Charlie Brooker – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Culture e pratiche di sorveglianza. L’ossessione della trasparenza https://www.carmillaonline.com/2021/09/23/culture-e-pratiche-della-sorveglianza-lossessione-della-trasparenza/ Thu, 23 Sep 2021 20:30:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68218 di Gioacchino Toni

«I segreti sono bugie» – «Condividere è aver cura» – «La privacy è un furto» (Bailey, personaggio del romanzo Il cerchio di Dave Eggers) «Se le persone condividono di più, il mondo diventerà più aperto e connesso. E un mondo che è più aperto e connesso è un mondo migliore» – «Dando alle persone il potere di condividere si rende il mondo più trasparente» (Perle di saggezza di Mark Zuckerberg)

La tendenza contemporanea a manifestarsi “senza nascondimenti” – rinunciando al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità – e alla [...]]]> di Gioacchino Toni

«I segreti sono bugie» – «Condividere è aver cura» – «La privacy è un furto» (Bailey, personaggio del romanzo Il cerchio di Dave Eggers) «Se le persone condividono di più, il mondo diventerà più aperto e connesso. E un mondo che è più aperto e connesso è un mondo migliore» – «Dando alle persone il potere di condividere si rende il mondo più trasparente» (Perle di saggezza di Mark Zuckerberg)

La tendenza contemporanea a manifestarsi “senza nascondimenti” – rinunciando al proprio diritto di privacy in cambio di una maggior efficacia nel comunicare la propria identità – e alla “confessione pubblica” di un fatto o di un’esperienza personale, si lega all’ossessione della trasparenza che da qualche tempo ha fatto breccia nell’immaginario collettivo nella convinzione che non si ha, né si deve avere, “nulla da nascondere”. Se da un parte la propensione all’outing è certamente mossa da una volontà orgogliosamente rivendicativa di condotte, culture e appartenenze indigeste al pensiero dominante, dall’altro la smania alla visibilità e alla trasparenza in età contemporanea risponde a un’urgenza dettata da un sistema che richiede pressantemente all’individuo di fornire e gestire un’immagine personale adeguata a richieste sociali prestazionali e mercificate1.

In un tale contesto, in cambio di un rassicurante riconoscimento pubblico, magari conteggiato a suon di like, si è indotti a mostrarsi e condividersi in maniera omologata in modo da “piacere” il più possibile a tutti. Insomma, l’ossessione della trasparenza – rafforzata dalla crescente smaterializzazione di luoghi e spazi abitativi e di lavoro – sembra aver dato luogo a una vera e propria macchina di controllo sociale partecipato.

David Lyon2 nell’approfondire la questione della trasparenza prende il via dalla critica mossa da Michel Foucault3 nei confronti tanto dell’idea rousseauiana che voleva uguaglianza e libertà derivare dalla trasparenza, quanto del panopticon proposto da Jeremy Bentham come modello di controllo perfetto attuato attraverso l’autodisciplina. In entrambi i casi è nella trasparenza che si cerca la cura per i mali della società.

Se a proposito di sorveglianza in generale la cultura novecentesca ha teso a lamentarsi tanto nei confronti della segretezza quanto del “portare alla luce” questioni che dovrebbero restare private, occorre constatare che ad essere presa di mira è stata soprattutto l’assenza di trasparenza da parte dei sorveglianti mentre per i sorvegliati il controllo a cui sono sottoposti è stato tutto sommato meno probelmatizzato: “niente da nascondere, niente da temere”. Nella cultura della sorveglianza contemporanea, sostiene Lyon, mentre si esige maggiore trasparenza da parte di organizzazioni e governi anche alla luce dell’attività di sorveglianza che questi svolgono nei confronti della popolazione, si tende a concedere volontariamente maggiore trasparenza giudicandola inevitabile in un’epoca caratterizzata da un coinvolgimento mediatico collettivo.

L’idea di una democratica “trasparenza reciproca” fa parte ancora oggi degli slogan ripetuti insistentemente negli ambienti della Silicon Valley. Secondo Alice Marwick4 tale scena tech, messa in piedi soprattutto da pionieri giovani, bianchi e maschi, non smette di idealizzare quella trasparenza e quella creatività che nei fatti si realizzano sotto forma di partecipazione imprenditoriale votata al far coincidere vita e lavoro in cui i social network svolgono un ruolo fondamentale. Una visione in tutti i modi viziata non solo dal pensare l’intero globo composto da repliche della loro “comunità” di giovani, bianchi e maschi ma anche dal tralasciare l’asimmetria nel potere di accesso alla trasparenza: quando mai verrebbe concesso a un comune cittadino di chiedere trasparenza reciproca, ad esempio, alle forze di polizia?

Riprendendo il convincimento di Gary Marx5 che vede nelle narrazioni, così come nelle immagini, una componente importante di quella cultura della sorveglianza che poi si riverbera sulla quotidianità, Lyon approfondisce le questioni relative alla trasparenza contemporanea ricorrendo ad alcuni prodotti di fiction indaganti a loro volta la questione, riferendosi in particolare al romanzo Il cerchio (The Circle, 2013) di Dave Eggers – da cui è stato tratto un film (2017) diretto da James Ponsoldt – e all’episodio Caduta libera (Nosedive, ep. 1, serie 3, 2016) della serie Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix) ideata da Charlie Brooker. Lo studioso si concentra su come l’ascesa della sorveglianza sociale e la sua fusione con la quella dello Stato e delle corporation influisca sia sugli immaginari che sulle pratiche degli individui mettendo in evidenza le contraddizioni della visibilità del quotidiano e la disponibilità che soprattutto le corporation vengono ad avere della sfera privata e degli immaginari degli utenti-clienti.

Il romanzo di Eggers narra di un’azienda-comunità della Silicon Valley che persegue l’imperativo della trasparenza totale in cui i dipendenti, oltre ad abitare edifici in cui attraverso l’ampio ricorso a vetrate si tende ad annullare la differenza tra interno ed esterno, sono sottoposti a un controllo continuo attraverso un costante monitoraggio partecipativo a cui essi stessi concorrono condividendo rigorosamente tutto ciò che li riguarda all’interno e all’esterno dell’ambito strettamente lavorativo. Una perenne esposizione che richiede a tutti di inscenare una performance continua che non consente “momenti d’ombra”6.

Il romanzo segue l’esperienza della giovane assunta Mae Holland narrando la sua entusiastica adesione alle direttive aziendali e le difficoltà che incontra nel rapportarsi con chi non fa parte di quella che si rivela essere una vera e propria comunità chiusa. La parte forse più interessante del romanzo riguarda i meccanismi che rendono attraente la trasparenza totale. «Diventeremo onniveggenti, onniscienti» declama Bailey, uno dei cofondatori dell’azienda, in stile Steve Jobs, davanti a un pubblico estasiato dalle nuove videocamere “SeeChange” che presenta. Un “vedere” e un “sapere” che, sottolinea Lyon, risultano «prosciugati e trasformati in dati». Con i Big Data che assumono l’aura del Sacro Graal.

Per quanto possano apparire estremizzate le cose narrate dal romanzo, non sono pochi gli oggetti e le pratiche che si ritrovano nella realtà contemporanea. Basta digitare “dropcam” su un motore di ricerca – tanto per fornire altri dati di profilazione a Google & C. – per vedere le versioni reali già disponibili delle “SeeChange” del romanzo: videocamere sempre più piccole ed economiche, semplici da installare con cui è possibile raccoglie immagini volendo anche senza che nessuno se ne accorga.

Il campus-azienda de Il cerchio non è poi molto dissimile dalle smart city che si stanno sperimentando e costruendo un pezzo alla volta con un certo entusiasmo diffuso e non c’è bisogno di ricorrere a romanzi distopici nemmeno per imbattersi nel tracciamento dei movimenti tramite smartphone o veicoli (già diverse assicurazioni installano dispositivi in grado di tracciare con precisione i movimenti dell’automobile) o per individuare nei social network quella sorta di dipendenza da condivisione che porta a condividere tutto di se stessi7. «Noi consideriamo la tua presenza online una parte integrante del lavoro che svolgi» viene detto alla giovane neoassunta per incentivarla a condividere se stessa sulla rete assecondando l’imperativo aziendale della trasparenza totale.

Mae, la protagonista del romanzo di Eggers, si rende pian piano conto di prendere parte a forme di sorveglianza partecipativa essendo al contempo controllata e controllore. Si tratta di un fenomeno che Alice Marwick8 definisce “sorveglianza sociale”: i social network, nella loro duplice natura di piattaforme in cui si consumano e producono informazioni, creano una modalità simmetrica di sorveglianza in cui gli osservatori si attendono di essere a loro volta osservati e, frequentemente, desiderano entrambe le cose.

A differenza di altre tipologie, nella sorveglianza sociale «il potere è coinvolto in ogni rapporto sociale, la sorveglianza è praticata tra individui più che dalle organizzazioni, e inoltre è reciproca perché entrambe le parti sono insieme osservatori e osservati»9. L’effetto finale di ciò, sostiene Marwick, è un addomesticamento generale delle pratiche di sorveglianza. Nel caso della sorveglianza sociale l’interesse è rivolto agli altri utenti e sebbene la gerarchia appaia appiattita (come nel caso degli “amici” dei social) le gerarchie non tardano a ricomparire all’interno dei rapporti all’interno del gruppo: le pratiche stesse della sorveglianza sociale si mostrano orientate a una “ricerca di potere”. Il ricorso ai social è spesso dettato da una ricerca di visibilità, di una dimostrazione di esistenza ed è a tale fine che gli individui inscenano deliberatamente una performance pubblica costruendosi un’identità che, non di rado, proprio per ottenere consenso, è votata al conformismo.

Se la sorveglianza, in generale, agisce per gestire, controllare e indirizzare la popolazione, la sorveglianza sociale secondo Marwick produce autodisciplina: lo sguardo della sorveglianza è interiorizzato, pertanto agisce sulle pratiche degli “amici” coinvolti. Ciò è reso evidente tanto nel romanzo Il cerchio che nell’episodio Caduta libera di Black Mirror in cui gli utenti partecipano con le loro valutazioni a stilare nei fatti i profili da cui la macchina del potere sceglierà a chi affidare i diversi ruoli. Insomma, le valutazioni espresse sui social si rivelano a tutti gli effetti potere.

Il graduale passaggio «dalle identità dei lavoratori novecenteschi incentrate sulla “disciplina” alle identità dei consumatori del Ventunesimo secolo caratterizzate dalla “performance”, che è trasparente per tutti»10 è assolutamente rafforzato dai social. La visibilità, soprattutto in tali ambiti di condivisione, è «un sito strategico in cui tentiamo di scegliere come ci presentiamo e di contestare come siamo visti, nel tentativo di plasmare e gestir questo processo. È essenziale per una politica del riconoscimento, per ottenere un trattamento equo delle differenze. Essere visibili o invisibili coinvolge capacità morali e pratiche ma in sé non significa oppressione o liberazione»11.

Nonostante i dati raccolti, come risulta evidente alla protagonista de Il cerchio, non dicano “tutto”, la loro raccolta ed elaborazione risulta strategica al “capitalismo della sorveglianza”12. Rovesciando le modalità della sorveglianza tradizionale, ora la sequenza diviene: prima tracciare, poi individuare. L’universo della rete – tanto all’“interno degli schermi” quanto nell’“Internet delle cose” – si rivela un sistema perfetto per ottenere informazioni dagli utenti senza particolari resistenze se non addirittura con entusiastica partecipazione.

È fin troppo chiaro che le attuali disposizioni politico-economiche significano povertà per la maggior parte della popolazione globale e producono alienazione, repressione, competizione, conflitto, relazioni frugali e separazioni per tutti, ricchi e poveri. E la sorveglianza di oggi senza dubbio contribuisce a questo mondo, lo favorisce. Nello sviluppo attuale della sorveglianza, il sospetto prende il posto della fiducia, la categorizzazione produce svantaggi cumulativi e le persone vengono trattate in base alla loro caratterizzazione in dati disincarnati e astratti13.

Esiste una via d’uscita da tutto ciò praticabile qua ed ora? Non si troveranno risposte circa il che fare nei romanzi come Il cerchio di Eggers né negli episodi di Black Mirror, certamente però la fiction di questo tipo ha il merito di allarmare non tanto di un pericolo potenziale ma del fatto che quanto ci racconta è già realtà. Meglio non sottovalutare la fiction; questa può rivelarsi un ottimo paio di occhiali sul modello di quelli di They Live (1988) di John Carpenter. Sul che fare, però, ci si deve arrangiare.


Bibliografia

  • Chicchi Federico, Simone Anna, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017.
  • Codeluppi Vanni, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
  • Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015.
  • DeNardis Laura, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021.
  • Foucault Michel, L’occhio del potere. Conversazioni con Michel Foucault, in Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Foucault Michel e Perrot Michelle, Marsilio, Venezia 1983.
  • Han Byung-Chul, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012.
  • Lyon David, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020.
  • Marwick Alice, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, Surveillance & Society 9.4, 2012.
  • Marx Gary T., Windows into the Soul: Surveillance and Society in an Age of Hight Technology, University of Chicago Press, Chicago 2016.
  • Zuboff Shoshana, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019.

Su Carmilla – Serie completa Culture e pratiche della sorveglianza


  1. Cfr. Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Id, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015. Su Carmilla

  2. Cfr. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, Luiss University Press, Roma 2020. Su Carmilla

  3. Cfr. Michel Foucault, L’occhio del potere. Conversazioni con Michel Foucault, in Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Michel Foucault e Michelle Perrot, Marsilio, Venezia 1983, p. 14. 

  4. Alice Marwick, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, Surveillance & Society 9.4, 2012. 

  5. Gary T. Marx, Windows into the Soul: Surveillance and Society in an Age of Hight Technology, University of Chicago Press, Chicago 2016. 

  6. Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017; Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012. 

  7. Cfr. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021. Su Carmilla. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit. Su Carmilla

  8. Cfr. Alice Marwick, The Public Domain: Social Surveillance in Everyday Life, op. cit. 

  9. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit., p. 162. 

  10. Ivi, p. 167. 

  11. Ivi, p. 168. 

  12. Cfr.: Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Su Carmilla

  13. David Lyon, La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, op. cit., p. 175. 

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Nemico (e) immaginario. Linee di fuga e conflitto oltre l’oscuro riflettere di Black Mirror https://www.carmillaonline.com/2020/04/28/nemico-e-immaginario-linee-di-fuga-e-conflitto-oltre-loscuro-riflettere-di-black-mirror/ Tue, 28 Apr 2020 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59302 di Gioacchino Toni

«Il grande assente dalle scene di Black Mirror è il corpo vivo del quotidiano, la poesia senza scrittura di quanti rosicchiano spazi e tempi di libertà interstiziale giocando tra il lecito e l’illecito, sospesi tra la sottomissione e l’insurrezione, di chi in modo surrettizio distorce il senso delle macchine, delle merci e delle comunicazioni in nome dell’ebbrezza di essere insieme, sfiorando il piacere anche nella dissipazione estrema del soggetto moderno» (Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca)

Anche il Web è un campo di battaglia, un ambito di conflitto, per quanto asimmetrico. [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il grande assente dalle scene di Black Mirror è il corpo vivo del quotidiano, la poesia senza scrittura di quanti rosicchiano spazi e tempi di libertà interstiziale giocando tra il lecito e l’illecito, sospesi tra la sottomissione e l’insurrezione, di chi in modo surrettizio distorce il senso delle macchine, delle merci e delle comunicazioni in nome dell’ebbrezza di essere insieme, sfiorando il piacere anche nella dissipazione estrema del soggetto moderno» (Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca)

Anche il Web è un campo di battaglia, un ambito di conflitto, per quanto asimmetrico. Certo la rete è territorio in cui imperversano dominio, alienazione, profitto e mercificazione, come denuncia la serie ideata da Charlie Brooker, ma non mancano, nemmeno lì, stratagemmi di sottrazione, di resistenza e sovversione.

Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca, nel volume Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis 2020), sottolineano come la serie, mancando di cogliere la complessità del reale, si riveli «uno spettacolo tanto fine dal punto di vista della concezione estetica, dell’architettonica e degli effetti speciali quanto superficiale sul piano sociologico, con particolare riferimento alla sociologia dell’immaginario e della vita quotidiana. Ad un’analisi puntuale, non è meramente un racconto che smaschera l’ideologia dominante nelle sue pratiche e nei suoi obiettivi, ma si pone anche come un suo specchio e strumento. L’una e l’altro appaiono disinteressati a cogliere il brulichio culturale in fermento al di là degli schermi e oltre i dispositivi di potere in campo.» (p. 69)

La rivoluzione industriale ha comportato un’estensione del dominio dell’alienazione ben oltre lo spazio lo spazio e il tempo del lavoro; se nelle pellicole che hanno messo in scena la tradizionale alienazione operaia questa si dava soprattutto nel momento del confronto lavorativo con la civiltà delle macchine durante la produzione, mantenendo momenti di libertà al di fuori di essa, in Black Mirror – es. 15 Millions Merits (15 milioni di celebrità, ep. 2, serie 1, 2011), Nosedive (Caduta libera, ep. 1, serie 3, 2016) e White Christmas (2014) – , sostengono Attimonelli e Susca, gli individui si presentano come «corpi post-umani integralmente assorbiti dalla tecnostruttura e dalle sue ramificazioni, senza più alcun margine di autonomia, salvo quello concesso da errori di sistema che, sebbene fatali, rappresentano i soli ed ultimi passi possibili per raschiare un residuo di libertà.» (pp. 88-89) Ad essere mostrata è pertanto una civiltà del tutto priva di godimento in cui l’esistenza è completamente in balia dell’alienazione.

A che livello, si chiedono gli studiosi, è allora possibile «intercettare uno iato dalla condizione associata con lo scambio tra la forza-lavoro del proletario versus il salario nell’Ottocento e il dono di sé del soggetto contemporaneo sotto forma di docilità nel rendere trasparenti i dati personali, nell’essere tracciati e nell’accogliere le multiple ingiunzioni provenienti dall’esterno della sfera personale?» (p. 70) Ad un modello che si regge sulla retribuzione sembra affiancarsi, più che sostituirsi, un modello fondato su un principio emotivo, affettivo e simbolico, piuttosto che materiale. Ciò non significa, sostengono Attimonelli e Susca, che non vengano monetizzate le attuali forme di socialità digitale, ma piuttosto che «ciò ha luogo a un piano troppo distante dalla sfera del vissuto perché possa essere considerato centrale su quello sociologico, semiologico e psicologico.» (p. 71)

L’immaginario collettivo pare ancora percepire la cultura digitale «come una dimensione intimamente legata all’abitare, a ciò che è spontaneo e gratuito nel senso etimologico del termine: gratuitus da gratia, la grazia, una forma di favore e di benevolenza senza ragione, pagamento o aspettazione di compenso.» (pp. 71-72) «Per quanto ingenuo possa sembrare […] lo spirito del Web e del suo corrispettivo negli scenari urbani è animato da una logica della comunicazione che privilegia le aree semantiche della comunità, della comunione e del comune. Ne consegue un investimento personale e societale ben più sostanzioso di quello agito tramite il denaro: esso ha a che vedere con la carne e con la fantasia, con i sentimenti e con le emozioni, con qualcosa al contempo più materiale e più immateriale degli scambi commerciali o finanziari. Per questo contempla un darsi completo, indiscriminato e irreversibile. Fatale, quindi, ma non secondo la visione univoca e soverchiante evocata da Black Mirror.» (p. 72).

Da parte sua Black Mirror, secondo i due studiosi, non mostra alcun piacere che non si riveli falso, distorto o perverso. I pochi barlumi di felicità che si riscontrano nelle puntate della serie assumono le sembianze di passioni fredde presto destinate alla disillusione: reificate dallo specchio dei media, nella logica semplificata di Black Mirror esse finiscono per divenire «cose tra le cose nel sistema degli oggetti, merci attorno ad altre merci. Frantumate in schegge disorganiche, finiscono per ferire la carne e demolire la psiche degli esseri umani.» (p. 75)

Per oltrepassare la parzialità della lettura proposta dalla serie, incentrata com’è sulla denuncia della perdita della soggettività, è necessario cogliere vie e pratiche di fuga in quella che troppo frettolosamente viene letta come mera passività dei soggetti. Nonostante la cupezza del discorso portato avanti da Black Mirror, almeno in alcune sue puntate – ad esempio in Hang the Dj (ep. 4, serie 4, 2017), San Junipero (ep. 4, serie 3, 2016) e Black Museum (pe. 6, serie 4, 2017) –, Attimonelli e Susca ritengono sia possibile intravedere qualche breccia nella serie e nel nostro quotidiano.

Su quelli che possono essere considerati i limiti dell’approccio critico veicolato dalla serie, si sofferma anche Federico Tarquini in un suo scritto intitolato Illusione (in Mario Tirino e Antonio Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale (Rogas Edizioni, 2018). Il regime visuale proposto da Black Mirror, sostiene lo studioso, da un lato tende a presentare il dispositivo digitale come superamento della visione biologica umana, dall’altro non manca di palesare come esso determini una particolare etica dello stare insieme in cui sono banditi i segreti. Se, come sostiene Georg Simmel, il segreto è un elemento costituente delle relazioni sociali, ne deriva che la sua esclusione imposta dalla tecnologia finisca per dare luogo ad una società in cui risulta estremamente difficile avere legami affettivi.

Nel regime visuale di Black Mirror, sostiene Tarquini, muta anche il rapporto tra visione e memoria. «Nell’era della rappresentazione questo legame si è espresso contemplando sia ciò che i propri occhi han visto, sia ciò che si presume di avere visto e che magari non si ricorda proprio per l’eccessivo tempo trascorso. Vista, visione, racconto, spazio e tempo si sommano in questo rapporto rendendo sofisticatissima l’azione della memoria nella cultura occidentale» (pp. 130-131). Il regime visuale della serie pare presupporre che a causa del dispositivo tecnologico, comportante l’espulsione dalla dimensione della memoria di tutto ciò che non appare certo e verificabile, si attui il superamento di tale complesso procedimento e tutto ciò viene presentato come un’amara illusione di progresso.

In The Entire History of You (Ricordi pericolosi, ep. 3, serie 1, 2011) ciò che sembra garantire un potenziamento della memoria e dell’esperienza quotidiana dell’individuo si rivela un dispositivo che lo condanna all’impossibilità di godere di relazioni affettive, dunque alla solitudine. «Insistendo così vigorosamente sul convincimento che le tecnologie infliggano un generale processo di falsificazione al piano del reale, Black Mirror sembra voler affermare l’illusione come ciò che caratterizza l’esperienza collettiva e personale dei media e delle tecnologie.» (p. 131). Nella serie l’illusione viene presenta come l’effetto principale del regime visuale imposto dalla tecnologia. Tale alterazione del rapporto tra percezione e conoscenza, suggerisce Black Mirror, conduce alla falsificazione del reale in ossequio alla volontà di un potere distopico talmente sofisticato da ottenere, attraverso la falsificazione, appunto, l’assoggettamento volontario degli individui ad una condizione alienata.

«La raffinata e coinvolgente linea narrativa che lega tutti gli episodi della serie sembra […] patire un limite teorico tipico del pensiero critico, ovvero sottostimare l’azione del soggetto quando entra in contatto con un qualsiasi medium» (p. 133). Da questo punto di vista la serie diverge da quelle letture critiche che vedono nel rapporto tra individuo e media un livello di complessità molto maggiore rispetto a quella proposto dalla serie di Charlie Brooker, una complessità colta, ad esempio, già da Walter Benjamin e dallo stesso Herbert Marshall McLuhan. Se il compito di Black Mirror è quello di metterci di fronte all’imbarbarimento in cui siamo precipitati, questo compito è svolto egregiamente. Prendere atto di ciò è certo indispensabile ma è giunto il momento di smettere di piangersi addosso volgendo mestamente lo sguardo al passato e imparare a leggere le linee di fuga e il conflitto nelle forme in cui si dispiegano qua e ora e, soprattutto, che possono darsi, più fragorosamente, in futuro.


Nemico (e) immaginario – serie completa

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Nemico (e) immaginario. Happycrazia e barlumi di rabbiosa umanità https://www.carmillaonline.com/2020/03/19/nemico-e-immaginario-happycrazia-e-barlumi-di-rabbiosa-umanita/ Thu, 19 Mar 2020 22:01:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58608 di Gioacchino Toni

«a fronte di un mondo organizzato sul principio del controllo e della valutazione, che estende a tutti la condizione della libertà vigilata, l’istituto penitenziario, luogo per eccellenza elaborato nella modernità al fine di punire e curare la devianza e ristabilire la “normalizzazione” dell’esistenza, in ossequio al vivere civile della società, si pone ormai per Black Mirror non in quanto gabbia, ma come una sorta di riserva dove gli umani possono esprimere in modo esacerbato ciò che resta del loro istinto – un’animalità smarrita e pervertita in rabbia. È l’ultimo rifugio dell’individuo, l’unica parentesi in cui questi può manifestare [...]]]> di Gioacchino Toni

«a fronte di un mondo organizzato sul principio del controllo e della valutazione, che estende a tutti la condizione della libertà vigilata, l’istituto penitenziario, luogo per eccellenza elaborato nella modernità al fine di punire e curare la devianza e ristabilire la “normalizzazione” dell’esistenza, in ossequio al vivere civile della società, si pone ormai per Black Mirror non in quanto gabbia, ma come una sorta di riserva dove gli umani possono esprimere in modo esacerbato ciò che resta del loro istinto – un’animalità smarrita e pervertita in rabbia. È l’ultimo rifugio dell’individuo, l’unica parentesi in cui questi può manifestare se stesso senza preoccuparsi dell’apprezzamento altrui. Al contrario, la vita collettiva, plasmata com’è da una solida alleanza di leggi neoliberali, reti sociali e tecniche di sorveglianza, appare come un sistema carcerario a cielo aperto da cui urge affrancarsi.» (pp. 54-55)

Così scrivono Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca analizzando la celebre serie televisiva ideata da Charlie Brooker nel volume Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis, 2020). Circa il come affrancarsi da una deriva paradossale in cui una minima traccia di umanità residua la si riscontra in qualche impeto rabbioso di chi vive la reclusione estrema del penitenziario, residuo moderno resistente ai cambiamenti, Black Mirror (dal 2011), sostengono gli studiosi, sembra invitare ad un rigetto della felicità illusoria ed effimera da cui si è quotidianamente bombardati da quell’happycrazia neoliberista in cui ogni «barbaglio di benessere dissimula in realtà uno specchio nero frantumato, la nostra vita ridotta a pezzi indistinguibili, disorganici e impotenti.» (p. 56)

Episodi come Playtest (Giochi Pericolosi, ep. 2, serie 3, 2016), 15 Millions Merits (15 milioni di celebrità, ep. 2, serie 1, 2011), White Bear (Orso Bianco, ep. 2, serie 2, 2013), insieme ad altri, sostengono Attimonelli e Susca, sottolineano come l’impressione di disporre del mondo intero attraverso un clic, celi di fatto la resa, più o meno cosciente, dell’essere umano alla subordinazione, al controllo e alla manipolazione operata da big data, social profiling, algoritmi ed intelligenza artificiale.

Questa costante sollecitazione all’attenzione a cui è sottoposto l’individuo ridotto a “carne elettronica” dai ritmi digitali, ha finito per negarlo in quanto soggetto dotato di un punto di vista. Dentro e fuori dal web, sostengono i due studiosi, si palesa una situazione di “orgia permanente” in cui l’individuo gode dell’altrui presenza solo nel concedersi, «come in una sorta di prostituzione sacra, sullo sfondo di una petite grande mort. […] Ecco perché possiamo suggerire che la “prostituzione generale” dell’esistenza segnalata e paventata da Marx nella sua analisi del modo di produzione capitalista sia oggi in corso di realizzazione, in modo integrale, ben oltre l’ambito della produzione e della sfera sessuale.» (pp. 51-52)

Episodi come White Christmas (Bianco Natale, 2014), Arkangel (ep. 2, serie 4, 2017) e Black Museum (ep. 6, serie 4, 2017), illustrano perfettamente come «in sintonia con il ritmo e con la morfologia delle nostre esistenze digitali, delle reti sociali e di ogni forma di interconnessione che scandisce il nostro vissuto, la condivisione ininterrotta dell’esperienza, l’essere-insieme incessante e la disponibilità illimitata nei confronti dell’altro afferenti al regno dell’always on, dello sharing, dei follower, dei fan, della geolocalizzazzione, ma anche dei sistemi di videosorveglianza, che ne rappresentano il contraltare oscuro, delineano la totale cessione dell’individuo, nella carne e nello spirito, a corpi che gli sono estranei. Questo cedimento, è il caso di sostenere, appare tanto più considerevole quanto più assecondato senza particolari forzature, per usare un eufemismo, da quanti vi sono coinvolti, i quali non mancano di apostrofarlo con cuoricini, like, smiley, sticker, Gif ed emoji entusiasti nel mentre avvertono di starne soffrendo e subendo le conseguenze tramite da un lato la riduzione della libertà personale, dall’altro l’incremento vertiginoso dello stress, dell’ansia e della sensazione d’impotenza.» (pp. 52-53)

Tutto ciò, continuano Attimonelli e Susca, è ben esemplificato dall’episodio Nosedive (Caduta Libera, ep. 2 serie 3, 2014), in cui gratificazione personale, successo e felicità degli individui dipendono dall’approvazione sociale ottenuta dai “contatti” in base al grado di soddisfacimento delle attese. Svuotata di ogni possibilità decisionale autonoma, la protagonista cade in uno stato di alienazione e angoscia che ne inibisce ogni libertà d’azione finendo paradossalmente per ritrovarne qualche residuo soltanto nello stato di prigionia, quando si lascia andare ad un’incontrollata reazione rabbiosa, nei confronti del vicino di cella, accumulata nel corso di un’esperienza esistenziale frustrante. Il suo è un sussulto disperato e rabbioso che incarna la violenza strutturale di un sistema rivelatosi spietato, un sussulto però capace di palesare un barlume, per quanto brutale, di istinto umano sopravvissuto.

Denunciare l’imbarbarimento in cui ci si accorge, quasi improvvisamente, di essere precipitati potrebbe non bastare. «Stiamo tutti morendo», sembra suggerirci la celebre serie televisiva, «o forse siamo già morti nel mentre la nostra esistenza è gonfiata, augmented ed estesa all’inverosimile tramite protesi, reti digitali, banche dati, algoritmi e tecnologie connettive in grado d’integrare la nostra coscienza, potenziare il nostro sentire e attualizzare le nostre fantasie.» (p. 47)

«Vediamo tutti quegli attori e cantanti che in tv o sui social, belli come il sole, invitano sorridendo la gente a restare a casa. Ma un operaio come fa?» Così si esprimeva un operaio brianzolo pochi giorni dopo l’esplosione delle disperate e rabbiose insurrezioni nelle carceri, in pieno dilagare del contagio e dell’inasprirsi di quello stato d’emergenza che, passo dopo passo, sembra essere divenuto elemento strutturale della contemporaneità.

Ci si spaventa facilmente di fronte a qualche barlume di una rabbia che, per quanto possa tragicamente assumere indirizzi irrazionali, pare comunque derivare da un disperato tentativo, del tutto umano, di riappropriarsi di se stessi in risposta a un sistema alienante strutturato sui principi della mercificazione, dello sfruttamento, del controllo e della valutazione, sistema che di umano pare davvero avere sempre meno.

What if? E se… a spaventare cominciassero ad essere i riflettori dell’happycrazia ed il luccichio dei suoi testimonial sorridenti, cosa potrebbe succedere?

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Nemico (e) immaginario. La morte, l’oblio e lo spettro digitale https://www.carmillaonline.com/2019/06/18/nemico-e-immaginario-la-morte-loblio-e-lo-spettro-digitale/ Tue, 18 Jun 2019 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53162 di Gioacchino Toni

Il sopraggiungere della morte comporta per ogni essere umano un, più o meno lento, scivolamento nell’oblio. Per certi versi ciò che sembra spaventare maggiormente gli esseri umani, per dirla con Antonio Cavicchia Scalamonti, è «la morte in quanto oblio»1 e, proprio per differire l’oblio, nel corso del tempo l’umanità ha tentato in ogni modo di costruire una memoria duratura.

Anche a causa dell’entrata in crisi delle promesse religiose, almeno in Occidente, il rischio di scivolare [...]]]> di Gioacchino Toni

Il sopraggiungere della morte comporta per ogni essere umano un, più o meno lento, scivolamento nell’oblio. Per certi versi ciò che sembra spaventare maggiormente gli esseri umani, per dirla con Antonio Cavicchia Scalamonti, è «la morte in quanto oblio»1 e, proprio per differire l’oblio, nel corso del tempo l’umanità ha tentato in ogni modo di costruire una memoria duratura.

Anche a causa dell’entrata in crisi delle promesse religiose, almeno in Occidente, il rischio di scivolare nell’oblio velocemente pare essere percepito dall’essere umano con crescente inquietudine. Risulta pertanto particolarmente interessante, in una società iperconnessa come l’attuale, interrogarsi circa il significato che assume il concetto di “immortalità” sul web.

Spunti di riflessione su tali questioni, ed in particolare sulla Digital Death, sono offerti da alcuni episodi di Black Mirror (dal 2011), produzione audiovisiva seriale ideata da Charlie Brooker che, scrive Alessandra Santoro nel libro collettivo dedicato alla serie curato da Mario Tirino e Antonio Tramontana,2 con acume e lucidità disarmante sembra «portare iperbolicamente all’esterno le paure, le dissonanze, le ferite aperte e le crepe di un mondo dominato da una crescente deriva tecnologica. Deriva che riflette non tanto una società governata dai media, quanto un futuro distopico e pessimista dominato dagli uomini attraverso i media» (p. 157).

Affrontando nel volume il lemma “Morte”, scrive Santoro: «la cultura digitale, oggi, sembra […] impegnata nel tentativo di mettere in discussione la stasi che deriva dall’interruzione che la morte porta nello scorrere del tempo, e lo fa offrendo la possibilità concreta di accumulare tracce con l’intento di conservare una memoria digitale (o eredità digitale) di quello che siamo stati e, in alcuni casi, si propone di rielaborare l’insieme dei tratti accumulati nel corso dell’esistenza nel tentativo di realizzare una sorta di immortalità digitale: far sopravvivere i defunti sotto forma di “spettro digitale”, fornendo tecnologicamente un’autonomia vivente ai nostri dati, i quali, sottratti dalla sostanza corporea che li animava e incarnando la nostra identità personale, proseguirebbero la vita, in versione digitale, che la morte ha spezzato» (pp. 159-160).

La difficoltà di accettare la morte è al centro, ad esempio, di Be Right Back (Torna da me, Episodio 1, Seconda stagione). Viene qua mostrata la possibilità per chi resta di mantenrsi in contatto con il defunto attraverso un software in grado di rielaborare il materiale condiviso online durante la vita dallo scomparso. Si viene a creare così un “simulacro” dell’individuo vissuto in grado di comunicare con i vivi.

Facendo riferimento alla realtà extra-schermo, Santoro racconta dell’esistenza di servizi web che si occupano di garantire l’immortalità digitale. È prevista un’iscrizione “preventiva” finalizzata alla memorizzazione continuativa di dati dei principali social media al fine di creare un individuo artificiale potenzialmente eterno. Dopo la morte dell’iscritto, costui viene “tenuto in vita” virtualmente attraverso la rielaborazione dei dati da lui stesso registrati per poi essere collegato con tutte le persone precedentemente indicate. È previsto persino una avatar 3D affinché tale entità appaia ed interagisca con gli altri utenti; una sorta di “spettro digitale”.

Scrive Santoro che «tali sistemi sottovalutano però l’importanza simbolica dell’interruzione del divenire temporale: la sopravvivenza dei nostri avatar virtuali non coincide con le regole evolutive della crescita e dell’invecchiamento, ma si limita alla ripetizione meccanica di ciò che ha fatto parte di una storia vissuta ne passato di chi non c’è più e che è impossibilitata a determinarsi in modo innovativo nel futuro. Un’identità che allo stesso modo di quella “reale” rimane incompiuta, statica, ferma all’istante in cui la morte ha interrotto il corso della sua possibile evoluzione» (p. 163).

In San Junipero (Episodio 4, Terza stagione), «il carattere distopico e l’ineludibilità della morte apparentemente sembrano perdersi con la costruzione di un upload in grado di racchiudere la coscienza delle persone in un corpo metallico da proiettare in una paradisiaca eternità virtuale che sembra vincere la morte e la malattia. Una sorta di cookie (estratti delle persone che riproducono, impressi in una memoria artificiale, ricordi, gusti e abitudini del possessore), come lo rappresenta Brooker in White Christmas (Bianco Natale, speciale 2014), o più comunemente inteso come un mind uploading, ossia un procedimento che consente di creare una copia perfetta del cervello [dell’essere umano] per poi trasferirla su un supporto non biologico di modo che, da un lato, esso possa sfuggire al deperimento naturale e, dall’altro, possa crescere, alimentarsi di nuova coscienza e interagire con il mondo reale» (pp. 163-164).

Santoro si sofferma sul finale di San Junipero, quando le immagini mostrano un braccio meccanico che, nella sede della TCKR System, impianta un chip in una distesa di capsule rimandante ad una sorta di cimitero riproducente il mondo virtuale di San Junipero. Il messaggio lanciato, sostiene la studiosa, diretto e inquietante, sembra chiedere se «è realmente la coscienza delle persone a essere racchiusa in quel corpo metallico» o se non sia piuttosto «un riflesso computerizzato di quella coscienza, una sua copia sbiadita» (p. 165).

Il cervello, però, non può che essere pensato come “esteso”, “incarnato”; ogni attività neurobiologica del cervello umano dipende dai segnali provenienti dal corpo e dall’ambiente. «Il corpo, inoltre, è sempre «immerso e situato in un ambiente che lo influenza e da ca cui è influenzato» (p. 166). Il cervello ha una storia sia biologica che sociale; pertanto non è possibile pensare di poter prolungare la sopravvivenza attraverso il suo isolamento dal resto del corpo trapiantandolo in un supporto vitale artificiale.

Sulle medesime questioni che la serie audiovisiva ha il merito di trattare, ragionano anche Fausto Lammoglia e Selena Pastorino3 a partire da due concetti chiave: “post-umano” e “transumanesimo”.

Con il primo termine, sostengono i due studiosi, «si intende una visione dell’essere umano come una macchina di carne che può essere integrata, riparata e finanche migliorata con parti meccaniche o digitali, che caratterizzerebbe la nostra epoca contemporanea». (p. 29). Con post-umano ci si riferisce non solo le protesi di miglioramento/potenziamento sensoriale o psicomotorio, ma anche alla relazione di dipendenza degli esseri umani con la tecnologia.

Con termine transumanesimo, invece, sempre secondo Lammoglia e Pastorino, si fa riferimento ad «un movimento filosofico, sociale ed economico, figlio del tecnocapitalismo, che ha un unico obiettivo: superare il limite fisico della morte (in particolare della vecchiaia)» (p. 30). Che si tratti di sospensione crionica, di upload delle coscienze o di integrazione cibernetica del corpo umano, il transumanesimo pare ossessionato dal superamento dei limiti della mortalità umana, e tale possibilità, sostengono i due autori, «è, prima di tutto, ricerca religiosa di un senso che possa superare i limiti della nostra mortalità che, per i transumanisti, sono fisici e strettamente dipendenti dalla struttura corporale dell’essere umano. In quanto tale essa ha bisogno di profeti, i ricercatori della Silicon Valley, strenui difensori di tale possibilità che, però, è quasi completamente infondata poiché, ad oggi, non si ha ancora nemmeno una briciola di indizio su come funzioni la nostra mente (sappiamo qualcosa in più dell’hardware cervello, ma pochissimo del software mente)» (p. 48).

Il confronto con il fine vita e la speranza di procrastinare il sopraggiungere della morte, compare anche in alcuni episodi di Black Mirror ma, a differenza dei transumanisti, la serie invita a riflettere circa la disponibilità ad affrontare i “costi” che le “soluzioni tecnologiche” pongono all’individuo ed alla società.

Partendo da presupposti che vogliono per certe tanto l’esistenza della coscienza, quanto la possibilità che questa possa essere “caricata” su un supporto diverso da quello del corpo dell’individuo, Black Mirror si preoccupa di contraddire l’entusiasmo dei ricercatori ponendo questioni inerenti il campo delle relazioni, della psicologia e dell’identità che toccano problemi esistenziali, etici e legislativi.

«Ammesso che sia possibile caricare le coscienze su un cloud, esse hanno sempre bisogno di un supporto fisico (sia questo un pc, un robot, un altro essere umano o un peluche). […] Se accettiamo una definizione che indichi l’essere come tutto ciò che possa agire o subire un’azione, comprendiamo immediatamente come una coscienza senza supporto non possa effettivamente “essere”. È necessario che sia in qualche modo incarnata, che abbia delle propaggini che le permettano di relazionarsi con il reale. […] Possiamo dunque sintetizzare che, a livello pratico, serve un corpo che possa rendere le coscienze esistenti (capaci di interagire con il mondo); che tale corpo dovrebbe essere il più possibile autonomo (non dipendente da altri individui, pena il rischio di perdere la propria esistenza […]); e che, cognitivamente, potremmo avere difficoltà ad accettare l’esistenza di un altro Io virtuale se prima non abbiamo fatto esperienza della sua realtà corporale. La nostalgia, però, sembra un problema identitario ancor più radicale, scalfito in parte dal problema cognitivo appena accennato. Tutti, ma proprio tutti i casi citati negli episodi di Black Mirror, hanno bisogno di vedersi come corpi, poiché il corpo è legato alla concezione di esistenza […] Il corpo non è solo il mezzo per agire, ma è componente essenziale (alla nostra mente) per pensarsi esistenti. Risulta difficile, se non impossibile, ad ognuno provare ad immaginarsi senza corpo. Non riusciamo in alcun modo a pensarci come semplici voci nel nulla. Sembra impossibile quindi giungere alla completa trascendenza dal corpo senza perdere con essa l’identità (se non anche l’esistenza): non c’è una liberazione dal corpo prigione (come sosteneva Platone) che possa configurarsi come esistenza migliore. Non per ciò che abbiamo esperito. Esiste però una differenza tra il bisogno di un corpo e la dinamica identitaria ad esso connessa» (pp. 49-52) .

Continuare a parlare di mente e corpo, come di due entità separate, è quantomeno fuorviante, se non scorretto, sostengono Lammoglia e Pastorino, «meglio sarebbe parlare di persona, la cui identità, radicata nella sua essenza, è costruita (e dipendente) sia dall’aspetto razionale che da quello fisico e materiale. Mente e corpo non sono quindi due parti scisse ma due dimensioni correlate, assolutamente reciproche, e continuamente influenzate l’una dall’altra di ogni persona. Sembra che Black Mirror voglia essere sì profeta, ma di tipo apocalittico, del transumanesimo. Nella notte di questa fede cieca del terzo millennio, la profezia mette le macchine davanti allo specchio chiedendo che si riconoscano, mette i progettisti a sedere chiedendo loro quale bioetica per il futuro e, non ottenendo risposta, prova a mostrare conseguenze non preventivate» (p. 53).

Insomma, a questa partita che l’essere umano si ostina a giocare, la morte vince sempre. Forget about it!


Fausto Lammoglia – Selena Pastorino, Black Mirror. Narrazioni filosofiche, Mimesis, Milano-Udine, 2019, € pp. 170, € 18,00

Mario Tirino – Antonio Tramontana (a cura di), I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale, Rogas Edizioni, Roma, 2018, pp. 280, € 19,70

Serie completa di “Nemico (e) immaginario


  1. A. C. Scalamonti, La camera verde. Il cinema e la morte, Ipermedium 2003 

  2. M. Tirino – A. Tramontana (a cura di), I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale, Rogas Edizioni, 2018 

  3. F. Lammoglia – S. Pastorino, Black Mirror. Narrazioni filosofiche, Mimesis, 2019, p. 29 

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Nemico (e) immaginario. I riflessi di Black Mirror https://www.carmillaonline.com/2019/03/15/nemico-e-immaginario-i-riflessi-di-black-mirror/ Thu, 14 Mar 2019 23:50:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51530 di Gioacchino Toni

«Black Mirror è una monade: un’opera […] capace di tenere in sé le tensioni di un’epoca. È la rappresentazione più tangibile di una serie di angosce che accompagnano quelle azioni sempre più frequenti e, ormai, sempre più tangibili riassumibili nell’uso della tecnologia» Mario Tirino e Antonio Tramontana

Il successo globale ottenuto dalla celebre serie ideata da Charlie Brooker, che ha preso il via nel 2011 ed è ancora in produzione, inizialmente andata in onda su Channel 4 per poi passare su Netflix, oltre a dipendere da alcune indovinate scelte strategiche [...]]]> di Gioacchino Toni

«Black Mirror è una monade: un’opera […] capace di tenere in sé le tensioni di un’epoca. È la rappresentazione più tangibile di una serie di angosce che accompagnano quelle azioni sempre più frequenti e, ormai, sempre più tangibili riassumibili nell’uso della tecnologia» Mario Tirino e Antonio Tramontana

Il successo globale ottenuto dalla celebre serie ideata da Charlie Brooker, che ha preso il via nel 2011 ed è ancora in produzione, inizialmente andata in onda su Channel 4 per poi passare su Netflix, oltre a dipendere da alcune indovinate scelte strategiche di ordine produttivo e distributivo, ha sicuramente a che fare con la sua capacità di mettere il pubblico di fronte a problematiche e contraddizioni relative al rapporto dell’essere umano con l’ambiente tecnologico-mediatico contemporaneo. Questioni che coinvolgono il pubblico direttamente, persino nell’atto di fruire della serie stessa attraverso uno dei tanti dispositivi digitali, specchi neri, in cui il concreto e il visionario si confondono.

«La spettatorialità di Black Mirror, tuttavia, si caratterizza come un’esperienza al limite dell’incubo. Infatti, quegli stessi media attraverso i quali egli interagisce con la comunità dei fan sono oggetto dell’angosciante narrazione della serie. In termini più chiari, la serie di Brooker svela il potenziale angoscioso di un sistema mediale che è assai prossimo a quello in cui si muovono i suoi spettatori, i quali, così, sono protagonisti e spettatori della trasformazione antropologica raccontata sullo schermo. È in questa dinamica che si condensa il meccanismo del riflesso: gli specchi neri di smart TV, tablet, smartphone sui quali si proiettano le immagini digitali della serie, creando nello spettatore una fascio di reazioni emotive dall’angoscia alla paranoia, al terrore di smarrire il senso del proprio “stare al mondo”. Inoltre, i media, della cui terrificante evoluzione Black Mirror narra, sono gli stessi ambienti socioculturali in cui esperiamo grossa parte dell’esperienza quotidiana» (pp. 30-31).

Black Mirror si presenta, pertanto, come uno specchio i cui riflessi non possono lasciare indifferenti; le aberrazioni che vi si trovano riflesse sono anche le nostre, senza troppe distinzioni tra chi approccia gli schermi per mero intrattenimento e chi lo fa armato di nobili visioni critiche. Nel momento stesso che ci si rapporta con i dispositivi mediatici si è costretti a fare i conti con i loro/nostri riflessi e tutti, indistintamente, ci si trova di fronte al problematico rapporto quotidiano con una ambiente altamente tecnologizzato.

Sulla fortunata serie britannica è da poco uscito il volume curato da Mario Tirino e Antonio Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale (Rogas Edizioni 2018). Vengono qui affrontati da diverse voci diciassette lemmi utili a indagare la serie con l’obiettivo di interpretare il mutamento culturale, mediatico e di immaginari in corso nell’attuale società digitale globalizzata. I differenti contributi, come sottolinea Alfonso Amendola nell’Introduzione al volume, «si orientano attorno a tre macro aree, tra loro frequentemente intrecciate: i conflitti dell’immaginario causati da un “salto di qualità” ne rapporto tra uomo e tecnica […]; la trasformazione effettiva dei sensi e delle facoltà umane, generata appunto da tali conflitti […]; la fenomenologia dell’esperienza mediale nell’era della post-televisione» (p. 16).

A differenza di diversi altri prodotti culturali distopici recenti, la serie britannica si presenta in un formato antologico in cui ogni puntata risulta indipendente dalle altre. «Liberata dalle regole imposte da una trama rigida, la narrazione di Black Mirror è piuttosto ancorata al problema specifico posto in ogni puntata [in ciascuna  delle quali] vi è una tecnologia con problematiche differenti e in ognuna si percepisce uno stato d’animo singolare» (p. 21). La ricchezza della serie, secondo i curatori del volume, risiederebbe proprio nel suo affrontare un variegato ventaglio di questioni senza mai farlo in maniera esaustiva. «Da tale ricchezza ognuno ricava qualcosa: dalla semplice condanna moralistica di certi usi della tecnologia ai tentativi, spesso raffinati, di trovare vie di fuga dinnanzi all’inevitabile. Tutto ciò contribuisce a riunirne un pubblico ampio e variegato, mettendo insieme soggetti affascinati dalla distopia e pensatori che tentano di decrittare i geroglifici della nostra epoca» (pp. 21-22).

Se da sempre l’essere umano ha trovato nella tecnica quelle protesi utili a completare le sue deficienze biologiche e per modificare i contesti in cui agisce in base ai suoi desideri, ciò vale anche per la tecnologia digitale. «Ogni tecnologia porta con sé un proprio mondo immaginario, ed è a partire dalla compresenza di questi due elementi (gesto e parola, materia e simboli, tecnica e immaginario) che occorre indagare le sfide imposte dall’epoca dominata dalla tecnologia digitale» (p. 27). Scrivono a tal proposito Tirino e Tramontana: «L’elemento su cui agisce l’avvento di una nuova tecnologia è l’altro polo della nostra corporeità: l’immaginario. L’operazione tipica consiste nella capacità di una nuova tecnologia di trasformare l’immaginario. La tecnologia digitale, così com’è stato per tutte le altre grandi epoche tecnologiche che ci hanno preceduto, riorganizza i nostri gesti tecnici nella misura in cui l’immaginario si ridistribuisce attorno all’evento dell’elemento innovativo» (p. 27).

La tecnologia digitale, sostengono i curatori del volume, com’è stato per tecnologie precedenti, è una “tecnologia caratterizzante”, un “aggregato tecnologico” capace di individuare ed aggregare idee apparentemente distanti tra loro. «È nell’essere una tecnologia caratterizzante che oggi si ridefinisce il centro attorno a cui si coagulano le nostre energie psico-fisiche, così da ergersi a elemento in grado di riorganizzare sia l’attività microscopica della vita quotidiana sia il funzionamento delle “grandi” istituzioni sociali. In questo ordine di problemi Black Mirror tira il suo fendente nel cuore pulsante di quest’epoca e contribuisce a dare una forma alle inquietudini nutrite da ore e ore di utilizzo di tecnologia digitale- provando a sintetizzare in un’unica immagine gli effetti di una realtà sociale dominata da una specifica tecnologia caratterizzante. Se si dovesse osare una classificazione degli episodi, si potrebbe dire che Black Mirror ha per oggetto due tipi di tecnologie: quelle legate alla relazione con il bios e quelle legate al controllo e manipolazione dello spaziotempo» (pp. 27-28).

Mentre i dispositivi-protesi ridefiniscono «l’immaginario che ognuno si costruisce del proprio sé» succede che «attraverso sistemi e architetture, viene riscritto il perimetro d’intervento in cui ognuno di noi agisce in qualsiasi istante della nostra vita». Black Mirror «mette in scena un universo frastagliato di protesi e forme di relazioni rappresentate in forma distopica che si potrebbero riunire, per parafrasare un classico della psicologia sociale [George Herbert Mead, Mind, Self and Society (1934)], nella seguente formula: tecnologia, Sé e società. A partire da questa triade fondamentale, la tecnologia digitale ha il compito di coniugare due elementi del tutto differenti e, in qualche misura, contrapposti: l’individuo e la società» (p. 28).

A risultare interessante nella serie, sostengono Tirino e Tramontana, non è tanto il contenuto delle sue narrazioni distopiche, quanto piuttosto la “forma” mediale che incarna: «una sorta di virus che attacca gli ambienti e le piattaforme attraverso cui viaggia, denunciandone le alienanti conseguenze sulla viva “carne” degli individui del nuovo millennio» (p. 34).

Il fatto che Black Mirror viva negli stessi habitat mediali che prende di mira rappresenta un’interessante contraddizione su cui riflettere, così come qualche riflessione merita il fatto che nemmeno chi approccia la serie (e la realtà) armato di pensiero critico possa “chiamarsi fuori” da tali habitat contestati dalla serie.

Il glossario proposto dal volume è composto da diciassette lemmi affrontati da altrettanti autori/autrici: Algoritmo (Mario Pireddu), Atmosfera (Giulia Raciti), Audience (Antonella Mascio), Corpo (Claudia Attimonelli), Democrazia (Milena Meo), Esperienza (Vincenzo Susca), Illusione (Federico Tarquini), Interazione (Antonio Tramontana), Memoria (Damiano Garofalo), Morte (Alessandro Sntoro), Paranoia (Mario Tirino), Phatos (Ivan Pntor Iranzo), Paura (Fabo d’Andrea), Schermo (Fabio La Rocca), Serialità (Angela Maiello), Tecnica (Antono Lucci) e Zootecnica (Pier Luca Marzo).

Nel lemma Serialità, affrontato da Angela Maiello, si insiste su come la scelta antologica operata Black Mirror eviti la presenza di quei personaggi ricorrenti che divengono protagonisti in tanti prodotti seriali attraverso processi di formazione, elaborazione e trasformazione. Non vi sono nemmeno elementi narrativi correlati tra di loro in grado di conferire continuità al racconto. Non abbiamo qua la classica esplorazione narrativa seriale che procede lungo le due canoniche direzioni complementari: l’orizzontalità (lo sviluppo del marco-racconto su un prolungato arco temporale, spesso su più stagioni) e la verticalità (l’approfondimento drammaturgico su brevi storie aperte e chiuse all’interno dei singoli episodi). In Black Mirror il tema-conduttore esplorato verticalmente che lega episodi non correlati tra loro è dato dal rapporto tra l’essere umano e l’ambiente ad alto tasso digitale e mediale. «Questo “eccesso di tecnica”, per così dire, viene variamente declinato, e dunque serializzato, nei singoli episodi» (p. 224).

A livello verticale la studiosa individua quattro forme principali, non di rado intrecciate tra loro, di “eccesso di tecnica” presenti nella serie: quella dell’utilizzo delle immagini mediali e loro spettacolarizzazione (ad es. The National Anthem. Messaggio al Primo Ministro, Episodio 1, Prima stagione); quella del controllo e della sorveglianza (Arkangel, Episodio 2, Quarta stagione); quella della società mediatizzata (Hated in the Nation. Odio universale, Episodio 6, Terza stagione); quella della memoria e dell’accumulo dei dati (es. The Entire History of You. Ricordi pericolosi, Episodio 3, Prima stagione).

È a livello orizzontale, indispensabile al meccanismo della serializzazione, che secondo Maiello risiede la peculiarità di Black Mirror: il piano orizzontale è un piano extra-diegetico coincidente con il presente tecnologico in cui si vive. «La macro-storia orizzontale, all’interno della quale i singoli episodi possono essere sviluppati, coincide con il nostro presente, con l’accelerazione tecnologica che caratterizza la nostra epoca, con l’incertezza e il disorientamento che l’innovazione tecnologica produce, ogni qual volta una nuova prassi o un nuovo dispositivo si impongono collettivamente, mettendo in questione comportamenti e abitudini che vengono ormai dati per scontati, naturali» (p. 225).

La marco-storia orizzontale della serie, continua la studiosa, coincide anche con la narrazione mediatica che si fa dell’innovazione tecnologica che ha i due suoi poli opposti nei demonizzatori e negli estasiati. Ciò rende difficile la collocazione temporale della serie: si parla dell’umanità di oggi o di quella del futuro? La serie oscilla costantemente tra il tempo della verticalità (un futuro più o meno lontano) e quello dell’orizzontalità (il presente della narrazione mediale). «La marco-storia della serie coincide con la nostra contemporaneità e ciò si riflette negli approfondimenti verticali, interpretati in chiave distopica o fantascientifica, dei singoli episodi e delle specifiche stagioni» (p. 226). La storia orizzontale che conferisce coerenza narrativa alla serie, appare incentrata sullo squilibrio e sull’instabilità che segnano il contemporaneo rapporto tra l’essere umano e l’ambiente altamente tecnologizzato in cui vive.

«Il nostro presente, ovvero la narrazione orizzontale di Black Mirror, è il tempo dello squilibrio, e gli episodi sviluppati verticalmente ripropongono e declinano domande che sono sempre già presupposte dalla storia orizzontale, perché ritornano continuamente nella nostra quotidianità: come comportarsi in questa fase di accelerazione e instabilità? Come possiamo giocare i nostro ruolo rispetto a cambiamenti velocissimi e inaspettati? In che modo possiamo diventare attori responsabili di un processo che non possiamo dominare interamente, come un oggetto a noi estraneo dal momento che è costitutivo del nostro stesso essere umani? Come gestire le nuove competenze e le inedite facoltà? È questo il nucleo tematico della serie: la possibilità di una responsabilità digitale, che non si traduce nell’utilizzo responsabile, ovvero moderato, dei media e dei dispositivi tecnologici o nell’utilizzo per i giusti fini, bensì nell’esatto opposto, lo svincolamento della tecnica da qualsiasi fine che possa condannare o giustificare la pervasività […], e il quotidiano esercizio tecnico e creativo, ovvero quella che potremmo definire una educazione tecno-estetica […] che permetta di esplorare produttivamente le inattese potenzialità della tecnologia [al fine] di assumercene la responsabilità diretta» (p. 228).

Tre, secondo la studiosa, sono le strategie argomentative a cui ricorre la serie per porre il problema della responsabilità digitale: quella del dominio della tecnologia sull’uomo (es. Arkangel, Episodio 2, Quarta stagione); quella della fuga dalla tecnologia (es. The Entire History of You. Ricordi pericolosi, Episodio 3, Prima stagione); quella della concretizzazione di nuove possibilità esperienziali (es. Be Right Back. Torna da me, Episodio 1, Seconda stagione).

In conclusione del suo intervento Angela Maiello sottolinea come i protagonisti dei singoli episodi abbiano in comune con lo spettatore (l’unico protagonista ricorrente, quello della narrazione orizzontale) il bisogno di giungere ad un nuovo punto di equilibrio con l’ambiente fortemente tecnolgizzato/mediatizzato. Come tutti i racconti seriali, anche Black Mirror vive «della partecipazione attiva dello spettatore e della riflessività che essa genera» (p. 231); ciò, secondo la studiosa, può rivelarsi un’occasione da cogliere per riflettere collettivamente sulle modalità con cui l’essere umano deve imparare a rapportarsi con un ambiente fortemente digitalizzato e mediatizzato.

 

Serie completa di “Nemico (e) immaginario

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Nemico (e) immaginario. I media dei morti viventi del/nel neoliberismo https://www.carmillaonline.com/2016/08/23/nemico-immaginario-media-dei-morti-viventi-delnel-neoliberismo/ Tue, 23 Aug 2016 21:30:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32359 di Gioacchino Toni

ds345Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], dopo esserci soffermati sulla narrazione/costruzione del nemico nel cinema di fantascienza statunitense [su Carmilla] ed a proposito di come sulla figura dell’alieno (“dell’altro”) spesso vengano proiettate le peggiori caratteristiche dell’umanità [su Carmilla], è il caso di affrontare ancora alcuni aspetti del dilagare contemporaneo della figura del morto vivente. L’invasione zombie che ha occupato una parte importante dell’immaginario contemporaneo non può essere ricondotta soltanto [...]]]> di Gioacchino Toni

ds345Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], dopo esserci soffermati sulla narrazione/costruzione del nemico nel cinema di fantascienza statunitense [su Carmilla] ed a proposito di come sulla figura dell’alieno (“dell’altro”) spesso vengano proiettate le peggiori caratteristiche dell’umanità [su Carmilla], è il caso di affrontare ancora alcuni aspetti del dilagare contemporaneo della figura del morto vivente. L’invasione zombie che ha occupato una parte importante dell’immaginario contemporaneo non può essere ricondotta soltanto alla comparsa nella fiction di un’orda di living dead. Vi sono almeno altri due ambiti in cui, in forma metaforica, si manifesta la figura dello zombie: il mondo del lavoro, nelle sue forme di alienazione e sfruttamento, ed il mondo dei media tanto nella “narrazione-produzione” di morti viventi (basti pensare a come vengono quotidianamente presentati i migranti), quanto nel suo stesso palesarsi come mondo sospeso tra la vita e la morte, nel suo proiettarsi oltre il luogo, lo spazio ed il tempo. Insomma, come vedremo, i media costruiscono e sono morti viventi.

Al fine di approfondire tali tematiche ci viene in aiuto il nuovo libro di Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis 2016), ove lo studioso analizza la figura dello zombie come metafora che riguarda i media dal punto di vista produttivo, delle modalità di rappresentazione del potere da essi attuate e delle forme di consumo dei contenuti da parte del pubblico. La metafora dei morti viventi viene dunque indagata dall’autore facendo riferimento ai lavoratori delle imprese mediatiche, ai potenti messi in scena dai media ed ai pubblici.

La figura dello zombie sembra mettere in scena le paure e le ansie che abitano l’immaginario occidentale contemporaneo. Secondo diversi studiosi i morti viventi che popolano i media contemporanei rappresentano una sorta di reazione culturale alle ingiustizie sociali e politiche del momento. Quel che è certo è che quella dello zombie è una figura decisamente malleabile e ciò la rende supporto metaforico per inquietudini diversificate.

«Nel nostro percorso ci capiterà di imbatterci in orde di morti viventi, a seconda vittime o carnefici di un sistema neoliberista che riduce le persone a una non-vita. Incroceremo i loro sguardi, spesso interrogativi, e cercheremo di interrogarli a nostra volta» (p. 11).

A proposito dei morti viventi che popolano le produzioni audiovisive, Boni ne ricostruisce le principali fasi di sviluppo a partire dalla loro comparsa sul grande schermo negli anni Trenta e Quaranta quando, in linea con le sue origini haitiane, la figura dello zombie rimanda alla rappresentazione dello “schiavo senz’anima” delle piantagioni con evidenti riferimenti alle condizioni della working class americana negli anni della Grande Depressione. I film di questo periodo, inoltre, non mancano di esplicitare il timore degli occidentali di venire prima o poi dominati e “colonizzati” dai discendenti degli schiavi deportati dall’Africa. Se negli anni Cinquanta e Sessanta, la figura del morto vivente, oltre a richiamare le atrocità della guerra da poco terminata, rinvia al terrore per un’eventuale invasione comunista, successivamente, attraverso una nuova generazione di zombie, inaugurata da George Romero con La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), si sviluppano riflessioni sul razzismo, sull’imperialismo e sul consumismo.

Nelle più recenti produzioni audiovisive di zombie, in cui è diventato sempre più difficile distinguere nettamente la condotta dei morti viventi da quella dei sopravvissuti, oltre che a dare immagine all’ansia contemporanea determinata dalla mancanza di stabilità e sicurezza, si insiste sul tema del contagio e su questioni bioetiche. L’ultima generazione di zombie si lega «a una dimensione che potremmo ricondurre alla patologizzazione e alla medicalizzazione della società, la cui diffusione planetaria suscita tutti i nostri timori relativi ai processi della globalizzazione neoliberale […] I morti viventi diventano così la rappresentazione fin troppo realistica del proletariato contemporaneo, dei flussi migratori e della estrema facilità con cui è sempre più possibile per le persone finire in uno status di “non-persone”, veri e propri morti viventi» (p. 19).

Riprendendo il discorso sul mito sviluppato da Roland Barthes (Miti d’oggi), secondo Boni «il morto vivente costituirebbe una categoria dell’immaginario nella quale la nostra società trasferisce le proprie vittime sacrificali […] La furia e la soddisfazione che si provano nell’eliminare definitivamente uno zombie nei film e nelle fiction […] tradiscono questa funzione di capro espiatorio […], ma va sempre ricordato che, originariamente, esso è uno schiavo, “che ha perso l’anima per il lavoro imposto dal capitalista. Ogni mito conserva la propria origine, nascondendola, tramutandola in sintomo. Se ciò è vero gli schiavi sono sempre schiavi, anche oggi, come in origine, sono loro che il mito nasconde”. Insomma: lo zombie è un mito, ma queste orde di morti viventi esistono davvero, sono tristemente reali» (p. 27).

Attraverso il mito del morto vivente le vittime vengono trasformate in mostri, dunque diviene lecito, oltre che divertente, eliminarle. Scrivono a tal proposito Martino Doni e Stefano Tomelleri: «Gli zombi sono coloro che, nella loro difformità relativa, sono trasformati in difformi assoluti da un modo di produzione che ha perso ogni traccia di anima, che predica egualitarismo estremo e fa erigere mura difensive e ingaggia guerre preventive per accaparrarsi fonti energetiche. Gli zombi sono uomini, donne e bambini massacrati per mare e per terra, ogni giorno, con spietata e immonda regolarità, nel torpore delle estati occidentali […]. Noi guardiamo loro e vediamo degli zombi: vediamo cioè tutto ciò che noi non vorremmo mai essere. Questa è la vera proiezione. Lo zombi è il non-me […]. La nostra piccola sicurezza quotidiana è garantita dal mito che non muore mai: quello della vittima che è sempre pronta a farsi uccidere, infinitamente, tanto è già morta» [M. Doni, S. Tomelleri, Zombi. I mostri del nuovo capitalismo, pp. 70-71] (p. 28).

sociologie-boni-watching-dead-1Lo zombie, oltre a definire il campo discorsivo del neoliberismo politico ed economico e gli stessi corpi dei suoi protagonisti, si presenta anche come metafora degli effetti della “necropolitica” applicata sui corpi degli individui. I morti viventi vengono presentati come massa informe ma, sostiene l’autore, questi “ultimi degli ultimi” sono anche i rifiuti, gli scarti, della società neoliberista, sono l’immagine di quelle “vite di scarto” di cui parla Zygmunt Bauman (Vite di scarto). I morti viventi non sono soltanto gli operai zombificati dallo sfruttamento neoliberista, essi sono anche «i lavoratori-consumatori, una sorta di “proletariato inattivo” e inutile per cui non solo il lavoro è un ricordo, ma anche lo stesso consumo delle merci è una sorta di istinto inconscio e quasi inconsapevole e involontario. Sono molti gli studiosi che hanno individuato soprattutto ne L’alba dei morti viventi […], di George Romero, una metafora neanche troppo velata del consumismo contemporaneo, dove orde di zombie si assiepano intorno a un mall (riuscendo infine a entrarvi, spinti da un ricordo o da un istinto al consumo fine a se stesso)» (pp. 55-56).

A proposito di consumo, Rocco Ronchi sostiene che nello zombie è possibile scorgere una “nuova forma di proletarizzazione” che «consiste nella organizzazione del consumo come “distruzione del saper-vivere”, al fine di creare un astratto potere d’acquisto. Come il capitalismo classico si reggeva su di una forza lavoro astratta così il capitalismo postmoderno si regge sulla compulsione al consumo, vale a dire su di un vivente ridotto il più possibile alla sola funzione astratta di consumatore di merci» [R. Ronchi, Zombie outbreak, p. 59] (p. 57).

Nel saggio vengono affrontati i fenomeni della “mediatizzazione dello zombie” e della “zombificazione dei media”. Nel primo caso l’autore fa riferimento a come la figura dello zombie venga prodotta all’interno dei media, dunque a come essa sia un discorso mediatico, nel secondo caso a come gli stessi media possano essere letti come morti viventi.

A proposito della “mediatizzazione dello zombie”, Boni sostiene che lo zombie è una figura costitutivamente mediatizzata derivando da un processo di produzione e riproduzione di testi interni ai diversi media. I morti viventi mediatizzati, continua lo studioso, sono soprattutto “ri-mediati” e “crossmediali”, derivanti dal passaggio dei contenuti di un medium in un altro. Inoltre, la figura dello zombie investe praticamente tutti i generi cinematografici e televisivi e, in generale, tocca tutti i mezzi di comunicazione nelle loro più svariate produzioni, dalla narrativa agli audiovisivi artistici e musicali, dai videogame ai fumetti.

Per quanto riguarda la “zombificazione dei media” l’autore porta alcuni esempi di produzioni audiovisive che palesano tale fenomeno. Nel film Pontypool. Zitto… o muori (Pontypool, 2009) di Bruce McDonald, il contagio si propaga attraverso la trasmissione radiofonica e telefonica: «la zombificazione corrisponde al linguaggio, anzi alla lingua inglese – più precisamente ancora, al significato delle parole inglesi. Per eliminare il virus è necessario uccidere la parola – ucciderne il significato –, ripetendola finché non diviene incomprensibile» (p. 73). Di fatto, ricorda l’autore, tutti i mondi mediati elettronicamente dalle telecomunicazioni tendono ad evocare il soprannaturale ed il mostruoso, abitando, tali media, una zona liminale, tra la vita e la morte, proprio come gli zombie. Se i mezzi di trasmissione delle comunicazioni proiettano oltre il luogo e lo spazio, quelli di registrazione consentono anche di andare oltre il senso del tempo. I media possono allora essere letti come morti viventi.

Secondo lo studioso Erik Bohman (Zombie Media) nelle opere di Romero è possibile individuare la metafora del medium come morto vivente: nei suoi film i media sono mostrati come agenti di zombificazione, dunque come zombie essi stessi. Boni mette in evidenza come La notte dei morti viventi (1968) di Romero giunga nelle sale pochi anni dopo la pubblicazione di Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan, saggio in cui lo studioso canadese sostiene che la specializzazione derivante dall’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate riduce le persone ad automi ed i mezzi di comunicazione elettronici determinano un nuovo tribalismo che si esplicita nella forma del “villaggio globale”. «La notte dei morti viventi ci mostra questo tribalismo nei suoi effetti più devastanti, sia nella sua declinazione nella figura dello zombie (che da poche unità diviene poi una massa minacciosa) sia nella sua articolazione nei sopravvissuti asserragliati all’interno di una fattoria, le cui azioni sono peraltro orientate dalla radio e della televisione, i cui annunci tuttavia nel corso della vicenda perdono sempre più di credibilità e affidabilità» (p. 76).

Nel lungometraggio Le cronache dei morti viventi (Diary of the Dead, 2007) di Romero, «assistiamo alla pervasività (e alla disfatta) dei media: nel film un gruppo di studenti documenta l’apocalisse zombie attraverso le loro cineprese e i loro telefonini, e vediamo spesso immagini tratte da telecamere di sicurezza e altri sistemi di controllo e vigilanza […] Tuttavia, a onta di tutto il materiale di immagini che viene raccolto nel corso della vicenda, i protagonisti sono consapevoli della sostanziale inutilità di quella documentazione. Se già a livello testuale è possibile verificare il delinearsi della metafora dei media come morti viventi – capaci di zombificare i loro consumatori –, a un ulteriore livello di analisi è possibile vedere come la stessa grana delle immagini mediatiche che rappresentano i cadaveri in disfacimento degli zombie restituisca le tracce della loro mediazione e rimediazione, rinvenibili negli effetti di distorsione e negli interventi digitali sulle immagini[…] è possibile parlare di zombie media poiché il corpo dello zombie (reso con tutte queste tecniche) e il corpo dei media (la qualità stessa delle loro immagini) sono connessi metaforicamente in una relazione reversibile. A questa sorta di “ontologia” dei media si unisce una “fenomenologia” dei media, “nella quale i piaceri e le paure associati al guasto dei media sono veicolati dallo spettacolo della disintegrazione del corpo dello zombie”» (pp. 78-79).

I mezzi di comunicazione, esattamente come i corpi umani, si corrompono, sono soggetti all’invecchiamento ed alla decadenza. Inoltre, continua lo studioso, i media divengono presto obsoleti (dead media) e la riattivazione di questi, attraverso processi di manipolazione, permette di farli tornare in vita, come accade agli zombie. «In questo modo, gli zombie media mostrano come degli scarti tecnologici (gli stessi scarti che abbiamo visto costituire uno degli aspetti principali della rappresentazione del morto vivente) possano “tornare in vita”, perché “i media non muoiono mai» (p. 80). Anche i più recenti media digitali sono duri a morire; Angela M. Cirucci (The Social Dead: How Our Zombie Baggage Threatens to Drag Us into the Crypts of Our Past) a tal proposito ricorda come i dati pubblicati sui social network, anche quando si pensa di averli definitivamente cancellati, possano “ricomparire” in contenti imprevisti.

dead-set-poster-09La metafora dello zombie è utilizzata dai media anche per rappresentare il mondo del lavoro dei mezzi di comunicazione. Al fine di indagare tale ambito, lo studioso prende in esame la serie televisiva Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, autore della serie documentaria How TV Ruined Your Life (2001) e della serie Black Mirror (dal 2011). Dead Set narra di un’epidemia zombie che si diffonde sia nel paese che all’interno del cast e dell’equipe che lavora alla realizzazione del reality inglese Big Brother. A partire da tale esempio, Boni «si concentra sulla metafora dello zombie come di un “morto che lavora”, in un’epoca in cui il campo professionale delle grandi imprese mediatiche è sempre più caratterizzato dalla precarietà e dallo sfruttamento. Le “videopolitiche” diventano qui davvero delle “necropolitiche” lavorative, dove la flessibilità, la mobilità e il rischio costituiscono i fattori centrali che presiedono alle pratiche professionali di chi lavora all’interno degli apparati dei media, e delle stesse celebrità – effimere, undead – che vengono prodotte» (p. 10). Nella serie di Brooker tutti sono rappresentati come zombie: i partecipanti al reality, i produttori ed il pubblico sono ormai privi di qualsiasi funzione celebrale. Gli esseri umani sono soltanto propensi al consumo di immagini, carne umana, celebrità a loro volta zombificate.

David McNally (Monsters of the Market. Zombies, Vampires and Global Capitalism) sostiene che nel presentare gli zombie come consumatori compulsivi, molte produzioni recenti hanno finito per celare il mondo della produzione, dello sfruttamento del lavoro e delle diseguaglianze di classe che rendono possibile tale consumo. Dunque, secondo lo studioso, molti film sugli zombie contemporanei si limitano a criticare il consumismo senza mai affrontare di petto il capitalismo a partire dai processi lavorativi che zombificano i lavoratori. La serie Dead Set può essere vista come rimedio a tale limite, visto che oltre al processo di zombificazione dei consumatori dei media, affronta anche quello dei lavoratori dei media.

A ben guardare gli stessi spettatori sono messi al lavoro (labouring audience) e contribuiscono alla produzione dei media. Lo studioso Dallas Smythe (On the Audience Commodity and Its Work) sostiene che il pubblico si sta trasformando in un bene di consumo venduto dai media agli inserzionisti pubblicitari; la tv produrrebbe telespettatori per poi venderli agli sponsor. «Nel capitalismo contemporaneo il pubblico costituisce così la “forma-merce” dei prodotti della comunicazione […] una “merce” molto particolare, che produce da sé il proprio valore: e questa è appunto la teoria della labouring audience, secondo cui il pubblico elabora attraverso i messaggi pubblicitari (ma non solo) la propria ideologia consumistica. La nostra “storia” di consumatori, cioè di pubblico dei messaggi pubblicitari, è molto lunga […] e questo fa di noi non solo un pubblico competente in ordine ai consumi, ma dei veri e propri “stacanovisti” del consumo, una merce che lavora incessantemente per valorizzare sempre più il proprio ruolo – il proprio pregio – di ascoltatori, spettatori o lettori. Con le proprie ricerche sul pubblico, i media non cercherebbero quindi di ottenere prodotti migliori per il pubblico stesso, ma punterebbero a sfruttare quest’ultimo con una vera e propria forma di lavoro» (p. 87).

Visto che le ricerche di Smythe risalgono alla fine degli anni Settanta, alcuni studiosi hanno pensato di aggiornarle facendo riferimento al panorama dei social media contemporanei, ove gli utenti sono divenuti anche produttori di contenuti. «A completare la metafora dello zombie come lavoratore alienato asservito agli interessi e allo sfruttamento dell’industria dei media, abbiamo l’analogo concetto di free labour, dove i riferimenti alla zombificazione sono piuttosto espliciti: gli utenti di Internet sono definiti “NetSlaves” (schiavi della rete) – un riferimento piuttosto sinistro alle origini culturali dello zombie –, e la loro attività costituisce uno “sweatshop elettronico”, in funzione 24 ore al giorno e sette giorni su sette. Altro che consumattori: laddove alcuni amano vedere in queste nuove figure un’élite culturale, altri vi vedono semplicemente un’inedita forma di lavoro proletarizzato, un nuovo, “terrificante mostro”. Il free consumer è uno spettro, un non-morto sfruttato e sottoposto a una nuova forma di governamentalità. E – ciò che è peggio – si tratta di una schiavitù di cui non si è nemmeno consapevoli, dal momento che viene associata a una piacevole attività, spesso svolta tra le pareti domestiche» (pp. 89-90).

In Dead Set, come si diceva, anche i lavoratori intenti alla realizzazione del reality divengono zombie; si tratta di lavoratori in balia di quella flessibilità e precarietà caratteristiche del lavoro e della vita contemporanea che il sistema produttivo degli audiovisivi ha da tempo introdotto. Una ricerca di inizio anni Duemila di Gillian Ursell (Working in the Media), ha messo in luce «come le imprese mediali abbiano di fatto trasferito la maggior parte dei rischi, dei costi e dei compiti di management ai lavoratori stessi, ma si trovino allo stesso tempo minacciate da nuove imprese produttive che impiegano lavoro flessibile sulla base di singoli progetti, magari offrendo migliori condizioni» (p. 93). Dunque, i lavoratori dei media risultano sempre più «sottopagati e sottoposti a un regime di auto-imprenditorialità all’insegna dell’“ognuno per sé”, che indebolisce peraltro i legami tra colleghi» (p. 93).

I lavoratori dei media, del tutto in linea con le politiche neoliberiste, si presentano come una moltitudine di lavoratori ridotti al precariato lavorativo ed esistenziale, obbligati all’auto-sfruttamento, all’auto-commercializzazione, all’auto-formazione, al “presentismo produttivo” anche quando non sono fisicamente sul posto di lavoro (ormai estesosi a dismisura nel tempo e nello spazio), all’identificazione con l’azienda che, masochisticamente, porta ad amare l’essere sfruttati.. «Come gli zombie, i freelance dell’industria dei media sono orde, masse di lavoratori assolutamente sostituibili; come gli zombie, gli stagisti che lavorano nella produzione della reality tv sono stretti in una morsa da parte della stessa reality tv, che li sfrutta succhiando loro le competenze professionali e le energie lavorative» (p. 95). Gli stessi partecipanti ai reality non solo si trovano ad essere le più effimere tra le celebrità, dalla durata sempre più limitata, ma hanno anche rinunciato contrattualmente ad avere vita ed identità proprie. Inoltre costoro incarnano un tipo di celebrità disprezzata dal pubblico borghese che assiste alle loro performance con sufficienza, come di fronte ad un freak show. Sono personaggi visti come reietti, scarti umani… morti viventi.

La metafora dello zombie viene sempre più spesso applicata anche ai personaggi politici messi in scena dai media. A tal proposito Boni si focalizza sulla rappresentazione mediatica del corpo di Silvio Berlusconi. Secondo lo studioso «possiamo vedere come di fatto il campo discorsivo mediatico dello zombie rispetto alla figura politica di Berlusconi si declini nella doppia accezione di body politic e di body politics. La doppia valenza di questa metafora – che restituisce l’immagine di un leader non solo mostruoso carnefice ma anche vittima della zombificazione – la rende particolarmente efficace per restituire diverse caratteristiche di Berlusconi e del “berlusconismo” di questi ultimi vent’anni: il sistematico ritorno alla politica anche (soprattutto) quando dato “politicamente morto”; la “serialità” e la “viralità” della sua immagine caleidoscopica, che contiene e allo stesso tempo contraddice tutte le sue rappresentazioni […]; il “berlusconismo” come commodification e lifestyle politics, “specchio” di un’avvenuta trasformazione socio-culturale dell’Italia degli ultimi decenni; pericoloso e mostruoso cannibale, affamato non solo delle vite dei cittadini ma anche delle carni di donne giovani e procaci; cadavere la cui putrefazione rimanda alla corruzione di un intero sistema politico ed economico; mummia […] che si sottopone a macabre cure per sconfiggere la vecchiaia e la morte; infine, un caricaturale mostro tutto italiano, nel suo farsesco machismo di altri tempi» (pp. 130-131).
Se il leader arcoriano invitava i suoi venditori a considerare il pubblico come una moltitudine di decerebrati guidati solo dal consumo compulsivo di merci ed immagini, il Berlusconi mediatico, mette in guardia Boni, vittima e carnefice al tempo stesso, rischia di uscire di scena “cannibalizzato” dallo stesso popolo-zombie. Si tratta pur sempre di un prodotto dei media e come tale soggetto al consumo.

dead_set222Focalizzandosi sul pubblico si può facilmente notare come, tradizionalmente, questo venga rappresentato come una massa amorfa totalmente acritica. Ciò avviene anche nella serie inglese Dead Set, visto che la metafora dello zombie qua si estende al pubblico che circonda minacciosamente il set ove viene prodotto il Grande Fratello. A tal proposito Boni compara l’attrattiva per il centro commerciale degli zombi de L’alba dei morti viventi di Romero con l’attrattiva per la “Casa” del reality della serie Dead Set: dal consumo dei beni materiali al consumo dei media. Nella serie inglese però le battute tra i personaggi del set circondati dal “pubblico-zombie” denotano la pessima considerazione che il mondo della tv ha dei telespettatori tanto che il “caro vecchio pubblico inglese” viene identificato come un’orda di voraci morti viventi pronti a consumare anche da morti le immagini, i corpi ed i luoghi della televisione.

Secondo Boni le stesse viralità e velocità di trasmissione del contagio, messe in scena da Dead Set, possono essere lette come metafora della facilità con cui si ritiene che i media infettino il pubblico rincretinendolo (zombificandolo, appunto). La questione del “contagio” operato dai media è stata, sin dalle origini, al centro della communication research. Nella cosiddetta “magic bullet theory” i media sono visti come strumenti persuasivi che agiscono direttamente su di una massa totalmente passiva ed inerte. Nella teoria “degli effetti limitati” si sostiene che, tutto sommato, i media si limitano a rafforzare le opinioni che gli individui già hanno. Paul Felix Lazarsfeld, uno dei principali teorici degli effetti limitati, ritiene però sia possibile collegare gli effetti dei media ai tempi di esposizione a cui si sottopone il pubblico; lo studioso affronta l’influenza dei media come si trattasse di un’epidemia tanto da focalizzarsi sull’effetto cumulativo dell’esposizione “contaminante”.
Parallelamente a tali ricerche americane, in Europa si sviluppa la “teoria critica” della Scuola di Francoforte che affronta i media, come l’intera industria culturale, inserendoli all’interno di una più estesa strategia di manipolazione dei cittadini. I Cultural studies anglosassoni, rielaborando la teoria critica francofortese, da un lato limitano la portata manipolatrice dei media e dall’altro affiancano all’analisi del consumo quella della produzione. La Scuola di Birmingham insiste particolarmente sul ruolo attivo degli spettatori.

In epoca più recente alcuni studiosi hanno invece ripreso visioni più apocalittiche; Paul Virilio (Lo schermo e l’oblio), ad esempio, connette lo schermo all’oblio e, ricorda Boni, l’essere un corpo senza memoria è proprio una delle caratteristiche dello zombie. Ad insistere sull’assenza di memoria del pubblico è anche Stefano Tani (Lo schermo, l’Alzheimer, lo zombie. Tre metafore del XXI secolo), studioso che definisce la visione contemporanea un “vedere senza pensiero”. «Il telespettatore è in balia delle immagini che gli vengono somministrate […] “è diventato un utente, cioè qualcuno che crede di usare qualcosa non sapendo di essere usato”. In questa “falsa coscienza”, l’utente televisivo “è un compulsivo consumatore del nulla”. Soprattutto, è un consumatore senza memoria: provvisto al limite di “quella sorta di istinto” che lo fa tornare, da morto – o meglio da non-vivente – al centro commerciale o ai cancelli della “Casa” del Grande Fratello» (pp. 140-141). L’individuo contemporaneo si sottopone anche ad altri schermi oltre a quello televisivo e, sostiene Tani, sul Web esso è privato della propria identità, è uno zombie a cui è stato rubato tutto facendogli credere di poter acquistare.

Boni affronta quel processo che può essere definito di “romanticizzazione dell’audience”, in buona parte costruito sull’idea di “pubblico-attivo” e sulle “capacità critiche del pubblico”. Nel primo caso, sostiene lo studioso, se ci si accontenta del fatto che uno spettatore televisivo “processa ed elabora” ciò che fruisce, allora si è di fronte ad una tautologia; la questione cruciale, come ricorda Roger Silverstone (Televisione e vita quotidiana), non risiede nel fatto che un’audience sia attiva ma piuttosto se quell’attività abbia un senso. Circa i limiti dell’idea di “pubblico-attivo”, diversi studiosi che si rifanno alla cosiddetta “ipotesi dell’agenda setting”, segnalano come se è pur vero che i media non ci dicono che opinione dobbiamo avere, ci impongono però l’argomento, l’agenda, su cui dobbiamo esprimere un’opinione. Secondo tale ipotesi i media sarebbero i principali costruttori di realtà sociale.
Nel caso delle “capacità critiche del pubblico”, «assumere che lo spettatore sia “critico”», secondo diversi studiosi, «non significa per ciò stesso che esso dia una lettura oppositiva del testo mediale fruito, né tanto meno, come vorrebbero alcuni autori, che tale lettura “critica” sia un “atto politico”, in grado di ridefinire codici culturali dominanti in chiave antagonista» (p. 143). Inoltre, secondo alcuni studiosi, focalizzarsi eccessivamente sulla capacità del pubblico di leggere criticamente il contenuto dei media rischia di deresponsabilizzare i media e di far dimenticare il fatto che le pratiche di consumo passivo rappresentano le modalità di fruizione dominanti.

La spettacolarità e la retorica dell’“interattività” contribuiscono a costruire un’immagine falsata del pubblico che in realtà mette in atto spesso un “consumo distratto” dei media. Secondo Landi Raubenheimer (Spectatorship of screen media; land of the zombies?) si può paragonare il consumo automatico di immagini sullo schermo da parte del pubblico, alla “sete di sangue” dei morti viventi che sbranano chi incontrano senza averne necessità. Secondo lo studioso, in molti casi, ci si trova davanti allo schermo senza una necessità specifica e senza consapevolezza.

Volendo insistere sul pubblico-attivo si possono prendere in esame casi in cui il pubblico si è mostrato in grado di appropriarsi dei testi mediatici per farne un uso nuovo e differente. Un caso emblematico a cui fa riferimento il saggio è quello delle zombie walks, quelle sfilate in cui la gente ama travestirsi da morti viventi per mettere in scena l’apocalisse zombie nel cuore delle città, non di rado come forma di protesta, come è accaduto nell’ambito di Occupy Wall Street a New York. «Zombificati dagli orrori del capitalismo e del neoliberismo, i “pubblici-performer” che si impadroniscono delle vie e delle piazze delle città finiscono per mettere in scena in realtà una “de-zombificazione”» (pp. 154-155). Questi morti viventi deambulanti lungo le vie cittadine appaiono come «il perturbante “inconscio” della città, tutto ciò che si cerca di allontanare e che torna per rivendicare quelle stesse strade da cui era stato cacciato» (p. 155).

Molte descrizioni delle zombie walks però, sostiene Boni, tendono a ricordare le retoriche consolatorie diffuse dalle letture “romanticheggianti” dei pubblici di cui si è parlato prima. «Nel loro trarre materiali dall’industria dei media e ri-significarli in senso oppositivo e sovversivo, le sfilate dei morti viventi dovrebbero rappresentare il massimo dell’attività dei pubblici-performer, e tuttavia la loro incapacità di indicare soluzioni alternative a quelle contro cui protestano ci parla di una sostanziale passività, che ricorda da vicino l’eterno presente in cui “vive” – o meglio ancora non-vive – lo zombie. In questo senso, le zombie walks e le zombie parades non sono solo appropriate per il tentativo di movimenti come Occupy di richiamare l’attenzione sull’organizzazione dello spazio urbano nell’epoca del capitalismo neoliberista, ma rappresentano anche un riflesso (forse inintenzionale e inconsapevole?) dell’assenza di una possibile alternativa» (p. 157).

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