Cecco Bellosi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Da Franco Basaglia a Cecco Bellosi. Inventare comunità radicali https://www.carmillaonline.com/2022/11/14/da-franco-basaglia-a-cecco-bellosi-inventare-comunita-radicali/ Mon, 14 Nov 2022 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74720 di Piero Cipriano

L’orlo del bosco. La cura delle dipendenze tra catene e libertà (DeriveApprodi 2022) è la storia di un’impresa comunitaria radicale.

Iniziando a scrivere la prefazione, mi sono chiesto che c’è di affine tra Cecco Bellosi e me. Che c’è in comune tra un marxista rivoluzionario che ha trascorso diversi anni in carcere e un anarchico (ormai possiamo dirlo) pacifista tolstojano che ha trascorso molti anni dentro i succedanei dei manicomi. Di sicuro entrambi ci siamo ritrovati, rispecchiati, nelle parole di Franco Basaglia, in particolare queste: «Noi vogliamo essere psichiatri, ma [...]]]> di Piero Cipriano

L’orlo del bosco. La cura delle dipendenze tra catene e libertà (DeriveApprodi 2022) è la storia di un’impresa comunitaria radicale.

Iniziando a scrivere la prefazione, mi sono chiesto che c’è di affine tra Cecco Bellosi e me. Che c’è in comune tra un marxista rivoluzionario che ha trascorso diversi anni in carcere e un anarchico (ormai possiamo dirlo) pacifista tolstojano che ha trascorso molti anni dentro i succedanei dei manicomi. Di sicuro entrambi ci siamo ritrovati, rispecchiati, nelle parole di Franco Basaglia, in particolare queste: «Noi vogliamo essere psichiatri, ma vogliamo essere soprattutto persone impegnate, dei militanti. O meglio, vogliamo trasformare, cambiare il mondo attraverso la miseria dei nostri pazienti che sono parte della miseria del mondo. Quando diciamo no al manicomio diciamo no alla miseria del mondo». Ecco, diciamo che ci siamo fatti carico, in modi diversi, di una parte della miseria del mondo. Questo ci accomuna. Scorro i capitoli del libro una seconda volta dopo averlo letto una prima volta. Secondo capitolo. Non legare nessuno, mai. Terzo capitolo. Catene da spezzare. Cecco mi cita spesso. Dice Cipriano sostiene che se qualcuno con il camice bianco lo legasse a un letto di contenzione, si scolpirebbe in testa la sua faccia e, una volta tornato in libertà, lo andrebbe a cercare. Rileggendo questa cosa che ho scritto una decina di anni fa in “La fabbrica della cura mentale”, e che avevo dimenticato di aver scritto, ho ripensato all’odioso libro di Milone, questo psichiatra genovese ormai in pensione che ha pubblicato un libro miserabile sull’arte di legare le persone, pensavo a questo psichiatra, che rappresenta nel mondo della psichiatria forse l’archetipo opposto al mio, e ho iniziato a canticchiare la canzone di Franco Battiato: «E ti vengo a cercare, con la scusa di vederti o parlare…». E sì, se fossi stato legato al letto da uno come Milone sarei di sicuro andato a cercarlo.

È così: non sopporto chi lega le persone, anche se non sono mai stato legato. Cecco pure non sopporta chi lega, però lui l’ha provata sulla sua persona, la cosiddetta contenzione meccanica. Era il 1984, i detenuti politici erano soffocati dalle restrizioni delle carceri speciali, l’articolo 90 dell’ordinamento penitenziario rendeva la loro prigionia ancora più dura. Il primo marzo del 1984 alcuni detenuti dei bracci di massima sicurezza di alcune carceri italiane iniziano uno sciopero della fame. In pochi giorni diventano un migliaio i prigionieri scioperanti. Dopo un mese, Cecco ha trenta chili di meno. Viene ricoverato al San Camillo di Roma, ammanettato al letto, con la minaccia di essere alimentato forzatamente. La contenzione, sia meccanica (come si dice quando sei immobilizzato al letto), sia ambientale (come si dice quando sei in un posto da cui non puoi uscire), la conosce. Dunque, lo sa di cosa si parla.

Quando esce dal carcere, evidentemente gli viene naturale occuparsi di tutti quei miserabili che finiscono in prigione o in manicomio. Michel Foucault, d’altra parte, insegna che prigione e manicomio sono quasi la stessa cosa, stessa matrice, che prima dell’invenzione del manicomio (in Francia) c’era il Gran Hospital General di Parigi che accoglieva tutti i devianti. Ecco, se andiamo a leggere l’editto francese del 1676, l’elenco dei devianti che bisognava ammassare nel gran contenitore indifferenziato della devianza, i non produttivi, quelli che per la nascente borghesia erano inutili (“Alcolizzati, libertini, donne facili di costumi, senza dimora, mentecatti, vagabondi, nullatenenti, disoccupati, sfaccendati, delinquenti, individui politicamente sospetti, eretici, ovviamente i pazzi, gli idioti, gli stravaganti, e le mogli odiate e le figlie disonorate e gli sperperatori dei patrimoni…”), troviamo la rassegna degli esseri umani di cui il Gabbiano si è preso cura e fatto carico, negli ultimi trent’anni.

Affinità e divergenze tra il compagno Cecco e me, mi viene da dire, a questo punto, parafrasando una canzone dei CCCP. Vorrei procedere, in questa prefazione, un po’ così, un po’ come lui ha scritto questo libro, in modo non metodico. Il nostro stile di scrittura, d’altra parte, è simile, entrambi adoperiamo la forma del saggio (molto) narrativo, con continui inserti diaristici, o di autofiction, come si dice.

Vari tipi di naufraghi approdano alle comunità del Gabbiano. Vari naufragi esistenziali trovano porto in queste isole del Gabbiano. Persone senza dimora, escluse, per lo più fuoriuscite dalle prigioni, che non trovano una casa o una famiglia ad attenderle. Sofferenti mentali e tossicomani, soprattutto eroinomani o alcolisti. Ma anche i cocainomani che, d’altra parte, nemmeno si considerano tossici, persone dall’io ipertrofico. E i malati di AIDS. E gli internati degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari oggi diventati REMS. Al Gabbiano nessuna delle figurine della devianza manca. Vuoi un rom c’è, un transgender c’è, un fascistello c’è, un domatore di leoni c’è, un comico fallito pure, sembra quasi il tendone del circo di Freaks Out, il film visionario di Gabriele Mainetti.

Perché – mi domando adesso – Cecco si dedica, tra i vari devianti, in particolare ai tossicomani? Lo dice, a un certo punto del libro, che le droghe lui non le ha mai frequentate, perché era persuaso che fossero «un’arma di distruzione di massa del movimento di rivolta che scuoteva il mondo», negli anni Settanta. Movimento di cui lui è stato parte molto attiva. L’idea che l’inondazione di eroina fosse stata programmata – scrive – «non era solo paranoia». L’introduzione nelle piazze dell’eroina, la grande distruttrice di cervelli e di corpi e di vite umane, è stata un’arma per distruggere il movimento. «Il grande anestetico contro una generazione insopportabilmente sovversiva», la sua. L’operazione, ripercorrendo rapidamente la storia delle droghe degli anni Settanta, è chiarissima. Si chiude il rubinetto per le molecole psichedeliche, considerate le droghe che bruciano il cervello (sono droghe che espandono la coscienza, se mai, tant’è che in questi anni, con quaranta di ritardo, sono ricominciate le ricerche e le terapie psichedeliche) e si apre il rubinetto per le droghe, l’eroina e la cocaina, esse sì dello spegnimento psichico e dell’euforia senza scopo. Anche la cannabis – scrive Cecco – vissuta come «non ostile al movimento», lui non la digeriva, e “faceva di ogni erba un fascio” e perciò caccia via i compagni dalla sede di Potere Operaio comasca solo perché “si facevano le canne”.

Invece ora al Gabbiano – che contrappasso! – gli ospiti lavorano la cannabis legale, quella contenente il solo cannabidiolo, senza Thc. Rilassante, non euforizzante. Alcuni mesi fa ero lì a supervisionare la variegata umanità che trova approdo in quelle comunità, il mandato, ricevuto dal Gabbiano, coerentemente con la nostra guerra al manicomio chimico, era di alleggerire il carico di psicofarmaci a ognuno di loro. Sentivo un odore di cannabis salire dal piano di sotto. Mi portano giù a vedere. Il laboratorio dove gli ospiti lavorano le infiorescenze delle piante. Evidentemente Cecco non fa più di ogni erba un fascio.
Sono contento.

Ma torniamo ai naufraghi del Gabbiano. Perché Cecco ha questo rispetto, questa gentilezza verso i matti e i carcerati? Mentre scrivo è l’11 marzo 2022. Basaglia fa 98 anni. Scrivo “fa”, non “avrebbe fatto”, perché in realtà è morto ma è ancora molto vivo, sono 98 anni, i suoi, portati benissimo, le sue idee, la sua prassi da cui nascono le sue idee (non il contrario), non sono invecchiate per niente, anzi. Riflettendoci, rispetto ai due poli concentrazionari foucaultiani carcere-manicomio, sembra che Cecco Bellosi abbia compiuto un percorso inverso rispetto a quello di Franco Basaglia. Basaglia a vent’anni, nel 1944, si fa alcuni mesi di carcere per attività partigiana, lì conosce l’odore di urina e merda dei buglioli, lo stesso odore lo incontra qualche anno dopo, il 16 novembre 1961, quando entra, a trentasette anni, per la prima volta in un manicomio, quello di Gorizia, come direttore. Lo stesso odore. Seguiamo l’odore. Follow the smell. Nello stesso anno, stesso giorno probabilmente (dobbiamo forzare le sincronicità immaginifiche, se no che gusto c’è) Cecco va a trovare suo zio internato al San Martino di Como. Ha tredici anni, mettiamo, e sente la stessa puzza di urina e merda che, quattrocento chilometri a est, al confine con la Jugoslavia, nello stesso momento, assale l’olfatto dello psichiatra bombarolo. Che in nemmeno venti anni avrebbe deflagrato i manicomi. Basaglia prova prima il carcere e dopo il manicomio, sente prima la puzza di urina e merda che proviene dal carcere e si rende conto che è la stessa del manicomio, Cecco Bellosi la prova prima in manicomio e dopo in carcere.

Basaglia fa fuori il manicomio quello classico, foucaultiano concentrazionario, per capirci, ma i manicomi, che sono proteiformi, si ricreano in migliaia di caravanserragli più piccoli e in altre entità, talmente piccole che se non sei uno psichiatra critico nemmeno le riconosci: gli psicofarmaci. Gli psicofarmaci, quando assunti copiosamente e per sempre, sono una trappola chimica, quintessenza del manicomio. E Cecco, quel manicomio, chimico, appunto, se l’è ritrovato nelle comunità del Gabbiano: i fuoriusciti dal carcere ormai sono tutti sotto psicofarmaci, il carcere è un micidiale luogo di innesco di dipendenze psicofarmacologiche. Gli OPG/REMS, uguale. Il Gabbiano è, dunque, anche il luogo dove provare a rompere, tra gli altri manicomi, quello più subdolo: il manicomio chimico.

Ci sarebbe anche la parcellizzazione infinita della sofferenza mentale nosografata dall’ossessivissimo DSM-5 di provenienza statunitense (redatto ogni tot anni dall’American Psychiatric Association). Di questo manicomio, pure, racconta Cecco che, in barba alle centinaia di diagnosi del manuale ossessivissimo americano, preferisce dividere il consorzio dei suoi naufraghi in base al – direbbe Eugène Minkowski – gefül, al sentimento: «Ci sono quelli che senti e quelli che non riesci a sentire», «con i primi puoi sempre dialogare, anche nel delirio; con gli altri, quelli in cui non riesci a penetrare la nebbia, è maledettamente difficile».

Ma torniamo ai tossici. Nel senso di eroinomani o cocainomani pesanti, quelli che fumano il crack per capirci. Costoro fanno uno strano percorso di autoesclusione dal consorzio umano, civile. Escono dal mondo comune e come fanno, per altre strade (senza sostanze esogene, intendo), gli schizofrenici, si infilano in un mondo proprio. Dal koinos kosmos all’idios kosmos. Senza ritorno. A Rogoredo c’è un bosco. Il bosco-selva di questi sciamani falliti e senza speranza, i tossici. Ora: i servizi sia di salute mentale che per tossicodipendenti, sia pubblici che privati, possono essere di due tipi: quelli che aspettano al varco e quelli che vanno incontro.

Per esempio: in moltissimi luoghi, a sud Italia, nel centro, nel nord, isole, i Centri di Salute Mentale, o i SerD, aspettano. Non fanno domiciliari quasi mai. Non hanno le risorse, le energie, la voglia. Aspettano. In pochi luoghi, Trieste in testa, il servizio, nella persona dell’operatore di salute mentale, sia esso psichiatra psicologo infermiere riabilitatore educatore eccetera, va verso il naufrago. Non aspetta, al porto, che il naufrago arrivi, alla deriva, vivo o morto. Ma va in mare aperto, a cercarlo.

Quelli del Gabbiano, a un certo punto, sono entrati nel bosco di Rogoredo. Hanno perfino organizzato alcuni eventi del festival letterario Book Pride nel bosco della droga. Controintuitivo, no? Altro che erigere un muro, come proponeva il presidente del Municipio. Meglio un ponte. Hanno cominciato, gli operatori del Gabbiano, insieme ad altri, a entrare nel bosco della droga a portare, tre volte a settimane, il cibo al popolo del bosco della droga. Esserci. Presenza. Siamo qui. Nel 2019 duecento persone hanno chiesto di uscire dal bosco. Alcuni sono rientrati nel bosco altri mai più. Alcuni sono passati dal bosco alla comunità. Se Maometto (il tossico del bosco) non va alla Montagna (il servizio) è la Montagna (il Gabbiano in questo caso) che va nel bosco.

È così va a finire che Cecco, il marxista Cecco, si guadagna perfino l’appellativo di Don Cecco. Non poteva – pensavano – che essere un prete, uno così. Un prete singolare, come Don Gallo, certo.
Divertente.

Una ricerca suddivide le comunità terapeutiche in tre categorie. La prima è quella che si basa sul padre carismatico. Il modello di questo tipo è San Patrignano. Muccioli è il guru. Ripenso alla docufiction di Netflix “SanPa”, su San Patrignano. Faccio una digressione, a questo punto, perché l’impressione è che davvero le comunità del Gabbiano siano collocate, in tutti i sensi, al polo opposto del modello San Patrignano. Anche Muccioli e Bellosi sono opposti archetipi. Muccioli è uno che sembra, all’inizio, senza arte né parte, scarso a scuola, si interessa di parapsicologia, si inventa le stimmate. Sente di avere una capacità medianica, l’imponenza, lo sguardo. Prima, su quel colle vicino a Rimini, ingabbia cani e galline. Dopo, passa agli umani. Gli ultimi degli umani. Quelli più prossimi ai cani e alle galline. Quelli che sono già con un piede fuori dal consorzio umano. I maniaci dell’eroina. Comincia in sordina. Va a istinto. Sa che c’è la dipendenza dalla roba e sa che c’è l’astinenza dalla roba che lui, allo stesso modo dei tossici, chiama rota. Sa che i Sert sanno sostituire una dipendenza da oppiaceo per buco (eroina) con una dipendenza da oppiaceo per bocca (metadone), di modo che il danno si riduce ma sempre tossico l’eroinomane rimane. E lui non è per le mezze misure, non è per la riduzione del danno, come si dirà. Lui è per la maniera dura e repentina. Piuttosto che uno scalaggio graduale, che talvolta non vede mai fine, preferisce pochi giorni di astinenza selvaggia. Dopodiché il tossico è fuori. Non si avvale di terapeuti, di cui non si fida e non ha bisogno. Non dico un medico o uno psicologo, ma neppure un infermiere. Un medium, o un guru (cioè lui) è più di un medico, si capisce. La piccionaia è la sua clinica. Uno sgabuzzino dove, legato come un cane, appollaiato come una gallina, il tossico patisce la sua morte e dopo la sua rinascita. Lui non lo sa oppure lo sa, non so se i suoi studi esoterici occultistici parapsicologici lo hanno edotto oppure improvvisa per istinto, ma quella esperienza a cui sottopone il tossico è una specie di iniziazione sciamanica. Lo sciamano se ne va nella grotta o nella selva o nell’igloo, al freddo al buio senza cibo, lì sconfina nei territori della morte, e dopo ritorna, e quando torna è un uomo nuovo, rinato, coi poteri, perfino. Questa è la tecnica di divezzamento che adopera Vincenzo Muccioli. Il quale – scrive Cecco – «è stato il primo a identificarsi nell’antidoto alla dipendenza da eroina, trasferendola su di sé». La sua utopia diventa una sorta di istituzione totale. Questa utopia, forse, poteva avere un senso, seppure nel solco del paternalismo e dell’autoritarismo e del culto del patriarca, finché era piccola, una comunità di vita, perché cento persone le puoi, tu che sei il gran capo, conoscere una per una, ma quando diventano migliaia devi delegare ai fedeli. Che diventano kapo. E la comunità diventa gulag. Molte comunità assumono a modello San Patrignano e Muccioli. Un secondo modello, invece, è quello della comunità-clinica, dove il potere non è del padre ma del tecnico, sia esso medico o psicoterapeuta. Terzo modello, infine, è la comunità come servizio tra servizi. Ovvero: siccome ogni servizio si occupa del suo specifico (i Centri di Salute Mentale dei disturbi psichici, i SerD delle dipendenze, i servizi sociali di fare i documenti eccetera) serve una comunità che sappia mettere in relazione questi servizi che sovente confliggono. Comunità che fanno un po’ di tutto: accoglienza, terapia, reinserimento.

E il Gabbiano cos’è, che tipo di comunità è? Nessuna di queste – scrive Cecco – perché è “una comunità nella comunità”.

L’esempio più estremo? Più radicale? La comunità a bassa soglia di Tirano. Che vuol dire bassa soglia? Vuol dire il massimo dell’accessibilità. «Una sperimentazione al limite». Svuotare le piazze e «accogliere tutti quelli che bussano alla porta». «Quelli che nessuno vuole». Una roba – davvero – da matti. Se penso ad alcuni Centri di Salute Mentale, anche a Roma, dove lavoro, che a una persona di origine africana, affetta da una psicosi cronica, che chiede una prima visita a gennaio, viene dato appuntamento a maggio. Questa è una soglia altissima, impossibile da superare. Quella persona non arriverà mai a ricevere quella prima visita. Troverà prima una crisi, un pronto soccorso, un ricovero in SPDC. Da dove vengono, dunque, «quelli che nessuno vuole», come arrivano alla comunità a bassa soglia di Tirano? Dal carcere, metà. Un terzo, dalla strada. Chi sono gli enti invianti? Vicini di casa, associazioni di quartiere, perfino un farmacista di Ponte Lambro che di fronte a un tossico che tenta di rapinarlo lo convince ad andare in comunità. Scrive Cecco: «Con la bassa soglia abbiamo asciugato la piazza di Como». Aggiunge: «Per poterli ospitare tutti siamo andati sopra la cifra consentita, ovviamente ospitando gratis gli overbooking». Ricevendo per questo anche la visita dei NAS, che hanno terminato l’ispezione con un giudizio del tutto positivo.

Metà degli ospiti della bassa soglia provengono dal carcere, dicevamo. Il trattamento penitenziario è classista. I senza casa, gli stranieri, i sofferenti psichici, a fine pena, se fuori non hanno niente, rientrano in galera. Le leggi Bossi-Fini (perfetta per imprigionare immigrati) e Fini-Giovanardi (perfetta per imprigionare chi fa uso personale di qualche droga) sono leggi carcerogene che hanno moltiplicato la popolazione delle carceri. Nel 1990 trentamila persone in carcere (e cinquemila in pena alternativa), nel 2019 sessantamila in carcere (e ottantamila in pena sostitutiva).

È chiaro che la comunità radicale di Cecco Bellosi ci ricorda l’utopia della città che cura di cui scrive Franco Rotelli, quella città/comunità accogliente capace di fare a meno delle tecniche e degli specialismi e degli psicanalismi e degli psicofarmaci, perché sa attingere a quella capacità di koinos kosmos che c’è tra gli uomini. I basagliani di Trieste la realizzarono – scrive Peppe Dell’Acqua – istituendo quel luogo chiamato Centro di Salute Mentale (che sostituisce il Centro di Igiene Mentale, che cosa orribile, l’igiene mentale), luogo che deve stare aperto sempre. Calato dentro la città e non fuori. Nel territorio cosiddetto. Un luogo che non sia un non-luogo e che sia sempre pronto, e sempre aperto. Franco Basaglia e gli eredi della sua impresa sono stati operatori di salute mentale radicali, capaci di mettere in discussione non solo il “sistema manicomio” ma, a partire da questo, “il sistema società”. Capaci di spostare il progetto di cura dai luoghi separati, dai dispositivi della tecnica, al mondo al territorio alla città. «Violentare la società» (frase di Basaglia) fu necessario all’inizio, per convincere la città a riprendersi l’escluso, per includerlo, operazione non di vomito/evacuazione (per dirla con Levi-Strauss) ma di fagocitosi/incorporazione. “Restituire cittadinanza al cittadino escluso”, al tempo stesso restituire l’escluso alla città.

E non ha fatto questo Cecco Bellosi? Il terapeuta Cecco Bellosi, sì, terapeuta – Basaglia, a chi gli chiedeva, durante le sue conferenze in Brasile, «Che cos’è terapia?», rispondeva: «E’ lotta contro la miseria» – perché combattere la miseria è la forma più radicale di terapia, e Cecco Bellosi è un terapeuta radicale perché si è occupato di miseria e di miserabili, a cui ha dato casa lavoro relazioni, e l’ha fatto fuori dalla psichiatria ma a stretto contatto anche con la psichiatria, un’operazione di comunità radicale, quella di tenere aperta la porta. Ed ecco perché Cecco Bellosi il carbonaro (direbbe De André) da qualcuno viene perfino creduto un prete, perché le comunità radicali del Gabbiano sembrano aver adottato la prassi dei primi cristiani di cui dice Ivan Illich: «Era d’abitudine, in una casa cristiana, avere un materasso in più, un pezzo di candela e un po’ di pane secco in caso il Signore Gesù avesse bussato alla porta, vale a dire qualcuno senza il tetto sopra la testa fosse arrivato».

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Propizio è avere una cura. Lsd ed eroina, due storie stupefacenti https://www.carmillaonline.com/2019/02/22/propizio-e-avere-una-cura-lsd-ed-eroina-due-storie-stupefacenti/ Thu, 21 Feb 2019 23:01:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51208 di Piero Cipriano

Carrère direbbe che Propizio è avere ove recarsi. Partito, innumerevoli volte, mete, viaggi, incontri, gli hanno dato materia per i suoi libri. L’avversario, Romanzo russo, Limonov. L’anno scorso, dopo aver concluso la mia avventurosa trilogia della riluttanza-ai-manicomi (e il quarto libro su Basaglia che li riassume e chiude), ho fatto due viaggi, due viaggi alla Carrère, diciamo. Uno breve l’altro lungo. Entrambi densi, però.

Quello breve l’8 dicembre, verso Livorno, destinazione Premio Ciampi, il cantante alcolico che ora è diventato un premio. Smonto dalla notte in ospedale, e come (quasi) [...]]]> di Piero Cipriano

Carrère direbbe che Propizio è avere ove recarsi. Partito, innumerevoli volte, mete, viaggi, incontri, gli hanno dato materia per i suoi libri. L’avversario, Romanzo russo, Limonov. L’anno scorso, dopo aver concluso la mia avventurosa trilogia della riluttanza-ai-manicomi (e il quarto libro su Basaglia che li riassume e chiude), ho fatto due viaggi, due viaggi alla Carrère, diciamo. Uno breve l’altro lungo. Entrambi densi, però.

Quello breve l’8 dicembre, verso Livorno, destinazione Premio Ciampi, il cantante alcolico che ora è diventato un premio. Smonto dalla notte in ospedale, e come (quasi) tutte le notti un tossico è venuto in pronto soccorso a reclamare fiale di benzodiazepine in vena, siccome il metadone che aveva in corpo non gli bastava, e io a smadonnare, sono le quattro del mattino, e vieni a svegliarmi per le benzodiazepine? Ecco: i tossici, gli eroinomani che ora sono diventati metadonomani, per noi psichiatri che lavoriamo negli ospedali e ci occupiamo di folli e non di tossici (e sì, vige ancora questa dicotomia), sono rotture di scatole. Soprattutto se ci svegliano di notte. Al mattino mi passa a prendere mia moglie, lei guida, figlia grande accanto, io e figlia piccola dietro. Invece di dormire il sonno del povero psichiatra che non ha dormito di notte in ospedale per colpa del tossico, leggo Piccola città di Vanessa Roghi. Che mi riconcilia con i tossici. I tossici eroinomani, voglio dire. I poveri eroinomani fregati negli anni 70 e poi negli 80 (e che di nuovo ritornano a essere fregati in questi anni) dall’ingresso, nel mercato delle droghe, di una sostanza eroica, questa eroina che come nessun’altra sostanza mai, prima, e mai, dopo, leva il dolore, elimina la sofferenza, ogni tipo di sofferenza, fisica e mentale, ammesso che vogliamo indulgere su questa celebre separazione cartesiana, e induce un’assuefazione (e una conseguente drogomania) la più rapida, la più micidiale. Eppure, “senza la società”, scrive Vanessa Roghi, “il drogato non esisterebbe”, giacché sono stati necessari un’industria chimica per sintetizzare la morfina o altri oppioidi di sintesi, e medici che li hanno prescritti generosamente come antidolorifici, e farmacisti che li hanno venduti con manica altrettanto larga, e soltanto dopo che l’addiction è stata iatrogenicamente indotta, entra in gioco la complessa e piramidale organizzazione dello spaccio, fino all’ultimo anello: quel tipo di consumatore che, per potersi fare, spaccia. Insomma, come per gli psicofarmaci, anche qui l’innesco della dipendenza è iatrogeno. A genesi medica. Di sicuro negli anni 60 e poi 70, scrive Roghi, “la confusione tra le droghe era tanta”. Eroina, cocaina, anfetamine, Lsd, tutte sembravano funzionali al dropping out, ovvero rinunciare a lavorare, studiare, fare politica, secondo lo slogan del guru della rivoluzione psichedelica Timothy Leary (“Turn on, turn in, drop aut”). Nel 1971, quando l’Lsd e gli altri allucinogeni vengono inseriti nella tabella 1 degli stupefacenti (stessa sorte per le anfetamine), è la fine. Arriva sul mercato illegale prima la morfina a prezzi stracciati e poi l’eroina. Quando, nel 1975 (in Italia), viene approvata la legge 685 sulle tossicodipendenze, ciò che riuscirà a produrre saranno degli ambulatori dove come terapia alla dipendenza da eroina si eroga un altro oppioide, il metadone, il cui unico vantaggio è l’assunzione per bocca e non per buco. Inizia a diffondersi il modello delle comunità di recupero. Comunità, spesso confessionali, segnate (scrive Cecco Bellosi in Piccoli Gulag) dal “rapporto tra colpa e redenzione”, così come l’altra faccia della medaglia, per il tossico, ovvero il carcere, era/è “segnato dal rapporto tra delitto e castigo”. Comunità come luoghi di reclusione dove, senza neppure il dispositivo del TSO, poter trattenere persone, sine die.

Suggerisco, nel titolo, che propizio, nella vita degli umani, è avere come curarsi. La ricerca della droga è, tutto sommato, la ricerca del farmaco, o dello psicofarmaco perfetto.

Ancora Carrère: “Scrivere un libro, qualsiasi libro, richiede ciò che i giuristi chiamano un interesse ad agire”. Nel 1987 il padre di Vanessa viene arrestato, ecco che l’eroina entra nella sua storia, ecco che il suo è un libro in cui la sostanza eroica e la vita eroica di suo padre, e la sua, si embricano.

Ma l’eroina non è la mia storia, peraltro è una sostanza in cui non c’è niente di terapeutico (per quanto mi riguarda, per il mio specifico mestiere di psichiatra) da poter scoprire o riscoprire. Ecco perché il mio viaggio con questo libro è stato più breve dell’altro che ora vado a raccontare.

Nel 1994 mettevo piede nella Terza Clinica Psichiatrica dell’università di Roma, la Sapienza. La dirigeva Paolo Pancheri. A quel tempo, era lo psichiatra psicofarmacologo più in auge in Italia (la rivalità era con Pisa, con la scuola di Giovanni Battista Cassano). E tutti noi cosiddetti pancheriani, di riflesso, ci consideravamo dei grandi psicofarmacologi.

Dopo vent’anni dal mio ingresso nella psicofarmacologia, ho pubblicato Il manicomio chimico, dove racconto di questo immenso manicomio molecolare a cielo aperto. Gli psicofarmaci, le molecole attualmente sul mercato e prescrivibili, non sono la soluzione per l’ansia (le benzodiazepine determinano dipendenze feroci), non per la depressione (gli antidepressivi, come gli antibiotici, dopo qualche anno non funzionano più), non per le psicosi (gli antipsicotici sono come sabbia messa negli ingranaggi mentali, rallentano, paralizzano, creano neurolepsia, ovvero paralisi del sistema nervoso).

Quale potrebbe essere la soluzione allora? O meglio, se la soluzione terapeutica deve essere una sostanza, o una molecola, quale potrebbe essere?

Vengo all’altro viaggio (quello lungo, nel senso che ancora non è finito) fatto-leggendo-un-libro. Il 20 di agosto del 2018, in una spiaggia di Polignano a mare che era un carnaio stipato di corpi che nemmeno un girone dantesco, ho iniziato un viaggio acido. Premetto che, a causa della mia ipocondria minor, non sono mai stato uno psiconauta, in vita mia di drogastico (a parte il sesso) ho sperimentato solo alcol caffè mate e ginseng. Dunque mi trovavo in quella spiaggia manicomio pugliese, letteralmente sotto acido, nel senso che ero flesciato dalla lettura di LSD, il libro psichedelico di Agnese Codignola. Eppure sono del mestiere, la materia non doveva sorprendermi, e da psichiatra qual sono, seppur critico rispetto a psicofarmaci e relativista rispetto alle sostanze che chiamano droghe, non avrei dovuto lasciarmi folgorare sulla via dell’Lsd. Invece è successo.

Un libro rigoroso e documentatissimo. Nessuna concessione al self disclosure (dunque molto diverso da quello di Vanessa Roghi). Che Agnese non abbia mai assunto Lsd o psilocibina, per dire, lo svela in una intervista, mica nel libro. Come me, Agnese non si è mai fidata di prendersi sostanze fornite da pusher di origine ignota (è ciò che mi ha sempre dissuaso dallo sperimentare molecole illegali, sono un farmacologo, ho bisogno di sapere cosa e quanto, prescrivo agli altri, o introduco nel mio corpo).

Libro diviso in due parti. La prima: “come l’Lsd da farmaco diventa droga”.

Per serendipity, come sovente accadono le scoperte, nell’aprile del 1943, il chimico svizzero Albert Hofmann ci ripensa, e torna su una sostanza che ha sintetizzato nel 1938, l’Lsd-25 (ovvero la venticinquesima provetta di dietilammide di acido lisergico). L’ha sintetizzata studiando la Claviceps purpurea (o ergot), un fungo che provoca una malattia dei cereali detta segale cornuta. Insomma, sintetizza questo derivato sintetico dell’ergot e si espone ai suoi effetti allucinogeni, che sono noti da secoli, perciò lui non è del tutto impreparato, e decide di assumerne 250 microgrammi, sperimentarlo su di sé. Subito capisce di aver sintetizzato una sostanza di straordinaria potenza, proprio per questo molto difficile (infatti Lsd. Il mio bambino difficile, è il titolo del libro in cui riassume la vicenda). A questo punto inizia una staffetta di diversi personaggi che si occuperanno di Lsd e molecole simili. Humphry Osmond, in Canada, a partire dal 1953, usa l’Lsd per trattare gli alcolisti. Ribadisco che siamo all’esordio dell’era psicofarmacologica, che debutta col neurolettico cloropromazina, e con l’antidepressivo triciclico imipramina, e poco dopo con l’ansiolitica benzodiazepina clordiazepossido. L’Lsd è solo una delle decine (se non centinaia) di molecole in ballo che devono guadagnarsi il titolo di psicofarmaco. Ronald Sandison, in quegli anni, mette a punto la terapia psicolitica, che consiste in piccole somministrazioni ripetute a dosi crescenti di Lsd, invece che una sola a dose alta (che costituisce la terapia psichedelica di Osmond). Entrambi si propongono di ottenere la cosiddetta Ego dissolution (l’effetto più prodigioso di Lsd e simili, su cui Codignola insiste molto), seppure con modalità diverse.

Humphry Osmond. E’ lo psichiatra a cui Aldous Huxley si affida per sperimentare la mescalina prima e l’Lsd poi. Strano percorso, quello di Huxley. Nel 1932, nel suo romanzo distopico (e profetico) Il mondo nuovo, immagina una società in cui tutti assumono una molecola (il Soma). E ne denuncia il pericolo. Vent’anni dopo, si lascia convincere da Hofmann e somministrare da Osmond il farmaco psichedelico (termine coniato da Osmond proprio). Dopo l’auto sperimentazione, il giudizio di Huxley cambia. Lo scrive in vari libri: Le porte della percezione, Paradiso e inferno, L’isola. Al punto che, quando sta per morire, si fa accompagnare da un’iniezione di Lsd somministrata da sua moglie.

Poi guadagna la scena lo psicologo di Harvard Timothy Leary, che dopo aver assunto i funghi magici messicani intuisce la potenzialità degli psichedelici di arrivare dove le varie forme di psicoterapia, inclusa la psicanalisi, non riescono. Dal 1961 inizia a sperimentare prima il principio attivo dei funghi magici (la psilocibina) e poi l’Lsd stesso, con l’intento di mettere a punto un’instant psychoanalysis, capace di destrutturare i circoli viziosi psichici, e sostituirli con processi mentali più efficaci. Le sperimentazioni di Timothy Leary e del suo socio Richard Alpert (perfino sui detenuti sperimentano, con risultati clamorosi: fuori dalla prigione chi aveva assunto psilocibina era meno propenso a delinquere), tuttavia, si rivelarono metodologicamente deboli (gli stessi sperimentatori, nel corso delle sperimentazioni, assumevano le sostanze). Espulsi dall’università, intraprendono una deriva mistica, il discorso di Leary si impregna di metafore mistico-ufologico-cosmogoniche. Viene perfino arrestato, per banale possesso di marjuana, e definito da Nixon (non uno stinco di santo) “l’uomo più pericoloso d’America” (mettiamoci nei panni dei giovani americani mandati a morire in Vietnam, chi era, l’uomo più pericoloso d’America, se non il comandante in capo?).

Malgrado i buoni propositi, Leary getta cattiva luce su Lsd e simili.

Altri sperimentatori, in quegli anni, sono più prudenti. In Messico Salvador Roquet dalla fine dei Cinquanta studia gli effetti della mescalina (il principio attivo dei cactus Peyote e San Pedro). A differenza di tutti gli altri che si occupavano di Lsd, non solo lui è un etnobotanico, ma proviene dalla stessa cultura indigena messicana che da secoli ha consuetudine con funghi magici e cactus psichedelici. Inizia a sperimentare Lsd e ketamina, psilocibina e Salvia divinorum, Peyote e ayahuasca. Ma a differenza del metodo Leary, Roquet e la sua equipe non assumono mai gli psichedelici nel corso delle sperimentazioni. Il suo schema era: 10-12 sedute in un anno, ogni seduta dalle 8 alle 20 ore. L’esperienza di ogni seduta si poteva schematicamente suddividere in quattro fasi. Nella prima accadono le distorsioni sensoriali, nella seconda le visioni mistiche, nella terza emerge l’ansia associata a ricordi infantili, dunque angoscia per la catarsi dovuta alla dissoluzione della vecchia personalità con ricostituzione di un nuovo sé, nella quarta fase si organizza un nuovo modo di pensare e di essere.

Stanislav Grof a quel tempo assiste alle sedute di Roquet, e crede fermamente nelle potenzialità dell’Lsd (“usato responsabilmente e con la dovuta cautela”, sostiene, “potrebbe essere per la psichiatria ciò che il microscopio è stato per la medicina e il telescopio per l’astronomia”), riprende le quattro fasi descritte da Roquet, e le suddivide in: una fase estetica (visioni coloratissime, senza valenza terapeutica), una fase psicodinamica (ricordi del passato, traumi),una fase perinatale (sensazione analoga al parto, come si rinascesse, si assumono posture neonatali) e una fase transpersonale (quella della ego dissolution, dove la coscienza personale si fonde col cosmo, con esperienze potenti di telepatia, bilocazione, viaggi nel tempo, incontri con divinità, defunti). Quando l’Lsd viene reso illegale, e posto nella tabella 1 degli stupefacenti, Grof ripiega su metodi alternativi per procurare l’ego dissolution, e inizia a lavorare sul respiro (il metodo della respirazione olotropica).

A questo punto l’Lsd inizia la parabola che lo porta a non essere più un farmaco. Comincia, dal 1966, una campagna mediatica che demonizza la molecola di Hofmann. Il New York Times racconta di una bambina resa selvaggia da (forse) una zolletta di zucchero all’Lsd. Il Time titola: Epidemia di menti acide. Gli allucinogeni, dopo le sperimentazioni selvagge di Leary, vengono usati in massa nei campus. Facile immaginare che l’assunzione non sia oculata (voglio dire: né per dosaggio né per utilizzo di prodotto puro), ma selvaggia appunto, e spesso in poliassunzione con altre sostanze. Nessuna attenzione al setting di utilizzo (che è decisivo, nell’assunzione degli psichedelici, perchè il setting condiziona fortemente gli effetti). Dunque ecco l’enfasi mediatica sui bad trip e su quel tipo di permanenza di allucinazione a lungo termine, possibile ma molto rara, oggi definita HPPD, hallucinogen persisiting perception disorder (disturbo persistente della percezione da allucinogeni).

Ricapitolando. Fino al 1967 l’Lsd è ancora legale. Ma per questa escalation di demonizzazione mediatica, nel 1966 negli USA viene inserito nella lista dei narcotici, e nel 1968 ne viene vietato l’utilizzo per ricerca. Inizia una reazione a catena. L’ECOSOC (Economic and social council delle Nazioni Unite) ne chiede la limitazione ai soli ambiti di ricerca e terapia. Nel 1971 i rappresentanti dei paesi dell’ONU, riuniti a Vienna, stipulano la Convenzione sulle sostanze psicotrope, che dà una sterzata alquanto proibizionista. Vengono formulati quattro elenchi di sostanze. Nella prima tabella, vi sono i principi attivi più pericolosi (attualmente 62), dove insieme a anfetamine cannabis ed ecstasy vengono inseriti gli allucinogeni Lsd e psilocibina. Nella seconda tabella (oggi) vi sono 17 sostanze, prodotte per lo più da aziende farmaceutiche, tra queste la morfina. Nella terza tabella sono 9 i principi attivi, tra cui i barbiturici. Nella quarta abbiamo 62 sostanze, tra cui le benzodiazepine.

Ecco che gli allucinogeni vengono a essere ritenuti più pericolosi della morfina e dei barbiturici.

Non rientrano invece, nella Convenzione sulle sostanze psicotrope, sostanze sporche (ovvero composte da diversi principi attivi) quali l’ayahuasca o i funghi magici interi.

E così, nel 1971, Lsd e simili, da farmaci a dir poco promettenti, diventano droghe le più temibili.

Il libro di Codignola, nella seconda parte cambia verso. Racconta come, dagli anni 70 a oggi, in modo carsico, queste molecole tornano a essere considerate promettentissimi farmaci.

Ritorniamo in Svizzera, là dove con Hofmann tutto ha avuto inizio. A Soletta c’è uno psichiatra, si chiama Peter Gasser. Da quando l’Lsd da farmaco viene declassato a droga, Peter Gasser è stato il primo al mondo a poterlo utilizzare (e studiare) di nuovo. Nel 1985 è tra i fondatori dell’Associazione medica svizzera per la terapia psicolitica. Nel 1988 l’ufficio federale di sanità pubblica autorizza Gasser, insieme a altri quattro psichiatri, a sperimentale Lsd e MDMA (ecstasy). L’Lsd torna, per quattro anni e mezzo, a essere un farmaco. Poi il governo cambia e l’Lsd viene di nuovo vietato. Ma intanto, per quei “sessanta mesi felici”, cinque specialisti hanno potuto somministrarlo a 171 pazienti affetti da disturbi della personalità, dell’adattamento, disturbi affettivi, del comportamento alimentare, dipendenze, deviazioni sessuali. Somministrano 125 mg di MDMA oppure Lsd (posologia compresa tra 100 e 400 microgrammi, per conseguire un effetto intermedio tra quello psicolitico di Leuner e quello psichedelico di Grof). I risultati? Nel novanta per cento dei pazienti c’è un cambiamento esistenziale profondo. Snza effetti avversi (tra i pazienti). Tra i medici sperimentatori, invece, uno dei cinque prende la via mistica, intraprende il destino di Timothy Leary insomma. E’ Samuel Widmer, che fonda una comune, la Comunità dei boccioli di ciliegio, dove vive con due mogli e con un paio di centinaia di adepti. Gasser, invece, continua a lavorare privatamente. Non può più prescrivere Lsd, ovviamente, ma non si arrende al divieto. Nel 1996 chiede di poter sperimentare la psilocibina sui depressi gravi. Non viene autorizzato. Ci riprova nel 2000. Ancora niente. Nel 2007 ottiene di poter somministrare, in modalità compassionevole, Lsd a malati terminali. I risultati sono molto buoni.

Qualcosa è cambiato. Anche in altri paesi le cose si muovono. Dal 2010 anche negli USA si inizia, di nuovo, a sperimentare gli allucinogeni. Charles Grob, psichiatra dell’università di Baltimora, sperimenta la psilocibina a dosi molto basse (20-30 mg), con risultati soddisfacenti. Stephen Ross, psichiatra di New York, somministra psilocibina a malati terminali. Anche in questo caso le persone stanno meglio. E così via. Altri sperimentatori. Altri studi. Altre ricerche.

A questo punto Codignola ci presenta un personaggio incredibile, si chiama Amanda Feilding, è una contessa, erede degli Asburgo, è stata un’adolescente inquieta che dopo aver lasciato le scuole è andata in Medio Oriente a cercare se stessa. Torna, e si fissa sulla trapanazione del cranio, per espandere la coscienza. E si fa davvero trapanare, il cranio, mica no, perché l’idea è che se il sangue fluisce più liberamente, senza la costrizione cranica, la coscienza riesce a espandersi. Si candida al parlamento inglese, sia nel 79 che nell’83, con un solo scopo: ottenere una legge che renda legale e rimborsabile la trapanazione del cranio. State pensando che non ha tutte le rotelle al posto. In effetti, pure a me, sembrerebbe. Tuttavia, nel 1996, fonda la Foundation to Further Counsciousness, che diventa poi la Beckley Foundation, il cui scopo principale è sostenere la ricerca in materia di sostanze psicoattive. Inizia a collaborare con l’Imperial College di Londra e con David Nutt. Amanda Feilding è convinta che assumere Lsd aumenti la capacità di problem solving. Migliori le prestazioni cognitive. Ne è persuasa non solo per la sua personale esperienza (pare che quando giochi a bridge sotto Lsd non abbia rivali), ma alla luce della crescente diffusione del microdosing tra i geniali pensatori della Silicon Valley. E così, decide di finanziare uno studio per dimostrare che piccole dosi di Lsd (meno di 50 microgrammi, da assumere due volte a settimana, per un mese) migliorano le prestazioni cognitive.

Si chiama James Fadiman, e si professa il massimo esperto al mondo di microdosing di Lsd. I suoi primi studi non sono metodologicamente buoni. D’altra parte, è un allievo di Timothy Leary, e forse ne eredita anche i limiti. Somministra mescalina in dose di 200 milligrammi a ingegneri, architetti, matematici, dimostrando un aumento della loro creatività. Tuttavia omette, nella descrizione dello studio, che insieme alla mescalina ha somministrato un’anfetamina e una benzodiazepina, inficiandone il risultato. Invece lo studio che pubblica nel 2015, su persone che hanno assunto microdosi di Lsd una volta ogni quattro giorni, ottenendo una stabilizzazione dell’umore, pare buono. Il suo metodo si diffonde, fa presa in una scrittrice moglie di un premio Pulizer, Aylet Waldman, che pubblica nel 2017 A really good day: how the microdosing made a mega difference in my mood, my marriage, and my life. Convinta da Fadiman, inizia la cura, e la sua vita cambia. La depressione sparisce. Ecco che il microdosing, da espediente per migliorare l’intelligenza e la creatività, diventa antidepressivo e stabilizzatore dell’umore. Sembra avverata la profezia di Huxley: il microdosing di Lsd somiglia al Soma che lui descrive nel Il mondo nuovo.

Amanda Feilding si lega a David Nutt. Chi è David Nutt. Classe 1951. Neurofarmacologo. Debutta nel 1982, con un primo studio importante sulle benzodiazepine. Sappiamo ormai, anche grazie a lui, che queste molecole hanno un effetto tranquillante perché si legano al recettore del GABA, che è un neurotrasmettitore inibitorio, e dunque inibiscono, ecco perché sedano, calmano, levano l’ansia. Dal 2009 dirige la cattedra di neuropsicofarmacologia dell’Imperial College. Nel 2007 su The Lancet pubblica un articolo dove domanda quale sia il criterio per definire se una sostanza è pericolosa o no. Sul Journal of Psycopharmacology pubblica il caso di una ragazza affetta da equasy. Una sindrome mai sentita prima. Un danno cerebrale da equasy, scrive. Racconta di centinaia di persone che, ogni anno, conseguono una cerebropatia da equasy, bisognerebbe inserirlo in tabella 1, l’equasy, insieme a Lsd e psilocibina. Invece (la faccio breve) equasy sta per equine addiction syndrome, quella voglia compulsiva di andare a cavallo. Si sa che da cavallo a volte si cade, e se cadi da cavallo facile che ti rompi la testa. Solo negli USA, ogni anno, più di diecimila persone riportano traumi cerebrali da caduta da cavallo. Lo stesso si potrebbe dire per boxe, rugby, sci, free climbing, andare in moto, fare ciclismo, e così via. Per cui, prosegue Nutt, nel demonizzare certe sostanze grande è stato il ruolo dell’informazione, appena accade un incidente da ecstasy o Lsd giù i titoloni, delle centinaia di decessi da paracetamolo, o da benzodiazepine, niente. Sono troppi, non fa notizia.

Il risultato di questa provocazione (che non la fa Marco Pannella, per dire, ma il prestigioso neurofarmacologo dell’Imperial College) è una richiesta di scuse, da parte della segretaria di stato per gli affari interni, nei confronti delle famiglie delle vittime di ecstasy. Sembra di sentire Giovanardi. O Maurizio Gasparri. Politici che non sanno un accidenti di farmacodinamica, eppure sproloquiano su quale sia il male assoluto per i giovani.

Nutt non si scusa. E perde il posto di capo dell’Advisory Council of the Misuse of Drugs. Invece rilancia. Nel 2010 pubblica su The Lancet una sorprendente analisi sulla reale pericolosità delle sostanze. La più pericolosa è l’alcol, subito dopo l’eroina, poi il crack poi la metanfetamina poi la cocaina poi il tabacco quindi anfetamine e cannabis. In fondo alla classifica l’Lsd e la psilocibina dei funghi magici.

Ma queste provocazioni di Nutt sono controproducenti, nel 2016 viene approvata la nuova legge inglese sulle sostanze psicoattive, lo Psychoactive Substances Act. Dove, per non sbagliare, si proibisce “qualunque sostanza per uso umano capace di produrre effetti psicoattivi”. Tutte. Salvo le sostanze già legali quali alcol, tabacco, nicotina, caffeina, alimenti vari. Tutto vietato, a eccezione della più pericolosa delle droghe: l’alcol.

Nello stesso anno però, a neutralizzare questo provvedimento, che azzera qualunque prospettiva di ricerca sulle sostanze psicoattive nel Regno Unito, inizia una serie di rigorose pubblicazioni, da parte di un allievo di Nutt: Robin Carhart-Harris. Non è un medico, ma uno psicologo, ha letto Stanislav Grof, Realms of the human unconscious: observations from Lsd research, e si è proposto di indagare la coscienza con tecniche di neuroimaging. Inizia a fotografare il cervello sotto psilocibina, sottopone dieci persone a due RMN funzionali, prima e dopo l’iniezione di 2 mg di psilocibina. Cosa cambia nei cervelli? Si attivano straordinariamente le aree della memoria: zone limbiche, striatali e corteccia prefrontale mediale, aree visive e sensoriali si attivano proprio mentre i volontari riferiscono visioni e ricordi. Carhart-Harris passa poi a un esperimento con Lsd. Venti volontari sani, ricevono 75 mg di Lsd o di placebo, in vena. Registra i cambiamenti cerebrali con RMNf e altre tecniche di imaging cerebrale. Nel 2016, in aprile, pubblica lo studio dove rivendica di aver scoperto il bosone di Higgs delle neuroscienze.

Sì ma cosa significa tutto ciò? Carhart-Harris e Nutt provano a spiegarlo in questi termini. Il cervello è sottoposto a un’organizzazione gerarchica. Come fosse uno stato. Alcune aree rappresentano dei centri di comando rispetto ad altre. I centri di comando, le alte sfere, i vertici sarebbero il talamo, la corteccia posteriore cingolata, la corteccia prefrontale mediale. Aree di controllo e supervisione costituite, perlopiù, da neuroni serotoninergici. E l’Lsd si lega soprattutto ai recettori serotoninergici 5HT2A. Queste aree di controllo vengono definite DMN (Default Mode Network), la cui attività è, di norma, inibitoria. Un cervello, per scegliere bene, non può tener conto delle migliaia di stimoli che riceve. Lsd e psilocibina sostituiscono la serotonina nel legame ai recettori serotoninergici delle aree DMN, aboliscono l’inibizione che la serotonina determina, slatentizzano la possibilità di una iper-percezione, danno vita a un cervello anarchico, a una mente entropica, dove domina il caos. Come uno stato senza più governo, ovvero una società anarchica, dove tutte le aree cerebrali, tutti i neuroni, si connettono con aree mai incontrate prima.

E’ la cosiddetta ego dissolution.

Il risultato di questa rivoluzione, rispetto all’ordine costituito mentale però, non è il caos bensì una nuova organizzazione, non più disfunzionale, non più basata sui vecchi meccanismi.

L’Lsd e la psilocibina fanno ciò che neppure vent’anni di psicoanalisi sono capaci di fare. Davvero una sorta di psicoanalisi subitanea. E penso non solo al tempo risparmiato, ma pure al denaro.

Le neuroimmagini di Carhart-Harris dimostrano che tutto quanto di stupefacente il soggetto (che ha assunto Lsd o psilocibina) esperisce, ovvero di appartenere a un diverso universo, dipende dalle molteplici, nuove, diverse connessioni che nel cervello si sono formate dopo l’interruzione del DMN.

Scrive Codignola che “i neuroni, sganciati dalla rigidità delle vie obbligate, diventerebbero entità cosmopolite, libere e desiderose di comunicare le une con le altre, capaci di esprimere livelli di immaginazione creativa molto più complessi rispetto al normale e di modificare per sempre la percezione di sé e della vita”.

Ricapitolando. Cosa dimostra, nei suoi studi con la RMNf, Carhart-Harris? Nell’ordine: che con Lsd si attivano neuroni serotoninergici, e grazie a loro accade l’ego dissolution, e quanto maggiore è il dosaggio di Lsd tanto maggiore è l’entropia cerebrale che determina e quindi l’ego dissolution e dunque maggiore sarà il cambiamento di approccio all’esistenza che ne deriva.

Un dato che emerge, oltre alle dispercezioni, è una notevole attivazione semantica. Al cervello affluiscono più parole, perché non c’è il filtro del DMN. Chiaro che l’aumento della creatività verbale torna buona in una eventuale psicoterapia associata a Lsd o psilocibina. Con Lsd, inoltre, aumentano le sinestesie. Aumenta la suggestionabilità. Quindi possiamo immaginare che aumenti la suggestionabilità a quel che emerge nel corso di un colloquio psicoterapico. Diventa, in ogni caso, un potente acceleratore dei tempi della psicoterapia.

Nel 2016 viene pubblicato su The Lancet uno studio sul ruolo della psilocibina nella depressione. Due dosi, di 10 e 25 mg a distanza di una settimana, hanno un effetto antidepressivo nei due terzi dei pazienti. Secondo Carhart-Harris, ciò avviene per l’effetto di inibizione della psilocibina sul DMN. Ciò che non sappiamo è: perché Lsd e psilocibina, legandosi ai recettori 5HT2A risultano tanto più potenti dell’agonista naturale, ovvero della serotonina?

La risposta prova a darla il farmacologo Bryan Roth, che è riuscito a fotografare l’Lsd legato al recettore serotoninergico, e ha visto che la sua durata d’azione è davvero lunga: una dozzina di ore se non giorni se non per sempre. Ciò perché il recettore serotoninergico, appena aggancia l’Lsd, lo ricopre con un lembo, lo inguaina, tenendolo fermo per ore o giorni. Un comportamento assolutamente raro. Ciò confermerebbe che il microdosing funziona, proprio perché bastano dosi molto basse per ottenere un effetto antidepressivo.

Direi che per ora può bastare così. Negli anni 70 c’è stato questo switch. Dalla sostanza di vita, alla sostanza di morte. Si chiudono i rubinetti dell’Lsd, che viene posto in tabella 1, tra le droghe più pericolose. E si aprono (sul mercato dello spaccio) i rubinetti dell’eroina. Lei sì, la sostanza che uccide.

E’ venuto il momento di rivalutare Lsd, psilocibina, mescalina.

Propizio, delle volte, è avere libri da leggere. Leggeteli entrambi. Due libri che si legano. Che mi istigano a continuare la loro narrazione. Una narrazione su due sostanze temutissime, narrazione iniziata da una storica, proseguita da una chimica, e chi meglio di uno psichiatra, che è un mezzo chimico e un mezzo storico la può continuare?

Mentre leggevo i due libri ci pensavo. Non sono né uno storico né un chimico. Uno psichiatra, in effetti, è uno storico mancato, uno storico imperfetto, uno che non conosce mai bene la storia delle persone che incontra né conosce la sua storia, la storia di se stesso agente della psichiatria, voglio dire, in questo senso è un commesso un po’ stupido che si incarica di normalizzare per quel che può la minoranza deviante, e però lo fa coi farmaci, e dunque è per forza una specie di chimico, ma un chimico imperfetto, che non conosce bene la chimica, non conosce il meccanismo d’azione dei farmaci che prescrive, li dà ex aiuvantibus perché non conosce come funziona quel cervello che con quei farmaci bersaglia e cerca di cambiare e tutto sommato cambia, solo che non sa come. Quindi io sono meno di uno storico e meno di un chimico però mezzo più mezzo non sempre fa uno ma può far due o può far pure tre. Non lo dico io lo diceva Basaglia (e no, non lo rinnego né lo dimentico, il mio nume, solo perché adesso ho deciso di tornare a occuparmi di farmaci) citando Gramsci, che il nuovo intellettuale sarà sostenuto non più dal pessimismo della ragione (gli antipsicotici) ma dall’ottimismo della volontà (l’Lsd), e con l’ottimismo della volontà mezzo più mezzo può far due o anche tre. Voglio dire che questo specialista imperfetto incompleto indefinito monco che sono proverà a continuare la narrazione di queste due straordinarie narratrici, diverse ma efficacissime e che hanno pubblicato, lo scorso anno, due libri fondamentali. Propizio è stato avere questi due libri da leggere. Propizio è avere “un interesse ad agire”. Adesso lo sapete, dove andrà a parare il mio prossimo saggio narrativo (à la Carrère, naturalmente).

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Resistenza: una lotta dimenticata e una vittoria tradita https://www.carmillaonline.com/2018/08/04/resistenza-una-lotta-dimenticata-e-una-vittoria-tradita/ Sat, 04 Aug 2018 21:12:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47740 di Armando Lancellotti

Cecco Bellosi, Sotto l’ombra di un bel fiore. Il sogno infranto della Resistenza, Milieu edizioni, 2018, pp. 239, € 16,90

Il senso complessivo ed il messaggio principale del libro di Cecco Bellosi stanno entrambi già nel sottotitolo – Il sogno infranto della Resistenza – del suo romanzo – Sotto l’ombra di un bel fiore – e nella breve Introduzione, in cui l’autore espone ed argomenta il tema del tradimento della lotta partigiana, di una guerra cioè che, vittoriosa sulle montagne, nella campagne e nelle città italiane a nord della Linea [...]]]> di Armando Lancellotti

Cecco Bellosi, Sotto l’ombra di un bel fiore. Il sogno infranto della Resistenza, Milieu edizioni, 2018, pp. 239, € 16,90

Il senso complessivo ed il messaggio principale del libro di Cecco Bellosi stanno entrambi già nel sottotitolo – Il sogno infranto della Resistenza – del suo romanzo – Sotto l’ombra di un bel fiore – e nella breve Introduzione, in cui l’autore espone ed argomenta il tema del tradimento della lotta partigiana, di una guerra cioè che, vittoriosa sulle montagne, nella campagne e nelle città italiane a nord della Linea Gustav e della Linea gotica, ha conosciuto poi una sostanziale sconfitta politica subito dopo il 25 aprile e la Liberazione del paese dal fascismo e dall’occupazione nazista.

Nelle considerazioni iniziali ed introduttive, così come in tutto il romanzo, risuona l’eco delle analisi di Claudio Pavone, tanto quelle che articolano la Resistenza sui tre piani della “guerra patriottica”, “di classe” e “civile” e che a inizio anni Novanta – all’uscita del suo Una guerra civile – hanno suscitato soprattutto a sinistra accese discussioni, poi ampiamente superate, quanto quelle che dettagliano lo scontro “civile” all’interno del Paese dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45 come una contrapposizione tra la continuità con il passato e la rottura con esso, tra chi avrebbe desiderato mutare in profondità le strutture economico-sociali e la basi giuridico-politiche di un’Italia finalmente repubblicana che usciva dal ventennio fascista, dai suoi crimini e dalle sue guerre e coloro che, abbandonato il regime al suo ineluttabile destino, auspicavano una sostanziale continuità tra il vecchio e il nuovo Stato.

Per Cecco Bellosi, come per Pavone, la continuità con il passato fascista e la conservazione dello Stato pre-repubblicano hanno prevalso nettamente sulle istanze di rinnovamento e di trasformazione di cui il movimento partigiano si era fatto portavoce e per le quali aveva coraggiosamente combattuto. E perché sia successo questo lo si può spiegare con le stesse parole di Mussolini, che – riporta l’autore – aveva detto «per una volta non a torto: “Io non ho creato il fascismo, l’ho solo tratto dall’inconscio degli italiani”» (p.9).

In sostanza, per indiretta ed inconsapevole ammissione del suo duce, il fascismo sarebbe “l’autobiografia della nazione”, per dirla alla maniera di Piero Gobetti, la sintesi delle sue storiche malattie, che purtroppo non sono state sanate dal passaggio del Paese attraverso la lotta partigiana, ma si sono conservate per poi manifestarsi sotto diverso aspetto sintomatico nella storia repubblicana. Il fascismo – riflette Bellosi – «in sonno, ma mai estirpato, giace nel ventre molle della gente fino a quando gli apprendisti stregoni lo risvegliano», come può accadere ancora oggi in Italia, in «un Paese senza dignità e senza memoria» (p. 9).

E quello della memoria è uno dei grandi temi del romanzo di Cecco Bellosi, che ricostruisce e narra le vicende delle formazioni partigiane delle Brigate Garibaldi nell’area dell’Alto Lago di Como ed in particolare le cruciali giornate dei fatti di Dongo, dell’arresto e della fucilazione di Mussolini, dei gerarchi di Salò e della Petacci. E come spesso succede per i grandi eventi della storia, le molteplici versioni dell’accaduto non coincidono, talvolta addirittura divergono, talaltra si intrecciano e si confondono, soprattutto quando la memoria storica è in stretta correlazione con la narrazione politica che si vuole dare della realtà. Il libro che Cecco Bellosi scrive in forma di romanzo intende pertanto fornire un contributo alla ricostruzione dei fatti e delle vicende della Resistenza nella regione dell’Alto Lago di Como e lo fa partendo dalla ferma convinzione che siano soprattutto le memorie dirette, i racconti e le parole dei protagonisti a costituire il materiale più autentico con il quale ricostruire la cornice e il quadro del passato storico, per ovviare tanto alle storture di letture ideologicamente prevenute e tendenziose o semplicemente conformiste, quanto all’ufficialità cattedratica della storiografia accademica, rispetto alla quale Bellosi in più punti del libro tende a voler segnare le distanze. E forse eccessivamente, perché se è pur vero che il ricordo del vissuto di chi la storia l’ha fatta ha un valore prezioso, quasi inestimabile, è altresì evidente che il lavoro dello storico, per punto di osservazione, metodo di analisi e finalità di ricerca, sia e debba opportunamente essere altro dalla memoria diretta di chi fu attore di un evento storico, anche grande e di cruciale importanza come la lotta partigiana in Italia.

Sotto l’ombra di un bel fiore è un libro che si colloca in una posizione intermedia tra la narrazione e la ricerca storica: è un romanzo che per ricchezza di dati, per meticolosità di osservazione e ricostruzione dei fatti e per profondità di analisi assomiglia a un saggio di storia; ma un saggio reso coinvolgente ed avvincente dalla forma del romanzo in cui è scritto e dall’epica eroica delle vicende narrate.

La parte principale del libro è dedicata al ricordo e alla ricomposizione di momenti fondamentali della lotta partigiana attraverso le memorie e le conversazioni, ad anni di distanza dai fatti e quando ormai disillusione e frustrazione politiche si sono sostituite agli entusiasmi e alle speranze di un tempo, di due attori di quelle vicende: Pedro e Paolo. Pedro, ovvero Pier Francesco Luigi Bellini delle Stelle, nobile toscano, ma combattente con i comunisti della 52^ Brigata Garibaldi sulle montagne attorno al lago di Como e Paolo, nato a Como nel 1911, lavoratore emigrato in Svizzera come tipografo, antifascista, attivo negli ambienti del socialismo libertario italiano in Svizzera, rientrato in Italia dopo la Liberazione. I due in comune, oltre all’amicizia che li unisce, hanno soprattutto un obiettivo, quello di onorare la memoria, attraverso l’attenta ricostruzione dei fatti, di Luigi Canali, ovvero il partigiano comunista Neri – amico d’infanzia di Paolo  e capitano della stessa 52^ Brigata Garibaldi in cui militava Pedro – uno dei leader della Resistenza nella regione di Como e protagonista sia delle convulse giornate che hanno portato alla cattura e alla fucilazione di Mussolini sia di un’oscura vicenda di cui tragicamente ed ingiustamente è rimasto vittima assieme a Gianna, ovvero Giuseppina Tuissi, staffetta della 52^ Brigata e compagna del capitano Neri.

Neri e Gianna, catturati dall’Ovra e torturati, dopo l’evasione del primo e la scarcerazione della seconda, sono sospettati, ingiustamente, dai loro stessi compagni e dal partito comunista di tradimento; reintegrati nella Resistenza, partecipano ai fatti di Dongo, ma nel frattempo il Tribunale popolare del Comando delle Brigate Garibaldi ha emanato per Neri una sentenza di morte. Essa verrà eseguita agli inizi di maggio e alla fine dello stesso mese anche Gianna finirà uccisa – come Neri – per mano dei suoi stessi compagni di militanza politica e di lotta partigiana. Bellosi ricostruisce nei minimi particolari l’insieme delle vicende, sia quelle relative alla fucilazione di Mussolini sia in particolare quelle riguardanti il caso di Neri e Gianna, avanza le proprie interpretazioni dei fatti e ricompone il quadro, molto intricato e ancora oggi per nulla chiaro, dei differenti punti di vista e delle letture di entrambi gli episodi.

Ciò che complessivamente emerge dalle riflessioni di Bellosi è che della Resistenza, delle sue pagine gloriose come di quelle meno limpide, fin da subito siano state elaborate narrazioni distorte e si sia fatto un uso politico sfavorevole alla Resistenza stessa, teso a gettare fango o comunque a screditare e a dimenticare velocemente l’impegno ed il sacrificio, le battaglie, le speranze e i progetti dei partigiani italiani. Scrive Bellosi: «Nella guerra di Liberazione, chi ha vinto ha perso, chi ha perso è tornato, chi è stato a guardare ha conservato il potere di sempre» (p. 48). E a dare il via a questa tragica e venefica eterogenesi dei fini è stata la cosiddetta “amnistia Togliatti”, che Bellosi considera attraverso lo stupore e l’indignazione di Pedro e Paolo, che assistono alla mortificante sconfitta dei loro ideali in un’Italia in cui i fascisti di un tempo, svestita la camicia nera, riprendono le loro posizioni di potere e comando come se nulla fosse accaduto. L’ennesima pagina – la più grave – di trasformismo politico italiano, di tradimento degli ideali resistenziali di rinnovamento politico e morale del Paese, di suicidio della memoria storica italiana.

Nel viaggio di Bellosi attraverso i venticinque anni successivi alla guerra che hanno visto seccarsi e disperdersi inesorabilmente i fertili semi gettati dalla lotta partigiana, segue il momento del processo di Padova del 1957, quello per il presunto furto dell’“oro di Dongo”: un procedimento giudiziario i cui fini politici – screditare complessivamente la lotta partigiana, insinuare la tesi della differenza tra una Resistenza buona e una cattiva (quella comunista), individuare facili capri espiatori – sono evidenti non solo per lo storico che studia le carte a distanza di tempo, ma lo erano anche per i contemporanei, soprattutto per i partigiani che dovevano subire l’ennesima onta del disconoscimento del loro operato.

Il libro si conclude con l’analisi di due momenti della storia italiana, milanese, apparentemente diversi e cronologicamente distanti quarant’anni, che Cecco Bellosi però collega alla luce dell’intuizione visionaria di Jorge Louis Borges, per cui «sono i posteri a creare gli antenati» (p. 212): la strage di Milano del 12 aprile 1928, in piazza Giulio Cesare, all’ingresso della Fiera Campionaria e in occasione del passaggio del convoglio reale, in cui morirono nell’immediato e nei giorni successivi venti persone e la strage di piazza Fontana, a Milano, del 12 dicembre 1969, con i suoi diciassette morti ed ottantotto feriti. Dei due tragici episodi il più noto è senz’altro il secondo, mentre di quello di novant’anni fa – forse il primo esempio di quello stragismo come arma politica di Stato che l’Italia repubblicana ha ampiamente conosciuto – si sa pochissimo. Quasi certamente furono ambienti dissidenti e frondisti del fascismo repubblicano milanese e apparati dello Stato e della Polizia, attraverso l’uso di infiltrati negli ambienti dell’antifascismo, soprattutto giellista, ad organizzare la strage. Un atto provocatorio poi ampiamente sfruttato, anche attraverso indagini depistanti, per accusare e screditare gli antifascisti, in Italia e all’estero, per perseguitare, arrestare, incarcerare e torturare centinaia di oppositori, in particolare comunisti, socialisti, anarchici, giellisti, repubblicani che finirono nelle grinfie del Tribunale speciale, dell’Ovra e della MVSN.

E proprio per questo, conclude Bellosi, si può dire che «Tra la strage di Piazza Giulio Cesare del 1928 e quella di Piazza Fontana corre il legame tra il passato remoto e il futuro anteriore, in cui il futuro anteriore è il modello del passato remoto» (p. 212). Insomma per comprendere più a fondo la strage di Piazza Giulio Cesare è utile partire da quella di Piazza Fontana di quarant’anni dopo. A conferma di quell’idea che attraversa tutto il romanzo di Cecco Bellosi, per cui il fascismo – nato nel 1919, salito al potere e divenuto regime per oltre un ventennio, caduto per ben due volte nel 1943 e nel 1945 e sconfitto dalla Resistenza – in realtà ha continuato in modo carsico ad attraversare la storia e la vita della nostra società e del nostro Paese, costituendo un paradigma politico di cui forse non abbiamo ancora concluso di conoscere tutte le possibili nefaste declinazioni.

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Sergio Bianchi, La gamba del Felice https://www.carmillaonline.com/2014/05/16/sergio-bianchi-gamba-felice/ Fri, 16 May 2014 21:45:39 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=14822 La_gamba_del_felicedi Girolamo De Michele

Sergio Bianchi, La gamba del Felice, Derive Approdi, Roma 2014, pp. 128, € 12.00 (prima edizione Sellerio, Palermo 2005)

“Una mattina sono in pollaio a dare il pastone alle galline e sento gridare forte. Guardo giù in strada e vedo il Giacomino con la sua divisa nera da messo comunale correre su per la salita con un pacco in mano. Tutte le donne sono uscite in strada a vedere chi gridava a e anche mia madre è uscita sul balcone. Il Giacomino si è fermato davanti al mio cancello [...]]]> La_gamba_del_felicedi Girolamo De Michele

Sergio Bianchi, La gamba del Felice, Derive Approdi, Roma 2014, pp. 128, € 12.00 (prima edizione Sellerio, Palermo 2005)

“Una mattina sono in pollaio a dare il pastone alle galline e sento gridare forte. Guardo giù in strada e vedo il Giacomino con la sua divisa nera da messo comunale correre su per la salita con un pacco in mano. Tutte le donne sono uscite in strada a vedere chi gridava a e anche mia madre è uscita sul balcone. Il Giacomino si è fermato davanti al mio cancello e gridava come un matto La gamba la gamba è arrivata la gamba del Felice”.

Inizia così il romanzo di formazione di Sergio Bianchi. Una volta allacciata al moncherino del padre di Sergio – il Felice, per l’appunto –, questa gamba uscirà dall’orizzonte del lettore: del suo portato di ingiustizie e silenzi sapremo solo al termine del libro, che si dipana attraverso piccoli bozzetti di un passato che Sergio Bianchi riesce con una scrittura attenta e controllatissima, a non rendere mai elegiaco né nostalgico: né Olmi né Bertolucci, da queste parti. Più che un vero passato, quello narrato in questa pagine è un tempo sospeso, colto nell’attimo in è ancora presente al narratore che lo rammemora, ma già sul punto di allungarsi verso il futuro dal quale viene rievocato.
Sul punto di abbandonare la Berlino natia dopo l’avvento del nazismo, Walter Benjamin affidò a una raccolta di ricordi, Infanzia berlinese, quello che non avrebbero mai potuto portargli via – compreso il segreto dell’origine del nazismo celato dentro la fola infantile dell’omino gobbo, il demone della sfortuna. Come il suo antecedente, anche questa infanzia lombarda troverà il proprio senso solo nella pagina che la conclude, e che rimanda alla biografia adulta dell’autore: che è editore, saggista, narratore (oltre che di questo romanzo, di racconti tanto belli quanto, purtroppo, sparuti1), ma anche voce narrante/narrata de Gli invisibili di Nanni Balestrini. E di Balestrini, della sua militante amicizia con l’autore, si trova un’eco importante nelle scelte stilistiche, in particolare nella resa dell’oralità del racconto attraverso l’abolizione di quasi tutta la punteggiatura: è, questo, un libro non solo da leggere, ma da declamare. Anche le ricette sparse nel racconto hanno una loro sensorialità e fisicità: gesti, sapori, aromi, ma anche pratiche, abitudini comportamenti. Al contrario della moda dei programmi di cucina, nei quali il cibo compare miracolosamente sui tavoli, senza che nulla sia dato sapere su come c’è arrivato, chi lo consumerà, quale storia ha la sua ricetta2.

Infanzia lombarda, s’è detto. Dunque di boschi e laghi, di giochi e di bande. Ma soprattutto, di come quest’infanzia, coi suoi luoghi e il suo tempo, viene poco a poco portata via, amputata: come l’amputazione senza anestesia che patì il Felice. C’è un tempo dell’infanzia che viene portato via dall’abbandono della scuola e dall’ingresso del “ragazzo problematico”, come lo direbbe oggi il chiacchiericcio psicopedagogico che nasconde i problemi dietro le etichette: “Vabbè bocciato logicamente e cosa vuoi fare se sei bocciato. Ho detto Basta vado a lavorare”. C’è un luogo dell’infanzia, con i suoi spazi aperti, che poco a poco viene portato via dai muretti e dalle recinzioni e dalle cancellate, e dal cemento: “Tutti facevano il cemento e cementavano dappertutto. […] Ai lati dei cancelli hanno alzato dei pilastri e sopra hanno messo i leoni di cemento le aquile di cemento i vasi e le palle di cemento. Finiti questi lavori sono cominciati i sottoscavi delle case per fare le cantine per aumentare le volumetrie delle case che così acquistavano più valore”. C’è il bosco, che il grande incendio porta via in una scena apocalittica, tra il risuonare delle campane e “il rumore di un rombo forte e continuo nell’aria e arrivavano ondate di calore che si sentivano sulla faccia sulle braccia sulle mani tanto che i vestiti sembrava che ti si appiccicavano addosso e prendevano fuoco anche loro”. E dopo l’incendio, “era come se era scoppiata la bomba atomica”, arrivano i reticolati di filo spinato, i cartelli che dicevano Proprietà privata divieto d’accesso, i camion e le ruspe e i lavoranti venuti da fuori paese, e le ville singole e a schiere, protette dalle recinzioni in cemento armato e dalle cancellate di ferro – “Così senza che ce ne siamo resi conto ci hanno portato via il bosco e l’hanno distrutto tutto”. C’è il Grande Castagno che era bellissimo e che viene abbattuto per costruire un palazzo.
TradateE c’è la fabbrica che dà lavoro al paese, che gli abitanti hanno ricostruito dopo la guerra e per la quale hanno lavorato come muli e che chiude perché c’è “la congiuntura”, “Ma come ci siamo ammazzati di lavoro per rimettere in piedi la fabbrica per quel pirla di padrone che mai neanche l’abbiamo visto una volta e adesso questo viene qua a dirci che ci chiude la fabbrica”, e dopo il calcio in culo la fabbrica viene svuotata e riconvertita, e gli operai convinti dal nuovo direttore della fabbrica a costruire officine e piccole fabbriche, o a comprare macchinari da installare a casa per lavorare a cottimo, “per i prestiti e le cambiali ci parlava lui con la banca mettendoci una buona parola. Il lavoro glielo garantiva lui perché così si costruiva l’indotto” – e con l’indotto la congiuntura, due parole che “mi facevano pensare a qualcosa che aveva a che fare con gli scarichi delle fogne”: il paese diventa una fabbrica diffusa, come si intuisca accade a tutta quella fitta cintura di paesi in “-ate” (Bollate, Tradate, ecc.) che prende il posto dei paesaggi dei Promessi sposi3. E il giovane Sergio comincia a comprendere il potere delle parole, la loro capacità di risignificare cose e persone all’interno dei recinti di senso tracciati dal potere. Diventato adulto e narratore, Sergio Bianchi cerca di restituire alla loro origine quei luoghi, quelle figure umane, quelle relazioni che la storia ha risignificato in altro modo: non fa altra cosa come editore, quando restituisce alla loro origine di classe i documenti di un decennio di rivolte di un’intera generazione che altri hanno relegato nel recinto del romanzo criminale.

Le relazioni, e con esse gli affetti: il paese che si ritrova a improvvisare la grigliata per l’arrivo della gamba del Felice, l’andar per bande nei boschi, con la tenda in cui dormire, a costruire la capanna sugli alberi, o a pescare nel lago. Le notti da contrabbando. Il primo localino, messo su con mezzi di fortuna – sedili di auto sfasciate usati come divani, juke box costruito in casa da quello bravo in elettrotecnica (come credete che fossero costruiti, i mixer delle prime radio libere?), e i dischi degli anni Sessanta, a far germogliare qualcosa che ancora non aveva parole. Altrove Sergio Bianchi riapre la “pattumiera della storia” per estrarne le vite condannate a cent’anni di solitudine, qui ne mostra l’origine materiale: da questi paesini, da questi dischi, da queste avventure marginali ai margini apparenti dell’Italia del boom economico, da questa istintiva e un po’ rurale avversione verso l’autorità, da quell’ingiustizia profonda che apprendiamo dalla lettera che giunge all’io narrante dieci anni dopo, nascerà quella rude razza pagana che calpesterà, nel decennio 1968-1977, le strade e le piazze di una metropoli diffusa che non ha più centro né periferia. Non erano mostri né marziani: ci voleva un romanzo di formazione per mostrarlo.

Il più bel romanzo erotico della letteratura italiana è fatto di tre sole parole: “La sventurata rispose“. Ne serviranno tante, di parole, durante e dopo gli anni della rivolta, per dire quello che c’era e quello che c’è stato. E ancora non sono finite. Per dire la rivolta che viene, che sta per venire, nel momento esatto in cui il romanzo si chiude, a Sergio Bianchi ne bastano, per l’appunto, non più di tre: “Allora mi incazzo“.
Chapeau! (e arrivederci al prossimo romanzo, speriamo presto).


  1. Ti devo dire una cosa importante ma molto importante importantissima, in Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, a cura di Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, 3 voll., volume I, Derive Approdi, Roma 2007, pp. 210-215; Ventinove ore e ventitré minuti, in Storia di una foto, a cura di Sergio Bianchi, Derive Approdi, Roma 2011, pp. 103-120 ( qui la recensione su carmilla). 

  2. Ecco una delle ricette della Pierina: “Le carpe si facevano in carpione. Mia madre le friggeva nell’olio le sgocciolava e le metteva da parte. Nell’olio caldo metteva la cipolla tritata un bel po’ di foglie di salvia un bicchiere di aceto mezzo d’acqua e le bolliva per due te minuti. Le carpe fritte le sistemava in una bella terrina bianca con sale pepe e gli versava sopra la marinata. Coperchio e al fresco dentro la credenza per mezza giornata”. Io l’ho cucinata sostituendo le carpe con gli sgombri. 

  3. Siamo, per l’esattezza, sull’altro ramo del lago di Como: in contiguità non solo geografica con le storie lecchesi narrate da Cecco Bellosi in Con i piedi nel lago

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Cecco Bellosi: Con i piedi nel lago https://www.carmillaonline.com/2013/07/18/cecco-bellosi-con-i-piedi-nel-lago/ Thu, 18 Jul 2013 21:55:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7744 di Girolamo De Michele cecco_bellosi_piedi

Cecco Bellosi, Con i piedi nell’acqua. Il lago e le sue storie, introduzione di Davide Van De Sfros, prefazione di Aldo Bonomi, Milieu Edizioni, Milano 2013, pp. 240, € 14.90

Ogni italiano con una minima infarinatura scolastica ha in mente almeno due luoghi letterari: una selva oscura nella quale s’è sperduto un viandante, e una corona di cime montuose che sembrano sorgere dalle acque d’un lago. Accanto ad altre immagini radicate, più che nel patrimonio letterario, nella dimensione dell’infanzia (una bottega dove un falegname intaglia un pezzo di legno, la grotta del presepe, [...]]]> di Girolamo De Michele cecco_bellosi_piedi

Cecco Bellosi, Con i piedi nell’acqua. Il lago e le sue storie, introduzione di Davide Van De Sfros, prefazione di Aldo Bonomi, Milieu Edizioni, Milano 2013, pp. 240, € 14.90

Ogni italiano con una minima infarinatura scolastica ha in mente almeno due luoghi letterari: una selva oscura nella quale s’è sperduto un viandante, e una corona di cime montuose che sembrano sorgere dalle acque d’un lago. Accanto ad altre immagini radicate, più che nel patrimonio letterario, nella dimensione dell’infanzia (una bottega dove un falegname intaglia un pezzo di legno, la grotta del presepe, mari e foreste di una Malesia fantastica), quei due luoghi sono parte dell’inconscio collettivo di una nazione: ne costituiscono alcuni tratti identitari, in certo modo. Molti, in diversi modi, hanno spiegato che in quella selva oscura ci siamo dentro tutti, perché la selva è la nostra stessa vita: per questo la riconosciamo ovunque. Diverso è il caso del paesaggio che apre due delle pagine più famose del capolavoro del Manzoni, che si avvia per l’appunto su quel ramo del lago di Como i cui monti bisognerà poi che Lucia saluti col suo addio: monti descritti in punta di pennello, con una precisione estrema, ma che quasi tutti finiamo col conoscere solo per averne letto la descrizione, e non per averli visti o frequentati. Né sappiamo molto dei laghée che quei luoghi popolano: nell’immaginario nazionale, la Lombardia è Milano, e su Milano, falsamente, si appiattisce come su un luogo comune.

È su quei monti, attorno a quei due ramo del lago, che Cecco Bellosi ha ambientato il suo Con i pedi nell’acqua. O meglio: sono gli abitanti che popolano quei luoghi ad essere venuti alla penna raffinata, colta ed elegante di questo quasi-esordiente che ha avuto, come i gatti, alcune vite da spendere e un po’ troppe cose da fare per dedicarsi alla scrittura, scegliendo una solo anagrafica terza età per rivelarsi narratore di razza e di spessore, inanellatore di vite e racconti pubblicati dalle Milieu edizioni, un’agguerrita casa editrice indipendente dal catalogo molto interessante.

Il fascino di queste storie di irregolari – “agli irregolari” è dedicato il libro: e a chi, se non?, verrebbe da chiosare – è la via tortuosa, le molte selve che al cittadino che non ne vede i segni e i sentieri possono apparire oscure e nelle quali ci si addentra con la consapevolezza che si sta entrando anche dentro un archetipo letterario; ed entrandoci lo si scopre tanto diverso dalla realtà quanto lo è dai tempi e dagli uomini narrati da Bellosi il nostro presente: un presente che ci viene da altri spacciato come immutabile, inevitabile, ineludibile.

cecco_b Con un incipit inaspettato, l’Autore [a sinistra] sceglie di introdurre il suo lettore non attraverso i sentieri degli sfrosatori, degli spalloni, dei contrabbandieri la cui epica, tra l’inizio del secolo breve e i primi lampi del Sessantotto, sarà il centro della narrazione: ma dalle cucine della scuola di chef di Arzegno, che «per buona parte del Novecento ha partorito la pattuglia dei migliori» (p. 15): il confronto con le cucine televisive odierne, con «le dilettanti allo sbaraglio che imperversano nelle case a tutte le ore dal digitale terrestre o dal satellite» (p. 33) passate senza colpo ferire dalla professione di sorelle minori a quella di riscaldatrici di surgelati o spadellatrici in quattro salti, mostra senza possibilità di mediazione la differenza tra due mondi inconciliabili. E ci fa capire, subito, che è in quell’altro mondo che stiamo per entrare, quando il lago non era ancora la meta dei nuovi ricchi: «Sullo scorcio di fine secolo si è passati velocemente, insinuando qualche debole traccia di cronaca rosa sui muri screpolati nei secoli, dallo stilista italiano all’attore americano al petroliere russo arricchito alla borsa nera della morte del comunismo: c’è chi il bandito lo interpreta al cinema, e chi lo fa per professione nella vita di tutti i giorni» (p. 75).

Mondo tosto, quello del lago e dei laghée. Al cui centro c’è il mestiere dello sfrosatore: un lavoro duro che può diventare un’arte senza addolcirsi, che consiste nel passare la frontiera per portare farina, caffè, tabacchi, zucchero, dadi, selvaggina. Attorno a quest’arte ci sono regole ferree, comportamenti che non ammettono deroghe o distrazioni, rituali:

«La partenza di ogni viaggio ripeteva un rito silenzioso: ognuno si costruiva con la iuta, la corda e l’ago i peduu d’invöi, le pedule rovesciate con la cucitura sotto il piede; poi ritagliava con il fulcìi le palene, le bretelle con cui si metteva in spalla il sacco ingombrante, spigoloso e odiato quando cominciava a picchiare con insistenza sulle gambe, marinandole nel dolore. Ma poi amato alla fine della corsa. Dentro, dai settecento pacchetti di sigarette per i meno abituati ai mille per i più forti. Come quel tronco di rovere del Bagaten, che i finanzieri provarono ad abbattere, senza riuscirci, anche sparandogli. Ognuno, nel momento della cucitura delle scarpe per il viaggio, stava solo con i suoi pensieri: la morosa, i figli, l’adrenalina che scendeva lentamente in ogni angolo del corpo. Poi, a un cenno, tutti in fila con passo attento, svelto, determinato. Ogni volta le pedule venivano costruite con sapienza da artigiani: gli spalloni dicevano di non volersele portare appresso perché nel passaggio di confine i doganieri potevano fare storie, ma la verità è che non volevano rinunciare al rito propiziatorio» (pp. 130-131).

E ci sono gerarchie dettate dalla capacità individuale di saper trovare ogni volta un passaggio ignoto ai burlanda (i finanzieri) e alla tribù (la polizia tributaria), di saper organizzare e tenere insieme una colonna: da cui le leggendarie vite e imprese dei capi del contrabbando. Il Ment, innanzitutto e prima di tutti: la leggenda, «l’ultimo grande sprazzo di una valle inquieta, mazziniana e valdese, anarchica e contrabbandiera prima di rassegnarsi a un docile tramonto. La leggenda ha contorni sfumati, è traccia di racconto ogni volta diversa. Quando si accenna al Ment, i volti dei vecchi sorridono luminosi e si soffermano per attimi assaporati lentamente, in cui passa la nostalgia» (p. 61).

E poi il Berto, che di soprannome faceva il Mucc, il più radicale e sfacciato: «La finanza aspettava gli uomini sui sentieri più impervi? Bene, lui andava sulle mulattiere, sulle strade sterrate, sulle vie più scontate. La sfrontatezza era il suo mestiere» (p. 212). Il Barogio, che «ha rivestito, nella sua carriera, tutti i ruoli previsti dal mestiere. Spallone, capo, padrone in proprio, pilota di motoscafi suoi e di altri, autista di machine potenti e veloci, sue e di altri» (p. 213). Il Cia Cia, sbattuto dalla guerra su un’isola Greca: che invece di bearsi nell’elogio della fuga, come in un film di Salvatores (roba da fighetti della borghesia meneghina, l’elogio della fuga), imbarcato per Atene, fugge verso il nord, s’inventa un mestiere da barbiere in Bulgaria, viene catturato dalle SS ma evade, per poi ritrovarsi in Jugoslavia «dalla parte giusta: in base all’istinto, non alla politica» tra i partigiani di Tito, finire la guerra sfilando tra gli applausi della città di Spalato, e infine tornare a casa, a Lezzeno, dove la sua casa neanche c’era più: «Ricominciare fu dura, ma per fortuna c’era il contrabbando. Un mondo dove la sua esperienza di movimenti furtivi nella notte, sguardi attenti e capacità di lettura del silenzio si rivelò subito decisamente utile» (p. 187).

E infine il Cinto, che dà la cifra al suo mondo e al racconto di questo mondo con la sua lucida consapevolezza:

«Nei primi anni Settanta tutti, capitalisti e operai, pensavano alla fabbrica come un luogo capace, allo stesso tempo, di innovazioni tecnologiche e di sogni rivoluzionari. Mandando a scuola i figli e andandoci essi stessi, gli operai si illudevano di conoscere le stesse parole del padrone anche se la parola senza potere resta un flatus vocis.
Il Clinto lo aveva capito sin da subito: meglio la libertà del contrabbandiere che la schiavitù della tecnica, con le invenzioni più suggestive della creatività operaia che finivano nelle mani altrui.
Il sapere operaio non è mai diventato potere operaio» (p. 168)

Non è un mondo benevolo quello del lago, né facile è viverci. Le storie dei contrabbandieri conoscono le tragedie della montagna, le fucilazioni, gli omicidi di Stato, i caduti per mano dei gendarmi. Ma anche le storie narrate attorno al mondo degli sfrosatori hanno talvolta il sapore della tragedia: come la morte della Gianna e Luigi, partigiani scampati ai fascisti e uccisi dal furore rivoluzionario, dalla grettezza personale, dall’ossessione ortodossa e inquisitrice dei loro ex compagni, sotto l’accusa, falsa, di aver parlato sotto tortura. O l’elegia di Elda, la più bella ragazza di Colonno, annegata nel lago d’Arzeno, il cui corpo fu cercato per quasi due mesi dal più esperto dei rampinieri, e infine trovato nella domenica di Sant’Anna.

È un mondo che si colloca non sulle linee di confine tracciate dai poteri e dagli Stati, ma nella frontiera, cioè nello spazio intermedio tra gli Stati e i poteri: «I luoghi di confine portano dentro di sé lo spirito d’avventura, l’incontro tra storie diverse, il dramma della divisione nel teatro del mondo. Se ne esce più liberi, più duri, più segnati» (p. 53). Nella frontiera, come in una terra di nessuno, vigono altre leggi e altre morali dettate dall’agire quotidiano, da un sapere condiviso sedimentato dalla vita in comune, da un senso di spontanea fratellanza e solidarietà che solo un’ottusa obbedienza può fraintendere per omertà: «L’omertà è sporca quando è suddita della paura e del potere, legale o illegale: in Italia, spesso, i due termini sono intrecciati. L’omertà può essere invece, come dicono i dizionari, solidarietà di popolo; in questo caso ha un volto pulito. Ed è dura a morire, perché non ha bisogno di sentirsi liberata dalla paura» (p. 96). In quel mondo più d’una Resistenza ha calcato quei sentieri: da quella, quasi ignota, dell’insurrezione anti-austriaca e repubblicana guidata nel 1848 da Andrea Brenta, «il Pisacane della Val d’Intelvi», a quella partigiana del 1943-45. E lungo quei sentieri fu guidato (ma questo nel libro non c’è) Giangiacomo Feltrinelli, per rifugiarsi in Svizzera all’indomani della strage di Stato del 12 dicembre.

Le storie di questo mondo vivono finché vive il mondo che le racconta: come aveva capito il Giorgio, quando intuisce che «terminate quelle storie, il lago si sarebbe asciugato negli egoismi senza prospettive di futuro. Come il resto d’Italia» (p. 172).

Perché, dunque, tornare a raccontarle?

Perché quelle storie alludono ad alte storie, che Cecco Bellosi ci racconterà, speriamo presto, in un nuovo libro; storie di rivoluzioni perdute, ma non inutili: «Le rivoluzioni non sono mai inutili, soprattutto quelle perdenti. Sono intrise del profumo inebriante della rivolta e imprimono la convinzione che il mondo possa cambiare davvero. Soprattutto danno senso alla vita» (p. 57). Come con quell’Aureliano Buendía che tutti siamo, o siamo stati, aver perso tutte le 32 rivoluzioni promosse non impedisce di assaporare il sogno della trentatreesima.

Queste storie ci mostrano un mondo diverso dall’attuale, contro il grigiore del presente, per dirci che un altro mondo è stato possibile, e che da quello possiamo imparare a rialzare la testa verso quel cielo cui dare, ancora una volta, l’assalto, «in attesa di una nuova storia con i piedi nell’acqua e la testa fra le nuvole» (p. 233).

Nota

A Con i piedi nel lago è stato assegnato il premio “Segnalazione 2013” – vale a dire “il premio della critica” – del Premio Chiara 2013, ex aequo con Andrea Gianinazzi, L’uomo che vive sui treni. Racconti ferroviari (Armando Dadò Editore, Locarno 2012) con questa motivazione: «Entrambi esprimono una sensibilità particolare per il proprio territorio; per Bellosi il Lago di Como, oggi terra di turisti, ieri di ribelli e artigiani, per Gianinazzi il ticinese, dove la storia con la S maiuscola si incontra con la precarietà di una vita sul confine».
Su Con i piedi nel lago leggi anche la recensione di Sergio Bianchi, qui.

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