centralità operaia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 8 https://www.carmillaonline.com/2023/09/22/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-8/ Fri, 22 Sep 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78490 di Emilio Quadrelli

Da Valdagno a Italpizza, per un nuovo giornale operaio

Dalle ceneri di “La classe” nascono come si è detto Lotta Continua e Potere Operaio che saranno i soli gruppi capaci di dare corpo e testa all’autonomia operaia. Le due ipotesi politiche e organizzative sono sicuramente diverse mantenendo tuttavia una certa affinità tra loro tanto che solo pochi anni dopo, quando Potere Operaio si scioglierà e la svolta neo-istituzionale di Lotta Continua darà vita alla diaspora delle principali sezioni operaie, gran parte dei soggetti che avevano coabitato all’interno de “La [...]]]> di Emilio Quadrelli

Da Valdagno a Italpizza, per un nuovo giornale operaio

Dalle ceneri di “La classe” nascono come si è detto Lotta Continua e Potere Operaio che saranno i soli gruppi capaci di dare corpo e testa all’autonomia operaia. Le due ipotesi politiche e organizzative sono sicuramente diverse mantenendo tuttavia una certa affinità tra loro tanto che solo pochi anni dopo, quando Potere Operaio si scioglierà e la svolta neo-istituzionale di Lotta Continua darà vita alla diaspora delle principali sezioni operaie, gran parte dei soggetti che avevano coabitato all’interno de “La classe” si ritroveranno dentro le ipotesi che fanno da sfondo alla costituzione del soggetto politico dell’autonomia operaia.

Nell’esperienza di «Linea di condotta» si ritrovano pezzi de “La classe” confluiti in Potere Operaio nel momento in cui il giornale chiude i battenti, insieme a gran parte della diaspora operaia di Lotta Continua che non poche “affinità elettive” mostrava di avere con l’esperienza de “La classe”, invece una parte di Potere Operaio darà vita, attraverso il giornale «Rosso», a un modello di autonomia operaia che si lasciava alle spalle la centralità della fabbrica focalizzando l’attenzione su quel soggetto, l’operaio sociale, che secondo l’area teorico–politica di «Rosso» era diventato il cuore della nuova composizione di classe. In questa area finirono per confluire, anche se in misura minore rispetto a coloro che si posizionarono dentro «Linea di condotta» prima e «Senza tregua» poi, non pochi militanti di Lotta Continua che alla spicciolata abbandonavano l’organizzazione la quale aveva assunto tratti sempre più neoriformisti e neoistituzionali1.

Indipendentemente da tutto, ciò che appare evidente è come “La classe” abbia tenuto a battesimo gran parte della storia degli anni settanta di questo paese e questo sembra essere un motivo più che sufficiente a giustificare il senso di questo lavoro così come, per altro verso, sulla base delle argomentazioni portate appare del tutto forzata per non dire fuorviante la contrapposizione tra classe e ceto politico–intellettuale. Uno sguardo minimamente obiettivo ci restituisce, al contrario, una sostanziale sinergia tra classe e intellettuali il che è ben distante, come non poche narrazioni del presente tendono a fare, dall’assolutizzare il ruolo di questi nelle vicende e nella storia dell’autonomia infine, sulla base di quanto esposto, pare sensato sostenere il peso che una ritraduzione di Lenin ha comportato nell’elaborazione teorica e analitica del movimento dell’autonomia operaia e come proprio intorno a detta ritraduzione si siano costruiti i principali passaggi politici dell’autonomia operaia.

Giunti a questo punto facciamo un salto nel presente. Sicuramente, oggi, il panorama delle lotte non è dei più rosei, ma non è neppure vero che le lotte operaie e proletarie siano assenti. In un settore strategico come quello della logistica, solo per fare un esempio non proprio irrilevante, in questi anni abbiamo visto lo sviluppo di lotte di notevole intensità in grado di ribaltare, almeno in parte, condizioni lavorative prossime al lavoro coatto. Abbiamo assistito all’affermarsi di un potere operaio di non modeste dimensioni attraverso la pratica costante del blocco dei cancelli e la rimessa in atto del picchetto operaio. Per altri versi, a macchia di leopardo, lotte operaie autonome si verificano con una certa continuità dentro fabbriche, officine e cantieri mentre nuove figure operaie come quelle dei riders e degli operatori della sicurezza più noti come buttafuori, pur in situazioni di estrema difficoltà, iniziano a lottare. Da parte loro i braccianti agricoli hanno dato vita, nonostante condizioni di vita e di lavoro durissime, a lotte ed embrioni di organizzazione operaia non proprio indifferenti. Dentro le prigioni e nei campi di concentramento un proletariato in condizioni di marginalizzazione ed esclusione estrema ha continuato a lottare e resistere infine, ma certamente non per ultimo, si è assistito come nel caso delle lotte di Italpizza2 a una nuova Valdagno3 a opera di operaie immigrate. Proprio su questo ultimo aspetto è opportuno soffermarsi poiché può essere assunto come un vero e proprio paradigma del presente.

Chiedersi il perché una lotta come quella di Italpizza, che pure ha interessato un colosso della gastronomia e un numero cospicuo di operaie, sia rimasta sostanzialmente confinata in sé stessa è un modo per affrontare alcuni snodi centrali del presente. Il fatto che in questa lotta un ruolo centrale lo abbiano svolte donne immigrate, ruolo sostanzialmente ignorato, lascia, almeno in apparenza, ancor più stupefatti poiché è innegabile che, da tempo, uno dei movimenti con maggiore capacità di mobilitazione sia proprio quello femminista. Eppure intorno alla lotta di Italpizza si è costruito ben poco e non è neppure troppo lontano dal vero sostenere che la notizia di quella lotta sia rimasta ignota ai più. Colpa delle femministe? Asserirlo sarebbe un abbaglio colossale e significherebbe non cogliere il cuore della questione che merita ben altra spiegazione; del resto ciò che vale per le donne di Italpizza vale per le donne impiegate in condizioni di sfruttamento estremo nell’agricoltura. Anche in questo caso si tratta prevalentemente di donne immigrate le quali, in non pochi casi, ai livelli di sfruttamento estremo devono associare molestie sessuali se non veri e propri stupri ma, nonostante ciò, anche su questo tende a calare un sostanziale velo di silenzio. Non diversamente che su Italpizza anche qui assistiamo al silenzio del movimento femminista e alla sua assenza di intervento ma è colpa del femminismo in quanto tale oppure, il femminismo, al pari di gran parte degli ambiti del movimento antagonista, tace perché la dimensione del lavoro operaio gli è estraneo? Quello che vale per il movimento femminista non è forse moneta corrente per gran parte degli altri ambiti del presunto antagonismo?

Non abbiamo visto, per esempio, di fronte a braccianti uccisi dalla fatica, l’assunzione della condizione dei lavoratori agricoli come ambito di intervento militante, se si escludono alcune iniziative del sindacalismo di base, di una qualche consistenza da parte di alcun settore di movimento e coevi ceti politici–intellettuali eppure, in agricoltura, siamo di fronte a un dominio che vede chiamate in causa direttamente le grandi multinazionali agroalimentari e non una qualche nicchia residuale e arcaica del capitalismo. Nel settore agroalimentare si concretizza il punto più alto del comando, si dipana il modello per antonomasia del dominio, non il mondo di ieri ma la storia del presente4. A fronte di tutto ciò si potrebbero aggiungere una serie infinita di fatti più o meno analoghi come, tanto per dire, la condizione di lavoro neoschiavile in cui versano i rider o gli invisibili della ristorazione. Insomma la non attenzione del movimento femminista nei confronti delle operaie di Italpizza ha ben poco a che fare con il movimento femminista in sé ma rientra in una non visione delle cose che sembra accomunare i più.

Per dirla in parole semplici e chiare, il lavoro operaio è stato espunto da ogni agenda politica e l’interesse nei suoi confronti di fatto è nullo anche se, a uno sguardo solo un poco più attento, non è difficile osservare come la lotta operaia e proletaria sia tutto tranne che inesistente. Insomma, la sconfitta operaia non c’è così come dimostrano la quantità di denunce, fogli di via, cariche della polizia, impiego di vigilantes di pochi scrupoli, sino ad arrivare agli omicidi avvenuti in occasione di un qualche sciopero, sono fatti che hanno riempito le cronache operaie di questi anni ma di queste cronache, questo è il punto, vi è ben scarsa traccia5. Scioperi, picchetti, blocchi stradali e via dicendo non trovano alcuna risonanza dentro i ceti politici–intellettuali, il che fa sì che le cose rimangano prive di parole. Indubbiamente i fatti esistono e hanno anche la testa dura ma fatti privi di un linguaggio e di una narrazione finiscono con il rimanere semplici cose.

Facciamo un esempio: abbiamo detto che la lotta di Italpizza presenta assonanze non distanti dai fatti di Valdagno ma che a differenza di questi hanno lasciato un po’ il tempo che avevano trovato. Perché Valdagno sì e Italpizza, no? Che cosa differenzia i due momenti? La risposta la possiamo facilmente trovare confrontando gli ordini discorsivi che fanno da sfondo ai due fatti. Nel primo caso abbiamo, da parte della quasi totalità del ceto politico intellettuale e militante una attenzione costante sul mondo operaio e le sue lotte, poiché la centralità operaia è l’ordine discorsivo che egemonizza per intero il dibattito politico, teorico e culturale. Sulla scia di ciò, allora, un fatto come quello di Valdagno assume velocemente i tratti di un paradigma: ecco le donne operaie in atto e questo inizia a essere ripetuto, da nord a sud, dentro tutte le realtà operaie, ma non solo. Il paradigma Valdagno attraversa la scuola, l’università, i quartieri. Quel fatto viene amplificato all’inverosimile tanto che, con quella realtà, tutti saranno obbligati a misurarsi. Le parole non si sono inventate nulla, non si sono sostituire alle cose hanno però permesso alle cose di raccontarsi.

Quello che vale per Valdagno vale un po’ per ogni contesto di lotta più o meno radicale, le parole ne consentono la immediata socializzazione. Con ogni probabilità senza la presenza di un ceto politico–intellettuale in grado di farsi carico di ciò ben difficilmente, non solo i fatti di Valdagno, ma la stessa centralità operaia avrebbe potuto diventare l’elemento intorno al quale tutte le agende politiche finirono con il doversi misurare. Oggi, invece, neppure gli omicidi riescono a trovare le parole. In questi anni non pochi operai sono caduti nel corso di scioperi e picchetti, ma le loro morti sono cadute nel silenzio e la stessa cosa vale per la quantità impressionante di morti sul lavoro, morti che, come non poche inchieste ufficiali confermano, hanno ben poco dell’incidente casuale ma sono il frutto maturo di una organizzazione del lavoro tutta declinata alla massima estrazione di profitto a scapito della protezione della vita operaia. A conti fatti non sono le cose a mancare, sono le parole a essere assenti, ma questo è esattamente il frutto di un interesse delle parole verso altri ambiti i quali hanno finito con l’occupare ed egemonizzare l’agenda politica e culturale dei vari ceti politici e intellettuali.

Mentre le retoriche dominanti nei mondi militanti oscillano tra la narrazione di tutta l’area post operaista e della nuova sinistra, che hanno decretato la fine del lavoro operaio e la morte della classe operaia o quella reducista, tutte le aree vetero-comuniste capaci solo di vivere del e nel ricordo della mitica classe operaia delle grosse concentrazioni di questi e che, mentre ne loda e incensa i fasti, riesce solo, mentre si piange addosso, ad andare alla ricerca del tempo perduto, le lotte operaie continuano a esistere, però, purtroppo, nel più totale isolamento. Con isolamento, nel contesto, si intende la dimensione politica e culturale in cui queste si danno e l’obiettiva incapacità di imporre la centralità operaia come elemento cardine dell’agenda politica. Esattamente qui sembra delinearsi la principale differenza con l’epoca presa in considerazione da questa trattazione della quale, con ogni probabilità, “La classe” ne ha rappresentato uno degli aspetti più interessanti e significativi.

Nelle osservazioni precedenti si è molto insistito sul rapporto classe operaia/ceto politico–intellettuale mostrando come detta relazione rimanga sostanzialmente indispensabile per la messa in atto di un ordine discorsivo in grado di esercitare egemonia e direzione politica. “Senza teoria rivoluzionaria, niente movimento rivoluzionario.”, con ciò si vuole ribadire che il Che fare? mantiene inalterata tutta la sua freschezza e continua a essere l’unico orizzonte possibile e realistico intorno al quale rideterminare il partito dell’insurrezione nel presente ma, una volta detto ciò, occorre comprendere come questo passaggio sia possibile.

Intanto dobbiamo prendere atto di come, sicuramente in questo paese e in buona parte del mondo occidentale, il novecento sia del tutto finito. Quel tipo di organizzazione del lavoro che presupponeva sempre più massicce concentrazioni operaie è andato in archivio tanto che, osservatori a dir poco superficiali, sulla scia di ciò hanno decretato la fine del lavoro operaio. In realtà ciò che è accaduto veramente è il cambiamento di pelle del lavoro operaio e della sua condizione. Una condizione che nella giungla delle disparità contrattuali ha trovato la sua forma fenomenica maggiormente significativa. A fronte di ciò il proliferare, ormai come condizione normale, del lavoro irregolare per quote non secondarie di operai o, per altro verso, l’obbligo di diventare imprenditori di sé stessi attraverso la massificazione delle partite IVA è una condizione operaia e proletaria sempre più maggioritaria. Il novecento è stato archiviato e non pochi tratti della cosiddetta post modernità, per quanto riguarda la condizione operaia, hanno non poche assonanze con la condizione subalterna ottocentesca e questo è il dato dal quale occorre partire.

Come nell’Ottocento, per altro verso, classe operaia e proletariato sono politicamente esclusi, non bisogna infatti dimenticare che l’inclusione politica delle masse inizia a delinearsi nel corso della Prima guerra mondiale e occorrerà attendere la Costituzione di Weimar6 perché, sul piano giuridico formale, tale inclusione diventi legittima.

Oggi possiamo dire che il Trattato di Weimar è stato stralciato insieme a tutta quella costruzione che Keynes e lo stato–piano avevano messo in forma dopo il crack del ’297. Ciò che in realtà è successo è stata la ricollocazione dei subalterni nell’ambito della marginalità ed esclusione sociale e conseguente privazione della loro legittimazione storico–politica tanto che, per molti versi, la loro condizione si approssima a quell’essere massa senza volto propria dei colonizzati. Occorre riconoscere che nei confronti di queste masse non vi è alcuna empatia da parte dei ceti politici–intellettuali. In altre parole sembra veramente impensabile che, all’orizzonte, si possa paventare una operazione in qualche modo simile ai Quaderni rossi e a tutto ciò che li ha seguiti, se classe operaia e proletariato romperanno l’isolamento, questa volta, potranno contare solo su sé stessi e direttamente dal suo interno si dovrà formare un ceto politico–intellettuale, almeno per tutta una fase.

Se la centralità operaia riconquisterà il cuore dell’agenda politica lo potrà fare solo partendo da sé stessa ma, una volta preso atto di ciò, l’ipotesi di un giornale operaio, un “La classe” del presente, è utile o no, è fattibile o meno, assume una valenza strategica o è un’ipotesi del tutto peregrina? Un luogo deputato anche alla teoria della classe operaia rimane o meno un aspetto strategico della lotta operaia? Un luogo dove provare a far vivere l’ordine discorsivo della centralità e direzione operaia rimane o no un aspetto ineludibile per la costituzione dell’organizzazione operaia? Gli operai hanno o no bisogno di elaborazione teorico–politica o possono farne tranquillamente a meno? Dobbiamo tentare una nuova ritraduzione di Lenin o possiamo considerare il pensiero strategico leniniano del tutto inutile nel presente? Dobbiamo imparare a essere anche ceto politico–intellettuale o rimanere quelli dei picchetti? Dobbiamo essere in grado, contando solo sulle nostre forze, di riattivare la triade marxiana prassi/teoria/prassi o limitarci a una sorta di prassi in permanenza tanto eroica e volenterosa ma sicuramente poco capace di caricarsi sulle spalle tutto il peso dei passaggi politici che la lotta operaia si porta appresso? Dobbiamo essere in grado di agire e funzionare anche come supplenza politica nei confronti della classe o inibirci per intero la dimensione del politico? Dobbiamo tentare una battaglia per riconquistare l’egemonia politica o accontentarci di vivere tra le marginalità del presente? Queste le domande e le sfide che dobbiamo provare ad affrontare oggi.

Per rispondere cominciamo con il dire, intanto, che il giornale è uno strumento di organizzazione, non certamente l’organizzazione operaia ma sicuramente un passaggio importante, perché mette in collegamento le lotte operaie, ponendo in primo piano i punti di vista di queste. Dal momento che sviluppa dibattito tra gli operai, costruisce una serie di tasselli non secondari dell’organizzazione e dell’insieme di problematiche che questa indubbiamente si porta appresso. Dentro la classe questa funzione diventa strategica, perché, infatti, bisogna tener presente che, in non pochi casi, le numerose lotte esistenti non comunicano tra loro, così come è del tutto impossibile trovare un luogo comune dove esplicitare il punto di vista operaio e per la classe questo è un limite che contribuisce non poco, a renderla monca.

Non è difficile da immaginare che un giornale operaio andrebbe a ricoprire un ruolo essenziale dentro la classe; pensiamo all’impatto che potrebbero avere delle semplici cronache operaie tra gli operai in lotta, pensiamo alle pagine fitte di corrispondenze operaie de “La classe” negli scenari di lotta attuali. Forse che nel ’69 il coordinamento e la socializzazione delle lotte era un qualcosa che si raccoglieva sugli alberi? Forse che la classe operaia viveva una condizione di minor isolamento di oggi? Gli operai della fabbrica X conoscevano ciò che accadeva nella fabbrica Y per volontà divina e ancora gli operai di Torino cosa sapevano di quelli di Porto Torres se non ci fosse stata l’organizzazione di una narrazione. Certo, le notizie di notevole spessore non potevano essere eluse, Avola e Battipaglia non potevano essere ignorate dalla stessa informazione di regime, ma non è questo il punto, ciò che rimaneva costantemente celato era il livello di lotta e conflittualità che attraversava le fabbriche, gli obiettivi che gli operai perseguivano, le forme di lotta adottate. Il giornale, quindi, è in prima istanza uno strumento del dibattito operaio che consente sia di fissare i punti delle varie situazioni, sia di individuare collettivamente i passaggi necessari per il loro prosieguo. Va anche detto che il giornale, oltre che funzionare come elemento di organizzazione della classe, rimane uno strumento, non secondario, in grado di rompere la sensazione di isolamento e accerchiamento in cui, in non pochi casi, la classe ritiene di trovarsi. Percezione non così fantasiosa come chiunque abbia un minimo di familiarità con le lotte, può testimoniare.

Pensiamo, ad esempio, ai conflitti nel settore della logistica: i magazzini sono dislocati in autentici territori del nulla dove per chilometri si dipanano attività produttive che non hanno alcuna comunicazione l’una con l’altra. Il magazzino X sciopera e picchetta i cancelli, ma intorno a questo nessuno si accorge di niente. Se, come in non pochi casi avviene, si arriva allo scontro con i guardiani o alle cariche della polizia, tutto rimane circoscritto a quel contesto e può accadere che, il giorno seguente, si ripeta uno scenario simile a un paio di chilometri di distanza, anche questo in maniera del tutto isolata. L’assenza di comunicazione produce isolamento e inibisce non poco l’attività di agitazione e propaganda. Andare davanti a una fabbrica o un magazzino con un giornale operaio non è proprio come andarci a mani vuote e questo è un aspetto importante della questione.

Accanto a questo ve ne è un secondo, non meno rilevante e anzi, per alcuni versi, forse più decisivo: la funzione che il giornale può e deve assolvere dentro le aree politiche antagoniste, rivoluzionarie e comuniste, in altre parole il giornale è uno strumento essenziale per la conduzione della battaglia politica al fine di portare sul terreno della centralità operaia un ceto politico–intellettuale in grado di entrare in relazione dialettica con le lotte operaie, assumerle come centrali dell’agenda politica del presente, imporre la questione operaia come asse portante del dibattito di tutto il movimento antagonista. Compito titanico? Forse. Ciò non toglie che è una partita che occorre tentare. Se ci guardiamo intorno possiamo facilmente osservare come, ad esempio, nei mondi studenteschi e intellettuali vi sia un dibattito politico e culturale sui più svariati temi tranne che sulla classe operaia e le sue lotte. Questo è certamente il frutto di tutta una serie di retoriche che hanno preso campo negli ultimi decenni ma, occorre riconoscerlo, è anche e soprattutto il frutto di una assenza. Come si fa a parlare di classe operaia, di lotte operaie se queste non sono in grado di produrre uno straccio di narrazione? Su quali basi diventa possibile provare a forzare una situazione se per le mani non si ha nulla di teoricamente consistente? Pensiamo alla quantità non proprio irrisoria di giovani che si avvicinano, con intenti radicali e rivoluzionari, alla politica. Che occasione hanno di conoscere il mondo operaio se questo, sul piano organizzativo e comunicativo, si avvicina di molto al modello carbonaro?

È ovvio che, in uno scenario simile, queste migliaia di possibili militanti verranno cooptati dagli unici ordini discorsivi che hanno visibilità. Occorre sia dare visibilità alle lotte operaie ma non solo bisogna far sì che, intorno a queste lotte, si focalizzi l’attenzione e l’azione di tutto ciò che si considera e autorappresenta come ambito antagonista e conflittuale e questo è possibile solo se la centralità delle lotte operaie ritorna a essere il punto di riferimento del punto di rottura del rapporto sociale capitalista. Senza questo passaggio le lotte operaie corrono il concreto rischio di una endemicità priva di qualunque prospettiva e, nostro malgrado, torneremo a non essere troppo diversi da quell’operaismo che aveva bellamente eluso il rapporto delle lotte con il momento di rottura ignorando così la dimensione propria della politica. Questa l’ottica nella quale dovrebbe collocarsi l’ipotesi di un nuovo giornale, da “La classe” a “La classe”, per una nuova stagione del potere operaio.

(8Fine)


  1. L’esperienza di «Linea di condotta» è riportata per intero in, E., Quadrelli, Autonomia operaia, cit. Sull’esperienza di Rosso si veda: T. De Lorenzis, V. Guizzardi, M. Mita, Avete pagato caro non avete pagato tutto. Antologia della rivista Rosso (1973–1979), Derive Approdi, Roma 1979.  

  2. Al proposito si veda, «Il Manifesto», 120 operai di Italpizza a processo, 13/9/2020.  

  3. Il 19 aprile 1968 gli operai, ma soprattutto le operaie della Marzotto entrarono autonomamente in lotta contro il padrone Marzotto il quale gestiva la fabbrica apertamente patriarcale e paternalista. Tra le prime cose che le operaie fecero fu distruggere la statua del padre–padrone. Nonostante i duecento arresti e i violenti scontri con le forze dell’ordine la lotta continuò in maniera sempre più dura e determinata. Le donne furono la testa del movimento, dall’inizio alla fine. L’evento, in un batter d’occhio, diventò il simbolo della nuova stagione delle donne operaie e della loro radicalità. Sugli eventi di Valdagno si veda, L. Guiotto, La fabbrica totale. Paternalismo e città sociali in Italia, Feltrinelli, Milano 1979.  

  4. Una buona documentazione di ciò è reperibile sul sito di “Campagne in lotta”, campagneinlotta.org.  

  5. Una rara eccezione è data dal testo scritto dal Si.Cobas, Carne da macello, Red Star Press, Roma 2016.  

  6. Su questo passaggio si veda il fondamentale lavoro di S. Mezzadra, La costituzione del sociale. Il pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Il Mulino, Bologna 1999.  

  7. In particolare, John, M. Keynes, La fine del laissez–faire e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1991.  

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E’ la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 1 https://www.carmillaonline.com/2023/07/22/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-1/ Sat, 22 Jul 2023 20:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76714 di Emilio Quadrelli

Sulle barricate c’erano delle bandiere rosse e su una c’era un cartello con su scritto: “Che cosa vogliamo? Tutto!” (N. Balestrini, Vogliamo tutto)

Un giornale operaio

«La classe», giornale delle lotte operaie e studentesche, ebbe vita breve: dal maggio all’agosto 1969. In apparenza dedicargli un saggio così corposo potrebbe sembrare un’operazione al limite dell’eccentrico e unicamente legata a quel ma l’amor mio non muore proprio di chi è stato interno a quella stagione, piuttosto che a una iniziativa in grado di parlare a un pubblico estraneo alla nostalgia o, per altro verso, unicamente a quella piccola pattuglia [...]]]> di Emilio Quadrelli

Sulle barricate c’erano delle bandiere rosse e su una c’era un cartello con su scritto: “Che cosa vogliamo? Tutto!” (N. Balestrini, Vogliamo tutto)

Un giornale operaio

«La classe», giornale delle lotte operaie e studentesche, ebbe vita breve: dal maggio all’agosto 1969. In apparenza dedicargli un saggio così corposo potrebbe sembrare un’operazione al limite dell’eccentrico e unicamente legata a quel ma l’amor mio non muore proprio di chi è stato interno a quella stagione, piuttosto che a una iniziativa in grado di parlare a un pubblico estraneo alla nostalgia o, per altro verso, unicamente a quella piccola pattuglia di storici che, delle vicende dell’altro movimento operaio degli anni ’60 e ’70, hanno fatto il loro ambito di ricerca. Pattuglia più che meritevole poiché, grazie a questa, sono stati confezionati una serie di lavori che hanno ben ricostruito sia gli albori delle lotte operaie e proletarie degli anni sessanta e primi settanta insieme a quel multiforme filone teorico che è stato l’operaismo, sia ciò che da questo ceppo ha preso vita. Lavori di notevole interesse e spessore che hanno contribuito non poco a restituire un minimo di obiettività storica all’insieme di quelle vicende che l’ordine del discorso dominante aveva decretato innominabili arrivando a bruciare sul rogo parte dei testi che di quella stagione erano stati elementi teorici e politici non secondari1.

Rispetto all’insieme di questi lavori il testo presente non ha nulla da aggiungere, semmai è interessato a focalizzarne alcuni aspetti. Si può, più o meno, concordare o dissentire con alcune interpretazioni come, ad esempio, l’eccessiva enfatizzazione attribuita a questa o quella rivista ignorando, e non si tratta proprio di cosa di poco conto, come in non pochi casi il corpo militante e le avanguardie si mostrarono non uno, ma molti passi indietro rispetto al movimento reale e, diretta conseguenza di ciò, come la questione della forza che la violenza operaia stava ponendo in maniera esplicita finisse con l’essere sostanzialmente elusa proprio da una parte di coloro che, almeno sul piano teorico e analitico, si mostravano tra i più sagaci interpreti e lettori di ciò che il movimento di massa stava ponendo all’ordine del giorno. Per altro verso si potrebbe anche obiettare come dentro una parte di quell’operaismo, aspetto solitamente ignorato da gran parte delle ricostruzioni storiche, la lotta contro la macchina statuale non fosse minimamente presa in considerazione il che, a conti fatti, non poteva far altro che far retrocedere la pratica del potere operaio entro un “economicismo” sempre o a rimorchio del comando o come volano del comando stesso. Se c’è qualcosa di poco convincente nell’operaismo che precede l’autunno caldo è proprio la teorizzazione di una sorta di dualismo di potere in permanenza che le lotte operaie sarebbero in grado di imporre, dando vita a forme di attacco che obbligherebbero il comando a una costante ristrutturazione senza mai, però, ipotizzare il momento della rottura.

Sulla necessità di spezzare la macchina statuale una parte dell’operaismo si mostrò a dir poco titubante e, a tal proposito, va sicuramente evidenziato come proprio nelle pagine de «La classe» tale nodo iniziò a essere affrontato senza mezze misure. Se l’operaismo, che per convenzione possiamo definire classico, aveva sostanzialmente ignorato la “questione dello Stato” e la necessità per la forza operaia di attrezzarsi per lottare contro la macchina statuale della borghesia, l’operaismo che prende forma dentro la lotta autonoma di massa comincerà a porsi concretamente il problema dello scontro politico – militare con lo stato e i suoi apparati. Anticipato ciò proseguiamo.

Come in tutte le storie, anche in quella relativa all’altro movimento operaio ve n’è una ufficiale e una tenuta, ad arte, un po’ nell’ombra2. Quella ufficiale, sposata dai più, ha focalizzato l’attenzione sul ruolo degli intellettuali e le riviste da questi confezionate, finendo con ignorare le lotte operaie o renderle semplici appendici e/o esecutrici delle direttive di un ceto politico – intellettuale, l’altra, e non per caso decisamente minoritaria, ha invece focalizzato la sua attenzione sulla massa anonima degli operai tanto che, in maniera non del tutto insensata, si è iniziato a parlare di autonomia operaia con la a maiuscola nel caso dell’autonomia degli intellettuali e di autonomia con la a minuscola messa di fronte a quella degli operai. Non si tratta certo di un fulmine a ciel sereno emerso in alcune recenti ricostruzioni poiché, detta contrapposizione, affonda le sue radici nelle differenze risultate incolmabili all’origine anche della fine del giornale «La classe», tra ciò che diede vita a Potere Operaio3 da una parte e Lotta Continua4 dall’altra. A ciò va aggiunto, il che mostra come l’operaismo sia stato un contenitore teoricamente e politicamente affine ma non omogeneo, il fatto che una quota non secondaria degli attori che avevano dato vita alla stagione teorica dell’operaismo già sul finire degli anni sessanta era rientrata nei ranghi del PCI e del sindacato allineandosi velocemente e senza grandi difficoltà alle peggiori nefandezze che questi stavano perpetrando e continuando su questa strada anche quando, partito e sindacato, si mostrarono come i più accaniti nemici e persecutori delle lotte e delle pratiche dell’altro movimento operaio e della guerriglia comunista che queste si erano portate appresso5.

Fatta questa necessaria precisazione la quale, come un vero e proprio lapsus freudiano, sfugge a molti autori che negli ultimi anni si sono cimentati nella ricostruzione dell’operaismo, ritorniamo un momento sulla contrapposizione tra le due autonomie. In un bel saggio recente, Galmozzi6 ha ben reso il senso di questa differenza e, chi scrive, si allinea sostanzialmente con quanto in quel testo è sostenuto e argomentato. Per altro verso Viale, nel suo lavoro sul ’687, aveva già evidenziato come queste due anime non avrebbero potuto convivere a lungo e quanto un certo tipo di operaismo avesse poco a che vedere con gli operai e le loro lotte. Pur propendendo maggiormente per questa interpretazione il testo presente, dall’insieme di dette diatribe, si smarca immediatamente provando a collocarsi in un contesto diverso. Sicuramente, da un lato, ha indubbiamente un valore storico in quanto riporta alla luce un’esperienza del passato e la rende fruibile a chi è interessato a studiare queste vicende ma, dall’altro, prova ad argomentarne soprattutto l’attualità e per questo il suo intento è decisamente politico dove, per politico, si intende il qui e ora delle lotte operaie e della necessità di queste di trovare uno sbocco politico in grado di rimettere al centro dell’ordine discorsivo dell’antagonismo sociale la centralità operaia, la sua capacità di direzione e la necessità di costruire gli organismi del contropotere operaio sia all’interno degli ambiti produttivi, sia nei territori, un’asserzione non proprio scontata e in apparenza quasi folle ma che, con pazienza, si cercherà di argomentare infine , ma non per ultimo, discutere de «La classe» è anche una scusa per ridiscutere Lenin e la teoria politica leniniana. Partiamo, pertanto, esattamente da Lenin.

Mentre dai più, oggi, Lenin è considerato un cane morto il cui cadavere merita scarsa menzione o una mummia da venerare come un Padre Pio in versione laica, pare utile oltre che necessario provare a ricalibrare la teoria leniniana dentro il presente e farlo sulla scia dell’esperienza del giornale «La classe» il quale aveva fatto esattamente ciò, strappando Lenin alle sue litigiose vestali eredi del terzo internazionalismo, per farlo ripiombare prepotentemente e in piena freschezza dentro il fuoco della lotta di classe del presente. Questo aspetto sembra essere per lo più ignorato dalla saggistica inerente alla nascita e sviluppo del movimento dell’autonomia operaia mentre, al contrario, è stata proprio una nuova lettura di Lenin, o forse sarebbe meglio dire una sua nuova traduzione, a fare da sfondo a tutto ciò che ha dato politicamente vita alla stagione dell’autonomia operaia. Se c’è una cosa sulla quale appare difficile non concordare è proprio la costante ritraduzione di Lenin da parte di tutte le componenti politiche di quella stagione. Si può anche parlare della messa a regime di diverse eresie leniniane, di diverse traduzioni della teoria politica di Lenin ma sicuramente non di una sua rimozione e tutta la pubblicistica dell’epoca va esattamente in quella direzione. Lenin in Inghilterra insieme a 1905 in Italia8, del resto, erano stati passaggi e letture condivise dai più e questo non può essere certamente ignorato così come: “Cominciamo col dire Lenin”, era stato un non secondario incipit del ragionamento politico di ciò che nelle fabbriche, nei reparti e nei territori operai aveva iniziato a prendere forma9. Se c’è qualcosa che fa permanentemente da sfondo a tutte le iniziative organizzative ed editoriali che nascono intorno alle lotte operaie degli anni sessanta sono proprio Lenin e l’insurrezione, di più, se c’è una idea – forza che sostanzia tutte le esperienze dell’epoca è la necessità di dare, nel presente, corpo e teoria al partito dell’insurrezione.

Di questo, il che qualche interrogativo lo pone, nei testi recenti che hanno affrontato la storia e la politica dell’altro movimento operaio vi è ben poca traccia come se, gran parte degli intellettuali militanti contemporanei, preferisse ignorare e rimuovere alla radice la questione della insurrezione e della violenza che Lenin inevitabilmente si porta appresso, insieme a quell’ombra del patibolo e del carcere che da sempre fa da sfondo ai rivoluzionari, insomma ciò che sembra aver preso corpo è l’idea di una rivoluzione non distante da un buffet di gala, consumato negli intervalli di un qualche seminario o convegno accademico, all’interno del quale studenti e dottorandi di belle speranze pontificano sulle teorie operaiste, sulle sue derive approdate dall’operaio massa alle moltitudini, sul general intellect, il frammento sulla macchina per arrivare al lavoro cognitario come orizzonte contemporaneo sia del comando che della sovversione sociale tanto che, a uno sguardo anche distratto, lo spezzare la macchina statuale, l’insurrezione armata, la dittatura operaia e il potere dei soviet sembrano essersi repentinamente condensate nella conquista di una qualche cattedra universitaria e coevi fondi di ricerca. Detto polemicamente ciò torniamo a Lenin e alle pagine del nostro giornale. Infine, ma certamente non per ultimo, si assiste alla completa rimozione della rottura come elemento centrale della conflittualità operaia e proletaria. Con ciò, reiterando il limite proprio di un certo operaismo delle origini, si torna alla teorizzazione di un conflitto in permanenza, e coeve istanze di potere, destinate a giocarsi in eterno. Su questo piano, ovviamente, Lenin non solo può, ma deve essere rimosso. In ciò che, con non poca arguzia, è stato chiamato l’operaismo della cattedra10 i richiami a Lenin e al terrore rosso non possono che essere ignorati prima, accantonati poi. Non diversamente da quanto fece Bonaparte nei confronti della Grande Rivoluzione gli operaisti della cattedra, non rinnegano l’autonomia ma la epurano dagli eccessi relegandola nel tranquillizzante mondo della buona teoria niente di più e niente di meno di uno dei tanti capitoli della storia delle idee. Ma torniamo al nostro giornale.

«La classe» non si era prostrata davanti a Lenin e tanto meno si era sognata di venerarlo ma lo aveva preso e portato alla Fiat dove, in piena ubriacatura eretica, era risorto. Solo davanti ai cancelli di Mirafiori o dentro le Presse questi cessava di essere un santino da incorniciare ed esibire sugli altarini delle varie chiese comuniste, per farsi nuovamente rivoluzionario di professione, così come solo ritornando in fabbrica poteva abbandonare i panni del compito parlamentare rispettoso della legge e della legalità a cui una lettura a dir poco approssimativa de “L’estremismo” lo aveva relegato. Quella sua immagine bigotta e perbenista che il PCI e non solo aveva, per anni, pazientemente confezionato andava in frantumi. Ritornando in mezzo agli operai il suo tratto barbarico faceva nuovamente capolino e ritornava a far tremare il mondo, all’interno delle officine, insieme ai cortei operai, Lenin riprendeva a essere il partito dell’insurrezione e poteva tornare a essere il teorico e l’organizzatore della guerra di movimento e mandare in soffitta tutte le amenità proprie della guerra di posizione. Ma non si tratta solo di ciò. «La classe» sintetizza al meglio il rifiuto del determinismo e dello scientismo in cui Lenin era stato, e con lui tutta la teoria marxiana, da tempo imprigionato e con ciò ritornava a essere il punto d’approdo non della scienza in astratto, che è sempre scienza del capitale, ma della scienza operaia ovvero della soggettività di classe. Contro lo storicismo, prono alla metafisica della storia, ritornava a stagliarsi prepotentemente il treno della soggettività così come, contro il determinismo oggettivista, tornava quel Bisogna sognare! che Lenin aveva tradotto in programma di potere nella prospettiva della dittatura operaia.

Di fronte alla pacatezza e al buon senso di tutti i residui e cascami del terzo internazionalismo i quali, di fronte agli operai che non si lasciavano irretire dalla loro coscienza, dichiaravano l’immaturità dei tempi e della necessità della politica dei piccoli passi e dell’importanza strategica del grigio lavoro quotidiano, le fabbriche tornavano ad annunciare: sproneremo il ronzino della storia fino a che schianti! Una pietra tombale sembrava finalmente essere posta sul determinismo scientista e la gabbia dello storicismo definitivamente divelta dalla soggettività operaia, a fronte di un marxismo ridotto a banale interpretazione dello sviluppo capitalista e prono a un evoluzionismo ancorché dai tratti messianici, il marxismo di Lenin è nuovamente la scienza operaia della rottura, la scienza dell’insurrezione. All’oggettività dei processi del capitale, intorno ai quali si focalizzano tutte le eredità terzo internazionaliste, va giocato il processo della soggettività operaia. Lì, con questa e non altrove, si situa il punto di rottura. Contro la storia come sviluppo oggettivo del capitale va lanciata tutta l’irruenza del treno della soggettività operaia. Ai nuovi marxisti legali va contrapposto il bolscevismo del partito dell’insurrezione. Contro tutte le ortodossie comuniste che, reiterando il vizio positivista della Seconda internazionale, considerano il divenire come un canovaccio evoluzionista teologicamente determinato11, l’altro movimento operaio e le sue teorie reintroducono la dialettica dentro il divenire storico e con ciò la storia torna a essere un campo di battaglia che la soggettività può piegare in una direzione piuttosto che in un’altra. On s’engage …puis on voit! e ancora: D’audace, encore d’audace et toujours d’audace!, così Lenin aveva lanciato l’assalto al cielo e se c’è qualcosa di ortodosso nell’autonomia operaia è proprio la totale adesione a queste indicazioni leniniane.

Questa a conti fatti era stata la grande eresia pronunciata, ancorché sulla scia di Marx, da Lenin e che gli era costata l’ostracismo da parte di tutto il marxismo europeo insieme a una quantità di accuse le quali, volta per volta, lo avevano definito anarchico, giacobino, blanquista, neopopulista fino, tradendo con ciò lo sfondo razzista implicito in gran parte della Seconda internazionale, come barbaro e asiatico. Quanto questa narrazione tossica su Lenin e il bolscevismo finisse con l’essere fatta propria da tutti i ceti politici e intellettuali compresi, almeno in buona parte, quelli interni al movimento dell’autonomia operaia è ampiamente riscontrabile nel modo in cui, un intero pezzo della storia bolscevica e della coeva linea di condotta leniniana, finì con l’essere sostanzialmente rimossa dagli orizzonti dei vari ceti politici e intellettuali. Per esemplificare al meglio tutto ciò occorre compiere un piccolo passo avanti negli anni e osservare la diversa recezione che un pezzo non secondario della storia del bolscevismo ebbe dentro l’area dell’autonomia. Lì ed esattamente lì è possibile scorgere la non secondaria differenza tra l’autonomia operaia con la a maiuscola e quella continuamente tradotta in caratteri minuscoli.

(1continua)


  1. L’intera raccolta del giornale «La classe» è reperibile in formato PDF sui siti Chicago86 e Machina- DeriveApprodi. In particolare, in relazione all’esperienza de «La classe», si veda il lavoro di A. Pantaloni, 1969 L’assemblea operai studenti. Una storia dell’autunno caldo, Derive Approdi, Roma 2020; mentre per gli opuscoli marxisti di Antonio Negri si veda A. Negri, I libri del rogo, Derive Approdi, Roma 2006. Il libro raccoglie una serie di testi usciti per la collana Opuscoli marxisti editi dalla Feltrinelli la quale, all’indomani del 7 aprile, li mandò al macero.  

  2. Cfr., E. Quadrelli, a cura di, Le condizioni dell’offensiva. Senza tregua. Giornale degli operai comunisti: storia di un’esperienza rivoluzionaria (1975–1978), Red Star Press, Roma 2019.  

  3. Su Potere operaio si veda, in particolare, M. Scavino, Potere operaio. La storia. La teoria., Vol. 1. Derive Approdi, Roma 2018.  

  4. Per la storia di questa organizzazione si veda soprattutto, G. Viale, Niente da dimenticare. Verità e menzogne su Lotta Continua, Edizioni Interno4, Rimini 2023  

  5. Massimo Cacciari e Mario Tronti, che pure avevano avuto un ruolo importante nella costruzione del pensiero operaista, già sul finire degli anni sessanta fecero marcia indietro e si riallinearono al PCI seguendone, senza battere ciglio, tutte le nefandezze che questo non ebbe difficoltà a perpetrare contro i comunisti e le avanguardie operaie nel corso degli anni settanta.  

  6. C. Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta continua a Prima linea: le origini e la nascita (1973–1976), Derive Approdi, Roma 2019. Ancora più esplicativo, al proposito, è il recente lavoro dello stesso autore, Marzo 1973. Bandiere rosse a Mirafiori, Derive Approdi, Roma.  

  7. G. Viale, Il 68. Contro l’università, Edizioni Interno 4, Rimini 2018.  

  8. Entrambi i saggi si trovano in M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.  

  9. A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, Manifestolibri, Roma 2016.  

  10. Si deve questa espressione a Oreste Scalzone che così, in Operaismo e comunismo, pubblicato sul blog Comunismo e comunità, Laboratorio per una nuova teoria anticapitalista, ha definito parte di quel ceto intellettuale che ha accademizzato la storia dell’autonomia operaia.  

  11. In questo modo il marxismo diventa una delle tante teologie della storia, cfr. K. Löwith, Significato e fine della storia, Il Saggiatore, Milano 2015.  

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Chourmo

L’intervista appena riportata ha ben reso la cornice e il senso all’interno della quale si dipana l’attività del Collectif un’attività che, tra l’altro, ha catturato l’attenzione anche di soggetti provenienti dall’esperienza dei gilets jaunes. Proprio due di questi, M. C., e J.B., una donna e un uomo approdati al Collectif dopo essere stati particolarmente attivi nel movimento dei gilets jaunes sono gli attori sociali con i quali si è cercato di ricostruire il percorso autonomo dei precari e dei disoccupati. Ciò è apparso particolarmente utile perché il terreno [...]]]> di Emilio Quadrelli

Chourmo

L’intervista appena riportata ha ben reso la cornice e il senso all’interno della quale si dipana l’attività del Collectif un’attività che, tra l’altro, ha catturato l’attenzione anche di soggetti provenienti dall’esperienza dei gilets jaunes. Proprio due di questi, M. C., e J.B., una donna e un uomo approdati al Collectif dopo essere stati particolarmente attivi nel movimento dei gilets jaunes sono gli attori sociali con i quali si è cercato di ricostruire il percorso autonomo dei precari e dei disoccupati. Ciò è apparso particolarmente utile perché il terreno dell’autonomia operaia e proletaria pare essere il possibile sbocco politico e organizzativo di tutte quelle energie e forze che il movimento dei gilets jaunes ha messo in campo senza riuscire, però, a dare a tutto ciò forza, progettualità e organizzazione. Le riflessioni dei due ex militanti del movimento, pertanto, assumono un particolare interesse poiché, attraverso le loro parole, viene posto il problema di come trasformare in effettivo dualismo di potere la non secondaria radicalità presente tra quote non irrilevanti di subalterni. Cominciamo con l’ascoltare M. C.

Tu sei approdata al Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille dopo due esperienze politiche legate prima al movimento femminista e, in seguito, ai gilets jaunes. Come hai maturato questa decisione?
Per quanto riguarda il femminismo e le sue tematiche radicali sono cose che mi porto dentro e che immetto dentro l’esperienza del Collectif. Io nasco all’interno del movimento femminista e di fatto non ne sono mai uscita. Ma partiamo, intanto, con il dire che cosa sono io. Oggi sono una “lavoratrice autonoma” del mondo del turismo. Quello del lavoro autonomo è una delle molteplici facce della precarietà. In passato, quando si parlava di lavoratori autonomi, si ci riferiva a un ceto sociale medio alto, quello dei professionisti. Oggi, invece, essere un lavoratore autonomo è una imposizione delle aziende, per svolgere funzioni in passato di lavoratori dipendenti cioè salariati con un rapporto contrattuale di un certo tipo. Questo tipo di lavoro autonomo non è una forma di emancipazione dal lavoro salariato ma esattamente il contrario. In questo modo l’azienda ti tiene continuamente sotto scacco e tu, di fatto, hai ben pochi strumenti per difenderti perché, proprio per la sua tipologia, la relazione con l’azienda è del tutto individuale. Di fatto noi siamo precari a tutti gli effetti e quindi la mia collocazione dentro il Collettivo risponde a una condizione oggettiva. Lo è anche in relazione alla condizione di disoccupata poiché noi non abbiamo alcuna garanzia di lavoro continuativo, anzi. Può succedere, come accaduto in più occasioni, che un tour sia annullato, in quel caso si
rimane a casa senza paga oppure, quando la stagione turistica è in calo, i momenti di pausa si prolungano notevolmente. L’organizzazione di questa condizione di lavoro, che è una condizione subordinata a tutti gli effetti, è un aspetto, ovviamente non il solo, della attività del Collettivo. Guardando la cosa in maniera più ampia mi sembra di poter dire che questa struttura consente di dare visibilità e legittimità politica e sociale a tutta quella parte di società oggi invisibile e marginalizzata.

Invece, dell’esperienza dei gilets jaunes, cosa porti dentro al Collettivo?
Di quella esperienza che inizialmente mi ha molto coinvolta e affascinata porto ben poco poiché, facendone un bilancio, mi sembra essere stata una grossa delusione o meglio ha deluso del tutto le aspettative che aveva aperto. Questo perché non è andata oltre a una sostanziale genericità e non è stata in grado di darsi un programma, una forma organizzata e degli obiettivi. Questo lo si vede bene oggi quando, di tutto quel movimento, non è rimasto nulla. È stato un grande momento di protesta, con forme anche radicali ma che non aveva una vera direzione di classe e alla fine non ha potuto far altro che evaporare. Con ciò non rinnego la mia partecipazione al movimento, che è stato un po’ una jacquerie solo che tutta quella mobilitazione mi ha fatto comprendere che occorre costruire su basi di classe. A partire da questa considerazione il mio approdo dentro questo Collettivo.

Passiamo così a J.B., il quale, sulla base di una rivisitazione critica dei gilets jaunes, matura la sua adesione al Collectif e, in poche battute, sembra cogliere tanto la grandezza quanto i limiti di quel movimento.

Dai gilets jaunes al Collectif, come avviene questo passaggio? Come valuti la tua precedente esperienza e perché, oggi, ti collochi in questa realtà?
L’esperienza dentro i gilets jaunes ha due facce. Una molto positiva ha mostrato come la società francese sia estremamente esplosiva e che basta un piccolo detonatore per innescare dei momenti di lotta duri e radicali. Come gilets jaunes siamo andati ben oltre la protesta formale. Basta pensare agli attacchi alle banche, agli scontri con la polizia ma, a mio avviso, vi è un aspetto anche più importante che in questa esperienza è venuto fuori, mi riferisco al senso di comunità che le persone, in questa lotta, hanno espresso. Una cosa che ho potuto verificare di persona partecipando ai blocchi organizzati fuori dalle città. Soprattutto lì le persone si riunivano anche per ritrovare una socialità e un senso di appartenenza che la società contemporanea tende a schiacciare. Di questo si parla poco, anzi nulla, ma una cosa veramente importante che in tutti quei mesi è emerso è stata la volontà delle persone di rompere l’isolamento in cui il potere ci costringe. Questo è stato particolarmente vero per quel modo che abitualmente chiamiamo “Francia profonda” dove, a riemergere, sono state le abitudini comunitarie del mondo contadino. Di questo mondo non si parla pressoché mai eppure una grossa fetta della popolazione francese vive lì. Credo che senza di loro sarà difficile arrivare a cambiare radicalmente la situazione. Però questo è un lato del problema. Importante, ma non decisivo. E qua veniamo al limite che si è mostrato insormontabile per il movimento dei gilets jaunes, quello di non essere stato in grado di bloccare la produzione e quindi il paese. Questo movimento non è stato in grado di dare una direzione operaia, eppure i sabati gli operai erano in piazza, alla lotta. I gilets jaunes sono stati un grande movimento di popolo ma non di classe. Questo il suo grande limite. In questo modo tutta la sua pur enorme potenzialità ha finito con il disperdersi e l’evaporare. A partire da ciò mi sono orientato verso questa esperienza del Collectif perché è una esperienza che nasce su basi di classe e lo fa a partire, senza fronzoli di troppo, dalla condizione materiale delle masse.

Voi siete, però, una cosa molto atipica rispetto al variegato mondo antagonista e delle stesse organizzazioni della sinistra radicale. Che cosa è, in poche parole, ciò che vi caratterizza?
Ma intanto noi siamo una struttura che si richiama al marxismo cosa che, oggi, per gran parte dei movimenti è quasi una bestemmia. Parliamo di direzione e centralità operaia cosa sicuramente anomala rispetto a tutti gli altri. Per altro verso, però, non abbiamo neppure alcuna affinità o contiguità con tutti quei micro gruppi comunisti che si rifanno a una qualche tradizione comunista. Questo è bene chiarirlo perché anche questi parlano di classe operaia solo che, nel loro immaginario, la classe operaia è praticamente una icona del tutto priva di concretezza. La riprova la puoi avere sulla questione dei disoccupati che, questi gruppi non prendono neppure in considerazione sul piano dell’analisi mentre noi ne siamo una specifica forma organizzata. Noi lavoriamo per la centralità e direzione operaia avendo in mente la classe operaia del mondo contemporaneo non quella che sta nelle pagine dei libri.

Un’ultima cosa. Il Collectif ha incentrato la sua attività sui precari e i disoccupati. Questo vuol dire che non avete rapporti con altre realtà di classe o nei confronti di queste avete altre forme di interazione?
Hai fatto bene a farmi questa domanda perché mi permette di spiegare alcune cose e non creare confusione e malintesi. In realtà noi stiamo costruendo, però fuori Marsiglia perché il grosso della produzione industriale da tempo è stata spostata nelle città satelliti, una rete operaia. Siamo in una fase embrionale e, in alcune situazioni, abbiamo preso noi in mano la struttura sindacale della CGT. Dentro Marsiglia, invece, in alcuni luoghi di lavoro più tradizionali lavoriamo dentro strutture sindacali più piccole ma che, in certe situazioni, hanno un grosso peso. Si tratta di un lavoro già in atto ma ancora tutto da definire. Crediamo che non si debba avere un modello assoluto di organizzazione ma lavorare per lo sviluppo dell’autonomia operaia dentro tutte le forme possibili.

Prima di concludere, al fine di capire meglio ciò di cui stiamo parlando, vediamo come opera concretamente il Collectif. Lo facciamo attraverso le parole di D. N. un corso da tempo stabilizzatosi a Marsiglia che è stato uno dei primi animatori del collettivo dei disoccupati.

Puoi farmi un esempio di come interviene il Collectif?
Certamente. Posso parlarti della campagna che abbiamo iniziato a sviluppare con le operaie e gli operai che lavorano nel Mama Restaurant Marseille. Questa è una catena di ristoranti di cucina italiana, la Big Mama, presente in tutta Europa. A Marsiglia occupa un 200 persone, in gran parte donne, in condizioni di super sfruttamento, tempi e ritmi di lavoro di tipo semi coatto, con contratti a termine, un modo quindi per ricattare costantemente la forza lavoro, e con scarsissima attenzione sulla sicurezza sul lavoro. Una situazione che è una vera e propria fotografia della condizione operaia marginalizzata. Questa condizione non è una anomalia ma il livello medio della condizione dei precari e dei disoccupati. In questi posti non vi è alcuna forma di organizzazione sindacale, cosa che condividono con tutte le realtà simili, oltre a un continuo dispotismo esercitato dai capi i quali, per di più, si distinguono per continue molestie sessuali nei confronti delle dipendenti. Alcune ragazze che vi lavorano hanno conosciuto un paio del Collectif e così hanno iniziato a parlare della loro situazione. Abbiamo così valutato la possibilità di intervenire nella situazione. Abbiamo prima sondato il terreno, senza uscire allo scoperto, e abbiamo così costruito una rete interna di una trentina di dipendenti. A quel punto abbiamo iniziato a mettere dei volantini negli spogliatoi e, una volta verificato che intorno alla lotta c’era una sostanziale adesione da parte dei più, abbiamo iniziato a fare dei volantinaggi all’esterno del ristorante denunciando la situazione lavorativa. Abbiamo ripetuto la cosa più volte e, oltre ai volantini, ci siamo messi a tenere dei comizi di denuncia. In questo modo abbiamo reso noto che cosa è Mama Restaurant.

Questo cosa ha comportato?
Subito c’è stato un tentativo di brutale reazione da parte della direzione, tentativo subito andato in vacca perché noi eravamo organizzati anche per fronteggiare una situazione simile che ritenevamo molto probabile. A quel punto la direzione ha iniziato a fare del terrorismo interno minacciando licenziamenti, denunce e così via. In seguito, però, hanno dovuto fare marcia indietro perché si sono ritrovati la quasi totalità dei dipendenti contro e pronti a scioperare e a bloccare con i picchetti tutta l’attività del ristorante. Si è arrivati così a una contrattazione che ha modificato dipendenti. notevolmente sia il livello salariale, sia le condizioni di vita all’interno oltre alla stabilizzazione di un buon numero di dipendenti. Diciamo che, senza farla più grossa di quello che è, si è trattato di una vittoria, piccola ma significativa perché è stata in grado di incrinare una condizione che sembrava inattaccabile. Con ciò abbiamo dimostrato che è possibile lottare ed è possibile vincere. Sul piano simbolico, per quanto piccola, questa lotta dice a tutti gli invisibili che con l’organizzazione collettiva si può uscire dal ghetto in cui stato e padroni vogliono rinchiuderti.

Immagino che, a partire da questa esperienza, stiate pensando a uno sviluppo di queste pratiche?
Assolutamente sì. Il nostro passaggio già in atto è lo sviluppo di questa lotta in tutta la catena Mama Restaurant.

In tutto questo avete una qualche forma di appoggio da parte della sinistra radicale e antagonista?
No, se si escludono alcune realtà anarchiche che si sono mostrate immediatamente solidale da tutti gli altri non abbiamo avuto alcuna forma di appoggio.

Secondo te per quale motivo?
I gruppi di area comunista, non ritengono la lotta autonoma e autoorganizzata un metodo giusto. Diciamo che loro hanno un’idea di una lotta di classe del tutto ideologica e libresca. Soprattutto hanno idea di una classe che esiste solo nelle loro teste e nei loro documenti. Non è un caso che questi gruppi siano irrilevanti e privi di contatto con la realtà. Per tutto il mondo che si definisce movimento radicale e antagonista molto semplicemente gli operai non esistono. Quindi è normale che non considerino minimamente situazioni come queste.

A quanto capisco siete una realtà che ha poco o nulla a che fare con ciò che comunemente è definito “movimento”. Vi sentite isolati? Oltre a queste iniziative, ne avete altre? Tra le realtà politiche con chi avete una qualche relazione?
Intanto credo che sia importante dire che abbiamo anche iniziato una stretta collaborazione con il Collettivo autonomo dei muratori il quale raccoglie un buon numero di operai e si muove in una direzione molto simile alla nostra. Questo significa che la lotta autonoma operaia non solo esiste ma che sta cercando di darsi progetto e organizzazione. I rapporti che abbiamo con strutture operaie nelle città satelliti di Marsiglia è molto indicativa. Rimanendo su Marsiglia abbiamo iniziato anche a organizzare delle occupazioni di case nel terzo arrondissement oltre che una campagna per l’autoriduzione delle bollette non solo nel terzo ma anche a Les Caillos e La Castellane. Quindi, per rispondere alla tua domanda, non siamo isolati per nulla . Per quanto riguarda, invece, i rapporti con altri gruppi e realtà qua a Marsiglia li abbiamo, come ti ho detto, soprattutto con gli anarchici mentre, in giro per la Francia, con alcuni gruppi di provenienza maoista sopratutto di origine marocchina e tunisina.

Una conferma di quanto appena riportato mi è stata possibile constatarla osservando, scendendo in piazza insieme a loro, nel corso degli scioperi generali del 2 e del 7 febbraio. In entrambi i casi quello che possiamo definire “blocco autonomo” si è presentato per le vie della città con spezzoni di circa 1500 persone facendo sì che, lo spettro della “centralità operaia” e della sua autonomia”, ritornasse a aleggiare tra le vie e le piazze di Marsiglia. Con ciò il mitologema della città parrebbe rivivere depurato, però, da ogni sorta di ricordo bensì nell’attualità di una memoria che guarda al presente con le spalle al futuro1. A questo punto il pur stringato resoconto etnografico e possibile canovaccio di una ricerca a tutto tondo ci consente pur sempre di dire qualcosa su questa città. Marsiglia ci racconta una storia, per nulla edulcorata, del proletariato contemporaneo, delle sue lotte, dei suoi sogni, dei suoi desideri. La città del minstral, a differenza di ciò che sognano le classi dominanti, non ci porta il vento pacificato del non – luogo turistico dove masse senza volto e in continua competizione tra loro si prostrano e svendono, ma a soffiare è la tempesta di una soggettività proletaria che della lotta ha fatto il suo fine. Contro tutto e tutti i dannati della metropoli alzano la testa e affermano la propria esistenza. Tutto ciò nel più completo silenzio e disinteresse di ciò che si definisce “sinistra antagonista e radicale” la quale, da tempo, ha del tutto espunto dal suo orizzonte le lotte operaie e proletarie ma, proprio per questo, rimettere al centro del conflitto la nuova composizione di classe e non adagiarsi alle e sulle parole del potere, è ciò che una teoria critica dovrebbe cominciare a fare. Certamente non sarebbe tutto, ma sarebbe sicuramente qualcosa.

( 4Fine)


  1. Al proposito si veda: W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Angelus Novus, Einaudi, Torino 1981  

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Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/04/12/le-probleme-nest-pas-la-chute-mais-latterrissage-lotte-e-organizzazione-dei-dannati-di-marsiglia-2/ Wed, 12 Apr 2023 20:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76426 di Emilio Quadrelli

Le Cercle Rouge

Il punto di partenza di questo lavoro è stato il “Collectif boxe massilia”, situato in rue du Refuge nello storico quartiere Le Panier. Qua ho avuto modo entrare in relazione con un certo numero di attori sociali impegnati non solo sul fronte sportivo ma anche nel lavoro sindacale e politico. Innanzitutto è importante rimarcare come questo centro abbia optato per una impostazione sportiva “tradizionale”, fuggendo le sirene dello “sport alternativo” che trova non pochi consensi tra la “nuova sinistra”. In questo modo il Collectif ha potuto [...]]]> di Emilio Quadrelli

Le Cercle Rouge

Il punto di partenza di questo lavoro è stato il “Collectif boxe massilia”, situato in rue du Refuge nello storico quartiere Le Panier. Qua ho avuto modo entrare in relazione con un certo numero di attori sociali impegnati non solo sul fronte sportivo ma anche nel lavoro sindacale e politico.
Innanzitutto è importante rimarcare come questo centro abbia optato per una impostazione sportiva “tradizionale”, fuggendo le sirene dello “sport alternativo” che trova non pochi consensi tra la “nuova sinistra”. In questo modo il Collectif ha potuto diventare un punto di incontro dei subalterni e non un ambito puramente autoreferenziale come succede alle “strutture sportive di movimento”.

Una differenza assai nota in Italia e che ha prodotto una radicale rottura tra il mondo delle “palestre popolari”, che hanno decisamente optato per un approccio “classico” all’attività sportiva, e quello radical e alternativo proprio dei “centri sociali”. Nel primo caso, come per esempio a Genova, Livorno, Roma e Palermo, si sono consolidate realtà di massa con non secondarie entrature nel tessuto operaio e proletario le quali si sono conquistate una certa fama portando alcuni atleti, nella boxe, nella muay thai e nel powerlifting a competere per titoli nazionali e internazionali mentre, nel secondo, la frequentazione non è andata oltre il ristretto numero di frequentatori abituali del “centro sociale” senza alcuna capacità di attrazione nei confronti dei mondi operai e proletari. Non è secondario rilevare come le “palestre popolari” conoscano una notevole frequentazione del proletariato immigrato il quale, all’interno di questi ambiti, ha l’opportunità di affiancare all’attività sportiva dei momenti di socialità che lo emancipano dai ghetti sociali ed esistenziali in cui è confinato un aspetto del tutto estraneo alle realtà radical e alternativa le quali, in linea di massima, sono frequentati da bianchi di classe media.

Il senso di ciò è spiegato e ben argomentato da V. L., uno degli istruttori della sala.

Intanto cominciamo con il dire che questo Collettivo nasce grazie all’iniziativa di un paio di ex pugili con una certa carriera agonistica alle spalle. Pugili che, però, oltre che atleti erano e sono comunisti. Ci siamo guardati in faccia e abbiamo constatato che, per gli abitanti dei quartieri popolari, le possibilità e le occasioni di fare sport erano ridotte all’osso. Questo per tre motivi. Troppo onerosi i costi delle strutture private; percepite, e non a torto, come forma di controllo e disciplinamento coatto le poche e rare strutture pubbliche; culturalmente non proponibili le attività sportive alternative presenti nel variegato mondo della sinistra. Attività che sono svolte al di fuori delle federazioni sportive, senza sbocchi agonistici e prive di una qualunque serietà professionale e coeva disciplina atletica. Nessun proletario metterebbe piede in un posto simile perché ciò che ricerca è la possibilità di fare una attività sportiva vera nella prospettiva di poter diventare, come nel nostro caso, un pugile di valore. Con ciò abbiamo spiegato il terzo punto. Il primo è semplice poiché i costi delle nostre attività sono un quarto di quelli normalmente in uso nelle strutture commerciali. Il secondo punto è quello più importante e interessante. Possiamo dire che noi siamo un collettivo, per usare un’espressione ben nota a voi italiani, di boxe e di lotta, nel senso che non ci limitiamo ad allenare le persone e portarle ai campionati o dare la possibilità di svolgere una preparazione atletica anche a chi, per età, non andrà mai oltre a qualche round in allenamento, ma dentro la nostra sala svolgiamo anche attività politica e sindacale tanto che, proprio da qua, hanno preso forma, almeno in parte, le realtà organizzate dei precari e dei disoccupati che stanno conoscendo una certa espansione in città.

A questo punto dovresti dire qualcosa di più articolato sulla composizione di classe del collettivo e, in che misura, detta composizione riflette la realtà sociale di Marsiglia.
Marsiglia è una città dove l’indice di disoccupazione e precarietà è tra i più alti di Francia. Per molti questo dato oggettivo farebbe di Marsiglia l’elemento tanto anomalo quanto di retroguardia della società francese. Secondo noi, invece, Marsiglia racconta esattamente una storia del futuro. Disoccupazione e precarietà non sono una condizione anomala bensì la condizione in cui gran parte delle masse operaie e proletarie saranno confinate. Per questo i disoccupati non sono un’appendice della classe operaia ma sono classe operaia a tutti gli effetti. Disoccupazione e precarietà si intersecano perché il passaggio da una condizione all’altra è costante. Nel Collectif abbiamo raccolto per lo più, anche se vi sono presenti condizioni di maggiore stabilità, le tipiche espressioni di questa condizione e ciò ci ha permesso, insieme a militanti operai che provenivano da altre esperienze, di sviluppare un’attività politica e sindacale proprio a partire da queste condizioni.

Avete un qualche modello politico e organizzativo a cui fare riferimento?
Noi ci definiamo come collettivi autonomi, il che già dice molto. Come tutte le esperienze che vivono la realtà dell’oggi non possiamo certo pensare di riprodurre i modelli del passato anche se, in qualche modo, di queste esperienze teniamo conto. Non esiste una ortodossia dell’autonomia di classe, esiste l’autonomia della classe qui e ora. Se proprio vogliamo cercare un modello, noi siamo molto interessati a ciò che fa il Sicobas in Italia, soprattutto la sua sezione napoletana attraverso il “Movimento dei disoccupati 7 Novembre”. Ci ispiriamo anche al movimento americano per i 15 dollari, con il quale abbiamo dei contatti, e siamo attenti a ciò che si sta muovendo in Inghilterra sulla questione delle bollette. Infine, abbiamo un legame abbastanza stretto con esperienze similari alla nostra in Irlanda. Qua, in Francia, abbiamo legami stretti con realtà simili alla nostra a Parigi, Lione, Montpellier e Tolone. Stiamo ipotizzando di organizzare per la primavera prossima un’assemblea di tutte queste realtà, alla quale vorremo invitare anche compagni di altri Paesi, sicuramente il movimento dei disoccupati napoletani, in modo da costruire un coordinamento autonomo di realtà operaia e proletarie. Un’altra cosa che cercheremo di fare è di costruire un coordinamento nazionale delle esperienze sportive affini alla nostra. Alcuni nostri compagni, infine, lavorano anche dentro le strutture sindacali più tradizionali. In Francia i sindacati hanno perso gran parte dei loro quadri e dirigenti per cui, specialmente nelle strutture periferiche, vi sono parecchi vuoti che, in alcuni casi, siamo riusciti a riempire potendo così utilizzare una parte della logistica rimasta intatta.

Voi siete palesemente distanti dai vari movimenti della sinistra alternativa e antagonista. Che cosa rimproverate? Che cos’è che vi differenzia principalmente?
Direi, per semplificare, che a differenza di quella che comunemente viene definita sinistra radicale o antagonista, noi ci caratterizziamo per la nostra “centralità operaia”. Quando parliamo di “centralità operaia” non lo facciamo nel modo in cui lo fanno le varie sette comuniste ortodosse, per le quali la classe operaia è ridotta a icona fuori dal tempo e dallo spazio. “Centralità operaia”, per noi, significa partire dalla attuale composizione di classe, la quale, chiaramente, è il frutto delle trasformazioni economiche e sociali intervenute dentro il modo di produzione capitalista. “Centralità operaia”, pertanto, significa organizzare le lotte, dentro un programma comunista, di tutti quei settori operai e proletari che oggi vivono le contraddizioni maggiori della società capitalista. In una città come Marsiglia sono i precari e i disoccupati i settori sociali sui quali poggia l’attuale ciclo di accumulazione capitalista, sono questi i settori dove più alto è il tasso di estorsione di plusvalore. Questi settori, che la sociologia borghese definisce marginali e un marxismo da operetta sottoproletari, sono ormai una componente maggioritaria della classe, sono la storia del presente e non i residui del passato. Non sono i frutti indiretti della putrefazione imperialista ma i punti più avanzati della nuova organizzazione del lavoro. Questi settori sono socialmente esclusi e marginalizzati perché è esattamente questa la condizione normale nella quale la classe operaia è stata ascritta. Le lotte di questa classe sono ciò che ci interessa organizzare in una prospettiva comunista. Con ciò la differenza con quanto è definibile come sinistra radicale e antagonista appare sin troppo evidente. Quella sinistra e quei movimenti hanno come settori sociali di riferimento tutti quei corpi intermedi della società che possono vantare una sostanziale inclusione sociale, che sono estranei alla produzione di plusvalore e che, nei confronti della società presente, hanno a muovere una critica di natura prevalentemente culturale. Estremamente significativo il fatto che tutti questi movimenti eludono la questione della violenza e della forza dimenticando che, fuor di metafora, la relazione tra capitale e lavoro salariato è sempre una relazione di guerra. Una buona esemplificazione della linea di condotta di questi movimenti può essere il quartiere La Plaine: una sorta di gestione socialdemocratica dello spazio pubblico, costruita sulla precarizzazione del lavoro, fruibile a una certa tipologia di pubblico e che, nei confronti delle masse operaie e proletarie, mantiene meccanismi di esclusione e marginalizzazione del tutto in sintonia con quelli della società ufficiale.

Questo, in maniera molto sintetica, il frame entro cui si dipana l’attività del Collectif boxe. A un primo sguardo potrebbe sembrare che il Collectif sia qualcosa di “tardo operaista” oltre che l’eterna madeleine di qualcuno sempre alla ricerca del tempo perduto, ma le interviste che seguono smentiscono questa impressione. Ciò che emerge non ha nulla a che vedere con il “mondo di ieri” ma incarna il qui e ora delle determinazioni della classe, i suoi nervi tanto vivi quanto scoperti.
Il Collectif è frequentato da numerose donne, molte delle quali di origine araba, soprattutto algerine. Ciò ha fornito una buona occasione per affrontare la “questione di genere” nella sua più piena “materialità” e “concretezza”. Da tempo siamo sommersi da iniziative in “favore delle donne” o contro la violenza di genere, tanto che le dichiarazioni istituzionali in “favore e per le donne” conoscono una inflazione pari a quella seguita alla crisi del 1929, mentre le università un po’ in tutta Europa straboccano di corsi tenuti da “femministe radicali”. Tutto ciò farebbe presupporre che la “questione di genere” sia uno tra gli snodi essenziali delle agende politiche dei vari governi e, sotto tale aspetto, il governo francese sembrerebbe addirittura primeggiare. Questo, sicuramente, contiene più che un grano di verità anche se a uno sguardo minimamente attento non sfugge il prosaico fatto che queste retoriche hanno un qualche senso tra i mondi socialmente inclusi, ma risultano sostanzialmente ignote tra le donne appartenenti alle masse subalterne e marginalizzate. Un discorso che, per molti versi, vale anche per la “questione razziale” per cui essere donna e di pelle scura obbliga a fare i conti con una realtà dura, difficile e poco propensa a fare sconti. Mi è sembrato pertanto sensato provare ad affrontare, vista la disponibilità dimostratami, questi argomenti con alcune donne del Collectif.

La prima a parlare è Y. N., una ragazza algerina con alle spalle già più di venti match, con ambizioni di titolo regionale e possibile accesso ai campionati nazionali.

La prima cosa che vorrei chiederti è se e come tutto ciò che ha a che fare con il sessismo, la “questione di genere” ma anche, più in generale, con la sessualità e le sue forme, ha avuto un qualche ruolo nella storia e nelle pratiche del Collectif.
Forse, per prima cosa, occorre fare una premessa. In una attività sportiva e in questo caso il pugilato, soprattutto se praticata in forma agonistica, essere sportiva diventa la cosa fondamentale alla quale si aggiunge lo spirito di squadra per cui, ciò che conta, è essere il Collectif boxe: questa diventa la principale identità. Questo rende il contesto non immediatamente assimilabile al mondo che lo circonda. Inoltre, altro aspetto che non va trascurato, è che, nel Collectif boxe, il numero di donne pugili agoniste è molto numeroso per cui la legittimità del nostro ruolo non ha neanche troppo bisogno di essere posto in discussione. A me sembra che dentro il Collectif si sia raggiunta una sostanziale autonomia femminile la quale, questo probabilmente è l’aspetto che maggiormente ti interessa, non si limita al ring ma ha ricadute a più ampio raggio. Tutte noi viviamo dentro realtà sociali profondamente segnate dal sessismo, dal patriarcato il che, in non pochi casi, si traduce in violenza, sia fisica che psicologica. Dalla famiglia al lavoro passando per le relazioni amicali, sentimentali o semplicemente sessuali con queste cose hai continuamente a che fare. Molte di noi sono passate dentro questo tipo di esperienze. Alcune, forse le più, lo hanno vissuto in ambito lavorativo, molte in famiglia e non poche anche con il fidanzato o momentaneo compagno. La violenza fisica prevale nelle relazioni personali mentre in quelle pubbliche, come il lavoro, i gradi della violenza sono più sfumati. A tutto ciò, cosa non frequente ma neppure eccezionale, si aggiunge la violenza che puoi subire casualmente per strada o dentro un locale. Prima di ritrovarci dentro il Collectif boxe, e poter affrontare il problema collettivamente, ci pensavamo come vittime individuali mentre, attraverso la discussione, siamo giunte a una consapevolezza diversa e alla necessità di dover affrontare, rifiutando il ruolo di vittime, la questione in prima persona, senza delegare a nessuno questo compito. Solo la lotta autonoma delle donne può contrastare e ribaltare questa situazione.

Mi sembra che, su questo, vi differenziate di molto da gran parte dei movimenti femministi i quali, invece, tendono a vedere nello stato e nelle istituzioni dei validi interlocutori in termini di diritti e garanzie per le donne e, più in generale, contro ogni forma di discriminazione.
Sì, noi non abbiamo e neppure vogliamo avere nulla a che vedere con questo tipo di femminismo. L’oppressione di genere così come quella razziale e in gran parte quella di natura sessuale è frutto dello stato e del patriarcato che lo modella, non vi può essere lotta femminista se non vi è lotta contro lo stato. Il femminismo che si relaziona allo stato è il femminismo borghese ovvero quel femminismo che lascia intatte le coordinate del comando e del dominio perché vuole essere, a tutti gli effetti, parte attiva di questo dispositivo. Mi sai dire, secondo te, quanto cazzo le può fregare a una donna dei “quartieri Nord” di poter far carriera come dirigente in una multinazionale quando, nella migliore delle ipotesi, il suo orizzonte è quello di fare la barista saltuaria in un qualche locale e doversi continuamente difendere dalle manate sul culo del proprietario e dei clienti? Non credo che ci sia bisogno di dare una risposta. Per questo solo l’autorganizzazione autonoma, a tutti i livelli, può farci ottenere dei risultati. Solo un adeguato esercizio della forza può darci una serie di garanzie. La cosa è molto pratica. C’era una nostra compagna continuamente umiliata e maltrattata dal suo fidanzato. Lei aveva provato a mollarlo ma questo non lo aveva accettato. Per lui, lei era una cosa sua. Bene, un gruppo di noi è intervenuto, è questo è sparito dalla circolazione. Oppure, tanto per farti un altro esempio, in una impresa di pulizie il capo aveva provato a violentare una ragazza. Grazie alla sua reazione non vi era riuscito e così l’ha fatta licenziare. Anche in questo caso un intervento adeguato ha rimesso a posto le cose. Al potere dello stato e dei padroni, occorre contrapporre un’altra forma di potere.

Ti riferisci, a quanto capisco, a ciò che possiamo definire “autodifesa”?
Sicuramente sì, però su questo occorre essere molto chiari, e noi lo siamo. L’autodifesa non può essere uno slogan, una cosa detta tanto per dire, bensì una pratica organizzata. Questa presuppone, per prima cosa, il raggiungimento di una piena autoconsapevolezza e sicurezza di sé. Questo vuol dire essere in grado di gestire una situazione senza andare in panico. Un processo che potrebbe sembrare puramente individuale ma, al contrario, è quanto di più collettivo possa esserci. La sicurezza di sé la si raggiunge sapendo di non essere sole e quando dico non essere sole lo affermo a conti fatti. Io so che a qualunque cosa io vada incontro, questa cosa sarà assunta collettivamente e io non sarò sola. Quindi, l’autodifesa, non è un generico solidarismo ma una pratica che un determinato gruppo porta avanti. Questo è il cuore della questione. Tutto il resto segue a ruota. Pratica di autodifesa significa, per prima cosa, non percepirsi come vittima. In questo modo diventa possibile, per quanto difficile possa essere, ribaltare la situazione. In seconda battuta vi è, chiaramente, l’essere in grado, quindi avere la capacità fisica e tecnica, di affrontare una situazione. Sappiamo benissimo, però, che in molti casi tutto questo non basta. Queste sono condizioni sicuramente necessarie ma non sempre sufficienti. É a questo punto che interviene la dimensione collettiva in quanto esercizio effettivo di contro potere. E qua, per forza di cose, dobbiamo spostare il discorso sulla violenza e la sua organizzazione. Di ciò è meglio che ne parli con lei (indica la ragazza che stava seguendo l’intervista) che è la nostra comandante militare, se così la vogliamo definire.

L’intervista si sposta così su M. S., un’altra pugile del Collectif. L’intervista si mostra non solo interessante ma particolarmente densa poiché, oltre alla “questione di genere”, focalizza l’attenzione su razzismo e omofobia. A partire da ciò l’intervista apre su un insieme di questioni e scenari propri di tutto il movimento dei subalterni.

Hai ascoltato ciò che ci siamo detti. Potresti, a questo punto, spiegare meglio quanto, a grandi linee, ha detto Y. N. ?
Faccio una premessa. Oggi noi abbiamo una rete organizzata di auto difesa alla quale siamo giunte col tempo, dopo aver messo a confronto le nostre storie per scoprire così che quanto accaduto o stava accadendo a molte di noi non era una questione individuale ma, con sfaccettature diverse, le violenze subite erano il frutto di un sistema e di un modello politico e sociale dove l’oppressione di genere e il razzismo, i due aspetti vanno di pari passo, non sono una anomalia ma le basi stesse del sistema. É sulle donne, e per capirci meglio, le donne proletarie che si esercita la maggiore violenza. Se poi una donna non è bianca la violenza si moltiplica in maniera esponenziale. A ciò va aggiunta la violenza esercitata contro coloro che non rientrano nei canoni della eterosessualità. Dentro il Collectif abbiamo affrontato le varie facce di queste questioni e lo abbiamo fatto sia elaborando degli strumenti di analisi, sia organizzandoci per difenderci da tutto ciò. Sul piano dell’analisi siamo andate a riscoprire il marxismo e quindi la centralità che il modo di produzione riveste. Questo, sin da subito, ci ha differenziato molto dalle varie realtà femministe, ma anche anti razziste o legate al mondo LGTB. Ci ha fatto, cioè, ricondurre il tutto alla questione della classe e al ruolo che genere e razza hanno oggi nel definire la classe. Ciò ci ha portato a leggere il colonialismo nella contemporaneità e a vedere come questo oggi sia il modello dominante anche dentro le metropoli imperialiste. Questo significa che le forme proprie del colonialismo sono il modello oppressivo esercitato nei confronti delle masse proletarie e proletarizzate. Sessismo, patriarcato, omofobia, razzismo sono il mosaico che compongono lo stato e governano i suoi apparati. Da qui nasce l’esigenza di organizzare e praticare l’autodifesa.

Questo, concretamente, cosa significa?
Significa che per noi assumere la questione della forza è un tema centrale che non può essere eluso. Qua, soprattutto perché tu sei italiano e potresti travisare le cose, occorre essere chiari. Quando noi parliamo di forza e autodifesa, non stiamo proponendo una versione 3.0 della lotta armata. Non siamo interessate a una organizzazione che fa la guerra ma a delle pratiche organizzate che stanno dentro la guerra che ogni giorno, del tutto indifese, siamo comunque costrette a combattere anche se sarebbe meglio dire a subire. Ciò che dobbiamo diffondere è la capacità di lotta dentro tutte le situazioni che hanno a che fare con la vita concreta delle masse. Mao diceva che bisogna occuparsi dei problemi del riso e del sale, ed è esattamente questo che intendiamo come pratica di autodifesa. Dobbiamo costruire pratiche assolutamente riproducibili e che qualunque subalterno possa fare sua. In quanto gruppo di donne, di cui un certo numero lesbiche, abbiamo concentrato la nostra attenzione su persone e obiettivi che avevano avuto pratiche violente di natura sessista e omofoba nei confronti di qualche sorella ma anche in difesa di altre esterne al gruppo che avevamo saputo essere oggetto di una qualche forma di violenza. I posti di lavoro sono quelli dove la violenza, di varia natura, si manifesta costantemente. Sui posti di lavoro la violenza ha un carattere sia sessista che razzista e quindi non si focalizza unicamente sul genere. Questi sono luoghi dove più alto è il livello di discriminazione e sfruttamento oltre che essere posti dove il lavoro in nero è quanto mai diffuso. Sanzionare strutture e personale di queste situazioni rientra nelle nostre pratiche. Infine, e certamente non per ultimo, rimane il discorso legato ai comportamenti dei flics. Del razzismo e del sessismo tra questi mi sembra anche superfluo parlare. Ma i commissariati non vivono sempre notti tranquille…

Vorrei chiudere chiedendoti se, questa pratica, è pensata solo ed esclusivamente come pratica di donne oppure no.
Diciamo che, almeno all’inizio, siamo state molto rigide per cui eravamo solo ed esclusivamente donne. Questo era inevitabile perché, per prima cosa, dovevamo acquisire una consapevolezza che solo agendo in maniera separata potevamo conquistare. Non eravamo separatiste per principio ma dovevamo fare in modo che la nostra autonomia fosse tale a tutti gli effetti altrimenti avrebbe finito con il diventarne un surrogato. In seguito abbiamo allargato la nostra pratica anche ai maschi, anche perché alcuni terreni, come polizia e razzismo, non sono esplicitamente femminili. Diciamo che con i maschi abbiamo attuato un buon livello di cooperazione mantenendo tuttavia la nostra autonomia.

Secondo te questa chiamiamola “linea di condotta” può trasformarsi in pratica di massa o, almeno per tutta una fase, è destinata a essere una pratica di nicchia?
Io non credo che sia questo il modo giusto di porre la domanda. Questa domanda riflette, in qualche modo, una visione tardo comunista ossia che l’azione di avanguardia detta la linea alle masse. Come se, il discorso intorno alla violenza, fosse qualcosa che sta al di fuori delle masse. In realtà le masse vivono quotidianamente dentro relazioni violente, la violenza nei “quartieri Nord” fa parte delle normali relazioni sociali. Il problema, allora, diventa come indirizzare questa violenza. Ogni giorno, in città, vi sono centinaia di episodi che rimandano a ciò ma sono episodi che, per loro natura, rimangono fini a se stessi. Si tratta di trasformare tutto ciò in programma e organizzazione non certo di spiegare alle masse che cosa sia la violenza. La stessa cosa vale per l’illegalità. Questa è una città che vive di illegalità, questo è un dato di fatto, anche in questo caso, allora, non si tratta di spiegare alle masse che cosa sia l’illegalità ma di come sottrarre questa alle logiche del profitto a cui è legata e darle uno sbocco politico. Il che non può voler dire fare semplicemente delle attestazioni di principio ma risolvere, nella prassi, i problemi posti dalle masse. Con ciò, come vedi, torniamo a Mao e ai problemi del riso e del sale. I problemi del riso e del sale dentro una metropoli imperialista del XXI secolo.

(2continua)

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