare i luoghi sacri. Ci sono i saraceni buoni e il fanatico guerrafondaio che identifichi subito con uno di Al Qaeda. E ci sono i cristiani saggi e disponibili e quelli teo-con che vogliono la guerra a tutti i costi. Il messaggio generale vorrebbe essere di tolleranza, pace e comprensione, però poi la cinepresa indugia piacevolmente sulle scene di battaglia che – detto tra noi – sono anche la cosa migliore di un film che – ridetto tra noi – sembra adatto, nella sua semplice consequenzialità, all’età mentale di un dodicenne. E infatti – seppur turbandomi ideologicamente l’unico neurone funzionante – m’ha divertito. Girato con consueto stile grafico, purtroppo a Ridley scappa la cafonata di qualche modernismo di troppo: l’impressione che ogni paesaggio o scena di massa siano digitalizzati toglie molta magia a una messa in scena che fa (o dovrebbe fare) della grandiosità la sua cifra distintiva. Il belloccio Orlando Bloom se la cava, Eva Green – diamante splendente in The Dreamers del Maestro Bertolucci – mi sembra già appassita. Bravini gli altri e anche i costumi sgargianti. Suvvia: me lo son goduto (Barbara no, era indignata e sicuramente ha ragione lei). (Dvd; 11/4/08)

ddv6305693 – Il classico La carica dei cento e uno di Wolfgang Reitherman, Hamilton Luske, Clyde Geronimi, USA 1961
Regalato a Sofia per i suoi tre anni (festeggiati il 26 aprile e non il 25, a sua insaputa; potere del nostro regime autocratico, neanche in Corea del Nord si cambia il calendario!) e visto praticamente subito assieme a lei. Il commento critico della piccina a fine visione è sintetico e straight to the point: “Questo è un film bellissimo!”. E non ha tutti i torti. Prima di questo ha visto, a inizio aprile, solo Le avventure di Barbapapà (di Talus Taylor e Annette Tison, Olanda 1973) che io ho finora evitato in toto e che in realtà sembra l’assemblaggio di una serie di episodi televisivi, per cui non so se possa valere come film “narrativo” vero e proprio (non c’è insomma la consequenzialità delle storie classiche di Barbapapà e lo dico a ragion veduta perché le ho lette tutte. Non per esclusivo piacer mio, s’intende). La Carica è un film molto “familiare” e lineare, anche se con azzeccata struttura ad inseguimento. Giusto per la cronaca: Crudelia De Mon è considerata una delle cattive più cattive del grande schermo di sempre, una zitellaccia ingrigita dal fumo, secca come un’acciuga e che non deve avere partner da decenni. Vuole farsi un pelliccione di pelle di dalmata e ruba 15 cuccioli a una coppia felice di conoscenti (coppia sana, solida, che tromba, seppur con britannica discrezione), ma in realtà, Crudelia, ne aveva già da parte 84 comprati, suppongo, con regolare fattura, e di cui poteva farne il cazzo che voleva, eh. E quando i 101 (99 cuccioli più Peggy e Pongo, genitori dei 15 rapiti) scappano e si salvano, gli 84 di Crudelia sono effettivamente sottratti alla legittima proprietaria. E questo nessuno lo dice! Ci starebbe un seguito politicamente corretto dove i cuccioli vengono restituiti e giustamente scuoiati, perché se non gli insegniamo l’osservanza della legge fin da piccoli, poi ci aspetta l’anarchia, no? (Dvd: 26/4/08)

ddv6312694 – Good Night, And Good Luck di George Clooney, USA 2005
Stavolta Barbara azzecca l’affitto e il film, effettivamente, merita: Clooney ritorna alla regia con le idee chiare (il suo primo film non m’era piaciuto per niente, vulgo faceva cacare). Qui troviamo afflato democratico, impegno rivendicato anche per un mezzuccio come la televisione, e ottima cinematografia, con gusto e classe. Bravo Giorgetto che non dimentica di reinvestire i mijiardi – guadagnati recitando in puttanate – in qualcosa di durevole e onesto. Film ben fatto e necessario, dài. (Dvd; 3/5/08)

ddv6306695 – Altro classicone: Il libro della giungla di Wolfgang Reitherman, USA 1967
I doveri di babbo mi impongono la visione di un film che non vedo dai miei nove anni (al Manin di Genova, con nonna Franca: avevo scazzato con un bambino di quattro perché disturbava. Avevo vinto). È il film Disney con due dei momenti più divertenti in assoluto: l’amicizia di Baloo e Mowgli e l’incontro con l’orango tersicoreo Re Luigi. Per il resto, il percorso di crescita e maturazione del trovatello tra animali buoni e meno buoni (lo spauracchio Shere Khan) scorre facile, tenero e sereno, narrativamente semplice, disegnato bene e animato meglio, con belle caratterizzazioni e sfondi. Semmai il finale, molto dark e coraggioso, lascia un po’ perplessa Sofia. E due giorni dopo nasce Elena. (Dvd; 4/5/08)

ddv6307696 – Man of the World di un cretino, Gran Bretagna 2007
Una tra le più belle storie del rock. E una delle più tragiche: quella di Peter Green. Giovanissimo chitarrista nei Bluesbreakers di John Mayall in sostituzione del dio Clapton, forma poi i primi Fleetwood Mac (quelli blues, che poi diventeranno pop) e i 3 album che produce in meno di due anni, ’68 e ’69, vendono più di Beatles e Rolling Stones assieme. Albatross, Need Your Love So Bad, Black Magic Woman, Man of the World e The Green Manalishi vanno in testa alle classifiche e rendono l’uomo molto ricco e molto infelice. Ma sarà un’infausta serata a Monaco nel 1970 a farlo uscire completamente di cotenna. Già da un po’ Green era insoddisfatto del suo ruolo di rockstar per caso, del successo e dello show-biz. Andava dicendo agli altri della band: “Diamo tutti i soldi alle popolazioni del Biafra, dài!”. Nessuno che gli desse retta: volevano diventare ricchi sfondati e pochi anni dopo ci sarebbero riusciti eccome. Comunque, alla festicciola di Monaco di cui si diceva, a Peter viene somministrato dell’LSD a tradimento che fa il resto: il genio esplode, vuole solo fare jam oceaniche (tipo 40 minuti di improvvisazione), molla il gruppo, pubblica un disco folle e doloroso (e splendido e dal titolo inconsciamente programmatico: The End of the Game) e poi crolla in una depressione che lo fa finire perfino in casa di cura per malati di mente. Le medicine lo annientano, così come l’elettroshock e il musicista più lirico del British Blues finisce per imbracciare un fucile per minacciare il suo commercialista (cosa che in realtà vorremmo fare tutti, credo, quando ti presenta la dichiarazione dei redditi). Non vuole soldi che ritiene maledetti, vuole solo scomparire. Il recupero è lento e non completo. Oggi Green fa compassione: parla impastato, in maniera incoerente, con sprazzi di amarissima lucidità. Ha tentato un ritorno alla musica negli anni Novanta e a Pistoia fui testimone di un concerto a dir poco straziante. Adesso ha mollato del tutto e forse si gode un po’ di pace, dopo alcuni anni di incisioni (più che dignitose e sicuramente dolorose) e concerti che giustifico solo come trattamento terapeutico per questa anima in pena. Il documentario di Steve Graham è pedestre, senza alcuna idea se non quella della consueta biografia scandita cronologicamente, con interviste molto statiche e non particolarmente brillanti (e riprese cazzo canis). Il film lo tiene a galla il simpaticissimo Mick Fleetwood che è una fucina di ricordi. Musica ovviamente magnifica e immagini di repertorio straviste (da me) e riutilizzate più volte per le due ore del film. Gli do 6 perché l’argomento merita 10, ma la regia non va oltre il 2. Occasione persa molto molto male. (Dvd; 15/5/08)

ddv6308697 – Classicone aggiornato: Tarzan di Kevin Lima e Chris Buck, USA 1999
Con la minuscola Elena son giorni di gran daffare e faccio questo regalo a sorpresa a Sofia che lo riceve emozionatissima, giacché sono settimane che chiede senza speranze di averlo. Guarda il film a bocca aperta, non si prende particolari spaventi ed è totalmente presa da una vicenda che in effetti non ha un attimo di respiro e va via veloce. Alla fine del film si gira verso di me e sentenzia: “Bello, eh?”. Divertente, ritmato, animato da dio ibridando tecniche tradizionali con quelle più moderne (gli sfondi sembrano statici e molte volte vengono esplorati in 3D), con tentazioni moderne (Tarzan che surfa tra i rami) e concessioni classiche (il cattivone Clayton, molto anni Quaranta), si fa vedere volentieri. Anche più volte, ahinoi, tollerando Phil Collins che canta cose insensate in un italiano degno di Mal. Due giorni dopo Sofia mi chiede se i cattivi esistano anche fuori dai film, nella vita reale. Beata innocenza. (Dvd; 16/5/08)

ddv6309698 – Immagina The U.S. vs. John Lennon di David Leaf e John Scheinfeld, USA 2006
Paratelevisivo, molto lavorato ed effettato, è un discreto racconto della vita politica di John Lennon durante la sua contrastata permanenza negli USA. Parte bene e regge per almeno un’ora, poi si ripete e mostra un po’ la corda anche perché abbiamo capito che John stava sul cazzo a Hoover e non volevano dargli la cittadinanza, però poi non è che sia capitato molto altro. Lennon s’è battuto ancora e alla fine gli han dato la carta verde. Bene, bravo, bis. Oltre a tutto al ripiegamento privato di Lennon e della Ono (che, francamente, nelle scene di repertorio è fuori luogo in maniera evidente e puntualmente sovrastata da Lennon) non corrisponde una virata del racconto, che in troppe parti è meramente cronachistico. Poi, certo, la musica è splendida, Lennon illumina ogni volta lo schermo e i commenti sono interessanti, però si vede che è stato prodotto per la tivù (VH1) e c’è un evidente sentimento agiografico, anche perché la vedova ha collaborato attivamente. Non brutto come avevo letto da qualche parte né neanche lontanamente un capolavoro come molti critici ignoranti di cinema, rock e vita hanno blaterato; mmh. (Dvd; 22/5/08)

ddv6310699 – Non ha bisogno di presentazioni Il secondo tragico Fantozzi di Luciano Salce, Italia 1976
E beh. Secondo shot dopo il successo galattico del primo Fantozzi, uno dei film italiani più visti di sempre come biglietti staccati (non fidatevi delle classifiche degli incassi, vincon sempre gli ultimi!). Qui è evidente come la struttura episodica (e stagionale) non sia sempre riuscita come nel prototipo e viene un po’ a mancare l’evidenza del sottotesto politico, concentrandosi invece più sulla satira grottesca di vizi, manie e sogni dell’italiano medio, un’analisi della sua evoluzione che oggi ha un valore antropologico notevole. Il problema è che Fantozzi siamo noi e chi vede il film preferisce sempre credere che sia qualcun altro diverso da sé, confondendo inoltre il padronato e la sua rappresentazione grottesca con un’esagerazione umoristica. Qui – comunque – abbiamo la corazzata Potemkin imposta dal prof. Guidbaldo Maria Riccardelli, il varo a Genova con cena tra i potenti (con i pomodorini “dentro palla di fuoco a 18mila gradi”), la notte brava di Calboni, Filini e Fantozzi, la seguente fuga d’amore del ragioniere e della signorina Silvani a Capri e anche la clamorosa gita del Duca Conte Semenzara al casinò di Montecarlo. Ci sono pure la fiacchissima battuta di caccia e la truffaldina malattia di Fantozzi con visita al circo, due parti che sembrano outtakes, con umorismo scarico e pure delle scopiazzature (alcune che risalgono addirittura al Chaplin muto… che chissà dove le aveva fregate lui, però). Detto questo, io Fantozzi non lo contesterò mai. Mai. (Diretta tv su Retequattro; 31/5/08)

ddv6311700 – Pensa: Le avventure di Peter Pan di Clyde Geronimi, Hamilton Luske e Wilfred Jackson, USA 1953
Sofia l’ha preteso e, da genitore fermo nelle sue convinzioni pedagogiche, ho ceduto subito. Ma al momento non è sembrata particolarmente impressionata salvo poi diventarne fanatica. Io l’ho sopportato, anche se poi, alla quarta visione, ho cominciato ad affezionarmi (coi bambini la visione ripetuta è d’obbligo: o impazzisci o t’innamori). Disegnato benissimo, musicato con belle canzoni, ci presenta un cast eterogeneo e ben congegnato e noto subito che Capitan Uncino è praticamente Willy DeVille mentre Spugna sembra il Baciccia marinaretto della Sampdoria; assortito anche il cast femminile, con la virginale Wendy, la molto hot Giglio Tigrato e infine la lolita da tasca, Trilli. Il protagonista Peter Pan è invece un’odiosa faccia da cazzo con le orecchie a punta, un coglione dispettoso che non vuol crescere e il povero Capitan Uncino è la sua vittima frignona (pure con l’incubo di un coccodrillo… marino?! Sì, esistono). Il film me lo vedo, ma tutte le menate sulla fantasia, sul rimanere bambini… boh, mica lo so se sono d’accordo. Poi io son cresciuto con Bennato (e il suo layer politico alla vicenda) piuttosto che con questo Disney, per cui tutta la faccenda mi risulta confusa, anche se evidentemente il confuso sono io. E già che ci sono: il Bennato Peter Pan libero contro il movimento giovanile massa di pecoroni, rivoluzionari coi soldi di papà etc. etc. m’è sempre sembrato troppo egocentrico e qualunquistico, anche se non dubito che Edoardo abbia incontrato tanta gente così nella sua carriera. Però il disco era bellissimo: Bennato, quando non gli parte la brocca e il tono profetico/apocalittico, è (stato) un genio. Ma tornando al film: a me sarebbe piaciuto che quelli per cui tenere fossero i pirati, ecco. Cioè, posso farlo lo stesso, ma vallo a spiegare a Sofia, eh. (Dvd; 31/5/08)

ddv6313701 – L’orrendo The Grand Finale, di due pelandroni, Gran Bretagna 2006
Michael Apted, già responsabile di film più che dignitosi come Gorky Park o Gorilla nella nebbia, di serial goduriosi come Rome e di documentari celebratissimi (il militante – e menoso – Incident at Oglala o il kolossal televisivo Up series) si macchia assieme a tale Pat O’Connor di questo documentario che dovrebbe raccontare il campionato mondiale di calcio del 2006, disputato in Germania. Ne viene fuori una minchiata catatonica, per nulla coinvolgente, col gioco più bello del mondo (in un campionato in effetti non esaltante) raccontato come sarebbe capace di fare solo un appassionato di shangai. Le interviste fanno letteralmente schifo sia come domande poste ai calciatori (all’attaccante Thierry Henry: “Come mai tanti talenti in Francia?”… ma come si può soltanto pensare di porre una domanda così stupida?) che come regia (Cannavaro è ripreso in una palestra, con un audio soffocato e delle luci degne di un’emittente uzbeka). Il commento è spesso fuori luogo e il montaggio e l’impianto generale del film sono disastrosi: non solo manca la cronaca spiccia (l’Italia sembra capitare in finale a Berlino per caso), ma non c’è proprio calore, umanità, curiosità; è un film celebrativo surgelato, con le interviste realizzate dopo, senza avere a disposizione materiali pensati e realizzati prima e durante. Mancano vitalità, ritmo e invenzione; e mancano soprattutto un’idea del cinema e – cosa gravissima e incomprensibile – un’idea del calcio. Oltre a tutto c’è anche uno smarrone clamoroso: dell’arbitro della finale Elizondo (pure intervistato e senza motivo) si sbaglia il nome. Immagino che Apted sia stato locupletato dalla Fifa a suon di milionate di euro e poi non ci abbia perso granché tempo, tanto il committente era quella blatta di Sepp Blatter. Vabbeh, ancora grazie che il film non sia stato affidato al tedesco Wenders: almeno abbiamo evitato l’ennesima colonna sonora modaiola, tipo vecchietti tirolesi che fanno lo yodel e tutti a perderci le bave. (Diretta tv su La7; 1/6/08)

(Continua – 63)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Breve storia cinematografica del maccartismo https://www.carmillaonline.com/2014/07/23/breve-storia-cinematografica-maccartismo/ Wed, 23 Jul 2014 20:15:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15860 di Alessandro Morera

MoreraMcCarthy“…e nondimeno, andate leggermente a pigliarvelo nel culo” (Woody Allen/Howard Prince ne Il prestanome)

Il maccartismo affonda le sue radici nella reazione della destra americana a quel Work Project Administration (WPA) che rientrava nella più vasta rete d’interventi sociali grazie ai quali gli Stati Uniti uscirono dal periodo della grande depressione, il new deal roosveltiano degli anni Trenta. Nello specifico il WPA nasce nel 1934 erogando finanziamenti statali a favore della produzione artistica, ed è proprio grazie a questo progetto che nascono i due grandi teatri nazionali americani, il Federal Theatre e il Group Theatre: ad una branchia [...]]]> di Alessandro Morera

MoreraMcCarthy“…e nondimeno, andate leggermente a pigliarvelo nel culo”
(Woody Allen/Howard Prince ne Il prestanome)

Il maccartismo affonda le sue radici nella reazione della destra americana a quel Work Project Administration (WPA) che rientrava nella più vasta rete d’interventi sociali grazie ai quali gli Stati Uniti uscirono dal periodo della grande depressione, il new deal roosveltiano degli anni Trenta. Nello specifico il WPA nasce nel 1934 erogando finanziamenti statali a favore della produzione artistica, ed è proprio grazie a questo progetto che nascono i due grandi teatri nazionali americani, il Federal Theatre e il Group Theatre: ad una branchia del primo (il Negro’s Theatre Project) fu affidata la direzione economica a John Houseman, il quale a sua volta nominò direttore artistico l’allora giovanissimo Orson Welles, che aveva compiuto da poco 22 anni, mentre nel secondo si affermarono una nuova generazione di registi e drammaturghi trentenni quali Clifford Odets, Irwin Shaw, Lee Strasberg, Elia Kazan e Joseph Losey.
L’offensiva dei censori politici, sia democratici che repubblicani, segnò la fine di queste esperienze artistiche dopo pochi anni, quando riuscirono a imporre il divieto governativo di allestire nuovi spettacoli fino al 1° luglio del 1937, causa imminenti tagli e ristrutturazioni, mettendo i sigilli al teatro Maxine Elliott dove sarebbe dovuto andare in scena The Cradle Will Rock, un dramma in musica scritto da Marc Blitzstein in favore del movimento operaio, con la regia dello stesso Orson Welles.
Welles sfidò comunque il decreto governativo mettendo in programma lo spettacolo per il 16 di giugno, ma le guardie federali occuparono e sigillarono la sala il giorno prima, cosicché decise di affittare un altro teatro, il Venice, scavalcando in maniera creativa i regolamenti sindacali che vietavano l’ingresso in scena del cast: Blizstein salì sul palco suonando le musiche e declamando i movimenti di scena, mentre gli attori recitavano le battute e cantavano le loro canzoni dalla platea. Il successo fu egualmente enorme, tanto che lo spettacolo venne replicato nella stessa forma improvvisata fino al cadere del divieto.
Probabilmente The Cradle Will Rock fu l’unico dramma proletario che andò in scena negli Stati Uniti, nonostante la censura tentò di impedirne la rappresentazione: Tim Robbins, con il suo fervore politico, nel 2001 ha tratto dall’episodio un debole film, con l’omonimo titolo della pièce, che però non rende giustizia della complessità degli eventi e delle tensioni in campo in quel determinato periodo.
The Cradle Will Rock venne recitato anche durante il viaggio degli attori dal Maxine Elliott al Venice Theatre, come una sorta di happening di strada, aprendo così di fatto la scena alle future esperienze del Living Theatre e di tutto il teatro americano degli anni Sessanta, dove l’elemento di protesta sociale era contiguo a quello delle rappresentazioni che invadevano gli spazi urbani della società. Come si leggeva in un manifesto del Group Theatre, pubblicato sul Federal Theatre Magazine: “Noi siamo il teatro viaggiante nei parchi, Shakespeare sulle colline, Gilbert e Sullivan in uno stagno, Toller su un camion […] recitiamo nelle scuole, nelle arene, nelle carceri, nei riformatori e negli ospedali. Siamo i Living Newspapers, il teatro negro e il teatro yiddish…”. A tal proposito anche André Bazin, nel suo libro dedicato a Welles, ricordò come “quando il governo vietò di rappresentare al Federal Theatre The Cradle Will Rock, e la compagnia trovò le porte del teatro sbarrate, Orson Welles improvvisò per strada su due piedi, per gli spettatori in abito da sera, uno spettacolo che consentì di attendere che si trovasse una soluzione… non so cosa i critici lodarono di più il giorno dopo, sui giornali, se la messa in scena di The Cradle Will Rock o quell’altra, la fantastica improvvisazione su scala cittadina, che la inglobava come un dettaglio con Orson Welles, appollaiato su di un camion, che ipnotizzava la folla come Marc’Aurelio sul cadavere di Cesare”.
Non a caso la House Committee on Un-American Activites (HUAC ovvero Commissione per le Attività Antiamericane) venne istituita proprio nel 1937 e il primo presidente fu il senatore democratico del Texas Martin Dies Jr., che si prefisse di smascherare le infiltrazioni comuniste, termine riferito poi a qualsiasi associazione a favore dei diritti civili e umani, dei lavoratori o che avessero come scopo il miglioramento della società, in poche parole la maggior parte delle associazioni popolari operanti nei diversi settori della società, dall’amministrazione pubblica all’esercito, dalle scuole ai sindacati, dalla finanza allo spettacolo, bollate come sovversive e antiamericane. La HUAC, violando palesemente la costituzione, condannò le persone anche solo sulla base di semplici sospetti e/o indizi senza che essi dovessero essere supportati da prove concrete, agendo così in maniera autoritaria e palesemente antidemocratica.
Nel frattempo l’affermarsi dei vari fascismi in Europa e l’invasione hitleriana dell’Europa centrale fecero prendere coscienza agli Stati Uniti quale fosse il vero pericolo totalitario, fino ad allora abbastanza ignorato, con il conseguente impegno nella Seconda Guerra Mondiale (avvenuto in effetti con un certo ritardo se si pensa agli avvenimenti dell’epoca). Subito dopo l’affermazione delle forze alleate, il pericolo rosso e liberal divenne nuovamente la principale preoccupazione della politica nazionale americana, tanto che la HUAC raggiunse l’apice della sua (nefasta) gloria negli anni che vanno dal 1947 al 1954, soprattutto grazie alla paranoia del suo più fervido politico, un signore di mezza età semi alcolizzato, il senatore repubblicano del Wisconsin, Joseph McCarthy.
Guidata dal senatore McCarthy, la commissione si scagliò soprattutto contro le due maggiori industrie americane: quella hollywoodiana e quella militare. Proprio agli inizi del 1947 l’associazione dei produttori Motion Picture Association of America (MPPA) decise di denunciare dieci loro associati tra sceneggiatori e registi, diventati tristemente famosi come “i dieci di Hollywood”, anche se uno di essi in seguito rinnegò la propria partecipazione ai movimenti liberali di quegli anni, dieci nomi che vale la pena ricordare: Edward Dmytryk, Dalton Trumbo, Samuel Ornitz, Herbert Biberman, Lester Cole, Alvah Bestie, Ring Lardner, Adrian Scott, Albert Maltz, John Howard Lawson. Quest’ultimo fu il primo ad appellarsi al primo emendamento della costituzione americana, la quale garantisce a ogni cittadino americano la libertà delle proprie opinioni politiche, religiose e filosofiche, evitando di rispondere.
Nonostante gli altri nove lo seguissero nel rifiutarsi di rispondere alla domanda inquisitoria della commissione “è o è mai stato un membro del partito comunista?”, l’MPPA e l’affermarsi di un clima sempre più previdente da parte dei capitani della maggiore industria cinematografica del mondo fu inevitabile: la stessa MPPA istituì una blacklist sulla quale segnare (e segnalare) i sospetti comunisti, soprattutto dopo le condanne penali riportate dai dieci, alcuni dei quali scapparono proprio per non subirne gli effetti (tranne Dmytryk che, in seguito alla latitanza londinese tra il ’49 e il ’51, decise di abiurare le proprie idee pur di tornare a Hollywood).
Dmytryk non fu di certo l’unico né tanto meno il più eclatante personaggio dello spettacolo a rinnegare le proprie idee pur di tornare a lavorare in una realtà economico-finanziaria di alto livello, ma di certo fu il primo a fare il mea culpa di fronte alla HUAC. Lo fece nel momento peggiore della democrazia degli Stati Uniti d’America, quando i coniugi Rosenberg vennero condannati a morte per attività spionistiche e antiamericane, sospettati di aver consegnato 7 anni prima dei piani riguardanti la bomba atomica all’URSS, molto prima che l’Enola Gay sganciasse la bomba atomica sul suolo giapponese, tralasciando il fatto che nel 1944 gli USA e l’URSS erano alleati.
Nello stesso anno un altro giovane senatore repubblicano della California, Richard Nixon, venne alla ribalta come fautore della HUAC. Nel frattempo alcuni registi, seppur non direttamente collegati ai processi svolti dall’HUAC, proprio per evitare di rispondere democraticamente appellandosi al primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti d’America, preferirono emigrare: Charlie Chaplin in Svizzera, Joseph Losey in Inghilterra, Orson Welles gironzolando per il mondo, mentre Joris Ivens fu costretto ad allontanarsi dagli Stati Uniti ai primi del 1945, poiché aveva girato nel 1937 un documentario a favore dell’intervento delle brigate internazionali nella Guerra civile spagnola, Earth of Spain, su sceneggiatura di Ernest Hemingway e John Dos Passos, con sottofondo musicale di Marc Blitzstein.
Altri non ebbero questa fortuna e subirono processi che sfiancarono le loro famiglie, i figli, le amicizie e soprattutto le loro identità. Molte delle personalità inquisite furono costrette a lavorare sottopagate, sceneggiando film o dirigendoli sotto altri nomi; ovviamente coloro che pagarono più di tutti tale situazione furono gli attori: Zero Mostel, pur essendo un eccellente attore, probabilmente deve la sua fama soprattutto al fatto di essere stato iscritto nelle blacklist negli anni Cinquanta, prima di venir resuscitato da Mel Brooks alla metà degli anni Settanta come vecchio attore di secondo piano. Mostel non era l’affermato John Garfield o il giovane promettente Lionel Stander, eppure anche la sua vita fu rovinata così all’improvviso, come a un signore di 35 anni al quale tolgono improvvisamente la sua famiglia, il suo lavoro, le sue libertà, nonché la dignità, neanche l’avessero trovato a camminare a piedi nudi nel parco, in un periodo nel quale portare un cappello a cilindro significava essere tacciati come comunisti.
Nel 1953, un testo teatrale, The Crucible (Il Crogiuolo), di uno dei più grandi drammaturghi dell’epoca, Arthur Miller, anch’esso sfiorato dall’HUAC, definiva quegli avvenimenti come il periodo moderno della caccia alle streghe, istituendo un parallelismo tra il processo alle streghe di Salem nel 1692 e la contemporaneità. Il testo teatrale di Arthur Miller ebbe uno strepitoso successo, ma, nonostante ciò, l’industria cinematografica risultò come paralizzata nell’affrontare se stessa e quel periodo, seppur risulta oggi facile, e inevitabile, leggere in maniera metaforica tanti dei film hollywoodiani dagli anni Sessanta in poi come reazione al maccartismo, soprattutto da parte degli autori più significativi che subirono le conseguenze della caccia alle streghe. Un esempio su tutti Spartacus diretto da Stanley Kubrick e sceneggiato da Dalton Trumbo, nel quale la lotta degli schiavi contro l’esercito di Roma venne riletta a posteriori come la lotta per la libertà di espressione contro la ferocia del maccartismo.
Emblematico risulta proprio il caso di Trumbo, arrestato nel 1947: appena scarcerato fuggì in Messico dove continuò a scrivere sotto pseudonimo molti film, tra i quali il soggetto di Vacanze Romane e la sceneggiatura di La più grande corrida per i quali vinse, all’insaputa dell’Academy, due Oscar. Nonostante la piena riabilitazione nei primi anni Sessanta, fino al 1971 Trumbo non riuscì a portare sullo schermo il suo bel libro antimilitarista del 1939 E Johnny prese il fucile. E non è un caso che fino al 1976 il tema del maccartismo non fosse mai al centro di un film, non solo hollywoodiano: in quell’anno, l’allora ottuagenario ed ex blacklisted Martin Ritt, già regista dopo la fine della persecuzione nel 1956 di Quella lunga estate calda, con il ritorno di Welles a Hollywood in veste di attore, realizzò The Frontman (Il Prestanome), un film con protagonista l’allora famosissimo comico Woody Allen, un film che di comico non ha nulla, riprendendo gli stilemi di denuncia sociale, sotto forma spettacolare, dei film americani del primo dopoguerra.
La pellicola affronta la vicenda focalizzandola dal punto di vista dei tanti che furono costretti a lavorare sotto falso nome, sfruttati e sottopagati da colleghi tolleranti nei confronti del loro status di pericolosi sovversivi, autori come Dashiell Hammett, Lilian Hellman, Abraham Polonsky, Jules Dassin, Robert Rossen e Walter Bernstein che fu anche lo sceneggiatore del film di Ritt. Nel 1988 invece Irwin Winkler in Indiziato di reato affronta la vicenda dal punto di vista della perdita della propria vita quotidiana, degli affetti più cari, del degradarsi delle amicizie, concentrando la vicenda sul protagonista, interpretato da Robert De Niro: un regista accusato di essere comunista in un film che, nonostante l’assunto poderoso, si sviluppa in maniera abbastanza convenzionale e scontata. A differenza del più recente film di George Clooney Good Night and Good Luck, che invece concentra abilmente l’attenzione sul giornalista televisivo che più di ogni altro mise in luce la palese violazione dei diritti democratici e le storture inquisitorie prodotte da Joseph McCarthy, Edward R. Murrow.
Murrow fu un vero e proprio paladino della libertà democratica e combatté in prima persona con il suo programma televisivo See It Now la battaglia contro la potente HUAC, decretandone la fine e permettendo agli USA di uscire da uno dei periodi più bui della propria Storia.
Di certo l’esempio scelto da Clooney è un esempio alto e perfettamente adatto a rappresentare gli elementi in gioco, grazie a una forma cinematografica sobria e asciutta, la stessa del volto del protagonista, David Strathairn, che proprio per questo risulta adatta ed efficace a illustrare l’atmosfera dell’epoca. Nella realtà infatti, nel successivo programma condotto da Murrow alla CBS-TV Person to Person, il 25 novembre 1955 venne intervistato l’ormai esule Orson Welles, favorendo il suo reinserimento in ambito lavorativo ad Hollywood dopo un’assenza durata 9 anni. Quell’Orson Welles che a suo modo si ritenne in parte responsabile, anche se in maniera ironica, dell’elezione al Senato di Joseph McCarthy: “…penso che sarebbe stato molto più interessante usare il cinema e i media in generale a scopi diversi, non solo di intrattenimento. E una volta per un pelo non mi sono candidato per il Senato, in Winsconsin. Il mio avversario sarebbe stato Joe McCarthy – dunque ce l’ho sulla coscienza – ma questa è un’altra storia”. Ecco, per l’appunto, questa è un’altra storia che forse qualcuno un giorno avrà la forza e il coraggio di raccontare attraverso il mezzo cinematografico, anche se alcune storie sembrano essere troppo grandi persino per il cinema.

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