Cenerentola – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 23:38:11 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 69 https://www.carmillaonline.com/2015/03/26/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-69/ Thu, 26 Mar 2015 22:00:45 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21380 di Dziga Cacace 

Scrivere è avere torto tutto il tempo. 

ddv6900767 – L’immondo Quella villa in fondo al parco, commesso da Giuliano Carnimeo, Italia 1988  Una disperata serata anni Novanta a casa di amici: non ricordo se si trattasse di una Vhs a noleggio o di una drammatica messa in onda di qualche tivù privata; ricordo però che questo film ci era sembrato agghiacciante, una puzzonata insostenibile al di là del bene e del male. E oggi confermo: una schifezza unica di cui trovate ampia e imbarazzata documentazione in Rete (anche sotto il titolo per il mercato estero Rat Man per [...]]]> di Dziga Cacace 

Scrivere è avere torto tutto il tempo. 

ddv6900767 – L’immondo Quella villa in fondo al parco, commesso da Giuliano Carnimeo, Italia 1988 
Una disperata serata anni Novanta a casa di amici: non ricordo se si trattasse di una Vhs a noleggio o di una drammatica messa in onda di qualche tivù privata; ricordo però che questo film ci era sembrato agghiacciante, una puzzonata insostenibile al di là del bene e del male. E oggi confermo: una schifezza unica di cui trovate ampia e imbarazzata documentazione in Rete (anche sotto il titolo per il mercato estero Rat Man per la regia di Anthony Ascot). Dunque: siamo a Santo Domingo e un pochissimo plausibile scienziato sudato che ogni tanto blatera di DNA si vanta di essere riuscito a fecondare una scimmia col seme di un topo. Ne è nato un ominide peloso come Lucio Dalla, alto come Pupo e simpatico come Povia (non so perché queste similitudini musicali, m’è venuta così) che squittisce e ha ansia di sangue, bastandogli un’unghiata per metterti fuori combattimento con leptospirosi fulminante. Il Nobel de noartri tiene l’essere bestiale (che è un nanetto vero, porello) in un tugurio zozzissimo, chiuso in una gabbia per canarini, ma dopo due minuti di film, con montaggio serrato di tre pose emblematiche, sappiamo che la gabbia è vuota e il mostrillo è on the hunt. Farà infatti strage di modelle e accompagnatori e il finale sospeso ci fa capire che la faccenda potrebbe interessarci da vicino, prima o poi. Cast di facce ridicole assortite, su cui spiccano le due bellone che dovrebbero dare qualche brivido osé. Ma Janet Agren è fisicamente in disarmo: inoltre scomposta nelle scene horror e partecipe come un gesso pompeiano nelle altre. Eva Grimaldi, con due sopracciglia nere tipo Elio, si distingue invece per l’interpretazione di 5 minuti di doccia insaponata con mugolamenti insensati (va bene il caldo e l’umidità di Santo Domingo, ma mugolare?) e poi per l’epico confronto con Rat Man stesso, campionario di urla, strepiti e pianti che paradossalmente sono una delle cose migliori di questo supposta pellicola, “supposta” nel senso che lo spettatore capisce subito dove la prenderà. Non conosco classifiche di sorta ma Quella villa in fondo al parco (titolo coerente con la trama e tutto il resto: non significa niente!) è per conto mio imbattibile nella categoria delle cagate: qui siamo oltre l’evacuazione diarroica o a spruzzo, qui siamo alla sublimazione della materia fecale, questo film fa cagare a vapore. (Dvd, marzo ‘10)

ddv6902768 – Glorioso, imperfetto e sincero Inglourious Basterds di Quentin Tarantino, USA 2009
Che film sublime e bizzarro! Non saprei che altro dire di una vicenda che riscrive la Storia senza pudori, mescola dramma e divertimento e ha diversi momenti grandiosi e qualche inciampo (il capitolo 2) ma comunque, sempre, ti stupisce, nel bene come nel male. La cinematografia è di livello altissimo: gli attori, i colori saturi della fotografia, la generale ricostruzione d’epoca o il clamoroso film nel film. Ed è un’opera, questa, che dice dell’amore per il cinema che ha Tarantino: è uno col vizio di fare il coglione vantando ammirazione per fetecchie astronomiche ma che poi, mettendo in scena, fa capire che è sì un cazzone, ma di gusto estremo e raffinatissimo, che fotografa la splendida Mélanie Laurent come se fosse Marlene Dietrich e che non ha imbarazzi a mettere a fianco Cenerentola e la Riefenstahl, navigando nel kitsch con estrema consapevolezza. E che sa parlare al cinéphile come allo spettatore cane e che questo spettatore cane lo costringe a ritmi e dialoghi che nei blockbuster di oggi sarebbe difficile trovare. Nel cinema di Quentin ci sono anche le parti che fan prudere le mani, ovviamente: discorsi che non portano a nulla, strizzate d’occhio irritanti, comparsate di cinematografari stazzi, citazioni a go-gò per darsi un tono, ma c’è anche l’impresa che ormai osano in pochissimi di fare un cinema diverso, inaspettato, ma inclusivo, che non esclude per censo e cultura, ma abbraccia il pubblico. Magari in quella maniera un po’ fastidiosa che ha il cagacazzi pazzerello della compagnia. Ma che comunque, alla fine, trasmette un calore. Oh, a me ‘sto film è piaciuto. (Dvd; 1/3/10)

ddv6903769 – L’inferno di Gomorra di Matteo Garrone, Italia 2008
Ad un mese dall’ultimo film, interrompiamo il black out con un altro Dvd. Nel frattempo – devo rendervene conto – mi son concesso un Inter – Genoa epico come un film di John Ford. Non andavo allo stadio a vedere una partita di calcio dal 1987 e l’occasione s’è rivelata eroica come la difesa di Alamo: il Genoa rinchiuso nel fortino, a resistere agli attacchi abbastanza stracchi dell’Inter. Solo che NOI non abbiamo capitolato. Vista la temperatura siberiana, ero conciato così, con l’abbigliamento rossoblù opportunamente occultato per timore dei tifosi interisti: mutandoni da Gino Bramieri, calzamaglia della North Pole da missione artica, maglietta genoana ufficiale da trasferta in puro acrilico a scintillante contatto pelle (i calciatori le portano attillatissime, figuratevi come sta addosso a me), calzettoni ufficiali sintetici a traspirazione impedita, magliettone in cotone a maniche lunghe di merchandising non ufficiale, camicione di velluto, sciarpa grigia, guanti esquimesi, pantaloni cargo. A fine vestizione ero già in un bagno di sudore e avevo oggettivi problemi di deambulazione, plastico come l’omino della Michelin. Però in tribuna son stato benissimo, seppur attento a non proferire parole che tradissero la mia fede calcistica. E dopo questo epico film, ho visto qualcos’altro, in questo mese? Ho perso Shutter Island all’Orfeo, perché le proiezioni sono tutte in contemporanea alle 20 e non esiste lo spettacolo delle 21 (poi dici la crisi… dei cervelli, sì). Comunque ci son girate le balle (anche perché da stupidi non avevamo controllato prima la programmazione) e siam tornati a casa. Lì abbiamo provato ad affrontare il celeberrimo steampunk nipponico a cartoni animati Steamboy, vagamente infantile, e all’ennesimo sbuffo di Barbara e alla provocazione “…e perché non ci guardiamo Belle e Sebastien?”, abbiamo mollato il colpo. E abbiamo optato per l’impegno: Gomorra, colpevolmente perso in sala. Dal testo di Saviano sono prese cinque storie (non ne sono sicurissimo, dovrei ricontrollare), adattate per poter dipingere l’affresco su cosa sia la Campania in mano alla camorra: un inferno in terra. Garrone ha saputo mettere in scena una vitalità disperata, che sogna la libertà. Da quella autentica, pulita e sincera, a quella di chi non vuole più obbedire a nessuno e sceglie di diventare prepotente a sua volta. E le aspirazioni si mescolano al culto di Scarface o a quello, esasperato, del corpo (la manicure, il piercing, l’abbronzatura); e ancora il cibo, l’abbigliamento, l’esibizionismo, le armi (gli AK 47), le moto… parziali ricompense o illusori compiacimenti per chi sa di essere condannato a non avere altro. Attori presi dalla strada diretti benissimo: il solo che finge – e che non è quello che fa credere di essere – è Servillo, l’unico attore con una faccia riconoscibile. Stile da cinema-verità, tanta camera a spalla (del regista), luci naturali, facce antiche o freschissime, montaggio nervoso e un gusto iconico che rende tragiche e belle anche le Vele di Scampia. Forse c’è un po’ di freddezza: le didascalie finali servono da monito, ma allontanano anche dal pathos del racconto. Però, nulla da dire: bel film, importante, direi riuscito. (Dvd; 28/3/10)

ddv6904770 – Il divo di un fiammeggiante Paolo Sorrentino, Italia/Francia 2008
Niente male, questo Sorrentino, sai? E cresce film dopo film. Qui individua un modo originale per raccontare il divo Andreotti: in chiave onirico-fantastica, con ampie porzioni di reale ma trasfigurate dall’invenzione plastica. Non si scade così né nel film di denuncia para-televisivo, né nel documentario e ne viene fuori un’opera che sembra un sogno, o un incubo, quello del sonno che l’Italia sta ancora dormendo e, immagino, mai smetterà di dormire. Il film si apre con un Andreotti/Hellraiser, che prova a combattere il mal di testa con l’agopuntura. Non è un caso, così come la caratterizzazione di Servillo – al limite della macchietta – dei movimenti del Gobbo, che più di una volta sembra il Nosferatu di Murnau: spalle strette e passo fluido come se lo stessero trascinando su un carrellino. La messa in scena è elegantissima, la fotografia predilige le atmosfere buie (Bigazzi, molto bravo), le grafiche danno un tocco inventivo. I protagonisti sono tutti notevoli nell’assecondare questo clima esasperato, teatrale, gelido, dove i pochi momenti di calore sono affidati ai rapporti con le donne, come l’umanissima moglie di Andreotti. Il film finisce all’improvviso e potrebbe continuare a lungo, ma Sorrentino è così: ti spiazza continuamente. Scegliendo punti di vista originali, tagliando le scene quando meno te l’aspetti o musicandole con temi razionalmente incongrui ma perfetti (i Trio con Da Da Da o la Pavane di Fauré). Film premiato a Cannes e ben accolto all’estero. Ecco: ma un’opera così, a cosa serve? Glorifica il soggetto? Insegna, a chi non la conosce, la sua storia? Fornisce nuove chiavi di interpretazione? Boh, so solo che Andreotti, vedendosi così raccontato, s’è molto molto offeso e voleva querelare: povera stellassa dall’animo sensibile. (Dvd; 1/4/10)

ddv6905771 – Oooh, finalmente La prima cosa bella in sala, da tanto, di Paolo Virzì, Italia 2010
Dopo non so quanti mesi torno finalmente al cinema assieme a Barbara. Tra tanta offerta spingo per una commedia che mi faccia frignare a dovere, m’aggia a sfuga’. Tutti m’han detto della qualità lacrimatoria dell’ultimo Virzì e la scelta è presto fatta, anche perché al cinema Ariosto c’è il geniale spettacolo delle 21, che consente di mangiare prima della visione, a orari decenti (nella fattispecie compio un attentato al mio colesterolo in un ristorante cinese lì vicino). Stefania Sandrelli oggi e Micaela Ramazzotti ieri sono la stessa bella ragazza, Anna Michelucci, che ha fatto girare la testa a tanti e tanto ha amato, punita e trattata male dalla vita perché ai ricatti maschili invece non ha ceduto. Trattata quindi da zoccola perché zoccola non era realmente (o perlomeno così l’ho vissuta io, ma il dibattito è aperto col pubblico maschilista che se hai la minigonna, allora, un po’ mignotta lo sei) e il figlio Bruno deve fare i conti con quanto ha creduto per tutta la sua esistenza, ora che mamma sta morendo. La prima cosa bella ha un bel narrare, con alcune astuzie e alcuni difetti (la scena finale che viene anticipato troppe volte, l’intreccio iniziale un po’ farraginoso). Però funzionano il passaggio dal passato al presente, con continui tranelli allo spettatore, ed è riuscito l’affresco familiare, grazie anche ad attori ben diretti e in parte. Certo, Mastandrea fa un po’ sempre la stessa parte, in minore, sottraendo, però è intenso e credibile ed è brava anche Claudia Pandolfi e tutto il cast di contorno. Inoltre il ricatto sentimentale della vicenda è punteggiato da battute azzeccate, cosa che amplifica il groppo emozionale: io praticamente piangevo a calde lacrime già da metà primo tempo. Per me un buon film, sniff sniff. (Cinema Ariosto, Milano; 3/4/10)

ddv6906772 – Cla-mo-ro-so Soy Cuba del Genio Mikhail Kalatozov, URSS/Cuba 1964
Bimbe e Barbara via per le vacanze di Pasqua. Io rimango nella città vuota a lavorare, ma la sera festeggio con il cinema che mi è altrimenti precluso: un bel sovietico! Trattasi di un caso particolare: film commissionato dall’URSS per celebrare i nuovi alleati rivoluzionari cubani, realizzato da Kalatozov e poi nascosto al pubblico per trent’anni. Riscoperto – tra gli altri – da Coppola e Scorsese, infine distribuito su scala mondiale. Attraverso quattro storie individuali si ripercorre il cammino del popolo cubano verso la libertà, ma non è cinema di propaganda. È cinema di poesia, lirico, struggente, con un passo narrativo che è esattamente figlio di quegli anni Sessanta e che oggi provocherebbe gran moria di spettatori in sala. La fotografia, abbacinante, nitidissima e straniante per l’uso di un grandangolo estremo, ricorda quella del cinema-verità: Soy Cuba è girato con una Eclair che sta in mano all’operatore come oggi una handycam da due soldi e questa leggerezza produttiva consente l’impensabile: movimenti di camera vertiginosi, primi piani in faccia ai protagonisti, punti di vista impossibili, la camera che rasenta il terreno, poi si eleva per quattro piani di altezza nel centro dell’Avana, poi attraversa una casa e infine vola per le strade. Se uno non lo sa – come credo chiunque che non abbia guardato prima i contenuti speciali del film – si chiede: ma come cazzo avranno fatto? Kalatozov doveva avere degli operatori incredibili, inventivi e coraggiosi perché tutto il film è composto da scene dove la tensione è data non solo dalla storia, ma dal tuo esserci in mezzo, realmente: tra le fiamme, in una sparatoria, colpito dall’acqua degli idranti o in mezzo a chi festeggia la vittoria della Rivoluzione. Semplicemente incredibile. Certo: lo consiglio a una percentuale irrisoria della popolazione cinefila, ma è realmente un masterpiece, nascosto per anni proprio per la sua natura ostica. Volevano la Retorica, ebbero la Magia e la Poesia, qualcosa che il Potere non è mai in grado di capire. (Dvd; 4/4/10)

ddv6907773 – Anarchia, Godard e Tognazzi: La vita agra di Carlo Lizzani, Italia 1964
Luciano Bianchi viene a Milano con la ferma convinzione di fare il botto e vendicarsi della società che ha lasciato morire 43 minatori per risparmiare sui costi di sicurezza. Ma la metropoli lo ammalia, lo seduce, lo spegne. Luciano diventerà un affermato creativo pubblicitario e addio sogni dinamitardi. Cominciamo col dire che tantissimi – critici e supposti storici – non fanno altro che ripetere che vuole far brillare il Pirellone. Non è vero: il “torracchione” del romanzo qui è illustrato visivamente con la Torre Galfa. Tiè, pelandroni. Comunque il protagonista – con la faccia splendida di Tognazzi – si trascina tra tradimenti coniugali, licenziamenti, traduzioni e afasia. Nel film di Lizzani è tutto rimontato in modo narrativamente funzionale e c’è l’esito di cui ho già detto, invece nell’opera letteraria rimane tutto felicemente vago. Le due cose non sono in contraddizione e trovo che sia film che romanzo funzionino a modo loro. La vita agra su pellicola non è forse un capolavoro tout court come alcuni proclamano (ma l’entusiasmo giustifica rassegne, pubblicazioni, curatele etc.; dev’essere dura fare il critico di mestiere, eh?), ma è comunque una pellicola molto buona, col difetto forse di non decollare veramente mai, interpretando perfettamente, però, il senso d’attesa del testo di partenza. Tognazzi mi pare meno incazzato di Bianciardi, più malinconico e angosciato che sanguigno. E il film si trascina un po’ come lui, vittima degli eventi piuttosto che motore. Comunque qui ci sono cose che all’epoca dovevano essere veramente hard, come il rapporto extraconiugale con la splendida Giovanna Ralli. E anche la critica alla società dei consumi e alla persuasione occulta erano argomenti molto lontani dal pubblico. La vita agra – tra nouvelle vague, commedia all’italiana e aspirazioni politiche – allora scontentò tutti, chi voleva la ghignata feroce e chi l’urlata ribelle, ma è un film affascinante nella sua leggera imperfezione, nell’essere talmente avanti da non poter essere subito compreso, e non lo si dimentica facilmente. Bello! (Dvd; 5/4/10)

ddv6908774 – Mmh… sì, ma non esageriamo: Il profeta di Jacques Audiard, Francia 2009
“Capolavoro, capolavoro, capolavoro”. Ogni film che vedo, ormai, è accompagnato da questo ritornello degli amici o di mio padre, un mantra che viene recitato sgranando rosari e per dare un senso alle proprie visioni. Io invece faccio la volpe e l’uva e mi fa tutto schifo. Prima di vederlo, perché poi, dopo, assolvo sempre. Questo Profeta l’ho affrontato dopo il bombardamento psicologico di tantissimi entusiasti e l’ho trovato bello, sì, decisamente, ma capolavoro non direi. È un’analisi entomologica dell’ambiente carcerario, con le regole che fanno di te vittima o padrone, indifferentemente che tu stia dentro o fuori. Bravissimi attori, musiche inaspettate, qualche svisata surreale poco riuscita, fotografia un po’ anonima, pochi palpiti umani di vera compartecipazione, secondo me. Bella storia, insomma, ma il mio cuore è da un’altra parte. E poi mezz’ora di troppo, dài. (Cinema Ariosto, Milano; 10/4/10)

ddv6910775 – Attenzione, perché Anche i nani hanno cominciato da piccoli di Werner Herzog, Repubblica Federale Tedesca, 1970
I nani sono cattivi. Ce lo ha detto De André, lo ha ricordato Randy Newman, mostrato Freaks e confermato quello di Arcore, da una ventina di anni a questa parte. Ma prima di tutti è stato Herzog a fare un triplo carpiato regalandoci una visione dantesca della società, dove tutti sono nani. E cattivi, cattivi proprio. Perché tutti siamo nani. E probabilmente malefici, col “cuore troppo vicino al buco del culo”. Il film, fin da subito, ti spiazza: è in atto una rivolta, ma non si capisce bene dove: prima pensi che sia un istituto per nani, poi una colonia penale (ma solo per nani?!?) e poi ti rendi conto che – appunto – tutti sono nani, ma che vivono in un mondo fatto a misura d’uomo. Per cui non torna un cazzo! Ed è evidente che la “normalità”, la scala a cui vivono i non-nani, è il pericolo, è la difficoltà di vivere e basta. La rivolta degenera e il termine “degenera” non rende l’idea di cosa Werner riesca a mettere in scena, una sinfonia dell’orrore (e attenzione, non dell’horror, che è una metafora nel migliore dei casi, una pagliacciata negli altri e presuppone un patto con lo spettatore; no, qui c’è l’orrore della realtà, a cui lo spettatore non è pronto perché ci vive già in mezzo). Girato nella spettrale e vulcanica Lanzarote, tutto è ostile e tutti sono ostili, nel tentativo di ritagliarsi uno spazio di momentanea felicità o anche nella semplice illogicità della violenza: tutti contro tutti, anche contro la natura, tesi a sopraffare il più debole, uomo, pianta o animale che sia. La gioia della violenza non è più riservata solo ai “grandi”, altro che compassione, anzi: con la nostra umile statura abbiamo qualcosa in più da far pagare alla Vita tutta. Galline che si scannano o che si contendono un topo morto, sordociechi vessati crudelmente, alberi abbattuti per puro compiacimento distruttivo, una scimmia crocefissa, un maiale preso a bastonate (vere), un cammello che non riesce a sedersi, le uova rotta senza motivo, le piante bruciate, tra risate agghiaccianti e idiote e voci chiocce. Scene lunghe, poco montaggio, sguardi frequenti in macchina dove leggi il “…ma posso davvero?!?” degli attori, chiamati a sfasciare tutto o il “ma sei pazzo?” di chi rischia di pigliarsi un piatto in testa. Il film è una rivolta contro le istituzioni, il buon gusto, la buona creanza, la natura, la tecnica, la religione, la logica. Perché l’uomo è così e il regista tedesco non ha dubbi né speranze che si redima. Ti costringe a guardarti in faccia e ribalta le tue convinzioni e convenzioni, ipnotizzandoti con una macchina che gira a vuoto in un cortile, in un carosello folle dove nulla viene risparmiato. Girato con due lire, allucinante, blasfemo, illogico, brutale e inquietante, il film potrebbe anche durare la metà, ma la fatica fa parte del prezzo del biglietto. Insomma: esattamente divertente non direi, ma salutare sì. P.s.: dopo un film così ti piglia un’inspiegabile frenesia di vedere altro Herzog. Due anni fa ero alla Fnac con la stessa voglia. Cerco tra i Dvd: nulla, tutto esaurito all’improvviso. Chiedo spiegazioni, incredulo, a un commesso che mi dice: “Tre giorni fa Herzog era ospite da Fazio, il giorno dopo abbiamo venduto tutto. Tutto”. La televisione… (Vhs da RaiTre; 28/4/10)

ddv6911776 – The Boat That Rocked di un furbetto, Gran Bretagna 2009
Sarà che nell’ultimo mese ho assunto perlopiù puntate di Heidi a rullo continuo (e mica male, sai?), e una fetecchia come questo I Love Radio Rock (titolo ruffiano italiano) l’ho visto fin volentieri. Racconta in maniera pesantemente edulcorata l’odissea di una fittizia radio pirata che avrebbe trasmesso dalle acque del mare del Nord, rifacendosi all’esperienza delle varie emittenti che alla fine degli anni Sessanta contrastavano il monopolio della BBC. Qui ci si mette di mezzo anche il governo e tutto è swingin’ London, gonne a fiori, amore libero, lotta ai matusa che hanno paura dei capelli lunghi e altre piacevolezze e luoghi comuni. La musica è chiaramente bellissima, ma sarebbe stato difficile sbagliarsi. Gli attori sono discreti e la ricostruzione d’epoca è oleografica e dolciastra senza offendere granché. La regia sbrodola e da tre ore di montaggio (più che una saga, una sega) il film è stato portato a due, con ulteriori tagli per l’edizione nordamericana. Tutto ciò non ha evitato un bel flop, che il pubblico d’accordo che si beve tutto ma alla coprofagia c’è un limite: si parte decentemente per approdare ben presto alla commedia stupidina, ricca di episodi che divertono senza però lasciare niente di memorabile. Il team produttivo, del resto, è quello di Notting Hill e Quattro matrimoni e un funerale (e alla regia c’è tale Richard Curtis) filmetti scioccherelli per uditorio boccalone. Nel quale mi metto volentieri, anche se qui – dopo un po’ – non se ne può più di amori, liti, rappacificazioni, sfide e altre corbellerie, come se il tenore della commedia autorizzasse qualsiasi stronzata. L’unica cosa decente, tra le tante furbate a buon mercato, è il dubbio che rimane sulla reale identità del protagonista, un diciottenne cacciato da scuola e mandato per punizione dalla madre sulla nave pirata di Radio Rock, spunto narrativo che già mette in chiaro che siamo nell’irrealtà pura. Il film è ruffiano, abbastanza ritmato, colorato e nostalgico come sanno essere gli inglesi. E nella storia che diventa farsa, ognuno di noi può trovare una scintilla che gli faccia battere ancora il cuore per il rock. No, forse no… ma adesso – scusate – torno a vedermi Heidi. (Dvd; 26/5/2010)

ddv6912777 – Lo splendido Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, Italia 2005
Seratina dedicata al cine divanato, anche se stasera sarei pure uscito, ma avevo la spina dorsale ridotta come i pezzi del Jenga e il culo rotto, color dell’arcobaleno come quello dei babbuini: non posso negare che la bicicletta abbia effetti immediati sulla tua salute. A Barbara un po’ timorosa propongo un film che è diventato qualche anno fa un piccolo caso, grazie alla pervicacia del cinema Mexico di Milano che ha insistito a proiettarlo per mesi, finché il passaparola e qualche critico sveglio (ci sono) ne hanno sancito la consacrazione. Io rimandavo e per vederlo in sala ho fatto troppo tardi. Il Dvd è il giusto rimedio e confermo: Il vento fa il suo giro è realmente un piccolo capolavoro, umile, pulito, senza sbavature. Un film che se l’avesse fatto un macedone, i critici onanisti si sarebbero strappati le vesti. Mentre siccome lo dava una piccola sala indipendente: boh, roba da studenti pulciosi, troppo poco glamour. E invece questo apologo sull’egoismo e sulla morte della comunità umana è molto più politico (e al contempo poetico) di tanto cinema finto-impegnato, zeppo di proclami ma senza un’idea al di là degli slogan. Qui si racconta cosa sia il leghismo senza mai dire la parola Lega, come riemerga quel fascismo interiore sempre vigile nell’italiano medio, attaccato al denaro e alla paura che un diverso te lo porti via. Succede in due ore che vanno via come un siluro. Attori dalle facce interessanti, montaggio coerente e fotografia digitale ottima, con una propria qualità cromatica non da poco. La dignità produttiva è dovuta – oltre che all’intelligenza della regia – anche all’aiuto di tantissimi, debitamente ringraziati a fine pellicola (spicca un grazie “per la Kangoo bianca”). Ovviamente il film non ha vinto un David di Donatello perché al posto di vedere un’opera degna come questa, chi votava era in terrazza a spartirsi futuri finanziamenti e bersi un drink, ché i premi, tanto, erano già spartiti. Addavenì la Rivoluzione Culturale, quella cattiva, però. (Dvd; 31/5/10)

(Continua – 69)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 68 https://www.carmillaonline.com/2015/03/05/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-68/ Thu, 05 Mar 2015 21:57:34 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21084 di Dziga Cacace

I see you shiver with antici…PASSION! (Frank N.Further) 

ddv6801755 – L’imperialismo sensuale e sudaticcio di An Officer and a Gentleman di Taylor Hackford, USA 1981 Ufficiale e gentiluomo: croce e delizia della mia adolescenza, film inevitabile quando passava in tivù, visto e rivisto almeno una decina di volte, compiaciuto prima e man mano imbarazzato poi, eppure impossibilitato a mollarlo, con tutti i centri nervosi disattivati, godendone con malcelata vergogna e suprema voluttà. La prima volta è stata coi miei genitori, credo all’Odeon di Genova nel 1983 e per i miei [...]]]> di Dziga Cacace

I see you shiver with antici…PASSION! (Frank N.Further) 

ddv6801755 – L’imperialismo sensuale e sudaticcio di An Officer and a Gentleman di Taylor Hackford, USA 1981
Ufficiale e gentiluomo: croce e delizia della mia adolescenza, film inevitabile quando passava in tivù, visto e rivisto almeno una decina di volte, compiaciuto prima e man mano imbarazzato poi, eppure impossibilitato a mollarlo, con tutti i centri nervosi disattivati, godendone con malcelata vergogna e suprema voluttà. La prima volta è stata coi miei genitori, credo all’Odeon di Genova nel 1983 e per i miei 13 anni questa era una storia edificante di maturazione. Poi – come detto – il revisionismo dell’adolescenza e della maturità. E oggi, decrepito? Mi concedo la versione in originale, curioso di capire come sia cambiata la mia percezione. E non posso che ammettere: sono di fronte a un sublime capolavoro kitsch, intossicante e ineludibile, con un’anima blue collar (un po’ come il primo Rambo) che giustifica lo sbandamento intellettuale, anche a fronte di un militarismo esibito senza ritegno: alla nazione bruciava ancora il culo dopo la sconfitta in Vietnam (come ricordava bene Un pesce di nome Wanda non avete pareggiato, avete perso, ah ah!) e il film ottenne un successo clamoroso, con corsa all’arruolamento di tanti babbei. Richard Gere ebbe invece – dopo American Gigolo – la definitiva affermazione: qui entra in scena in canottiera, bacino leggermente in avanti, braccia penzoloni, scocciato. Vi assicuro, ho visto cani con lo sguardo molto più intelligente. Orfano di mamma, con babbo marinaretto puttaniere e ubriacone, Zack Mayo ha alle spalle un’infanzia difficile nelle Filippine, traumatizzato da donne zoccole e uomini ladri scimmieschi (tutto grazie a scene esemplificative che ci danno subito la razzista chiave giustificativa per comprendere come mai Zack sia un po’ fragilino). Il ciondolone decide di dare una svolta alla sua vita e uno schiaffo morale al padre e per dimostrare qualcosa si iscrive al corso ufficiali dell’aviazione. Nel campo d’addestramento affacciato sul Puget Sound, stato di Washington, lo attende il sergente Foley, Lou Gossett jr. (che per l’interpretazione vincerà il premio Oscar), che allena le matricole facendogli cantare canzoni giulive contro i vietcong, da abbrustolire col napalm, donne e bambini compresi, cosa che nella versione italiana era prudenzialmente censurata. Servono 6 anni per uscire dall’accademia come piloti: questo è solo l’inizio ma è la scrematura più dura. Intorno alla base bazzicano ragazze in cerca di marito, per scappare da questa zona della costa pacifica francamente deprimente (ambientino che ti ha creato un Kurt Cobain, per dire). Due di loro vengono adocchiate alla prima occasione da Zack e dal commilitone Sid: sono Paula Pokrifky e l’amica Lynette, operaie in una cartiera. Paula, con un cognome che sembra una divinità malvagia di un racconto di Lovecraft, è Debra Winger, attrice che ho amato, amo e amerò sempre, uno splendore assoluto, con gli occhi come due fanali, non bella secondo i canoni classici, ma adorabile. Okay, asciugo la bavetta e proseguo: lei mezza polacca, Zack italo-irlandese (direi con i difetti delle due nazionalità), si trovano alla perfezione, con ansia di riscatto sociale ed esistenziale. Nasce un amore che ai miei 13 anni aveva creato qualche spaesamento sessuale: i due scambiano baci sbocconcellati il cui rumore è quello di un cane che lappa dalla scodella uno spezzatino sugoso, masticando i boli a bocca aperta e sbatacchiando le fauci. E vabbeh. Si arriva al primo accoppiamento dopo che lui ha sbroccato per questioni di possesso della merce: al suono di Tush degli ZZ Top c’è stato il virile confronto con quei bovari locali che si vedono fottere dai militari il bestiame femminile. Mayo ha spaccato il naso a un poverino che obiettava alla razzia, poi – siccome è sensibile – si è pentito e Paula: “Non hai avuto scelta” (e non è vero!). Zack: “Un uomo ha sempre una scelta”, e cominciamo ad addentrarci nei territori del Mito. Segue sceneggiata degna di Merola con lui che non ne vuole sapere, lei invoca attenzione, lui la offende e la scaccia, lei piange, lui la raggiunge, le soffia in un orecchio, una carezza, un bacio e voilà, e dopo la prima chiavata cowboy style lei è subito geisha e gli cucina le uova col bacon (e lui mangia come un cafone, con la testa nel piatto, la forchetta tenuta come un pugnale e pure i gomiti sul tavolo. Bah). Ahia, qui c’è già puzza di famiglia. Intanto l’addestramento punteggia la narrazione evidenziando le caratteristiche dei compagni di corso, tra cui Casey Seeger, la ragazza che non riesce a superare il percorso di guerra. Alla truppa viene insegnata la disciplina e lo spirito di corpo e Foley prova a far fuori Zack che commerciava in scarpe e fibbie lucidate, il mascalzoncello. Non ottiene le sue dimissioni dopo un’altra scena madre (“Don’t you eyeball me, boy!”) e da lì in poi il corso è una passeggiata di piacere. Però viene fuori che Paula è figlia di un aspirante ufficiale che poi ha mollato lì la madre. Allora lui scappa, il cazzo non vuole pensieri, eh. Sulle note dell’assolo di Tunnel of Love dei Dire Straits si riavvicinano, lui si fa sotto, è lei a sfancularlo e gli fa capire un po’ di cose. Intanto siamo a fine addestramento, diversi aspiranti piloti hanno rinunciato, e arriva una scena MONUMENTALE, quando Mayo rinuncia a fare il record sul percorso di ddv6801bguerra perché va in soccorso di Seeger. Perché non vince nessuno se non si vince tutti, te capì? E subito, dietro l’angolo c’è il DRAMMA. L’amico di lui, Sid Worley, un burino rifatto del Midwest che deve dimostrare al padre che ha le palle per far dimenticare un fratello morto in Vietnam, scopre che Lynette è forse incinta… detto fatto: dimissioni e anello di fidanzamento. Ma la sgallettata vuole girare il mondo al seguito del suo ufficiale e confessa che no, non c’è nessun bimbo in arrivo. Sconforto. Zack cerca uno sfogo con Foley: si randellano in un confronto edipico, battere il maestro per diventare adulti. Non ci riesce per un pelo e piglia un calcio nei coglioni che dovrebbe farlo cantare come Farinelli per il resto dei suoi giorni. Ha perso ma è come se avesse vinto. Siamo all’EPICA PURA: Sid si suicida e Mayo piange calde lagrime. Ormai è un uomo. Il finale è APOTEOSI GALATTICA: lui, graduato, va a prendere in fabbrica Paula, se la piglia in braccio e la libera dalle sue catene proletarie tra gli applausi delle altre operaie, compresa Lynette che piagnucola “È così che si fa” (e non si capisce se intenda che gli uomini vadano infinocchiati in questa maniera o cosa, boh). Finale da Cenerentola con Joe Cocker e Jennifer Warnes che cantano Up Where We Belong. Beh, cosa posso dire ancora? Eh, che siamo davanti a un capolavoro ricattatorio, perfetto esempio di cinema popolare, capace di abbattere ogni preclusione ideologica o resistenza alla melassa. E io son stato fatto prigioniero, tutto sommato felicemente, lo ammetto. E ora: “Fuori dalle palle, Mayo!”. (Dvd, dicembre ’09)

LIFE ON MARS756 – Un’altra vita? Life on Mars di Aa.Vv., Gran Bretagna 2006
Cosa farei io se capitassi nell’Inghilterra del 1973? Ah, beh: avrei una lista di concerti lunga così a cui andare. Invece Sam non sa ben come comportarsi, perché lui nel 1973 ci capita dopo esser stato investito da un’auto nel 2006, rimanendo vagamente stordito. Che ci fa, lì? Come mai ha fatto un salto nel tempo? Il dubbio è la vera linea tesa nel racconto, che procede per casi polizieschi, giacché il protagonista finisce a lavorare come sbirro nella stessa Manchester dal cui futuro proviene. Da un certo punto in poi il protagonista sente le voci come Giovanna d’Arco, senza particolari colpi di scena, e vive la sua esperienza parallela come se fosse in coma profondo, un po’ come in A Matter of Life and Death (Scala per il paradiso di Powell e Pressburger: citare in originale fa molto Ghezzi). Là c’erano più IPM (invenzioni per minuto), va detto, ma paragonare un film a una serie è sciocco e siccome ci vuole niente per farmi su, mi affeziono a Sam e al suo superiore, il clamoroso ispettore capo DCI Gene Hunt, omofobo, fisico, violento, tutto istinto animale, ignorante come una campana, ma dotato di un innegabile fiuto. Perché i casi all’epoca si risolvevano così: a botte date e a botte d’intuito avute. Giocando molto la serie sugli anacronismi, fa un po’ ridere pensare che adesso abbiamo i profili psicologici, il luminol, le impronte e le analisi scientifiche, perché poi, oggi come allora, c’è chi è segnato e pagherà e chi invece la farà sempre franca. Bella è la ricostruzione della Gran Bretagna dell’epoca, dominata da uno squallore bestiale: tutti morti di fame, dai poliziotti ai malviventi, e le rapine in banca erano faccende improvvisate, come le indagini che seguivano. Ci si divertiva con birra e freccette e la televisione era ammorbante. Forse per reazione, usciva musica di una bellezza unica, che colorava il grigiore di quella società: la soundtrack è eccezionale, con almeno due grandi hit a puntata (Bowie, Deep Purple, Pink Floyd, Wings, Slade, Sweet, Free etc.) e un generale gusto per la riscoperta di alcune chicche musicali coeve (che mi vanto di riconoscere tutte dopo due note). Il finale della serie è così cosà: rimanda la soluzione dell’inghippo e ci lascia nel limbo in cui si trova anche il povero Sam. Vedremo. (Dvd; dicembre 2009)

ddv6803757 – Le semplificazioni di Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti, Italia/Francia 2006
Quando vedi un film ogni due mesi, poi rischi che ti sembrino tutti dei capolavori. Non è questo il caso, ma il film si fa vedere, soprattutto per il buon cast. Antonio Pennacchi, autore del romanzo Il fasciocomunista da cui il film è tratto, ha protestato molto per il trattamento. Diciamo che Pennacchi s’incazza e fa caciara a prescindere, ma qui ha ragione da vendere. Il fatto è che Il fasciocomunista faceva dell’ambiguità, del dubbio e dell’incazzatura verso il mondo, la sua cifra. Luchetti assieme agli ubiqui Rulli e Petraglia ha invece optato per una più comprensibile e manichea suddivisione dei personaggi: i buoni e i cattivi, il bene e il male. E se il libro rimaneva inconcluso – in qualche maniera – era proprio perché la rabbia del personaggio era irriducibile; qui invece ti tocca pure il lieto fine che ci manca che suonino le trombe e gli angeli cantino in coro. Semplificando, si son tenuti i caratteri dominanti dei personaggi (tutti bellissimi, ricchi, sfaccettati, nel romanzo; qui più monodimensionali) e s’è dato un ordine lineare alla trama. Come se avessero squadrato il romanzo, lo avessero razionalizzato, mentre là era bello proprio quel disordine, specchio di una personalità e di una società. Accio Benassi è l’ultimogenito di una famiglia di Latina e non ci sta, mai. Contesta, protesta e mena (botte che sono sempre abbracci, ricerche di contatto fisico, richieste d’amore e di calore), non gli vanno la religione e i ruoli familiari e, da fascistello contestatore, diventa presto comunista (conversione che nel romanzo è, per forza di cose, dosata meglio), seguendo le orme del fratello Manrico e della brava sorella maggiore. Subplot che fa da colonna dorsale del film è la mancanza di una casa, invenzione da manuale di narrativa dei due sceneggiatori onnipresenti, che porterà a un canonico finale liberatorio, catartico, con riscatto e ricompensa. La prima parte del film vive bene, poi la narrazione s’impantana un po’ e funziona solo grazie alle interpretazioni: il porcino Riccardo Scamarcio, il nervoso Elio Germano che sembra un Mastandrea sotto eccitanti, la splendida Diane Fleri e Alba Rohrwacher, brava e intrigante, con la sua faccia da strega di Salem. Buon film medio per il pubblico borghese quale ormai rappresento degnamente con i miei 94 chili di ciccia. Consueto sonoro italico pessimo, accettabile la ricostruzione storica e almeno una gran bella scena: quella dell’occupazione del conservatorio, dove si sente il piacere della fratellanza nella condivisione politica, della provocazione, del gioco, dell’emozione. (Dvd; 23/12/09)

ddv6804759 – Poca roba, 24: Redemption di Jon Cassar, USA 2008
Lotsa spoilers, here, folks! Ma detto tra noi, non vi perdete niente: il film è frutto dell’annata storta della fiction USA, conseguente allo sciopero degli sceneggiatori. Si è arronzato un film, ma anche lavorando, direi che gli sceneggiatori hanno continuato a manifestare (tra l’altro, magari lo facessero in Italia uno sciopero, gli sceneggiatori, che ci risparmieremmo i Cesaroni…), perché questo Redemption è una mezza schifezza, praticamente un Bud Spencer-movie con le pistolettate al posto dei ceffoni. Jack Bauer è in Africa, a espiare, nel misconosciuto stato del Sangala, paese che ogni volta che veniva citato mi faceva pensare a Bracardi che urla “Fangala! Pippe Baute, fangala!”. Non si sa bene di cosa sia ricco, il Sangala, ma i bianchi tramano con l’aiuto di milizie e soldataglia violenta e tonta (ovvio, sono neri). Jack resiste assieme al volontario Robert Carlyle, corrugato come un olivo saraceno. Gli tostano un’orecchia e lui reagisce tentando di salvare tanti bambini innocenti. I ribelli hanno ovviamente bandiere rosse; gli uomini delle Nazioni Unite sono traditori e vigliacchi. Botte, fughe, inseguimenti, ma siamo abituati a 24 ore croccanti, noi, non a 100 minuti raffermi. Nelle ultime scene vanno in parallelo il discorso d’insediamento della nuova presidentessa d’America (dopo il nero, la donna: chissà mai che non ci azzecchino anche stavolta) e la fuga in elicottero dall’ambasciata di Sangala (molto Saigon-style). E mentre si parla di libertà e ricerca della felicità vengono mostrati i volti di chi vende armi e trama sottobanco. Tornerà tutto nella prossima serie? (Dvd; 27/12/09)

ddv6805760 – Scopano come cani in Caos calmo di Antonello Grimaldi, Italia 2008
Premetto: anni fa, sulla scorta del successo (…) di Fame chimica, Paolo Vari, regista, e io, indegno suo giullare, abbiamo letto ancora in bozze Caos Calmo, di Sandro Veronesi. Siccome abbiamo fiuto da vendere e volevamo dimostrare ai cinematografari romani che non eravamo gente che si comprava con un best seller, avevamo storto il naso: ci pareva ‘na strunzata, insomma. E invece il film che ne è venuto fuori sta in piedi nonostante richieda una bella sospensione d’incredulità di fronte alle vicende raccontate, peraltro intrise di realismo spicciolo, in una curiosa contraddizione che però funziona. Comunque: è la sera prima di capodanno e festeggiamo la fine di questi insipidi anni Zero soli soletti a casa di mia sorella, a Genova, sapendo che ci sveglieremo dopo la mezzanotte a causa di Elena e non dei botti. Regista è quell’Antonello Grimaldi, già “direction consultant” di Radiofreccia di Luciano Ligabue, cioè, secondo la maldicenza di alcuni del settore, il vero regista. Qua se la cava benissimo, pur rifugiandosi talvolta in un mimetismo morettiano che – a seconda dei gusti – può irritare o compiacere: la vertigine della lista, le manie, i tic, le idiosincrasie di Nanni si attagliano alla sofferenza di un protagonista che vuol fare ordine nel passato per trovare chiarezza nel presente. La storia non ve la racconto perché esistono apposta centinaia di enciclopedie in Rete e su carta. Noto solo che già nella prima scena appare il capezzolone di Isabella Ferrari, quasi un monito per ciò che capiterà dopo. E cioè una scena di sesso dove l’austero Nanni perde ogni inibizione e titilla le mammelle della biondona come se fossero il joystick della Playstation e, dopo tanto desiderare, la tromba, la bomba e la pistona, sfasciandola più di quanto non sia già sfasciata di suo, con la faccia di lei che sembra un mascherone da tragedia greca. Beh, se ripenso al Sapore di mare vanziniano, mai avrei pensato a un incontro di questo tipo, Moretti vs. Isabellina. Va anche detto che la sequenza che tutti ha fatto parlare ha un suo perché. È grottesca ma anche vera, imbarazzante perché non patinata, realistica nella goffaggine, nelle smorfie, nei grugniti, nella mancanza di eleganza (mani che ciancicano, leccate bavose, pelle)… e non è sotto la lenzuola come fanno quei falsoni degli americani, anzi: mentre tampona la Ferrari da tergo, Nanni mostra il culone e una frazione di secondo di pendaglio moscio. Vabbeh. Detto della sequenza cult, noto che Gassman è sempre più bravo, la Golino è come la Gorgona (cioè con la testa mozzata appoggiata al collo) e Kasja Smutniak ha un sorriso che illumina lo schermo. Lo sapevo – modestamente – anche dal vivo, ma non lo ricordavo più. Buon anno. (Dvd; 31/12/09)

ddv6806761 – L’assiderante Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino, Italia 2004
Film stralunato, freddissimo, quasi ibernato, improntato a un’estetica minimale che può anche irritare. Toni Servillo oscilla tra la perfezione e la gigioneria: il confine è labilissimo ed è solo con la ritrovata umanità della seconda parte che viene fuori la bravura dell’attore che si scongela grazie al sentimento. Comprimaria una nipote della Magnani, dall’occhio inceneritore finché non apre bocca e infatti mai più sentita né vista, anche se negli extra del Dvd straparla come se avesse vinto un Oscar e pure un Nobel. Comunque mica male ‘sto Sorrentino, sai? (Dvd; 7/1/10)

ddv6807762 – La salutare distopia di Battle Royal di Kinji Fukasaku, Giappone 2000
Non ricordo bene come ci sono arrivato, ma in una botta di esotica spericolatezza, mi procuro il cofanetto del film in un’edizione con un non meglio specificato “alternate ending” e ricca di bonus. Lo vedo con la cugina Alessandra una sera che Barbara è via, e il film ci prende, inutile negarlo. Giappone di un prossimo futuro, con la gioventù ormai allo sbando. Per dare una qualche scossa ai ragazzi se ne portano un tot su un’isola e li si costringe a combattere per sopravvivere: ne devono rimanere due, vivi, e ogni colpo proibito è ammesso. La competizione mortale viene ripresa e trasmessa come un reality estremo dalla funzione altamente educativa. Le grafiche rendono conto di ogni eliminazione e molte le vediamo – con gusto cinico – mentre accadono, col privilegio di entrare anche nella narrazione, non solo assistendo al programma tivù dentro al film. Però è come se – rispetto al testo ricchissimo di suggestioni – ci fosse una messa in scena qualche volta non all’altezza. Intendo dire non così inventiva. Però sono io un rompipalle, il film ha già dieci anni e il regista Fukasaku ne aveva pur 71 e mica poteva fare il tarantinato a ogni momento. Bellissime le sequenze dei sogni, l’uso della musica classica (il violento Dies Irae di Verdi che è autentico Heavy Metal ottocentesco, ma di quello cattivo) e il tema della sessualità adolescenziale. Invece alla teatralità degli attori (penso alle scene di gruppo iniziali) bisogna farci un po’ l’abitudine. Immenso Takeshi Kitano, che ha la parte del cattivo maestro (raramente m’è capitato di pensarla diversamente su di lui). Film da vedere eccome, comunque. (Dvd; 9/1/10)

ddv6808763 – Lo splendido The Shield – Prima Stagione di Shawn Ryan, USA, 2002
Un’altra serie. Che è una bomba, ma della quale non m’innamoro subitissimo. Perché non voglio. È che il mio cuore è già su E.R., inarrivabile, e anche un po’ su 24, da cui sto provando a disintossicarmi. E poi ho finalmente recuperato Prigionieri delle pietre, uno sceneggiato (si chiamavano così) inglese degli anni Settanta per ragazzi di cui attendo da più di trent’anni di sapere come vada a finire. Ragazzi: le serie tv esigono la visione compulsiva ed esclusiva, sono droghe, le vedi alterato dalla scimmia on yo back: ho un migliaio di Dvd da vedere e devo tornare a cibi sani, a fare sport, dormire bene. Devo tornare a vivere, cioè vedere film. Ovviamente dopo la fine di Lost, la morte di Green in E.R. e qualunque cosa accada in 24, Boris e pure quei Soprano che mi aspettano da un anno in cofanetto ancora cellofanato. Poi smetto, giuro. Però The Shield è grande, maledizione, grandissimo: distretto di polizia losangelino dove bene e male sono indistricabilmente allacciati, dove l’etica si scontra ogni giorno col pragmatismo o l’interesse, dove ti affezioni a gente moralmente schifosa ma che fa quello che fa perché qualcuno deve pur farlo. Sai che non è giusto, ma ci caschi e l’equilibrio del dubbio è la scommessa vinta da questi sceneggiatori eccezionali. The Shield è acido, imbarazzante, ambiguo, sporco. È inaccettabile ed è la vita, come non vorremmo che fosse messa in scena perché già la viviamo, ma è questo coraggio insopportabile a renderla una serie unica. Scritto come se fosse Ellroy e girato come un Dogma senza pretese, ma vivo e ansiogeno, vedremo come va avanti, se riesce a non sbracare. Ah: non merita una recensione perché l’ho visto a pezzi, ma Il gobbo di Notre Dame non è niente male. E vogliamo parlare della zingara Esmeralda? Beh, se le donne rom fossero tutte così, credo che gli italiani diventerebbero il popolo più ospitale della terra, a partire dal Presidente del consiglio. Esmeralda sembra una pornostar anni Ottanta, di quelle tettute, con gli occhioni verdi da cerbiatta e i capelli vaporosi. Senza dubbio la miglior CILF (Cartoon I’d Like to Fuck, vedi qui e qui) di sempre. Animazioni belle, architetture gotiche sublimi e messaggi inconsueti per l’universo Disney. Il Potere ne esce malissimo al grido dei disperati: “Diritto d’asilooooo!”. Fa più propaganda questo Disney che 10 anni di Partito Democratico, senza esagerare. (Dvd; gennaio e febbraio 2010)

ddv6809764 – L’esistenziale Boris 2 di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, Italia 2008
Boris riparte abbastanza bene, poi ha una flessione (verso la quinta e sesta puntata) e poi piazza lo scatto con un rush finale da antologia, clamoroso, con rimandi mistici (“Senti la Forza, René!”) e all’attualità (sempre attuali: l’Italia è il paese del disastroso eterno presente). Immenso Corrado Guzzanti in una parte di attore sciroccato che sostiene di aver parlato con Gesù Cristo sulla Roma-L’Aquila e invece scarico in un ruolo di contorno da ecclesiastico sui generis. Nella serie sono più chiare alcune linee narrative e diventa un motivo dominante la storia d’amore tra l’assistente Arianna e lo stagista Alessandro, mentre crescono i personaggi dello stagista muto, Lorenzo, e dell’elettricista esaurito Biascica. Non male neanche la nuova divetta, cagnissima, e lo zoccolone di contorno, la vivace Karin. I personaggi principali si alternano, ma René rimane il cardine centrale, lui e il suo dubbio esistenziale/professionale. Capolavoro in crescendo, con una sfumatura poetica sempre più accentuata, pur nella descrizione quotidiana dell’aberrante professionalità televisiva. Ed è tutto vero, vi assicuro. (Dvd; febbraio 2010)

ddv6810766 – Muovi il culo e pensa: WattStax di Mel Stuart, USA 1973
Un concertone per celebrare la dignità del popolo afroamericano nel settimo anniversario della rivolta di Watts, un sobborgo nero di Los Angeles. Lo organizzò la Stax ed è passato alla storia come la Woodstock black, anche se la similitudine tra le due manifestazione finisce nell’assonanza e nel fatto che ne sia stato tratto un film. Là il caos, qui un’organizzazione ferrea, uno spettacolo superbo e un’affermazione politica che ha fatto epoca e purtroppo non ha avuto seguito, come se fosse stata la pietra tombale sul movimento di emancipazione nero, da lì in poi represso sempre più violentemente, annientato con le armi, la droga o i consumi. La musica stessa è al top del suo fulgore, molto bella e sentita, con testi che dicono sempre qualcosa, in maniera sofferta, com’è tradizione, ma con frequenti apertura alla gioia del canto e alla bellezza della danza prima della deriva puramente edonistica che seguirà nei tardi anni Settanta (musica sempre divertentissima, intendiamoci, ma un po’ senza cervello). Si cantano ancora l’orgoglio, il desiderio di libertà, la frustrazione del blues. Poi saranno solo smancerie, come in qualche caso qui già anticipato. Il documentario fa vedere ed ascoltare i diversi partecipanti, su cui spiccano – nel mio personale score – il Rance Allen Group (gospel rock potentissimo con un cantante che stazza come Giuliano Ferrara e canta come Ian Gillan con i coglioni in una morsa) e i Bar-Kays, conciati come comparse di Jesus Christ Superstar ma senza ritenersi in costume. Il pubblico è partecipe in maniera straordinaria e si fa sentire fin dal sermone rap del reverendo Jackson (con un testone afro da paura) che fa recitare a tutto il Coliseum il mantra I AM SOMEBODY: povero, ignorante, senza lavoro, senza capacità, ma IO sono qualcuno, con una dignità da rispettare. Il massimo si raggiunge quando molti spettatori abbandonano le gradinate per invadere il campo e… ballare. Non gliene frega niente di andare sotto il palco ad esagitarsi, non importa essere vicini all’artista: interessa avere spazio per muoversi, esprimersi, e una volta finita l’esibizione di Rufus Thomas, al suo cortese invito tornano tutti ai loro posti. Semplicemente incredibile. La regia intervalla le performance con interviste alla gente del quartiere e, con un montaggio agile, sappiamo come la pensavano su sesso, religione, politica, lavoro e non solo. Perché è estremamente politico parlare anche della propria capigliatura, del gospel e del blues, dell’espressione corporea che si comunica col ballo, dei rapporti tra uomini e donne (o meglio tra brothas ‘n sistas), dell’eredità culturale africana, del perché – in definitiva – nero sia bello. E molto: gli intervistati sono splendidi, scelti benissimo, saggi, scaltri, con la lingua velocissima (e seguire il film in originale è veramente difficoltoso). Ma stupiscono l’eleganza, la fierezza e l’austera bellezza della razza, sinuosa e muscolare, sensuale e fisica. A stemperare un clima che comunque è sereno e piacevolissimo, l’ulteriore bonus dello stand up comedian Richard Pryor che è un’esplosione di macchiette godibili. Questo film è un capolavoro che fa muovere il culo e il cervello. Ne ricordo pochi, recentemente. (Dvd; 27/2/10)

(Continua – 68)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 66 https://www.carmillaonline.com/2015/01/15/divine-visioni-porno-66/ Thu, 15 Jan 2015 22:00:37 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19961 di Dziga Cacace

Lo vedi quante cose che ci sono da salvare, con la guerriglia culturale? (A.F.A.)

ddv6601732 – Tant’è, Flags of Our Fathers è un film destrorso di Clint Estwood, USA 2006 Ormai ‘sta faccenda dell’idolatria sbarazzina e manifesta di Eastwood mi pare cominci a diventare proprio una veltronata pericolosa. Perché ci risiamo anche stavolta: come in Salvate il soldato Ryan di Spielberg, qui si racconta tronfiamente dell’ultima guerra “giusta” degli Stati Uniti e, siccome viviamo in anni in cui – tanto per cambiare – gli USA si ritengono in missione per conto di Dio a menare mazzate per il mondo, alla fine l’assunto [...]]]> di Dziga Cacace

Lo vedi quante cose che ci sono da salvare, con la guerriglia culturale? (A.F.A.)

ddv6601732 – Tant’è, Flags of Our Fathers è un film destrorso di Clint Estwood, USA 2006
Ormai ‘sta faccenda dell’idolatria sbarazzina e manifesta di Eastwood mi pare cominci a diventare proprio una veltronata pericolosa. Perché ci risiamo anche stavolta: come in Salvate il soldato Ryan di Spielberg, qui si racconta tronfiamente dell’ultima guerra “giusta” degli Stati Uniti e, siccome viviamo in anni in cui – tanto per cambiare – gli USA si ritengono in missione per conto di Dio a menare mazzate per il mondo, alla fine l’assunto autoassolutorio è che se avevamo ragione da vendere allora – con nazi e musi gialli –, vuoi che abbiamo torto marcio oggi con quegli arabi isterici e puzzoni? E son mica io che mi faccio i film, eh, è Clint, perbacco! Flags of Our Fathers ci racconta di come una foto (quella celeberrima della conquista del monte Suribachi, in quell’isolaccia vulcanica di merda che è Iwo Jima) abbia significato moltissimo per la vittoria finale alleata e per risparmiare vite, anche giapponesi. E allo scopo ci si servì pure della menzogna e della più bieca propaganda… e questa sarebbe la parte più interessante e problematica del film, sennonché c’è una retorica di fondo – le immagini della bandiera, gli sguardi persi nel vuoto, la voce interiore del protagonista – che tutto appesantisce, calcando la mano su aspetti patriottici ed esistenziali che non avevano alcun bisogno di essere spiegati e dispiegati come una gigantesca stars and stripes. E anche il montaggio e la costruzione a incastro della vicenda, con le progressive scoperte e i dolorosi ricordi che affiorano, non mi son piaciuti per niente: meccanici, prevedibili e sempre un po’ fuori luogo. E non mi han fatto impazzire neanche le facce degli attori e la fotografia. E… insomma: ‘sto film mi ha fatto proprio cagare, diciamolo dritto come va detto, esteticamente e politicamente. A proposito della foto famosa, tra l’altro: l’autore, Joe Rosenthal, si è battuto una vita per difendersi dalla diceria che la foto fosse organizzata ad arte. Tutto nasce da un equivoco: il reporter ha visto dei marines che innalzavano la famosa bandiera. È accorso sulla cima del vulcano e ha fotografato un secondo gruppo di soldati che ripeteva (autonomamente) il gesto e dopo gli ha chiesto di posare sotto la bandiera. Quando Rosenthal ha spedito i rullini (non sapendo come avesse fotografato, mica c’erano le digitali, pora stella) ha fatto una sommaria descrizione del materiale e credendo che la foto migliore fosse quella in posa, l’ha indicata come tale. E da lì l’equivoco, corroborato dai sospetti di altri giornalisti e rilanciato più volte nel corso degli anni, al punto che alcuni hanno anche suggerito di ritirare il Pulitzer vinto con lo scatto. E invece era una bella fotina originale, brutti infingardi. Ma ribadisco: il film è confuso, non riuscito, destrorso e imperialista, tiè. (Dvd; 19/1/09)

ddv6602733 – L’isterico Cani arrabbiati di Mario Bava, Italia 1973
Straculto inedito per 25 anni che non riesco ad apprezzare granché (perché lo trovo interessante sì, ma anche bruttino, ecco perché) e che i critici estrosi portano in gran stima, come concentrato pulp ante litteram di efferata ultraviolenza, turpiloquio scatenato e generale insensatezza criminale, cose che – non si discute – 40 anni fa erano decisamente una bella botta. Però del primato me ne frega assai (a me importa chi fa le cose bene, come Pelé col Brut 33, non per primo) e questa regia di Bava padre è lontanissima dal suo classico tocco magico e sognante: è iperrealistica, sadica e compiaciuta di una rozzezza registica sicuramente programmatica ma per nulla affascinante nel suo sgangherato pauperismo. Dunque: c’è la classica rapina a mano armata che va subitissimo in vacca, con strascico di morti e fuga con ostaggio femmineo sulla macchina di uno sfigato che sta portando all’ospedale il figlio malato. Il “Dottore” sembra saperla lunga però si accompagna a due psicopatici, l’esuberante “Trentadue” (al cui confronto i 24 centimetri di Siffredi sono una bazzecola) e il sanguinario “Bisturi” (un inedito Don Backy, che sembra il giovane Stallone, isterico e sudato, tanto quanto il film stesso). Recitazione non particolarmente curata, montaggio scomposto, dialoghi acidi, fotografia lattiginosa, musica di Stelvio Cipriani pessima. Molta azione (anche psicologica) e ritmo non disprezzabile in un’Italia che sembra arcaica: il finale è riuscito, abbastanza inaspettato seppur intelligentemente anticipato dai titoli di testa, ma il film – nel complesso – mi pare che appaghi il gusto per la rarità di certi cinesegaioli piuttosto che essere un capolavoro misconosciuto come si va dicendo. (Dvd, gennaio 2009)

ddv6603734 – Viva Viva Santana! di Tom McQuade, USA 1988
Siccome mi sono imbarcato nella missione impossibile di raccontare la storia dell’incompreso compagno Carlos Santana, non posso esimermi dal vedere alcuni dvd che aspettano nella mia videoteca da eoni. Questo è un documentario che nel 1988 celebrava i vent’anni di carriera della band del magico chitarrista, con tante clip (dal 1969 fino al 1987) tratte da concerti o apparizioni televisive. Ogni tanto Carlos commenta e racconta e magari copre una splendida Samba Pa Ti del 1973 (argh!). Però l’idea è carina, le immagini incredibili, i completini del leader atroci. Per uno come me è il Nirvana, per qualunque altra persona non so. La cosa migliore è il pezzo conclusivo di un concerto tenuto a Santo Domingo nell’arena tipo teatro greco de La Romana (già di per sé una location kitschissima: l’ho visitata con imbarazzo primomondista quindici anni fa e i locali si vantavano che lì si fosse esibito Nicola Di Bari, per dire): un improvviso e violento acquazzone tropicale costringe a chiudere la baracca prima che qualcuno ci rimanga secco, fulminato attaccato allo strumento. Ma i Santana non mollano, le percussioni impazzano, la chitarra è senza freni e il pubblico è galvanizzato e balla nella pioggia, riparandosi con dei cuscini rettangolari che sembrano delle pizze da consegnare. A fine brano l’organizzatore nervosissimo annuncia che il concerto è finito per garantire l’incolumità dei musicisti ma dalle facce contrariate capisci che la band sarebbe andata avanti a rischio scossa mortale. Eccezionale: se il buon gusto latita nell’abbigliamento e in certe esagerate soluzioni musicali, comunque Santana rimane uno dei più grandi di sempre. Siccome non è cool nessuno lo ricorda mai, anzi, semmai ne mette in evidenza i peccadillos, ma per me nessuna musica rock ha corazon y cojones come la sua. Se voglio l’epica vado con lo Springsteen del 1978; se voglio salire a un livello diverso di percezione del reale datemi gli Allman Brothers del 1971; se devo sfogarmi, urlare e ballare prendo i Deep Purple del 1972. Ma se voglio tutte queste cose assieme, un po’ di jazz e anche una spruzzata di orgogliosa cafonaggine, beh, c’è solo Carlito. (Dvd; 23/1/09)

ddv6604735 – Il pessimo Signore e signori, buonanotte di Luigi Comencini, Nanni Loy, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ettore Scola, Italia 1976
Un orrendo film a episodi firmato oltre che dai registi anche dai più grandi sceneggiatori nostrani (Age e Scarpelli, Pirro, Maccari, De Bernardi, Benvenuti) tutti riuniti in militante cooperativa e interpretato – tolto Sordi – dai senatori della commedia all’italiana Gassman, Tognazzi e Manfredi, più Villaggio e Mastroianni. Ma il risultato è deludente, freddo, pretenzioso e fuori misura: non fa ridere quasi mai (salvo forse l’episodio “di costume” del Disgraziometro – a me il Villaggio carogna diverte sempre), non fa granché pensare quando c’è un intento satirico esplicito ed è minimamente più interessante solo quando emerge una vena poetica (Tognazzi barbone, per esempio) o semplicemente realistica. L’ideale palinsesto di un futuribile terzo canale – che dà l’ossatura al film – risulta perlopiù una raccolta di sketch e barzellette di scarsa efficacia politica e credibilità, una sorta di qualunquismo “di sinistra” facilone che riesce difficile accettare come impegno reale, anche quando se ne avverte una sincerità (seppure mal espressa, vedi l’episodio napoletano Sinite Parvulos). Per quel che mi riguarda ritrovo quel cinismo di certo cinema italiano anni Settanta, greve e strafottente, col solito umorismo sui dialetti, sui morti di fame, sui difetti fisici, per non parlare delle tette messe lì perché fanno allegria a noi maschiacci che denunciamo i fascisti, la CIA, la chiesa, la tivù, le forze dell’ordine e i politici ma alla maniera nostra, da cazzoni. Mah, una fetecchia di film: solo un anno dopo un film commerciale senza pretese – vituperato dalla critica parruccona – come Il… Belpaese racconta e satireggia gli anni Settanta molto meglio, anche senza vantare i galloni autoriali di questa porcata. E non mi metto a citare neanche i primi Fantozzi, dài. (Dvd, febbraio 2009)

ddv6605736 – Bellissimo, lo ammetto, Letters from Iwo Jima di Clint Eastwood, USA 2006
Più intenso, umano, delicato – e decisamente riuscito – del film dedicato ai soldati americani a Iwo Jima, questo Letters nobilita il dittico di Eastwood. Però non illumina a posteriori Flags of Our Fathers mentre esserne l’ideale controcampo in qualche maniera gli nuoce, perché il dietrologo che s’annida in me ne vede la funzione equilibratrice e democristiana. Là guerra necessaria e giusta, qui guerra imposta e salvata solo dal proprio onore, ma comunque guerra sbagliata. Però dico sempre un sacco di vaccate, per cui non son neanche tanto sicuro di essere d’accordo con ciò che ho appena scritto. Letters from Iwo Jima è narrato pacatamente ed è atroce, lirico e commovente. È bella la struttura, funziona il montaggio, abbacina la fotografia e splendono gli attori, tutti in parte. Bello e straziante, sofferta e doverosa lode a Clint. Boh. Sarà che sono stremato dal sonno. Infatti Elena è molto simpatica, di giorno: amabilmente grassa e ridanciana. La notte però è meno gradevole. Ieri sera è andata a letto alle 20.10 e si è addormentata in pochi minuti in braccio a me che le cantavo Nebraska di Springsteen. Siccome non so andare oltre la seconda strofa, forse è per sapere come va a finire la murder ballad che s’è svegliata alle 21.00. L’ha riaddormentata Barbara, ma alle 22.15 la piccina ha urlato come Bruce Dickinson degli Iron Maiden. Da genitori responsabili l’abbiamo lasciata fare e si è riaddormentata di nuovo. Alle 23 è ripartito l’urlo Scream for me Long Beach che stavolta ci ha un po’ turbato, avendo nervi ormai fragilini. Però Barbara l’ha nuovamente assopita. A mezzanotte invece è stata un po’ più dura e son serviti 40 minuti per calmarla mentre io divoravo furiosamente a morsi un Negronetto. Avete presente il libro d’auto aiuto Fate la nanna? L’ha scritto un argentino (secondo me un nazista in fuga) senza figli, molto rigido con genitori e neonati, e non serve veramente a un cazzo, ecco. Alle 2 e 40 Sofia ha un attacco di tosse degna di Sandro Ciotti ed Elena viene prudenzialmente spostata in camera nostra per non farla svegliare. Cosa che però accade pochi minuti dopo, tanto che ne approfitta per ciucciare una tetta di Barbara che è troppo stravolta per far resistenza come consigliano tanti pediatri belli riposati perché la notte dormono, loro. Siccome alle 6 la palla di lardo richiede ancora latte bisogna darglielo se si vuol provare a sonnecchiare ancora un’oretta. Infatti alle 7 e 30 Elena si sveglia fresca come una rosa, sorridente e gutturale, pronta a una nuova giornata di borborigmi entusiasti. Siamo stremati. (Dvd; 8/2/09)

ddv6606737 – Gli imprevedibili turbamenti erotici di Cenerentola di Clyde Geronimi, Wilfred Jackson e Hamilton Luske, USA 1950
Il classico dei classici che mai avevo visto prima. Esilino però ben costruito, fiaba perfetta per Sofia. Devo dire che l’ho visto pensando ad altro, anche perché grazie a Elena ho raggiunto nuovi traguardi cognitivi e ho capito cos’ha provato Padre Karas nella famosa scena del vomito verde de L’esorcista. Vabbeh. Dove lavoro ormai siamo in tanti a esser diventati genitori per cui spesso, a pranzo, si finisce a parlare della figliolanza. E di cinema per bimbi, praticamente l’unico che vediamo. Ci scambiamo pareri e dvd e siccome siamo una redazione di zozzoni (e mi assumo la responsabilità più alta) ci siamo ridotti ad eleggere la miglior CILF, cioè il Cartoon I’d Like to Fuck. Personalmente voto sempre la Jasmine di Aladdin, conturbante bellezza orientale profumata di spezie. Trilli di Peter Pan non mi attizza per niente anche se essere una gnocca tascabile potrebbe rappresentare un bel vantaggio. Della Sirenetta ho già detto, paventando l’ipotizzabile connubio ittico-genitale. E questa Cenerentola? No, non mi attizza per niente, tutta in ordine, borghesissima, buonissima, con gli occhioni sgranati. L’unico momento in cui mi suscita pensieri sporchi è quando le sorellastre Anastasia e Genoveffa le stracciano addosso l’abito da sera impedendole di andare al gran ballo del principe. E in questa scena degna di un lesbo prison-movie, Cenerentola, scarmigliata, coi capelli mossi e il respiro affannoso ha un suo perverso perché. Ma solo lì, eh. Ragazzi, io devo tornare a dormire, prima o poi. (Vhs; 17/2/09)

ddv6607738 – Accontentiamoci di Asterix e i vichinghi di Stefan Fjeldmark e Jesper Møller, Francia 2006
Devo dare un’educazione alla piccina che va per i 4 anni: a casa mia Asterix è un totem da adorare e procedo con la proposizione di un film recente che ha radici antiche, infatti la storia ricalca l’albo Asterix e i normanni del 1966, ma sposta l’azione anche nelle terre del Nord dove vivono gli ottusi vichinghi che mangiano tutto condendo con panna e salmone. Alla trama si aggiunge una vicenda d’amore tra il giovane Spaccaossix (nel fumetto era Menabotte) e Abba, nuovo personaggio figlio di Grandibaff. Spaccaossix è vegetariano, pacifista (ergo smidollato) e gli piace la musica dance, mentre nel ‘66 era un capellone che amava il beat (da ascoltare rigorosamente all’Olimpix di Lutezia!). Accetto i tradimenti a Goscinny e Uderzo e trovo il film passabile nonostante certi giovanilismi (il linguaggio gergale atroce, il piccione SMS, la moglie di Grandibaff Ikea… tra vent’anni sarà obsoleto anche questo cartoon). Più che altro apprezzo la fedeltà del disegno, dai personaggi agli sfondi, anche nella resa tridimensionale; le musiche ruffianeggiano tra cover d’annata e qualche botta di modernità. Sofia ne rimane entusiasta, io – da vecchio fan – approvo sornione e generoso. Ma a parte francesi, bimbi e vecchi rincoglioniti (come me), a ‘sto film non trovo un pubblico. (Dvd; 14/03/09)

ddv6608739 – L’investimento piramidale in Lost – Quarta serie di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2008
Innanzi tutto, attenti agli spoiler, perché mi scapperanno. Dunque: sette mesi dopo la terza serie, ci buttiamo sulla quarta non appena la piccola Elena ce lo permette. Apro un inciso, doloroso: siamo arrivati anche a 13 sveglie notturne e a 3 notti bianche consecutive (il Festival del Samba di casa Cacace) ma adesso va leggermente meglio: ho deciso di dormire in camera col mostro. A intuito ho cominciato a intimarle degli ssssh, appena lei prende a lamentarsi nel sonno, perché la carogna non si sveglia mai però sbadiglia, piange, urla, singhiozza mentre dorme: forse è un precoce pavor nocturnus, forse sono i postumi della sesta malattia, forse l’anticipazione dei denti che stanno uscendo, forse è una bestemmia che non voglio qui riportare. Boh. Io più o meno sto sveglio fino alle 5 del mattino quando passo la palla a Barbara che s’è fatta nel frattempo circa 7 ore di sonno. Io ne dormo 3 e poi si riparte. Ho la faccia ridotta come un cesto di vimini, per capirci. Però – come dicevo – qualche mezz’ora si trova ed è sempre un piacere tornare a perdersi sull’isola, un piacere enorme. E anche un gran casino: adesso abbiamo anche i flashforward e i viaggi nel tempo che si sovrappongono a flashback di diversa “profondità” temporale, giocando spesso sull’equivoco se siano ambientati prima o dopo il crash landing che ha dato avvio alla storia. Ogni puntata ha in serbo qualche tranello e tu abbocchi all’amo se non stai attentissimo a tutti i particolari, come un cellulare troppo grosso per essere post salvataggio… cose così; una sfida continua ai tuoi sensi di spettatore, alla tua conoscenza dei meccanismi narrativi, alla tua credulità portata sempre più a livelli esasperanti. L’apparato tecnico è clamoroso come sempre (non pensi mai: è televisione; lo vedi sempre come cinema e a un livello superiore). Gli attori hanno facce eccezionali, a parte Evangeline Lilly, Kate, che mi irrita perché sembra un coniglio farcito di botox. Il cuore della serie è il fatto che c’è un futuro in cui è stato fatto credere che il volo 815 sia finito in fondo all’oceano e si siano salvati solo sei persone (gli ormai popolarissimi Oceanic Six). Ma come si arriva a tutto ciò? Chi ha organizzato la messinscena? Chi sono i sei? E gli altri? Fioccano anche le ipotesi teologiche. L’incredibile manipolatore Benjamin è Dio. O forse no, ma l’isola è il Paradiso. O l’Inferno. E sono tutti morti. O gli spettatori sono tutti morti. Io sono morto, su questo non ci piove. Non capisco veramente più una minchia, ma se E.R. è il drama televisivo per eccellenza, e 24 è il thriller perfetto, allora Lost condensa action, thriller complottistico, fantascienza e tutta la pop culture degli ultimi 40 anni in maniera sublime, realizzando la fiction perfetta, che ti fa prigioniero sull’isola che non c’è. Perso, per sempre, in attesa che ci spieghino cosa cazzo è successo. (Aggiungo: il finale della serie fa presagire brutte cose, e tempero l’entusiasmo di questo parere: all’improvviso mi son sentito come quelli che aderiscono ingenuamente a un programma di investimento multilevel, o comunque una di quelle truffe piramidali dove continui a versare soldi – e qui coinvolgimento spettatoriale – in attesa del riscontro finale… oh, non è che questi fanno crac e a me rimane in mano un pugno di mosche? Mah). (Dvd; aprile 2009)

ddv6609740 – L’esotico Kiriku e la strega Karabà di Michel Ocelot, Francia/Belgio 1998
Fiabona africana molto serena che a Sofia piace da impazzire: credo che l’avrà vista venti volte tra aprile e maggio. Lo dessero ora in un cinema, potrei salire sul palco e recitarne a memoria alcune scene, tipo Rocky Horror Show. Kirikù è un neonato da incubo che parla e cammina come un adulto e appena uscito dalla pancia di mammà decide di rimettere le cose a posto perché l’efferata strega Karabà ha ammazzato tutti i maschi del villaggio, gli ha tolto l’acqua e pretende i gioielli delle donne. Insomma una Totò Riina della giungla al cubo. Ma Kirikù, con la sua intelligenza, i consigli del nonno e l’aiuto degli animali scopre perché Karabà è così cattiva e incazzata. E risolve: lei diventa una gnocca maestosa, lui uomo fatto e presto vivranno tutti felici e contenti, copulando allegramente ai margini della savana. Film poetico e coloratissimo, dal ritmo pacato ma steady e accompagnato da belle musiche etniche di Youssou N’Dour. Il disegno sembra semplice ma è evocativo e ricchissimo di texture e composizioni geometriche e cromatiche. Karabà ha la voce di Veronica Pivetti, ma visto il perenne grugno sarebbe stata più giusta Irene. (Dvd; tutto aprile 2009 e oltre, aiuto)

ddv6610741 – Il rivelatore Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris, USA, 2006
Molto carino e molto amaro. Sotto la buccia agrodolce c’è il veleno di una nazione che vuole e deve essere vincente e sta perdendo tutto da anni. Little Miss Sunshine è un film intelligente che molti sempliciotti hanno visto come una curiosa commedia dal piglio indie, ma così non è, non solo. Seguitemi nel mio carruggio: è l’autoanalisi di un paese abitato da bambini che non vogliono o non sanno diventare adulti, che desiderano a ogni costo un premio che li gratifichi, anche in modo vicario. Soldi, sesso, fama, e talvolta semplicemente affetto. Capito? Bene. Solo che non ho voglia di aggiungere altro, semmai vi vorrei parlare di un’altra cosa: Barbara e io ci stiamo avvicinando all’anno senza sonno, causa la piccola Elena. Quando sento gente entusiasta delle notti bianche che ormai qualunque sminchiatissima Pro Loco organizza, lo vorrei invitare a passarsi qualche seratina a casa mia. Siamo avvolti in una perenne nebbia mentale, ma ci sono alcune cose che ho imparato e voglio trasferire ai futuri padri. Allora: posso affermare con sicurezza che i bimbi sotto un anno non dormono, ma nel caso miracoloso che ciò avvenga bisogna evitare alcune cose che provocano la loro immediata sveglia. E sono:
A) L’accensione di una meritata sigaretta. Di solito il neonato attende esattamente la prima boccata, poi fa capire rumorosamente la sua disistima per il genitore fumatore e se si potesse tradurre la lallazione individuereste parole come “polmoni”, “cardiocircolatorio” e “cancro”, son sicuro.
B) La telefonata, specialmente se improcrastinabile e per lavoro. Mentre il segnale dà libero si può già apprezzare qualche singulto del piccino, ancora equivocabile per un’allucinazione sonora. Nel momento in cui il chiamato risponde, avete la certezza che invece il bimbetto è sveglio e quando provate a spiegare la situazione per richiamare più tardi, il neonato sta probabilmente urlando in maniera che non servano ulteriori delucidazioni.
C) L’accensione del PC. La casa tace nel buio e vi dite: potrò adesso concedermi un rilassante solitario sul PC? Potrò magari controllare la posta? Scrivere due righe? Sì, evvai! Accendete il PC e fin lì tutto bene. Ma se aprite un programma cominciano i guai. Il top del pericolo si raggiunge con l’apertura del gioco Hearts. Il demonio a orologeria strepita improvvisamente mentre state realizzando un cappotto epocale. Vi distrae, dimenticate il conto della carte e vi prendete una fracassata di punti. E dovete pure riaddormentare lo stronzetto.
D) La cosa più pericolosa: la defecazione. Siete sulla tazza, finalmente rilassati, in una fin troppo a lungo rimandata seduta espulsiva. Sta cominciando il download ed esattamente a metà strada avvertite l’urlo disumano della Belva che vi costringe a rimangiarvi tutto o a troncare a metà il discorso.
Tutte queste belle cose, per dirvi che nottetempo io ormai evito di fumare, telefonare, accendere il computer e sommamente cagare. Di solito finisce che mi rifugio in cucina dove ingurgito bulimicamente Caprice des Dieux interi, che sbuccio come banane e divoro tali e quali, ecco come son ridotto. (Dvd; 16/4/09)

(Continua – 66)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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