Charles Dickens – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Su “Locus desperatus” di Michele Mari https://www.carmillaonline.com/2024/06/24/su-locus-desperatus-di-michele-mari/ Mon, 24 Jun 2024 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83144 di Carlo Lauro

Michele Mari, Locus desperatus, Einaudi, Torino 2024, pp.131, € 18.

Immaginare qualcuno cui inopinatamente venga ingiunto da strani figuri l’abbandono della propria casa con i libri e gli oggetti amatissimi di un’intera vita. Il malcapitato, stando a tale minaccia, dovrebbe a sua volta occupare la casa di un altro sfrattato (si delinea una tragica transitività) pur continuando a pensare a distanza alle proprie cose perché esse rimangano “tranquille ed uguali a se stesse”. La tenzone, soffertissima, affinché questo subentro non avvenga e il proprietario rimanga nel suo Nautilus è l’intreccio che rapisce il lettore di Locus Desperatus, ultimo [...]]]> di Carlo Lauro

Michele Mari, Locus desperatus, Einaudi, Torino 2024, pp.131, € 18.

Immaginare qualcuno cui inopinatamente venga ingiunto da strani figuri l’abbandono della propria casa con i libri e gli oggetti amatissimi di un’intera vita. Il malcapitato, stando a tale minaccia, dovrebbe a sua volta occupare la casa di un altro sfrattato (si delinea una tragica transitività) pur continuando a pensare a distanza alle proprie cose perché esse rimangano “tranquille ed uguali a se stesse”. La tenzone, soffertissima, affinché questo subentro non avvenga e il proprietario rimanga nel suo Nautilus è l’intreccio che rapisce il lettore di Locus Desperatus, ultimo lavoro di Michele Mari in cui finzione e ossessioni autobiografiche si fondono in un unico misterico crogiolo.

Gli oggetti di Mari li si era ammirati nelle immagini di Asterusher (2015) e molti li si ritrova adesso (ma come esseri senzienti e ansiosi) in Locus Desperatus (le targhette numeriche dei minatori, la radice di mandragola, l’omino Michelin, etc.). Sono oggetti che risalgono all’infanzia remota (soldatini, l’orsino di migliaia di notti) o reperiti negli anni con spirito collezionistico non meno incantato di quello di Walter Benjamin: cose avulse da un valore commerciale, che recuperano la loro bellezza dalla raggiunta defunzionalità e secretano un loro vissuto. Talvolta apotropaiche, scaramantiche, sempre tendenti a una loro speciale unicità. “Io avevo dato senso e vita alle cose, scegliendole, collezionandole, amandole (…) e loro mi avevano restituito tutto contribuendo alla mia identità e alla mia biografia” afferma l’anonimo protagonista in prima persona (che sarebbe lui, Mari, se si desse retta alle semplificazioni di Sainte-Beuve; ma, quanto ai libri, è anche una reincarnazione del Kien di Auto da fé). E così si rivolge alle cose ben più confidenzialmente di quanto non faccia con i propri simili, avvertendo tutti i loro disagi all’eventualità dello sfratto (la fuga delle targhette pari, le craquelures del vaso di Limoges, gli arretramenti di alcune brossure settecentesche). I libri sono, va da sé, la gran parte di questo tesoro, essendo stati e restando “come un ponte di zattere lungo tutta la vita” (citazione da Rondini sul filo) e, con essi i cosiddetti giornalini. E’ l’infanzia sempre rimpianta ad amalgamare i valori in sequenze quali “Tacito Proust Guicciardini Soldino Geppetto Eta Beta” (in Tu, sanguinosa infanzia).

Disperato è il luogo in cui si prospetta uno sparigliamento, anche provvisorio, di tanto patrimonio. Una delle prime autodifese del protagonista sarà quello di dividere parte dei propri feticci tra l’appartamento sottostante affittato all’uopo (reso comunicante da una botola) e la casa di campagna (già in Di bestia in bestia, primo libro di Mari, lo smembramento di una biblioteca veniva stigmatizzato come “la cosa più disumana e crudele che si ripeta sulla terra”).

Ma in Locus Desperatus la dispersione, ordita dagli equivoci pretendenti alla tana-museo (e quindi aspiranti all’anima stessa di colui che in essa ha trasfuso la propria personalità) conosce forme di sottile e perfida deterrenza: parole, frasi e poi intere pagine di decine e decine di classici vengono cancellate dal lavorìo paziente e spietato di ragnetti, tarli, scolopendre. L’infallibile memoria del protagonista accusa falle improvvise su testi letti, riletti, amati, divenuti consustanziali: le letture di un misterioso visitatore notturno gli hanno come “sottratto” dalla mente le trame di 84 testi dal Werther a Lo straniero, passando per Cuore di tenebra (ricorre il “demone tassonomico” di Mari: 84 romanzi, 158 targhette cm. 2.8 x 1.8, 590 carte da gioco…). Sin dalle prime pagine del romanzo, con il rinvenimento quotidiano di sinistre piccole croci segnate col gesso sulla porta di casa, si percepisce un malaise che diviene crescente man mano che il narratore, in cerca lumi, incontra una galleria di criptici e come sfuggenti personaggi: in primis l’ hoffmanesco Asfragisto (uno di “quelli” che pretende il subentro), poi Procopio (un ex-latinista sfrattato anch’egli e ora in miseria), indi un raffinato filologo in cui riaffiorano inspiegabili competenze di idraulica e una vecchia compagna di classe S*** ritrovata dopo anni “insufflata” come “il maiale dei Pink Floyd”. Da questi contatti, tra dettagli e reticenze, il Nostro evincerà che la realtà pullula di subentranti e subentrati, di ladri di identità, di simulacri. E’ l’epifania del glorioso topos letterario del “doppio”, il Doppelgänger (da sempre caro all’Autore) ma qui nella variante estensiva e più conturbante degli ultracorpi (Jack Finney e Don Siegel sono citati). Due diversi incontri con ex-compagni di liceo (nel primo nessuno dei quali a lui riconoscibile, nel secondo sì) apre addirittura il dubbio sulla propria univoca identità: che anche lui anche sia un subentrante di qualcun altro? Che gli stessi oggetti, malgrado tenaci ricordi, li avesse messi insieme un ignoto predecessore, poi vittima del subentro? E la memoria di due raccapriccianti episodi d’infanzia gli conferma di aver avuto, oltre alla propria, un’altra madre, una madre- ultracorpo. Ad aiutarlo in una di queste ricostruzioni è Sileno, deuteragonista del romanzo, prototipo di tante fedeltà gregarie (Sancho Panza, Venerdì, Secundra Dass), “polimero antropomorfo” disceso da resine purissime poi divenute morchia (sembra uscire dalla matita di un Magnus).

Sponda positiva e concreta in un mondo di umani evanescenti e inaffidabili, l’”uomo morchia”, colto e buon selvaggio insieme, sarà prezioso sia per la stretta di mano resinosa e divinatoria che legge passato e destini di uomini e cose, sia per le strategie difensive che porteranno alla fine, pur senza particolare felicità (impensabile in Mari), a una sorta di liberazione dall’incubo.

Ma quanto contano davvero le cose? Tutto, quasi. Quando, in un momento di grave distretta e quasi di “guerra civile” domestica, il volume dei Canti di Maldoror, a nome degli altri libri, proporrà al narratore come minor male il sacrificio delle cose, la reazione è un urlo (“Mai! Non mi libererò di nessun oggetto, nemmeno il più vile!”). Così come -è l’affezione che omnia vincit- l’”ultimo vecchio tascabile Gherardo Casini o Dell’Albero, Corbaccio, Sonzogno” non vale meno ai suoi occhi di ben più preziose prime edizioni. Da qui gli struggimenti e l’incredulità allorché dovrà constatare la non ricambiata fedeltà da parte di alcuni oggetti (le targhette pari, la calamita, la manina di ottone) che, avvertito il timore di sfratto, vorrebbero optare (sia viltà, voglia di cambiamento o seduzioni fallaci) per un apostatico abbandono della tana-museo.

Locus desperatus, nelle sue poco più di cento pagine, è un distillato, una mise en abyme dell’intera opera di Mari e dei suoi archetipi. E’ il libro che da’ il soffio vitale ai silenti oggetti di Asterusher e che rafforza se possibile il centripeto autoritratto di Leggenda privata (“la mia vera forza, la tristezza, inattingibile ai nesci ma anche ai più consci”; “una vita in difesa, sempre, lo era stata”). Riprende le atmosfere di sospensione e maleficio che pendevano sulle magioni dei primi romanzi (Di bestia in bestia, Io venìa pien d’angoscia a rimirarti ma anche sulla nave fantasmatica de La Stiva e l’abisso). La storia dell’antica compagna di studi S***, sorta di filo nero che attraversa il romanzo (dall’enfiagione all’urna urlante passando per lo “scheletro panneggiato di pelle”; la sua fine di pittrice, con quello scambio di vita e morte, ricorda il Ritratto ovale di Poe) starebbe bene in Fantasmagonia. E il proprio fortissimo imprinting cresciuto e radicatosi “nell’attaccamento all’antico, nel culto del prima, nel rimpianto perpetuo, nel rifiuto di ogni ammodernamento” non si profilava già in Euridice aveva un cane (tra i più perfetti racconti di Mari) con l’ossessivo confronto tra la casa familiare dell’immaginaria Scalna (ossia Nasca) nobilitata dai segni del tempo, dalla struttura alle suppellettili, e quella dei chiassosi vicini ammiccante alle giovanilistiche mode del neo-consumismo?

Delle ossessioni non ci si libera, lo straordinario è come in Mari si strutturino in intrecci sempre originali. Quest’ultimo romanzo non è soltanto l’atto d’amore per le proprie cose, è il libro, tra l’inquietante e il grottesco, della temuta perdita di centro, delle deduzioni che non si fanno mai certezze, della memoria periclitante, dei libri che si cancellano, delle foto che si sfocano, di abnormi escamotages medianici per diradare le nebbie (il colostro di S***, la mano resinosa di Sileno) o spacciare i nemici (alcune efficaci macumbe).

Un tale armamentario allucinatorio, onirico e fantastico ha sullo sfondo le ascendenze di maestri dannati come Hoffmann e Mathurin, Potocki e Poe, Meyrinck e Lovecraft; di quel Kubin, creatore di incubi specialmente grafici, si cita un passo tratto da L’altra parte (sulla divisione sacrificale delle cose: potrebbe fare da esergo alla storia).
Peraltro la sapienza ventriloqua di Mari ha sempre cullato al suo interno (da Leopardi a Dickens) ben altra pluralità di voci, più o meno evidenti (non ultimo quel dono metamorfico che dal proprio tragico sa secernere la comicità più immediata e profonda: Gadda, Proust). La sua prosa anche qui è mimetica, duttile ad ogni minuzia descrittiva, ad ogni indugio sulla materia sublime o repellente che sia. In essa si forgiano locuzioni e termini aulici dal potere straniante, i mumble mumble delle strisce e i puntini celiniani: tutti strumenti potentemente espressivi e tra loro come cementati, grazie ai quali pulsioni, viscere, fragilità fanno muro al mondo; la stessa acribìa nelle tassonomie, catalogazioni ed etimologie (si veda la dissezione del nome Obelix) conferma un lucido furor di ordine e il rifiuto di quanto somigli ad approssimazione e impermanenza.

Accanto ai tanti titoli letterari citati (da biblioteca borgesiana) si troveranno in Locus Desperatus riferimenti cinefili, sia capolavori che b-movie. E una qual certa metabolizzazione del cinema noir e d’azione caratterizza almeno due vivide “sequenze”, pur restando anch’esse iper-letterarie: quella con la visione simultanea del protagonista e del suo “secondo io” nei rispettivi appartamenti; e poi quel count down pieno di suspense, da gran finale, che è la difesa dell’appartamento-fortino, con gli oggetti più fedeli, scaramantici e acuminati, militarmente schierati a salvaguardia della tana-museo.

“Dunque era finita. O forse no” conclude l’Autore “Ma adesso le mie cose sapevano di avere in me un generale capace di guidarle, e io sapevo che mi avrebbero seguito per tutte le strade del mondo, fra le cose del mondo, fra gli umani e non umani del mondo, fra tutte le croci del mondo fino alla fine del nostro piccolissimo mondo”.
Ci si chiede da quale cielo delle Muse sia discesa, oggi, un’invenzione tanto inquietante e perfetta.

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Eminenti ecologie. Ambiente e Bellezza in età vittoriana tra idillio e apocalisse https://www.carmillaonline.com/2023/09/02/eminenti-ecologie-ambiente-e-bellezza-in-eta-vittoriana-tra-idillio-e-apocalisse/ Sat, 02 Sep 2023 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78745 di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per [...]]]> di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per altri versi e in modo concretissimo, in grazia del suo impero quasi planetario, una sorta di prova generale del nostro mondo globalizzato. Compreso per quanto riguarda i rapporti con la natura e le minacce che la insidiano, il clima e le sue crisi, il fronte che definiamo ecologico. Certo, è dall’inizio dell’Ottocento – o anche molto prima – che emergono inquinamento, sfruttamento industriale e altre situazioni lesive di un’alleanza tra uomo e natura, garantendo senz’altro una serie di benefici moderni ma ponendo al contempo fiumi di domande (comprese quelle di Mary Shelley col suo Frankenstein): però è con l’età vittoriana che una certa consapevolezza emerge in modo più acuto tra nubi di fuliggine spessa.

Grande pregio del testo che andate a leggere è nella proposta di un ventaglio di contributi, articoli, prove in punta di penna niente affatto noti al grande pubblico e per nulla scontati: a offrir voci che in valori e limiti – limiti che non paia ingeneroso rilevare, considerando quanto nell’ultimo secolo sia cresciuta una sensibilità all’ambiente e la percezione di rischi molto concreti – presentano sul tema un ampio panorama di provocazioni.

Si parte da Industrializzazione e città tentacolari, sul rapporto – paradigmatico nel caso di Londra – con la nuova urbanizzazione. Un fenomeno del resto tanto felicemente evocato in pagine di autori-cardine del periodo in questione: si pensi solo a Dickens (dagli impagabili Sketches by Boz, 1833-36, a mille scene dei suoi grandi romanzi, compreso l’emblematico Tempi difficili, 1854, che pure si ambienta a Coketown, trasfigurazione di Preston presso Manchester), a L’uomo della folla di Poe, 1840, ambientato significativamente in una Londra mitizzata, visionaria e febbrile – con il suo vampiresco Ebreo errante della labirintica modernità urbana, in osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa –, ai bassifondi evocati dai polizieschi di Conan Doyle e dalle incredibili tavole a incisione di Gustave Doré per lo “scandaloso” reportage London: a pilgrimage, 1872. È un fatto che, nel corso dell’Ottocento, Londra sia cresciuta in modo vertiginoso, dal primo quarto del secolo è divenuta la città più grande del pianeta (da oltre 1 milione di abitanti nel 1801 ha conosciuto un’impennata a 5,567 milioni nel 1891), il maggior porto esistente e il cuore pulsante di finanza e commercio internazionale, connesso in vario modo a tutto il resto della Terra; e alla fine dell’età vittoriana rappresenta un intero mondo, il luogo delle contraddizioni della modernità (al punto che proprio lì i movimenti dei lavoratori sono spinti a trovare un importante luogo di confronto). Non è un caso che nel Dracula (1897) il Grande Vampiro intenda trasferirsi nella gigantesca pasticceria di una Greater London stimata di 6,292 milioni di persone; e neppure che per intervenire urbanisticamente sull’infernale Babilonia dei quartieri poveri occorra il clamore mediatico del caso Jack the Ripper, 1888. Per contro, autori flâneur come Machen rilevano l’estrema complessità del panorama umano a Londra: dal narrante de La collina dei sogni (1895-1897, pubbl. 1907) nella sua catabasi urbana, al Dyson di La luce interiore, che vede nella capitale “il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero dell’immensità di Londra, della sua complessità. Con ragionevole sforzo si può capire Parigi, ma Londra no, Londra resterà sempre un mistero”.

Ma nelle pagine che andrete a leggere il soggetto non è soltanto la pur emblematica Londra. Parte infatti nientemeno che dal Bosforo di Pierre Loti il primo contributo di questa raccolta, l’articolo The Ugliness of Modern Life – La bruttezza della vita moderna di Ouida (all’anagrafe Maria Louise Ramé, 1839-1908), prolificissima e oggi quasi dimenticata scrittrice inglese che ebbe però la stima di Oscar Wilde, morì a Viareggio e fu sepolta a Bagni di Lucca, dalla sua raccolta Critical Studies, T.F. Unwin 1900: e da quel fronte esotico si avventura in una serie di speculazioni sul rapporto tra modernità & cinica indifferenza alla bellezza. Con le sue riflessioni a volte interessanti e controcorrente, a volte discutibili o (ci pare) sgangherate, una libera battitrice come Ouida è forse emblematica della fatica di un’epoca a focalizzare problemi su un fronte tanto ampio, uscendo da soggettivismi e limiti di strumenti d’analisi: una fatica che, senza concederci alibi, fa meglio comprendere resistenze e ritardi in una percezione collettiva anche molto più recente.

Così un certo passatismo dell’autrice risulta simpatico dove contesta le crudeltà sugli animali, gli orrori dell’inquinamento industriale e gli sconci paesaggistici un po’ in tutto il mondo, le sirene svianti di un commercio cieco e avido e del militarismo imperante, nonché l’eccesso di ordine, “sicurezza” e uniformità (“La polizia è ovunque […] mentre fuori casa i ragazzi e le ragazze non devono cantare o ballare, il cane non deve giocare o abbaiare, la sedia non deve spiccare sul marciapiede”) – anche se poi biasima i verdetti troppo miti dei tribunali. Per contro forzate e datatissime sono altre sue valutazioni, scandalizzate e tonitruanti quanto confusive: come la stroncatura dell’arte moderna in generale, la miope ed elitaria critica al fatto che i bambini siano spinti a disegnare, lo sdegno sulla postura antiestetica sui mezzi di locomozione (a due ruote, soprattutto)… Per non parlare del suo grottesco Medioevo idealizzato alla Walt Disney, della guerra di una volta piena “di colore e di sfarzo”; o dell’imputazione dei frequenti traslochi della “maggior parte delle persone del ceto borghese e della classe operaia” a una deprecabile incapacità di capire il valore di una casa – laddove le cause sembrano ben più concrete e drammatiche, specie per i ceti più bassi. Del resto superficialotto è il suo giudizio sulla Comune di Parigi e in generale sul socialismo – a dimostrare, se mai ve ne fosse bisogno, quanto la cifra dell’antimodernismo resti in sé ideologicamente equivoca.

“Penso che non ci sia dubbio che la bellezza fisica stia degenerando rapida, e la frequenza con cui si vede la bocca scrofolosa nei bambini, anche nei bambini degli aristocratici, è allarmante per il futuro della specie”, il che Ouida imputa – non senza alcune ragioni – all’inquinamento: ma certo le preoccupazioni eugenetiche fanno avvertire non distante il Max Nordau di Entartung, 1892. Del resto, nella “Canaglia che si precipita con un urlo stridulo di risate quando colpisce e getta a terra una donna debole o un bambino piccolo” sembra di ritrovare le brutalità del signor Hyde di Stevenson (1886), lui pure ipoteticamente frutto degli ultimi pericolosi studi scientifici. E il dottor Moreau di Wells è appena un passo in là.

L’autrice torna sul tema in un articolo, The Streets of London La bruttezza di Londra. Un appello per le strade belle (inizialmente su Women’s World  data incerta ante 4 settembre, più avanti sul Western Star 8 dicembre 1888), dove interviene con proposte e censure su temi della vita urbana. Ed è interessante ricordare quanto una narratrice popolare quale Ouida, per quanto anticonformista, possa restituire l’eco di discorsi diffusi all’epoca tra persone molto più convenzionalmente allineate.

In ogni caso a rispondere a Ouida è una voce eccellente, William Morris, con il pezzo Ugly London – Londra la brutta (Pall Mall Gazette 4 settembre 1888): dove cerca di affinare la discussione. Che Londra sia brutta, sia scoraggiante (“C’è, davvero, come dice Ouida, qualcosa di mortificante e scoraggiante nella bruttezza di Londra; altre città brutte possono essere più minacciose e feroci nella loro crudeltà, ma nessuna è così disperatamente malmessa, così irrimediabilmente volgare come Londra”), non ci sono dubbi; e Morris si limita a qualche suggerimento che però – ne è cosciente – resta un palliativo. Ma è importante capire la chiave sociale: la bruttura della Londra Ricca deriva in modo diretto dal furto organizzato e legalizzato ai danni della Londra Povera. E di qui, se vogliamo, l’urgenza dell’utopia della Bellezza coltivata da Morris con il suo progetto Arts and Crafts: dove il recupero di istanze di bellezza proprio dal medioevo – ma istanze reali, non stereotipo di maniera, con cui portare bellezza nelle case non dei soli straricchi –, e il riconoscimento di una dignità artistica di buoni artigiani con lo sviluppo di una peculiare poetica delle arti applicate, muovono nel segno di un tentare pace con l’ambiente in modo creativo e illuminato. Certamente non può bastare, ma resta uno degli esempi più alti prodotti su questo fronte nell’Inghilterra vittoriana.

Dalla constatazione dei guasti della modernità e particolarmente in quella capitale che ne è quasi un simbolo, promana la seconda interessantissima sezione, Urbanizzazione e cambiamenti climatici, che vede in primo piano il fenomeno London Fog. Un fenomeno allarmante, presentato da uno scritto di Thomas Miller, London FogLa nebbia di Londra (Picturesque Sketches of London Past and Present, Office of the National Illustrated Library, 1852) come “una concentrazione di zuppa di piselli gialli, densa quel tanto che basta da farsi attraversare senza rimanere del tutto sommersi o soffocati”, che costringe ad accendere le luci e causa surreali incidenti. L’evocazione dei medesimi, in particolare nei quartieri sul Tamigi, è condotta con piglio d’ironia atroce alla Hogarth, ma l’enfasi non toglie nulla alla gravità del quadro.

Non stupisce che il pezzo seguente sia un vero e proprio racconto distopico, in qualche modo di fantascienza: The Doom of LondonLa tragica sorte di Londra di Robert Barr (The Idler, novembre 1892, poi nella raccolta The Face And The Mask, 1894). Barr (1849-1912) è un novellista scozzese-canadese trapiantato a Londra, autore di storie umoristiche, poliziesche e del sovrannaturale, amico di Stephen Crane e Conan Doyle (di cui però parodia l’arcidetective nelle avventure di Sherlaw Kombs). In questo caso è in scena una vicenda catastrofistica proprio incentrata sul tema della nebbia soffocante, chiamiamola pure smog: un testo che è di estremo interesse paragonare al successivo della raccolta, The Doom of the Great City; Being the Narrative of a Survivor, Written A.D. 1942La Tragica Fine della Grande Città del micologo e narratore William Delisle Hay (ca. 1853-1885: in volume, Newman and Co. 1880). Anche i titoli originali sono simili, citando entrambi il Doom/destino, ma quello di Hay è precedente di dodici anni: il sospetto è che Barr possa conoscerlo ma, con il suo racconto più neutramente catastrofistico, preferisca smarcarsi dai toni ideologici e moralistici del predecessore. Hay è in effetti un personaggio un po’ particolare, mixa nei suoi testi fantascientifici confusi conati socialisteggianti e spiacevoli posizioni da suprematista bianco. Il suo testo qui presentato è stato considerato il primo racconto moderno di apocalisse urbana, sull’onda della grave crisi d’inquinamento del 1873: ma l’autore vi vede una sorta di punizione per la depravazione della “Grande Città”, una Londra-Babilonia dove la disonestà regna nel lavoro, i poveri sono oppressi, una Chiesa ingiusta benedice lo stato delle cose e la depravazione trionfa, in un meretricio dilagante. A castigare tanta corruzione è la nebbia, che inevitabilmente colpisce anche gli innocenti…

La sezione successiva, La natura tra urbano e rurale, riconduce idealmente a un altro degli spunti di Ouida: e un eccellente punto di partenza è il pezzo Town and CountryCittà e campagna di Morris (The Journal of Decorative Art, aprile 1893), che rendendo più dialettica la contrapposizione, ne affronta una rapida disamina storica. Puntualizza così come a un certo punto il discrimine non sia più stato “tra le città e le campagne, ma tra Londra e il resto del paese, tra le città e il resto” – e il discorso torna a Madre Londra, come la chiamerà Michael Moorcock. Sottolineando anche la complessità del quadro:

 

Per ora si comprende che abbiamo tre cose da affrontare: Londra, la brutalità e la sordidezza apparenti che la vita intellettuale in qualche modo compensa; gli snodi commerciali, che non hanno una tale compensazione, e anche in apparenza sono ben più orrendi di Londra; e il paese, che, invece di essere il giusto compagno e aiutante delle città e della Città, è un’appendice fastidiosa, un incidente imbarazzante della vita cittadina, commerciale o intellettuale, che è la vita reale del nostro tempo.

Il risultato di tutto ciò è la solita confusione arrabattata che opprime l’intera vita di questo tempo di strano e rapido cambiamento, se siamo precipitati in un così angoscioso bisogno di organizzazione ragionevole. Anche Londra, di gran lunga migliore delle città commerciali, è volgare in modo meschino nei quartieri ricchi, fetida e squallida in modo indicibile nei quartieri poveri. E il paese – in questa fine di maggio non dirò che non sia bello – bello più o meno dappertutto dove non ci sono molte case moderne all’orizzonte. Ma conosco bene il paese: e anche per un uomo ricco, un uomo benestante perlomeno, il paese si lascia coinvolgere dalla stupidità arrabattata del tempo. Fra tutta la bellezza soverchia di foglie e fiori, tutta la ricchezza di prati, e terreni, e colline, è avaro, oh così avaro!

 

Il vero Ebenezer Scrooge sembra doversi insomma individuare in questo tessuto di rapporti, che vedono sacrificata al soldo ogni istanza di bellezza. Ma Morris non si ferma alla lamentela e ci parla di come vorrebbe riformata la città, anche in vista di un futuro migliore.

Una sorta di diritto di replica è concesso a Ouida con il brano GardensGiardini (Views and Opinions, 1895), a celebrare il gusto del giardino privato, luogo del pensiero e del sentimento, contro i giardini e parchi pubblici: raccomandando di non eccedere in “pulizie” (“Il giardino, come una donna può essere troppo pulito, troppo freddo, troppo tiré à quatre épingles”), l’autrice vede il giardino ideale in quello di Corisande, nel Lothair di Disraeli, politico celebre ma in precedenza dandy e autore di fiction alla moda, e si mette a ragionare sui migliori accostamenti di piante e sulla tradizione inglese dei giardini. Di nuovo si può discutere sulle affermazioni della Nostra ove polemizza contro “tutto il ‘realismo’ delle esistenze dei poveri [che] si giudica in base a squallore, carestia, crimine, ubriachezza e invidia” – in un’apparente incomprensione del fatto che i “poveri” non si scelgano da soli simili inferni,  che quelli costituiscano il frutto di non casuali contingenze di classe e che i romanzieri non inventino nulla. Basti vedere la documentazione fotografica sulle stanze dormitorio dei bassifondi dove la gente dorme seduta sostenuta da una corda: c’è allora poco spazio per pensare agli idilliaci cottage fioriti di rose di gente pur semplice descritta dall’autrice. Lodevole l’insegnamento ai piccoli dell’amore per i fiori, “Non bisognerebbe mai permettere ai bambini di cogliere i fiori, nemmeno nei campi e nelle siepi, soltanto per buttarli via; bisognerebbe insegnare loro grande rispetto per la bellezza floreale che li circonda”; per contro vivaci – e comprensibili – critiche riguardano lo spreco di fiori nelle case dei nobili e nelle chiese. In generale apprezzabile è il senso del colore e la documentazione d’ambiente nelle pagine di Ouida, pur appesantite da brontolii e comunque non troppo illuminanti dal punto di vista dell’analisi sociale.

Di altro livello, per qualità stilistica e intensità lirica sono le pagine che seguono: il piccolo gioiello In the Botanical GardensAi giardini botanici di Katherine Mansfield (1888- 1923: con lo pseudonimo di Julian Mark, è il suo primo racconto pubblicato a 19 anni, 1907); la visione Dame NatureLa Signora Natura della scrittrice e naturalista scozzese Elizabeth Brightwen (1830-1906: da More about Wild Nature, T.F. Unwin 1893); il vividamente pittorico Where The Forest MurmursDove mormora la foresta di Fiona MacLeod (pseudonimo ma vero e proprio “secondo sé” di William Sharp, 1855-1905, autore di notevole interesse spentosi in Italia a Bronte nel Catanese: da Where The Fortest Murmurs. Nature Essays, R. & R. Clark, 1906) coi suoi bozzetti invernali poeticamente documentaristici. Le stagioni come punto d’osservazione emergono con passo insieme letterario e rigorosamente scientifico anche in The Biology of AutumnBiologia dell’autunno del naturalista scozzese Sir John Arthur Thomson (1861-1933: da The Evergreen A Northern Seasonal. The Book of Autumn, T.F. Unwin 1895). Nell’età vittoriana schiere di studiosi gentiluomini – zoologi, botanici, esploratori, entusiasti a vario titolo – mostrano così di affrontare il mondo della natura con sguardo elegantemente elegiaco e insieme puntuale sui dati scientifici, ma senza immaginare le crisi che un secolo dopo vedranno gli assetti da loro celebrati esposti a rischi radicali.

Il frutto dell’interpretazione essenzialmente patriarcale offerta da gran parte di loro – emblematici gli studi di Bram Dijkstra sulle letture artistiche d’epoca sulla Donna, supportate da un impressionante bacino sessista di convinzioni spicciole e pretese verità scientifiche – verrà ridiscusso in tempi più recenti dalla cosiddetta queer ecology, con la denuncia del predominio del maschile su natura e femminile. Cui è dedicata l’ultima sezione: anche qui, il pregio della raccolta è di scelte per nulla banali e scontate.

Si parte dunque con un testo narrativo, il racconto Pan di un’autrice notevolissima, George Egerton (all’anagrafe Mary Chavelita Dunne Bright 1859-1945) tratto dalla raccolta Symphonies, John Lane 1897. La vicenda si ambienta non in Inghilterra, ma nel coevo mondo basco machista e brutale dei Bassi Pirenei: qui il richiamo dell’uomo capra suonato a una gara di ballo avrà conseguenze sessualmente esplosive e tragiche. A far esplodere la situazione non stupisce che una scrittrice come Egerton, associata almeno agli inizi a un certo orizzonte decadente attraverso marcatori emblematici come le illustrazioni di Aubrey Beardsley, convochi in scena quella divinità della natura scatenata – pulsioni comprese – che in tale arco di decenni conosce un allegro ritorno: si pensi solo a Machen (The Great God Pan, 1894), al romanzo di Knut Hamsun (Pan, 1894), a The Blessing of Pan di Lord Dunsany (1927), a The Goat-Foot God di Dion Fortune (1936) e allo stesso Peter Pan di Barrie, per non parlare dell’attenzione offertagli da pittori, filologi come Wilhelm H. Roscher (poi ricordato da James Hillman nel suo Saggio su Pan) e storici delle religioni come Sir James George Frazer. La fisionomia spiazzante ed eversiva di Pan permette richiami alla natura non mansueti o manieristici, e il significato del suo nome – “il tutto” – svela alle sue evocazioni connotati di spiazzante latitudine.

Un secondo racconto, il bellissimo The Music on the HillLa melodia sulla collina (dalla raccolta The Chronicles of Clovis, John Lane 1911), è pure di firma celebre, Hector Hugh Munro noto come Saki (1870-1916), e pure torna a Pan, con il misto di macabro e ironia caro all’autore. In questo caso il devoto al dio pagano è l’uomo, ma la protagonista ha fatto proprio il sistema di un mondo patriarcale. Con risultati di cui dovrà dolersi…

Mentre il terzo, Miss  Ormerod (The Dial, 1924) di Virginia Woolf è ispirato a un personaggio autentico, l’entomologa Eleanor Ormerod (1828-1901): non sposata e a sua volta perfettamente integrata nella società patriarcale dell’epoca – con una scienza saldamente in mano agli uomini – non mostrò mai interesse a criticare tale assetto. Virginia Woolf ne offre un ritratto scintillante, gustosamente ironico e spiritosamente convenzionale. “Sotto il microscopio si percepisce chiaramente che quegli insetti hanno organi, orifizi, feci; e, sottolineo, copulano”: a richiamare a una delle dimensioni di natura più essenziali e in fondo più provocatorie per un certo orizzonte sociale. Ma senz’altro soggetta al ministero di Pan.

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Narrazione di Natale https://www.carmillaonline.com/2016/12/06/narrazione-di-natale/ Tue, 06 Dec 2016 18:01:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35138 di Alessandra Daniele

Uno degli ultimi atti esecutivi del governo del Cazzaro è stato bloccare il finanziamento delle cure per i bambini malati di cancro a causa dell’inquinamento dell’Ilva, per punire il presidente della regione pugliese Emiliano, reo d’essersi espresso per il No. Togliere le cure ai bambini malati di cancro. Sotto Natale. La “Narrazione Renziana” si conclude con una pagina di Dickens.

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di Alessandra Daniele

Uno degli ultimi atti esecutivi del governo del Cazzaro è stato bloccare il finanziamento delle cure per i bambini malati di cancro a causa dell’inquinamento dell’Ilva, per punire il presidente della regione pugliese Emiliano, reo d’essersi espresso per il No.
Togliere le cure ai bambini malati di cancro.
Sotto Natale.
La “Narrazione Renziana” si conclude con una pagina di Dickens.

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